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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Tuesday, November 16, 2021

DIZIONARIO GRICEIANO C

 

 

Cabeo (Ferrara). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Cabeo; unless, if you are sailor like me – he almost invented the North Pole – he philosophised on magnetism – a phenomenon which the Graeco-Romans found ‘magic’ (vide Carini, “L’etimologia del megnete”) – Grice: “The homerotic associations are soon discovered by the super-hero, “Magneto.”” -- Essential Italian philosopher. Con il suo nome è stato chiamato il cratere lunare Cabeus. Novizio della Compagnia di Gesù, ebbe Giuseppe Biancani come insegnante di matematica nel collegio gesuitico di Parma dove compiuti i suoi studi fu docente di filosofia per molti anni e ricevette gli ordini sacerdotali. Abbandonato l'insegnamento fu predicatore in varie città italiane mantenendo sempre stretti rapporti di familiarità con Ferdinando Gonzaga e Francesco d'Este.   Cabeo prese parte alla contesa tra Bologna e Ferrara sull'introduzione del Reno nel Po Grande avvenuta negli anni 20 del seicento, prendendo le parti dei ferraresi e opponendosi alle teorie di Benedetto Castelli  Si stabilì a Genova dove conobbe Giovanni Battista Baliani divenendone amico. Nel suo commento alle Meteore di Aristotele Cabeo sostenne e testimoniò la priorità della scoperta della legge di caduta dei gravi dello scienziato genovese rispetto a quella di Galilei.  Cabeo collaborò con vari fisici del suo tempo su argomenti che mettevano in discussione le ricerche di Galilei: con lo stesso Baliani a Genova, con il Renieri a Pisa, con il Riccioli, suo amico e allievo anche lui del Biancani, con il quale conduce a Ferrara esperimenti sulla caduta dei gravi. Soggiorna a Roma nello stesso periodo in cui era presente nMarin Mersenne, il segretario dell' Europa dotta, che vi si trovava in occasione dell'elezione di Carafa a generale dei gesuiti.  Torna a Genova per dedicarsi all'insegnamento nel collegio gesuitico. Cabeo compone “Philosophia magnetica” (Ferrara) criticata gli studiosi galileiani. Sostene l'imprescindibile necessità che ogni asserzione scientifica fosse sostenuta dall'esperienza e, sulla base degli studi di Maricourt, Porta, Gilbert, e Garzoni, assere, dopo aver condotto accurati esperimenti, che la terra possede una qualità magnetica che assieme alla gravità faceva sì che la terra e stabile e immobile. Define il fenomeno della repulsione elettrica. “In quatuor libros Meteorologicorum Aristotelis commentaria,et quaestiones quatuor tomis compraehensa”, o “Philosophia experimentalis” si schiera a difesa della priorità di Baliani e, nel criticare in nome dell'osservazione e dell'esperimento la concezione metafisica aristotelica, introduce la presentazione di questioni scientifiche attuali. Il saggio e condotto in duri toni anti-galileiani con un'aspra contestazione del fenomeno della marea così com'e descritto da Galilei. Sostene invece che la marea e dovuta all'ebollizione operata dalla Luna di un spirito sulfureo e salnitrosio presente sul fondo del mare. Sostenne la validità scientifica dell'alchimia, una "philosophia chimica" degna di studio e osservazione.  Idraulici italiani , Fondazione, Dizionario Biografico degli Italiani. A. Ingegno, Op. cit.  Claudii Berigardi Circulus Pisanus De veteri et peripatetica philosophia in Aristotelis libros de Coelo, Utini. Galilei, Opere (ediz. naz.), Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, I, L'Accademia del Cimento, Firenze, Fulvio Testi, Lettere, Maria Luisa Doglio, Bari, Evangelista Torricelli, Faenza, Lorenzo Barotti, Memorie istoriche di letterati ferraresi, Ferrara, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VFirenze, Timoteo Bertelli, Sopra Pietro Peregrino di Maricourt e la sua epistola "De Magnete", in Bull. di bibliogr. e di storia delle scienze mat. e fisiche pubbl. da B. Boncompagni, Pietro Riccardi, Biblioteca matematica italiana, Modena; Raffaello Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia, II, Firenze, Silvio Magrini, Il "De Magnete" del Gilbert e i primordi della magnotologia in Italia in rapporto alla lotta intorno ai massimi sistemi, in Archivio di storia della scienza, Jean Daujat, Origines et formation de la théorie des phénomènes électriques et magnétiques, Paris, Lynn Thorndike, A History of magic and experimental Science, New York, Alexandre Koyré, Etudes d'histoire de la pensée scientifique, Paris, Serge Moscovici, L'expérience du mouvement. Jean Baptiste Baliani disciple et critique de Galilée, Paris, Claudio Costantini, Baliani e i gesuiti. Annotazioni in margine alla corrispondenza del Baliani con Gio. Luigi Confalonieri e Orazio Grassi, Firenze, Maria Bellucci, La filosofia naturale di Claudio Berigardo, in Rivista Critica di Storia della Filosofia, Charles Coulston Gillispie, Dictionary of Scientific Biography, New York, Scribners, John Lewis Heilbron, Electricity in the 17th and 18th Centuries. Los Angeles: University of California Press, Cesare Maffioli, Out of Galileo, The Science of Waters, Rotterdam: Erasmus Publishing, Peter Dear, Discipline and Experience: The Mathematical Way in the Scientific Revolution. Chicago: University of Chicago Press, 1995. Maria Teresa Borgato, Niccolò Cabeo tra teoria ed esperimenti: le leggi del moto, in G.P. Brizzi and R. Greci (ed), Gesuiti e Università in Europa, Bologna: Clueb, Craig Martin, With Aristotelians Like These, Who Needs Anti-Aristotelians? Chymical Corpuscular Matter Theory in Niccolò Cabeo's "Meteorology", in Early Science and Medicine, Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus. Niccolò Cabeo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Niccolò Cabeo, su sapere, De Agostini.  Alfonso Ingegno, Niccolò Cabeo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Opere di Niccolò Cabeo / Niccolò Cabeo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Niccolò Cabeo, in Galileo Project, Rice University. Ferrara Genova. Noto anche come Nicolaus Cabeo , italiano gesuita filosofo , teologo , ingegnere e matematico. I struito nel collegio dei Gesuiti a Parma. Passa i prossimi due anni a Padova e ha trascorso studia in Piacenza prima di completare tre anni di studio in filosofia a Parma. Ha trascorso altri quattro anni a studiare teologia a Parma e l'apprendistato di un altro anno di a Mantova . Ha poi insegnato teologia e la matematica a Parma , poi  è diventato un predicatore. Per un certo periodo ha ricevuto il patrocinio dei Duchi di Mantova e del Este a Ferrara. Durante questo periodo è stato coinvolto in idraulica progetti. Egli avrebbe poi tornare a insegnare la matematica ancora una volta in Genova , la città dove sarebbe morto. Egli è noto per i suoi contributi alla fisica esperimenti e osservazioni. Egli ha osservato gli esperimenti di Baliani per quanto riguarda la caduta di oggetti, e ha scritto su questi esperimenti osservando che due oggetti diversi cadono nello stesso lasso di tempo, indipendentemente dal mezzo. Inoltre ha effettuato esperimenti con pendoli e osservato che una carica elettricamente corpo può ottenere oggetti non elettrificato. Egli ha anche notato che due oggetti carichi respinti a vicenda.  Le sue osservazioni sono state pubblicate nelle opere, Philosophia Magnetica e in quatuor libros Aristotelis meteorologicorum Commentaria. La prima di queste opere esaminato la causa della Terra magnetismo ed è stata dedicata ad uno studio del lavoro di Gilbert . Pensato alla Terra immobile, e quindi non ha accettato il suo movimento come la causa del campo magnetico. Describe attrazione elettrica in termini di effluvi elettrici, rilasciato sfregando alcuni materiali insieme. Questi effluvi spinto nell'aria circostante spostarlo. Quando l'aria riportato nella sua posizione originale, portava corpi leggeri con essa facendole muovere verso il materiale attraente. Entrambi Accademia del Cimento e Boyle eseguiti esperimenti con vuoti a tentativi di confermare o smentire le idee di Cabeo. La sua seconda pubblicazione Cabeo era un commento di Aristotele Meteorologia. In questo lavoro, ha esaminato attentamente una serie di idee proposte da Galilei , tra cui il movimento della terra e la legge di caduta dei gravi. Si è opposto alle teorie di Galileo. Anche discusso la teoria del flusso d'acqua proposta da allievo di Galileo, Castelli . Lui e Castelli sono stati coinvolti per una disputa nel nord Italia circa il reinstradamento del fiume Reno. La gente di Ferrara erano su un lato della controversia e Cabeo era il loro avvocato. Castelli e il favorite dell’altro lato della controversia e agiva come agente di Urbano VIII. Anche discusso alcune idee su alchimia in questo saggio. Il cratere Cabeus sulla Luna porta il suo nome. Il LCROSS progetto ha scoperto la prova di acqua nel cratere Cabeus. Guarda anche Storia di Geo-magnetismo Elenco dei cattolici-scienziati chierici Riferimenti Heilbron, JL, energia elettrica nei secoli 17 e 18. Los Angeles: University of California Press, Maffioli, Cesare, Out of Galileo, The Science of Waters. Rotterdam: Erasmus Publishing, Sommervogel , Bibliothèque de la Compagnie de Jesus . Bruxelles: Gillispie, Charles Coulston , Dizionario della biografia scientifica  3. New York: Scribners, Borgato, Maria Teresa, Niccolò Cabeo Tra Teoria ed Esperimenti: le leggi del moto , in GP Brizzi e R. Greci , Gesuiti e Università in Europa, Bologna: Clueb, Caro Peter. Disciplina e Esperienza: Il modo matematico nella rivoluzione scientifica . Chicago: University of Chicago Press. Nicolaus Cabeus. Niccolò Cabeo. Keywords: la terra e immobile per la sua qualita magnetica, la marea e prodotto della ebullizione di uno spirito sulfureo e salnitroso nel fondo del mare. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cabeo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Cacciari (Venezia). Grice: “If I were today to chose a philosophical piece by Cacciari that would be his ‘angelo’ – quite a concept! If Whitehead is right, as I claim he is, when he says all philosophy is footnotes to Cratylo, Plato does deal with ‘aggelos’ as ‘metaxu’ which he then develops in Symposium – Cacciari, like Reale, are fascinated by this!” – Grice: “Solomon, who read it, illustrated Alcebiades as Eros between Dionisos and Apollo!” -- ssential Italian philosopher. Massimo Cacciari (n. Venezia) è un filosofo, politico, accademico e opinionista italiano, ex sindaco di Venezia.  Di ascendenze emiliane per via paterna (il nonno Gino Cacciari, di Medicina, si era trasferito a Venezia per dirigere i cantieri navali della città), è figlio di Pietro, pediatra, e di una casalinga proveniente da una famiglia di artisti.  Dopo aver frequentato il Ginnasio Liceo Marco Polo di Venezia, si è laureato in Filosofia nel 1967 all'Università degli Studi di Padova, con una tesi sulla Critica del Giudizio di Immanuel Kant, con relatore Dino Formaggio. Ancora studente, fu collaboratore dei professori Carlo Diano, Sergio Bettini e Giuseppe Mazzariol.  Carriera accademica Nel 1980 diviene professore associato di Estetica presso l'Istituto di Architettura di Venezia, dove nel 1985 diventa Professore. Nel 2002 fonda la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele a Cesano Maderno, di cui è preside fino al 2005. È tra i fondatori di alcune riviste di filosofia politica, che hanno segnato il dibattito dagli anni sessanta agli anni ottanta, tra cui Angelus Novus, Contropiano, il Centauro, Laboratorio politico.  Al centro della sua riflessione filosofica si colloca la crisi della razionalità moderna, che si è rivelata incapace di cogliere il senso ultimo del reale, abbandonando la ricerca dei fondamenti del conoscere. La sua visione muove dal concetto di "pensiero negativo", ravvisato nelle filosofie di Friedrich Nietzsche, di Martin Heidegger e di Ludwig Wittgenstein, per risalire ai suoi presupposti in alcuni aspetti della tradizione religiosa e del pensiero filosofico occidentali.  Ha pubblicato numerose opere e saggi, tra i quali meritano una particolare attenzione: Krisis (del 1976); Pensiero negativo e razionalizzazione; (1977), Dallo Steinhof (1980), Icone della legge (1985), L'angelo necessario (1986), Dell'inizio (1990), Della cosa ultima (2004) vincitore del Premio Cimitile. Hamletica, Adelphi, Milano, 2009 è il suo lavoro più recente. I volumi Icone della legge e L'angelo necessario presentano, inoltre, alcune pagine dedicate alla filosofia dell'icona e agli esiti del pensiero del mistico russo Pavel Aleksandrovič Florenskij.  Tra i numerosi riconoscimenti sono da ricordare la laurea honoris causa in Architettura conferita dall'Università degli Studi di Genova nel 2003, la laurea honoris causa in Scienze politiche conferita dall'Bucarest nel 2007 e la laurea honoris causa in "filologia, letteratura e tradizione classica" conferita dall'Bologna nel .  Attualmente è Presidente della fondazione Gianni Pellicani  e insegna Pensare filosofico e metafisica presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato anche prorettore vicario.  Suo fratello Paolo è stato deputato di Rifondazione Comunista tra il 2006 e il 2008.  Carriera politica In Potere Operaio e nel PCI Da giovane fu un politico militante e occupò con gli operai della Montedison la stazione di Mestre. Collaborò negli anni sessanta alla rivista mensile Classe operaia e, dopo contrasti interni tra Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Toni Negri (il quale fu un incontro essenziale per la sua formazione), diresse insieme ad Asor Rosa la rivista, definita di "materiali marxisti", Contropiano con la quale si tentò la riunificazione del gruppo. Ma il tentativo fallì e il gruppo veneto trasformò la rivista nel giornale Potere Operaio "Giornale politico dagli operai di Porto Marghera" a cui Cacciari, deluso, non aderì. In seguito entrò nel Partito Comunista Italiano, ricoprendo cariche apparentemente lontane dai suoi interessi filosofici: responsabile della Commissione Industria del PCI Veneto negli anni settanta, fu poi eletto alla Camera dei deputati dal 1976 al 1983, e fu membro della Commissione Industria della Camera.  Sindaco di Venezia (1993-2000) Fu sindaco di Venezia dal 1993 al 2000 schierato tra i principali sostenitori de I Democratici di Romano Prodi tanto che si parlò di lui come un probabile leader dell'Ulivo. Fin dall'inizio della sua attività politica vide nel federalismo una tradizione da recuperare per i progressisti italiani laddove buona parte dei dirigenti della sinistra vedevano in questa attenzione agli ideali federalisti un freno al consenso elettorale del centro-sud. In preparazione delle elezioni regionali del 2000, era convinto che per vincere in una regione tradizionalmente moderata, la sinistra avrebbe dovuto agganciare una parte dell'elettorato in fuga dalla ex DC e per questo scopo tentò di "aprire" ad un'alleanza con la Lega Nord (poi disapprovata dal centro-sinistra italiano), e mosse in questa direzione politica alcuni significativi passi, ma non riuscì a convincere fino in fondo l'elettorato autonomista.  Nel 1997 fu sua la volontà di realizzare il progetto per edificare il ponte di Calatrava, il quale ha portato continue polemiche con la Corte dei conti nel corso degli anni.  Europarlamentare e consigliere regionale veneto Alle europee del 1999 si candida con la lista de I Democratici risultando eletto in due circoscrizioni: lui ha optato per quella nord-occidentale.  La sua sconfitta alle Regionali del 2000, quando fu candidato per la presidenza della regione Veneto, fece tramontare l'ipotesi che potesse diventare il futuro leader dell'Ulivo. Cacciari ottenne in quella tornata il 38,2% dei voti, uscendo sconfitto dal rappresentante della Casa delle Libertà Giancarlo Galan, che ricevette il 54,9% dei consensi. In quella tornata elettorale Cacciari ottenne un seggio da consigliere regionale: per questo si dimise, per incompatibilità, da europarlamentare.  Sindaco di Venezia (2005-) Nel 2005 annunciò l'intenzione di ricandidarsi per la seconda volta a sindaco di Venezia. I partiti di sinistra dell'Ulivo, avevano però, già raggiunto l'accordo per la candidatura unitaria del magistrato Felice Casson, ma Cacciari dichiarò di non voler rinunciare alla propria candidatura, anche a costo di spaccare l'unità della coalizione, come effettivamente avvenne, con Cacciari sostenuto da UDEUR Popolari e La Margherita e Casson appoggiato da tutti gli altri partiti del centrosinistra.  Al primo turno delle votazioni Casson ebbe il 37,7% dei voti, mentre Cacciari si fermò al 23,2%; sfruttando le divisioni presenti in maniera ancora più acuta nel centrodestra a Venezia, furono proprio i due rappresentanti del centro-sinistra ad andare al ballottaggio. A sorpresa Cacciari, seppur sostenuto da liste più deboli, riuscì a far leva sull'elettorato moderato e vinse la sfida con 1 341 voti di vantaggio sul suo competitore (50,5% contro 49,5%).  L'inattesa vittoria del politico-filosofo causò malumori all'interno della coalizione (Casson commentò il risultato esclamando: "Ha vinto Cacciari? Allora ha vinto la destra!") e una particolare situazione nel consiglio comunale veneziano: la Margherita, con il 13,4% di voti, ebbe diritto a ben 26 seggi, (mentre i DS, che ottennero il 21,2%, si dovettero accontentare di 6 seggi) e l'UDEUR, nonostante un modesto 1,4%, si accaparrò 2 seggi (a differenza di Rifondazione Comunista che con il 6,8% si aggiudicò un solo seggio).  Nel complesso, quindi, la coalizione Cacciari, con il 14,8% dei suffragi, ebbe diritto a 28 seggi, mentre il raggruppamento di Casson, con il 41%, risultò possessore di 9 seggi. Ciò consentì a Cacciari, iscritto alla Margherita, di cui era esponente di punta in Veneto, di poter governare la città con una solida maggioranza consiliare.  In occasione delle successive elezioni regionali del 2005, delle elezioni politiche del 2006 e delle amministrative del 2007 Cacciari mise in evidenza quella che egli chiamava la questione settentrionale.  Il 2 novembre 2009, anche deluso dall'evoluzione del Partito Democratico, annunciò l'abbandono della politica attiva dopo la conclusione del mandato di sindaco, avvenuta nell'aprile .  Abbastanza accesa la politica condotta dalla sua giunta contro gli ambulanti abusivi e molto contestate furono anche le ordinanze che, ai fini del decoro urbano, imponevano il divieto di vendere dei cibi da asporto presso la piazza San Marco, di girare a torso nudo, di sdraiarsi in terra ecc. Nel 2007 inoltre, con la creazione del festival di Roma da parte dell'allora sindaco Walter Veltroni, espresse disappunto nel caso in cui quello di Venezia ne fosse stato oscurato. Non pochi gli attriti con la Lega Nord in vista della sua intenzione di realizzare un campo Sinti, nella zona di Mestre. Celebre poi la campagna che favoriva l'uso dell'acqua pubblica in contrapposizione all'acquisto di quella in bottiglia. A lui si deve il restauro di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana.  Il 23 luglio , a Mogliano Veneto, presentò il manifesto politico Verso Nord, un'Italia più vicina, diretto a chi non si riconosceva né nel PD, né nel PdL e voleva una politica per il Nord diversa da quella attuata dalla Lega. Il manifesto si è poi trasfuso in un partito politico chiamato appunto Verso Nord, nato ufficialmente il 12 ottobre .  Pensiero  Massimo Cacciari nel 1976 Nelle sue prime opere (Krisis, 1976, Pensiero negativo e razionalizzazione, 1977) Massimo Cacciari sviluppa la sua riflessione che, prendendo spunto da Friedrich Nietzsche, Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger, conferma «... la fine della razionalità classica e dialettica e l'emergere pieno, costruttivo, rifondativo e non distruttivo [...] del "pensiero negativo".»  Dall'analisi della cultura viennese e mitteleuropea, che si forma sullo sfondo dei grandi mutamenti del sistema capitalistico tra l'800 e il '900, Cacciari identifica una società reazionaria incapace di aprirsi alla modernità e improntata al nihilismo, punto d'arrivo del fallimento del pensiero dialettico della scuola hegeliano-marxista. In quest'ambito si origina il pensiero negativo (Negatives Denken) che ad iniziare da Schopenhauer sembra collegarsi all'irrazionalismo ma che in realtà è la conseguenza ultima della tradizione metafisica occidentale che pretendeva di superare ogni contraddizione e la negatività dell'esistenza stessa tramite quella libera volontà, coerentemente negata da Nietzsche e ancora presente invece nell'ascesi schopenhaueriana, come strumento per la liberazione dal dolore di vivere[25].  La crisi della metafisica occidentale è anche dimostrata dalla fiducia nella tecnica, presuntuosa esaltazione di quella ragione che invece rivela il sostanziale fallimento dei valori ultimi che dovrebbero guidare il progresso umano: « ...la tecnica realizza la direzione implicita della metafisica modernama nel realizzarla ne critica e liquida anche l'idea centrale [il fondamento originario]» che era la certezza dei valori. Da qui un'epoca caratterizzata dal nulla dei valori e dalla fine della filosofia ormai rivolta «tutta al passato, a prima della ratio»[26]  Con l'avvento del pensiero negativo finalmente ci si libera «da un ideale totalitario del sapere, per cui non si dipende più da un ordine naturale, fisso ed immutabile, di cui la ragione scopre le leggi, ma si interviene creativamente, dando ordine alle cose, in una molteplicità di saperi».[27]  Nelle sue ultime opere Cacciari intreccia la riflessione filosofica con quella teologica quasi risalendo ad una tradizione interpretativa platonica. Se ormai la filosofia si è specializzata e frantumata in una serie di campi specifici che cosa vorrà dire "pensare" al suo stesso inizio? Cacciari cerca la risposta in quella tradizione filosofico-teologica che pone il principio, l'"inizio" nella nozione di "Deus-Esse".[28]  Fin dal libro primo della sua opera filosofica, Dell’Inizio, Cacciari si colloca su un terreno complementare e diametralmente opposto a quello di Emanuele Severino: se il primo evidenzia la contingenza dell'originato, il secondo enfatizza l'unicità eterna dell'origine. Mentre per Cacciari l’originario è inizio a-logico, che conserva sempre inalterata la possibilità di non essere inizio di qualcosa che altro-da-sé, di negarsi come inizio e che quindi non esista originato alcuno, secondo Severino, invece, l’originario è la struttura logico-necessaria di significati il cui contenuto è tutto ciò che è, tale per cui non è mai potuto esistere, non è mai esistito e non potrà mai esistere alcun ente non originato da quell'unica totalità iniziale. Secondo Severino, la veracità di Dio e del Destino prevale sulla Sua onnipotenza, nel senso che è inevitabile e scontata in partenza la vittoria sul nemico, mentre è impossibile che Egli fugga davanti ad esso, finendo con il cadere nel nulla, il proprio contrario.[29]  Citazioni «Caro C., non possiamo proseguire la nostra via che attraverso lo straniero che ospitiamoe che chiamiamo 'nostro' Io. Questo è il vero volto dell'altro, del prossimo ineludibile, appiccicato a noi come un incubo! Hospes / hostis, necessariamente. 'Assicurarcelo' è impossibile.»  (Massimo Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Mi, 2004, pag. 135) «Pietà afferra il poeta — pericolosissima pietà, sul limite estremo della misericordia inordinata.»  (Massimo Cacciari, "Della cosa ultima", Adelphi, Mi, 2004, pag. 251) Opere Introduzione di Massimo Cacciari a Georg Simmel, Saggi di estetica, Padova, 1970 Qualificazione e composizione di classe, in Contropiano n. 2, 1970 Ciclo chimico e lotte operaie, con S. Potenza, in Contropiano, n. 2, 1971 Dopo l'autunno caldo: ristrutturazione e analisi di classe, Marsilio, Padova, 1973 Pensiero negativo e razionalizzazione. Problemi e funzione della critica del sistema dialettico, 1973 Metropolis, Roma, Officina, 1973 Piano economico e composizione di classe, Feltrinelli, 1975 Lavoro, valorizzazione, cervello sociale, in Aut Aut, n. 145-146, Milano, 1975 Note intorno a «sull'uso capitalistico delle macchine» di Raniero Panzieri, in Aut Aut, n. 149-150, Milano, settembredicembre 1975 Oikos. Da Loos a Wittgenstein, con Francesco Amendolagine, Roma, 1975 Krisis, Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, 1976 (ottava edizione nel 1983) Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia, 1977 Il dispositivo Foucault, Venezia, Cluva, 1977 Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, 1978 Walter Rathenau e il suo a mbiente, De Donato, 1979 Crucialità del tempo: saggi sulla concezione nietzscheana del tempo, et al, Liguori, 1980 Dallo Steinhof, Adelphi, 1980 (nuova edizione 2005) Adolf Loos e il suo angelo, Electa, 1981 Feuerbach contro Agostino d'Ippona, Adelphi, 1982 Il potere: saggi di filosofia sociale e politica, con G. Penzo, Roma, Città Nuova, 1985 Icone della legge, Adelphi, Milano, 1985 (nuova edizione 2002) Zeit ohne Kronos, Ritter Verlag, Klagenfurt, 1986 L'Angelo necessario, Adelphi, Milano, 1986 (nuova edizione 1992) Drama y duelo, Tecnos, Madrid, 1989 Le forme del fare, con Massimo Donà e Romano Gasparotti, Liguori, 1989 Dell'Inizio, Adelphi, 1990 (nuova edizione nel 2001) Dran, Méridiens de la décision dans la pensée contemporaine, Ediotions de L'Eclat, 1992 Architecture and Nihilism, Yale University Press, 1993 Desde Nietzsche: Tiempo, Arte, Politica, Biblios, Buenos Aires, 1994 Geofilosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994 (nuova edizione 2003) Großstadt, Baukunst, Nihilismus, Ritter, Klagenfurt, 1995 Migranten, Merve, Berlino, 1995 Introduzione a F. Bacone, Nuova Atlantide, Silvio Berlusconi Editore, Milano, 1995 L'Arcipelago, Adelphi, Milano, 1997 Emilio Vedova. Arbitrii luce, Catalogo della mostra, Skira, 1998 Arte, tragedia, tecnica, con Massimo Donà, Raffaello Cortina, 2000 El Dios que baila, Paidos, Buenos Aires, 2000 Duemilauno. Politica e futuro, Feltrinelli, Milano, 2001 Wohnen. Denken. Essays über Baukunst im Zeitalter der völligen Mobilmachung, Ritter Verlag, Klagenfurt und Wien, 2002 Della cosa ultima, Adelphi, Milano, 2004 La città, Pazzini, 2004 Il dolore dell'altro. Una lettura dell'Ecuba di Euripide e del libro di Giobbe, Saletta dell'Uva, 2004 Soledad acogedora. De Leopardi a Celan, Abada Editores, Madrid, 2004 Paraíso y naufragio. Musil y El hombre sin atributos, Abada Editores, Madrid, 2005 Magis Amicus Leopardi, Saletta dell'Uva, 2005 Maschere della tolleranza, Rizzoli, Milano, 2006 Introduzione a Max Weber, La politica come professione, La scienza come professione, Mondadori, Milano, 2006 Europa o Filosofia, Machado, Madrid, 2007 Tre icone, Adelphi, Milano, 2007 Anni decisivi, Saletta dell'Uva, Caserta, 2007 M. Cacciari-Mario Tronti, Teologia e politica al crocevia della storia, Milano, AlboVersorio, 2007,  978-88-975-5337-3. The Unpolitical. Essays on the Radical Critique of the Political Thought, Yale University Press, 2009 Hamletica, Milano, Adelphi, 2009,  978-88-459-2388-3. La città, Pazzini, 2009 Il dolore dell'altro. Una lettura dell'Ecuba di Euripide e del libro di Giobbe, Caserta, Saletta dell'Uva, ,  978-88-613-3035-1. M. Cacciari-Piero Coda, I comandamenti. Io sono il Signore Dio tuo, Bologna, Il Mulino, ,  978-88-151-3776-0. Enzo Bianchi-M. Cacciari, I comandamenti. Ama il prossimo tuo, Bologna, Il Mulino, ,  978-88-152-3377-6. Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Milano, Adelphi, ,  978-88-459-2672-3. Il potere che frena, Milano, Adelphi, ,  978-88-459-2765-2. Labirinto filosofico, Milano, Adelphi, ,  978-88-459-2876-5. Filologia e filosofia, Bologna, Bononia University Press, ,  978-88-692-3023-3. Re Lear. Padri, figli, eredi, Caserta, Saletta dell'Uva, ,  978-88-613-3082-5. M. Cacciari-Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Bologna, Il Mulino, ,  978-88-152-6513-5. M. Cacciari-Bruno Forte, Dio nei doppi pensieri. Attualità di Italo Mancini, Brescia, Morcelliana, . Generare Dio, Bologna, Il Mulino, ,  978-88-152-7368-0. La mente inquieta. Saggio sull'Umanesimo, Torino, Einaudi, ,  978-88-062-4085-1. Ha preparato anche i testi per l'opera Prometeo. Tragedia dell'ascolto di Luigi Nono (1984-1985).  Elogio del diritto (insieme a Natalino Irti, con un saggio di Werner Wilhelm Jaeger, Milano ) Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine pro Merito Melitensi (SMOM)nastrino per uniforme ordinariaGrand'Ufficiale dell'Ordine pro Merito Melitensi (SMOM) — Venezia, 2 febbraio 2008[30] Laurea Honoris Causa in Architettura, conferita dall'Università degli Studi di Genova nel 2003[31]nastrino per uniforme ordinariaLaurea Honoris Causa in Architettura, conferita dall'Università degli Studi di Genova nel 2003[31] Laurea Honoris Causa in Scienze politiche, conferita dall'Università degli Studi di Bucarest nel 2007nastrino per uniforme ordinariaLaurea Honoris Causa in Scienze politiche, conferita dall'Università degli Studi di Bucarest nel 2007 Laurea Honoris Causa in Filologia, Letteratura e Tradizione Classica, conferita dall'Alma Mater StudiorumBologna nel nastrino per uniforme ordinariaLaurea Honoris Causa in Filologia, Letteratura e Tradizione Classica, conferita dall'Alma Mater StudiorumBologna nel  Premi e riconoscimenti 2005Medaglia d'oro del Círculo de Bellas Artes di Madrid 2007Uomo per la pace International Chair Jacques Derrida (Torino) Note  Enciclopedia Treccani alla voce coripsondente  Barbara Romano, i panni sporchi si lavano in casa MA IL CAV., sul piano del gusto, è UNA catastrofeCONTRO VERONICA: "Se io ho qualcosa da dire a mio marito gli scrivo privatamente""Evelina MANNA è un'amica""vengo SEMPRE paparazzato dA qualche testa di cazzo", in Dagospia, Libero, 5 maggio 2009. 21 giugno .  Camillo Langone, Cari italiani vi invidio, Roma, Fazi, ,  978-88-7625-253-2.  Giorgio Dell'Arti, Biografia di Massimo Cacciari, cinquantamila. 6 giugno  (archiviato il 19 luglio ).  Città di VeneziaSindaco, su comune.venezia.  l'8 marzo  10 febbraio ).  Cacciari Massimo, Università Vita-Salute San Raffaele. 21 giugno  1º agosto ).  vedi l'intervista "La predestinazione del male"  F. 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La motivazione della Facoltà sottolinea il contributo dato da Cacciari alla cultura architettonica internazionale nel corso di oltre un trentennio."  F. Dal Bo, L'utopia dell'angelo. Note a L'angelo necessario di M. Cacciari, in G. Bertagni (a cura), Architetture utopiche, «arcipelago», n. 5, 2000,  114–121. L. Tussi, La confusione dialogica Intervista con Massimo Cacciari Recensione di Geofilosofia dell'Europa, su ItaliaLibri Recensione di Hamletica, Andrea Fiamma Recensione di Il potere che frena, Andrea Fiamma Traduzione francese in versione integrale e gratuita di un libro inedito in italiano: Drân. Méridiens de la décision dans la pensée contemporaine (Drân. Meridiani della decisione nel pensiero contemporaneo) I. Bertoletti, Massimo Cacciari. Filosofia come a-teismo, Edizioni ETS, Pisa, 2008. D. Borso, Il giovane Cacciari, Mille lire stampa alternativa, Milano 1995. G. Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Edizioni Bruno Mondadori, Milano, 1998. G. 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Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Massimo Cacciari Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Massimo Cacciari  Massimo Cacciari, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Massimo Cacciari / Massimo Cacciari (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Massimo Cacciari, .  Massimo Cacciari, su europarl.europa.eu, Parlamento europeo.  Massimo Cacciari, su storia.camera, Camera dei deputati.  Massimo Cacciari, su Openpolis, Associazione Openpolis.  Registrazioni di Massimo Cacciari, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Cacciari: la necessità della libertà, su RAI Filosofia, su filosofia.rai.  PredecessoreSindaco di VeneziaSuccessoreVenezia-Stemma.svg Ugo Bergamo5 dicembre 199328 febbraio 2000Paolo CostaI Paolo Costa17 aprile 20058 aprile Giorgio OrsoniII V D M Vincitori del Premio Cesare Pavese Filosofia Politica  Politica Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPolitici italiani del XX secoloPolitici italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1944 5 giugno VeneziaSindaci di VeneziaConsiglieri regionali del VenetoDeputati della VII legislatura della Repubblica ItalianaDeputati dell'VIII legislatura della Repubblica ItalianaDirettori di periodici italianiEuroparlamentari dell'Italia della V legislaturaFederalistiFondatori di riviste italianeMilitanti di Potere OperaioOpinionisti italianiPolitici de I DemocraticiPolitici della MargheritaPolitici del Partito Comunista ItalianoPolitici del Partito Democratico (Italia)Professori dell'Università IUAV di VeneziaStudenti dell'Università degli Studi di Padova. Mercurio messegero di Giove e l’umo – angelus – mercurial – Giambologna – Villa Medici -- Massimo Cacciari. Keywords: ‘l’angelo necessary’ – the angel and the paysan – ‘Who art thou?’ ‘I am the necessary angel of the earth’, illuministi italiani – implicatura laberintica, Alighieri, umanesimo, implicatura dell’angelo e il contadino. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cacciari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Cacciatore: (Salerno). Grice: “Cacciatore is a good one; my favourite are three: his ‘dallo storicismo allo storicismo,’ and his ‘metafisica dell’espressione’ – I never knew it had one! – and ‘la lancia di Odino,’ a Wagnerian study of Dilthey, his specialty! Speranza, on the other hand, and naturally, prefers Cacciatore’s ‘dialogo con Vico’.” Grice: “Cacciatore co-philosophised, like I with Strawson, and called the thing, genially, ‘a four-hand piece’! Giuseppe Cacciatore (Salerno), filosofo. Laureatosi in Filosofia presso l'Università degli studi di Roma"La Sapienza" nel 1968, ha collaborato nei primi anni settanta in qualità di assistente con Fulvio Tessitore nell'Salerno, dove ha anche avviato la sua carriera accademica. Dal 1981 è Ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Filosofia dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, di cui tra il 1990 e il 1995 è stato anche Presidente del Corso di Laurea. Nel 1995, inoltre, diventa direttore del Centro di Studi Vichiani del CNR di Napoli. Dal 2001 al 2007 è stato direttore del dipartimento di filosofia "Antonio Aliotta" dell'Università federiciana. Ha tenuto numerose conferenze presso le Barcellona, Berlino, (Freie Universität Berlin e Humboldt Universität), Bochum, Brema, Brno, Bruxelles, Düsseldorf, Essen, Graz, Halle, Lipsia, Maracaibo, Monaco di iera, Parigi, Potsdam, Valencia, Varsavia, Città del Messico (UNAM e UIC). È vicepresidente del CdA e membro del comitato scientifico dell'Istituto di Studi Latinoamericani (ISLA) di Pagani, del quale è diventato direttore a partire dal 2007. Nel 2007 è stato nominato socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei. Dal  è presidente della Società Salernitana di Storia Patria Nel  è stato insignito del premio nazionale “Frascati Filosofia”. È stato Presidente della Società Italiana degli storici della filosofia dal  al . È dal  coordinatore del dottorato di ricerca in Scienze filosofiche dell'Napoli “Federico II”. A partire dal  è stato nominato rappresentante dell'Napoli “Federico II” nel comitato tecnico-scientifico del Consorzio universitario Civiltà del Mediterraneo.   Altre opere: “Splicare, comprendere” (Istituto di Filosofia, Salerno); “Splicare/comprendere” (Napoli, Guida);  “Ragione e speranza” (Bari, Dedalo); “La sinistra socialista nel dopoguerra, pref. di F. De Martino, Bari, Dedalo); “Vita e forme della scienza storica. Saggi sulla storiografia – splicare, comprendere” (Napoli, Morano); “Storicismo problematico e metodo critico, Napoli, Guida); “La lancia di Odino: splicare/comprendere” (Milano, Guerini e associate); “La Quercia di Goethe. Note di viaggio dalla Germania, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino); “Goethe in Italia” –“La quercia di Goethe”, L'etica dello storicismo, Lecce, Milella); “Vico: metafisica, poesia e storia -- Akademie Verlag, Berlino);  “Bruno” (Edizioni Marte, Salerno); “Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Siciliano Editore, Messina); “Il pratico e il civile civile in Croce” Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ); Labriola in un altro secolo. Saggi, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ); “Saperi umani e consulenza filosofica, Meltemi Editore, Roma); “Vico: L'infinito nella storia” (Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “Interculturalità, Tra etica e politica (in coll. con G. D'ANNA), Carocci, Roma, . Interculturalità. Religione e teologia politica (in coll. con R. DIANA), Guida, Napoli,  A quattro mani. Saggi di filosofia e storia della filosofia (in coll. con G. CANTILLO), M. Martirano Edizioni Marte, Salerno); Problemi di filosofia della storia nell'età di Kant e di Hegel. Filologia, critica, storia civile” (Aracne, Roma); “Mente, Corpo, Filosofia pratica, Interculturalità, Mimesis, Milano-Udine); “Dimensioni filosofiche e storiche dell'interculturalità, Mimesis, Milano); “Dallo storicismo allo storicismo, Introduzione di F. Tessitore, G. Ciriello, G. D'Anna, A. Giugliano, ETS, Pisa); In dialogo con Vico. Ricerche, note, discussioni, M. Sanna, R. Diana e A. Mascolo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma. GIUSEPPE CACCIATORE BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI (1969-2020) A CURA DI ARMANDO MASCOLO @2020 Francesco D’Amato editore è un marchio editoriale della società Infolio srls con sede in Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno) alla via Alfonso Albanese, 26 www.damatoeditore.it info@damatoeditore.it ISBN 978-88-5525-011-5 Prima edizione: 2 dicembre 2020 Tutti i diritti sono riservati Immagine di copertina Giuseppe Cuccurullo Progetto grafico e impaginazione Francesco D’Amato Stampa Infolio srls | www.infolioprint.it A mio marito, per i suoi settantacinque anni 7 Scorrere i titoli di una bibliografia significa ripercorrere quella che Umberto Eco ha efficacemente definito come la «memoria vegetale»1 , ovvero il lento e graduale dispiegarsi delle idee e delle riflessioni consegnate per sempre alla scrittura e che hanno scandito le diverse tappe del cammino intellettuale del suo autore. Quando ci poniamo di fronte ad uno scritto, in effetti, cerchiamo di scorgere la persona che si cela dietro di esso, il suo modo individuale di vedere le cose. «Non cerchiamo solo di decifrare, ma cerchiamo anche di interpretare un pensiero, un’intenzione»2 . La lettura diviene in tal senso un dialogo silente con l’autore che ci consente di riannodare i fili che intessono la trama della sua personale visione del mondo. Accade così che nello sfogliare la corposa Bibliografia degli scritti di Giuseppe Cacciatore emergano, pagina dopo pagina, i tratti salienti che ne delineano il profilo di uomo e, soprattutto, di intellettuale, e che ci si renda conto di come una bibliografia non sia altro che la narrazione fedele di una biografia, ovvero di una vita consacrata alla scrittura. Prefazione Armando Mascolo I libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio. Stefan Zweig, Mendel dei libri 1 Cfr. U. Eco, La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Milano, Bompiani, 2011, pp. 7-26. 2 Ivi, p. 13. 8 È un’impresa quanto mai ardua poter restituire la complessità e la ricchezza che caratterizzano l’intero corpus dell’opera di Cacciatore, vale a dire di uno studioso che nell’arco di più di cinquant’anni di attività (il suo primo articolo risale infatti al 1969) ha saputo spaziare tra gli autori e le correnti filosofiche più diverse, tenendo sempre fermo, quale asse teoretico portante delle sue ricerche, lo studio storiografico e storico-filosofico dello storicismo. Tale linea d’indagine si è andata via via articolando, nel corso del tempo, attraverso differenti plessi tematici, autori e aree geografiche. In ambito tedesco, ad esempio, Cacciatore ha saputo confrontarsi, tra gli altri, con il pensiero di Kant, Marx, Dilthey, Bloch, Humboldt, Droysen, Troeltsch, Rickert e Cassirer, mentre nel panorama della storia del pensiero filosofico italiano ha offerto importanti studi su Vico, Labriola, Gramsci, Gentile, Croce, Capograssi e Piovani, per citarne solo alcuni. I suoi principali interessi di ricerca abbracciano una considerevole messe di questioni legate ai temi della storia, dell’immaginazione, del rapporto tra poesia e filosofia, dell’azione individuale e della sua dimensione etico-politica. In questa vasta ed eterogenea costellazione di studi e di interessi, un posto di tutto rispetto occupa ormai da tempo la filosofia di lingua spagnola quale ulteriore fonte che ha alimentato il peculiare storicismo “critico-problematico” espresso da Cacciatore3 . Questi ha il merito di aver dato, a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso, un decisivo impulso allo studio, all’approfondimento e alla diffusione della filosofia spagnola e ispanoamericana in Italia. Il suo primo lavoro su una delle figure simbolo del pensiero ispanico, Ortega y Gasset, risale infatti al 1983, anno in cui si celebrò il centenario della nascita del filosofo madrileno. Da allora, Cacciatore ha fornito alla comunità scientifica importanti contributi su alcune delle mas3 Per una puntuale ricognizione dell’itinerario filosofico di Cacciatore, si veda il recente contributo di L. Anzalone, Lo storicismo etico-politico e la comunità democratico-interculturale di Giuseppe Cacciatore, in «Logos. Rivista di Filosofia», n.s., n. 14, 2019, pp. 173-192. 9 sime espressioni del pensiero iberico e iberoamericano quali Alonso Briceño, Andrés Bello, María Zambrano, José Gaos, Xavier Zubiri, Eduardo Nicol, Leopoldo Zea, Octavio Paz. Da alcuni anni, infine, Cacciatore dedica buona parte del suo impegno scientifico allo studio dei problemi filosofici inerenti all’interculturalità e alle categorie filosofiche in essi implicati come quelle di identità, riconoscimento, universalismo, cittadinanza, laicità, democrazia, diritti umani, intersoggettività e senso comune. Dagli scritti di Cacciatore emergono con forza alcune idee portanti che da sempre hanno sorretto e indirizzato la sua attività di studioso. Voglio soffermarmi su due di esse in particolare, in quanto espressione, a mio avviso, di un’opzione teorica e metodologica ben precisa. La prima riguarda il modo di concepire la storia della filosofia, intesa quale diramazione di una più vasta e articolata storia della cultura, prospettiva che lascia trasparire una profonda sintonia di Cacciatore con il pensiero orteghiano. Nel denso saggio introduttivo all’edizione argentina della Storia della filosofia di Émile Bréhier4 , Ortega y Gasset delinea i tratti più significativi di quella che definisce una «nuova filologia», il cui principio fondamentale si radica su una concezione “vitalista” e “funzionalista” dell’idea secondo la quale quest’ultima risulta essere sempre una «reazione di un uomo ad una determinata situazione della sua vita», vale a dire, «un’azione che l’uomo realizza in vista di una determinata circostanza e con una precisa finalità»5 . Secondo il filosofo spagnolo, 4 Cfr. É. Bréhier, Historia de la filosofía, 2 tt., ed. a cargo de D. Náñez, prólogo de J. Ortega y Gasset, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1942. L’originaria edizione francese della monumentale opera di Bréhier era stata pubblicata – in due tomi divisi in sette volumi – tra il 1926 e il 1932 per conto dell’editore Félix Alcan di Parigi. 5 J. Ortega y Gasset, Prólogo a “Historia de la filosofía”, de Émile Bréhier (Ideas para una historia de la filosofía), in Id., Obras completas, 10 voll., Madrid, Taurus, 2004-2010, vol. VI, p. 147; trad. it. La “Storia della filosofia” di Émile Bréhier (Idee per una storia della filosofia), in J. Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, a cura di A. Savignano, Firenze, Sansoni, 1983, p. 84. 10 dunque, non esistono “idee eterne”, in quanto «ogni idea è ascritta irrimediabilmente alla situazione o circostanza di fronte alla quale rappresenta un compito attivo ed esercita una funzione»6 . In questa prospettiva, la filosofia è da intendersi, pertanto, come «un sistema di azioni viventi»7 – un sistema di “idee” appunto – di cui non è possibile fare storia prescindendo dal luogo e dal tempo particolari che lo hanno generato. Un’effettiva storia della filosofia – conclude Ortega – non può, di conseguenza, ridursi a mera e astratta esposizione cronologica delle “dottrine filosofiche”, ma dovrebbe esser capace di «eliminare la presunta esistenza disumanizzata attraverso cui ci presenta le dottrine e tornare ad immergerle nel dinamismo della vita umana, mostrandocene in essa il funzionamento teleologico»8 . Da questo punto di vista, il personale “saggismo filosofico” di cui Cacciatore ha dato prova durante l’intero dispiegarsi della sua parabola intellettuale sembra informarsi perfettamente al principio ispiratore della «nuova filologia» enunciato da Ortega, principio che presiede alla sua peculiare concezione della filosofia intesa come un’attività assolutamente universale, ma al contempo segnata da forti particolarismi nazionali e culturali, da quelli che Alain Badiou ha definito come «momenti della filosofia»9 , nello spazio e nel tempo. La filosofia, insomma, non è altro che «un’ambizione universale della ragione che si manifesta […] in momenti del tutto singolari»10. Il secondo aspetto che emerge dalla maggioranza degli scritti di Cacciatore consiste nella rilevanza che questi ha 6 Ivi, pp. 147-148; trad. it. cit., p. 84. 7 Ivi, p. 148; trad. it. cit., p. 85. 8 Ivi, p. 149; trad. it. cit., p. 86. 9 A. Badiou, Panorama de la filosofía francesa contemporánea, in M. Abensour (a cura di), Voces de la filosofía francesa contemporánea, Buenos Aires, Colihue, 2005, p. 73. Si veda ora la mia traduzione italiana, preceduta da un’introduzione intitolata Alain Badiou e l’avventura filosofica francese, apparsa in «Archivio di storia della cultura», XXI, 2008, pp. 421-442. 10 Ibidem. 11 da sempre assegnato alla dimensione etico-pratica della filosofia, vale a dire alla sua intrinseca vocazione civile. Come ha osservato Giuseppe Antonio Di Marco, «la ricerca complessiva di Cacciatore […] presuppone una concezione e una pratica della filosofia a partire da un suo orizzonte storico. Ciò implica mettere in rapporto reciproco la filosofia e la vita concreta degli uomini, intesa come “vita civile”»11. In una recente intervista rilasciata ad un noto quotidiano nazionale12, Cacciatore chiarisce la sua peculiare visione della filosofia e del ruolo che ad essa attribuisce nella società di oggi in questi termini: «La filosofia alla quale da sempre mi sono ispirato – dichiara Cacciatore – ha un profilo fondamentalmente storico (lo storicismo critico-problematico) ed etico-politico. […] Sono convinto che il destino stesso della filosofia, quella filosofia che aiuta l’uomo da sempre a meravigliarsi e interrogarsi senza affidarsi a disegni metafisici e a fondazionalismi ontologici, è nella sua declinazione etica». Una filosofia, insomma, «che si presenta non come fede o dogma (razionalistico o materialistico che sia, poco importa) ma come “credenza”, come complesso articolato e plurale di forme di pensiero e di modi di vivere il mondo». E conclude: «La scelta di vita che impone la filosofia è molto semplice e non comporta sacrifici o difficoltà, ma solo l’educazione quotidiana alla critica, al giudizio mai assoluto e sempre rivedibile sulle cose e sugli uomini, sulla storia passata, presente e futura, sulla vita e sulle scelte della comunità e della società». Sulla scorta di queste considerazioni, non sorpende constatare come gli autori con i quali Cacciatore ha saputo misurarsi nel corso della sua attività di studioso siano tutti indistintamente animati da una stessa passione filosofica e civile, rivelando così la precisa «intenzionalità etica» che 11 Cfr. G.A. Di Marco, Introduzione, in G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 11. 12 Cfr. Meraviglia, arma del pensiero, intervista a cura di F. Palazzi, in «Il Roma», 2 agosto 2013, p. 11. 12 attraversa la sua intera produzione scritta. La bibliografia di Cacciatore, in definitiva, è la chiara testimonianza, come ha ben messo in luce Fulvio Tessitore, di una costante «operosità scientifica», nonché di un solido «impegno civile» capace di coniugare fruttuosamente scienza e vita13, nel pieno convincimento di voler consacrare la propria professione intellettuale all’esercizio «etico» del pensiero, facendo dell’«educazione quotidiana alla critica» il proprio inconfondibile stile di vita. * * * La presente Bibliografia vuole essere un omaggio al Prof. Giuseppe Cacciatore e al suo magistero in occasione del suo settantacinquesimo compleanno. Desidero rivolgere un sentito ringraziamento al Prof. Fabrizio Lomonaco per i preziosi consigli che mi ha fornito nella fase di allestimento del volume. Un ringraziamento particolare, infine, va alla Dott.ssa Lorena Grigoletto per il suo fondamentale aiuto nel lavoro di sistemazione e di uniformazione del materiale bibliografico qui raccolto. Portici, 21 novembre 2020 13 Cfr. F. Tessitore, Presentazione, in G. Cacciatore, Sulla filosofia spagnola, cit., p. 9. 13 Giuseppe Cacciatore si laurea nel 1968 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma con una Tesi sul pensiero di Dilthey sotto la direzione dei Proff. Gabriele Giannantoni e Gaetano Calabrò. Viene nominato, nello stesso anno, addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Storia delle dottrine politiche della Facoltà di Magistero dell’Università di Salerno, tenuta allora da Fulvio Tessitore. Nel 1969 ottiene una borsa di studio presso l’Istituto italiano per gli studi storici “Benedetto Croce” di Napoli. Segue, nel frattempo, il magistero di Pietro Piovani, frequentando e collaborando ai seminari di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli Federico II. Nel 1970 viene nominato, a seguito di concorso, assistente ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Salerno. Dal 1972 al 1976 è stato professore incaricato, prima di Filosofia della politica e, poi, di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Salerno. Dal 1977 al 1980 ha insegnato Storia della filosofia, in qualità di docente incaricato stabilizzato, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della medesima università. Nel 1979 vince il concorso a cattedra e a decorrere dal 1981 è chiamato a ricoprire, come professore straordinario, l’insegnamento di Storia della filosofia presso la Facoltà di Profilo Accademico 14 Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, conseguendo successivamente, nel 1984, la nomina a professore ordinario. Ha al suo attivo numerosi volumi e pubblicazioni che si possono raggruppare intorno ad alcune specifiche aree tematiche: a) ricerche sullo storicismo tedesco contemporaneo e sulla filosofia tedesca otto-novecentesca, con libri e saggi su Dilthey, Humboldt, Droysen, Troeltsch, Cassirer, Rickert, Groethuysen; b) ricerche sulla filosofia italiana moderna e contemporanea, con libri e saggi su Vico, Cuoco, Ferrari, Colecchi, De Meis, Imbriani, Croce, sul neoidealismo, sull’esistenzialismo italiano, su Giuseppe Capograssi e Pietro Piovani; c) ricerche sul marxismo contemporaneo, con volumi e saggi su Bloch, Lukacs, Labriola, Gramsci, sulla sinistra socialista e meridionalista del secondo dopoguerra; d) ricerche di teoria e storia della storiografia, con saggi sulla storiografia tedesca dell’Ottocento, su Droysen, Lamprecht, sulla Neue Sozialgeschichte, su Villari e la storiografia positivistica, sulla storiografia italiana del dopoguerra; e) ricerche sui nessi, storici e sistematici, tra alcuni motivi dell’etica e della filosofia pratica contemporanee e la tradizione dello storicismo, con saggi su Vico, Croce, e sulla generale relazione tra Historismus e filosofa della storia; f) ricerche e studi sulla filosofia e sulla cultura spagnola e latinoamericana contemporanea con saggi su Ortega, Nicol, Gaos, Zambrano, Zea, Zubiri, sulla filosofia dei diritti umani, sugli sviluppi della democrazia nel continente latinoamericano; g) ricerche e studi sulla filosofia dell’interculturalità nei suoi aspetti etici, ermeneutici, politico-filosofici ed epistemologici. Ha edito e tradotto testi di Dilthey, di Riedel, di Otto e si è distinto per aver organizzato diversi convegni internazionali su alcune figure fondamentali della storia del pensiero filosofico quali Dilthey, Marx, Vico, Abbagnano, Cassirer, Spengler, Ortega y Gasset, Labriola e Croce. 15 Ha collaborato e collabora con numerose riviste scientifiche tra cui «Il Pensiero politico», «Critica marxista», «Criterio», «Rinascita», «Giornale critico della Filosofia italiana», «Studi storici», «Paradigmi», «Prospettive Settanta», «Iride», «L’Acropoli», «Rivista di Storia della filosofia», nonché, in qualità di giornalista pubblicista, con diverse testate giornalistiche tra cui «Il Mattino», «Il Giornale di Napoli», «La Città», «Corriere del Mezzogiorno», «Roma». È membro del Comitato direttivo del «Bollettino del Centro di studi vichiani» e fa parte del comitato scientifico di svariate riviste specializzate come «Discorsi», «Prospettive Settanta», «Studi critici», «Archivio di storia della cultura», «Geschichte und Gegenwart», «Diritto e Cultura», «Revista de Hispanismo filosófico». Ha diretto con Fulvio Tessitore la collana “Cultura e Storia” dell’editore Morano di Napoli. Dirige, sempre con Tessitore, la nuova serie della collana “Studi Vichiani” presso l’editore Guida di Napoli, la collana “La cultura storica” dell’editore Liguori di Napoli e la collana “Istorica” dell’editore Rubbettino di Soveria Mannelli. Presso il medesimo editore dirige, in collaborazione con Edoardo Massimilla, la collana “Riscontri”. Con Giuseppe Cantillo e con il compianto collega Antonello Giugliano ha diretto la collana “Parole chiave della filosofia” dell’editore Guida di Napoli. Dirige, con Armando Mascolo, la collana di testi della cultura spagnola e ispanoamericana “Parva Hispanica” dell’editore Rubbettino. È condirettore, con Antonio Scocozza, di «Cultura Latinoamericana», rivista della Maestría in Scienza politica dell’Università Cattolica della Colombia e dell’Università di Salerno. Ha fondato e dirige, con Armando Savignano, Luis de Llera e Antonio Scocozza, la rivista di studi di filosofia iberica e iberoamericana «Rocinante». Ha inoltre fondato, con Fabrizio Lomonaco e Antonello Giugliano, «Logos. Rivista di Filosofia», di cui è attualmente codirettore. Dal 1986 è socio nazionale dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società nazionale di Scienze Let- 16 tere e Arti in Napoli. È altresì socio ordinario residente dell’Accademia Pontaniana di Napoli. È stato membro del Consiglio di amministrazione della “Fondazione Pietro Piovani per gli studi vichiani” e del Consiglio di amministrazione della “Fondazione Filiberto e Bianca Menna”. Dal 1990 al 1995 è stato presidente del corso di Laurea in Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Federico II di Napoli. Nel 1994 ha assunto la direzione del “Centro di studi vichiani” del CNR di Napoli, che ha mantenuto sino al 2002. È stato Visiting Professor presso numerose Università straniere tra cui l’Universidad Central de Venezuela (1982), l’Università di Monaco di Baviera (1984) e l’Università di Halle-Wittenberg (1998). Oltre a partecipare a numerosi convegni, ha tenuto corsi, conferenze e seminari presso l’Università di Barcellona, Berlino (FU e “Humboldt”), Düsseldorf, Halle, L’Avana, Maracaibo, UNERMB (Cabimas, Venezuela), Carabobo (Valencia, Venezuela), München, Münster, Neuquén (Argentina), Potsdam, Valencia, Universidad Nacional Autónoma de México, Universidad Católica de Bogotá. È stato dal 1993 al 1997 delegato del Rettore dell’Università Federico II di Napoli per i rapporti internazionali. Fa parte, dal novembre del 2001, della Commissione scientifica del “Centro Interuniversitario di Ricerca bioetica”. Dal 2001 al 2007 è stato Direttore del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università Federico II di Napoli. Dal 1993 al 2010 è stato Presidente della giuria del Premio internazionale di saggistica “Salvatore Valitutti” e, nel 1999, è stato insignito del Premio internazionale “Guido Dorso”. È stato membro della Giunta esecutiva del Comitato nazionale per le celebrazioni di Giordano Bruno nel IV centenario della morte. Dal maggio 2002 è ricercatore associato presso l’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico (ISPF) del CNR di Napoli. È stato membro del collegio del Dottorato di ricerca in “Culture dei paesi di lingue iberiche e iberoamericane” dell’Università “L’Orienta- 17 le” di Napoli, nonché coordinatore del Dottorato di ricerca in “Geopolitica e culture del Mediterraneo” presso l’Istituto italiano di Scienze umane (SUM) e del Dottorato di ricerca in “Cultura, Storia e Architettura del Mediterraneo” della Scuola di alta formazione dell’Università Federico II di Napoli. Nel 2012 ha ricevuto la nomina a Profesor Titular presso la Universidad Católica de Bogotá (Colombia). A partire dal 2007 è diventato socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Nello stesso anno è diventato Direttore dell’Istituto di Studi Latinoamericani, carica che ha mantenuto sino al 2009. È stato coordinatore di due progetti di ricerca di interesse nazionale (2007 e 2009). Nel corso del 2011 gli è stato assegnato il Premio Perrotta per il Giornalismo a Salerno e il Premio Internazionale di Filosofia Karl Otto Apel a Cosenza, e nel 2013 è stato insignito del Premio nazionale “Frascati Filosofia”. Nello stesso anno è stato nominato Presidente della “Società Salernitana di Storia Patria”, incarico che, dal 2010 al 2014, ha ricoperto anche per la “Società Italiana degli Storici della Filosofia”. Dal 2014 al pensionamento ha coordinato il Dottorato di ricerca in “Scienze filosofiche” dell’Università di Napoli Federico II e, nell’anno successivo, è stato nominato rappresentante della medesima università nel Comitato tecnico-scientifico del Consorzio universitario “Civiltà del Mediterraneo”. Nel 2015 gli è stata conferita la laurea magistrale honoris causa in Scienze Pedagogiche presso l’Università di Salerno. È stato membro del Consiglio di Indirizzo della “Fondazione Ravello” e altresì componente del Consiglio di Indirizzo della “Fondazione Pietro Piovani per gli studi vichiani”. Nel 2017 è stato nominato Professore Emerito di Storia della Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II e, per il biennio 2017-2019, Presidente della Classe di Scienze Morali dell’Accademia Pontaniana di Napoli. Nel 2019, infine, è stato eletto Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. 19 Legenda: A = Volumi, Opuscoli, Curatele B = Saggi e articoli C = Recensioni D = Schede E = Edizioni F = Introduzioni, Prefazioni, Premesse G = Articoli giornalistici 1969 B) 1 – Il momento della “prassi” nello storicismo di Dilthey, in «Rivista di studi salernitani», 1969, n. 4, pp. 423-461. * * * 1970 B) 2 – Il tricentenario vichiano del 1968, in «Atti della Accademia Pontaniana» di Napoli, n.s., vol. XIX, 1970 [pp. 20 dell’estratto]. 3 – Hegel in Italia e in italiano, in F. Tessitore (a cura di), Incidenza di Hegel: studi raccolti in occasione del secondo centenario della nascita del filosofo, Napoli, Morano, 1970, pp. 1057-1129. Bibliografia degli scritti (1969-2020) 20 C) 4 – Recensione di D. Ulle, N. Motroshilova, È rivoluzionaria la dottrina di Marcuse?, in «Rivista di studi salernitani», n.s, III, 1970, 5, pp. 471-481. 5 – Recensione di K. Korsch, Karl Marx, in «Il Pensiero politico», III, 1970, n. l, pp. 146-148. 6 – Recensione di L. Althusser, Lenin e la filosofia, in «Il Pensiero politico», III, 1970, n. l, pp. 156-157. * * * 1971 B) 7 – Scuola storica e diritto naturale in Dilthey, in «Il Pensiero», XVI, 1971, nn. 2-3, pp. 220-239. 8 – Un discorso raro di Angelo Camillo De Meis, in «Il Pensiero politico», IV, 1971, n. 3, pp. 393-419. * * * 1972 A) 9 – Wilhelm Dilthey e il metodo delle scienze storico-sociali, Salerno, Istituto di Filosofia e Storia della filosofia dell’Università di Salerno, 1972. C) 10 – Recensione di H. Portelli, Gramsci et le bloc historique, in «Paese Sera Libri», 28 settembre 1972. 21 * * * 1973 B) 11 – Ancora sul giovane De Meis, in «Il Pensiero politico», VI, 1973, n. 2, pp. 262-266. C) 12 – Recensione di M. Weber, Scritti Politici, in «Il Pensiero politico», VI, 1973, n. 2, pp. 332-333. * * * 1974 A) 13 – Cultura filosofica e pensiero Politico dal previchismo al 1860 (Lezione introduttiva al Seminario su “Il Mezzogiorno dalle riforme all’Unità”), a.a. 1973-1974, Facoltà di Giurisprudenza, Universita di Salerno, pp. 12. B) 14 – Storia, filosofia e politica nell’attività Pubblicistica di Dilthey, in «Filosofia», 1974, n. l, pp. 64-78. C) 15 – Recensione di H. Medick, Naturzustand und Naturgeschichte der Bürgerlichen Gesellschaft, in «Il Pensiero politico», VII, 1974, n. 3, pp. 434-436. 22 G) 16 – Salerno: un confronto da continuare, in «La Voce della Campania», 1974, n. 14. * * * 1975 B) 17 – Politicità dello storicismo, in «Il Pensiero politico», VIII, 1975, n. 3, pp. 355-366. D) 18 – Scheda su I. Cervelli, Droysen dopo il 1848 e il cesarismo, in «Il Pensiero politico», VIII, 1975, n. 3, pp. 430-431. E) 19 – W. Dilthey, Lo studio delle scienze umane sociali e politiche, trad. it. e cura di G. Cacciatore, Napoli, Morano, 1975. F) 20 – Introduzione a W. Dilthey, Lo studio delle scienze umane sociali e politiche, Napoli, Morano, 1975, pp. 9-43. * * * 23 1976 A) 21 – Scienza e filosofia in Dilthey, 2 voll., Napoli, Guida, 1976. D) 22 – Scheda su G. Armani, Gli scritti su Carlo Cattaneo, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VI, 1976, pp. 236-237. 23 – Scheda su G. Mastroianni, Studi sovietici di filosofia italiana, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VI, 1976, pp. 248-249. 24 – Scheda su M. Prisco, Gli ermellini neri, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VI, 1976, p. 253. 25 – Scheda su F. Tessitore, Storicismo e Pensiero politico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VI, 1976, p. 254. * * * 1977 B) 26 – Scientificità del marxismo e pensiero utopico, in «Atti della Accademia di Scienze morali e politiche» di Napoli, vol. LXXVII, 1977, pp. 63-83. 27 – Discutendo di Croce e il partito politico, in «Il Pensiero politico», X, 1977, pp. 127-135. 28 – Una lettera per guadagnare il paradiso (a proposito della lettera di Berlinguer a Mons. Bettazzi), in «Lineazeta», I, 1977, n. 6, p. 9. 24 D) 29 – Scheda su N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VII, 1977, pp. 231-232. 30 – Scheda su J. Freund, Les théories des sciences humaines, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», VII, 1977, p. 242. * * * 1978 B) 31 – Etica, storia e futuro in Ernst Troeltsch, in «Storia e politica», XVII, 1978, n. 3, pp. 497-532. 32 – Su una lettura storica della questione sindacale, in «Il Pensiero politico», XI, 1978, n. 3, pp. 406-410. 33 – Luigi Cacciatore e la sinistra socialista. Politica unitaria e meridionalismo, in Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo, Napoli, ESI, 1978, pp. 587-730. C) 34 – Recensione di G. Acocella, Questione meridionale e sindacalismo cattolico, in «Il Tetto», XV, 1978, n. 85, pp. 125-128. * * * 25 1979 A) 35 – Ragione e speranza nel marxismo. L’eredità di Ernst Bloch, Bari, Dedalo, 1979. 36 – La sinistra socialista nel dopoguerra. Meridionalismo e politica unitaria in Luigi Cacciatore, prefazione di F. De Martino, Bari, Dedalo, 1979. B) 37 – Economia e base materiale nell’utopia concreta di Ernst Bloch, in R. Crippa (a cura di), La dimensione dell’economico, Padova, Liviana, 1979, pp. 439-466. 38 – Vico e Dilthey. La storia dell’esperienza umana come relazione fondante di conoscere e fare, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 35-68. C) 39 – Recensione di E. De Mas, D. Faucci, F. Nicolini, A. Verri, Vico e l’instaurazione delle scienze, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 159-162. D) 40 – Scheda su H. Albert, Storia e legge: per la critica dello storicismo metodologico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 189. 41 – Scheda su M. Alicata, Lettere e Taccuini di Regina Coeli, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 189-190. 42 – Scheda su N. Bobbio, Voce Democrazia / Dittatura (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 193-194. 26 43 – Scheda su D. Bohler, Philosophische Hermeneutik und hermeneutische Methode, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 194. 44 – Scheda su G. P. Caprettini, Voce Allegoria (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 195. 45 – Scheda su E. Leach, Voce Anthropos (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 206-207. 46 – Scheda su S. Otto, Die Geschichtsphilosophie Giambattista Vicos, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 211-212. 47 – Scheda su K. Pomian, Voce Ciclo (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 213. 48 – Scheda su C. Prandi, Voce Credenze (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 214. 49 – Scheda su M. Riedel, Verstehen oder Erklären? Zur Theorie und Geschichte der hermeneutischen Wissenschaften, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, p. 216. 50 – Scheda su A. Salsano, Voce Enciclopedia (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», IX, 1979, pp. 216-217. F) 51 – Nota del curatore, in Federazione salernitana del PCI (a cura di), Per i Settantacinque anni di Francesco Cacciatore, prefazione di A. Alinovi, Salerno, Boccia, s.d., 1979, p. 9. * * * 27 1980 B) 52 – Ernst Bloch: l’utopia della realizzazione dell’“humanum”, in «Critica marxista», 1980, n. 5, pp. 109-128. C) 53 – Recensione di G. Vico, Liber metaphysicus Risposte, ed. tedesca, S. Otto, H. Viechtbauer (hrsg.), Transzendentale Einsicht und Theorie der Geschichte. Überlegungen zu G. Vicos “Liber metaphysicus”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 196-203. D) 54 – Scheda su M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, p. 247. 55 – Scheda su S. Otto, Die transzendentalphilosophische Relevanz des Axioms “verum et factum convertuntur”. Überlegungen zu G. Vicos “Liber metaphysicus”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 250-251. 56 – Scheda su S. Otto, Faktizität und Transzendentalität der Geschichte. Die Aktualität der Geschichtsphilosophie G. Vicos im Blick auf Kant und Hegel, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 251-252. 57 – Scheda su S. Otto, Geistesgeschichte zwischen Philosophie und Feuilleton, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», X, 1980, pp. 252-253. * * * 28 1981 B) 58 – Sentimento metafisico e infelicità della ragione (a proposito di Metafisica di A. Masullo), in «Critica marxista», 1981, n. 6, pp. 185-192. 59 – Materiali su “Vico in Germania” (in collab. con G. Cantillo), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 13-32. D) 60 – Scheda su G. Conte (a cura di), Metafora, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 279-280. 61 – Scheda su M. Ciliberto, Come lavorava Gramsci, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 282-284. 62 – Scheda su A. Di Nola, Voce Origini (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, p. 287. 63 – Scheda su U. Eco, Voce Metafora (Enciclopedia Einaudi), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 287-288. 64 – Scheda su S. Natoli, Soggetto e Fondamento. Studi su Aristotele e Cartesio, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, p. 295. 65 – Scheda su S. Otto, Materialen zur Theorie der Geistesgeschichte, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XI, 1981, pp. 296-297. * * * 29 1982 B) 66 – Difettività e fondamento: un convegno in memoria di Pietro Piovani, in «Discorsi», II, 1982, fasc. 2, pp. 373- 375. 67 – Los Orígenes del fascismo en Italia. Revolución y reacción (1918-1922), Universidad Central de Venezuela, Caracas, Publicaciones de la Escuela de Historia, 1982, pp. 17. C) 68 – Recensione di S. Merli, Il “Partito nuovo” di Lelio Basso, in «Il Pensiero politico», 1982, n. 3, pp. 615-617. E) 69 – M. Riedel, L’Universalità della scienza europea e il primato della filosofia, trad. it. e cura di G. Cacciatore, Napoli, ESI, 1982. F) 70 – Introduzione a M. Riedel, L’Universalità della scienza europea e il primato della filosofia, Napoli, ESI, 1982, pp. 11-32. * * * 30 1983 B) 71 – Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XII-XIII, 1982- 1983, pp. 63-99. 72 – Dilthey e il Rinascimento, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», n.s., vol. XXV, XIII, 1982-1983, pp. 181-230. 73 – L’“utopia liberale” di B. Croce, in A. Bruno (a cura di), Benedetto Croce. Trent‘anni dopo, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 159-177. 74 – L’“utopia liberale” di B. Croce: un contributo alla discussione su etica e politica nella crisi del mondo contemporaneo [ed. ampliata del numero precedente], in «Discorsi», III, 1983, fasc. I, pp. 68-93. 75 – Dilthey e la storiografia tedesca dell’Ottocento, in «Studi Storici», 1983, n. 1-2, pp. 55-89. C) 76 – Le Speranze tradite di Karola ed Ernst (a proposito di K. Bloch, Memorie dalla mia vita), in «Rinascita», XL, 1983, n. 21, pp. 29-30. D) 77 – Scheda su B. De Giovanni, La “Teologia civile” di Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XIIXIII, 1982-1983, pp. 417-419. * * * 31 1984 B) 78 – La norma come “misura”: gnoseologia, etica e storia nella filosofia di Pietro Piovani, in A. Masullo (a cura di), Difettività e fondamento, Napoli, Guida, 1984, pp. 87-99. 79 – Marxismo e utopia neqli anni venti: Bloch e Lukács, in Aa.Vv., L’Utopia, Messina, ed. G.B.M., 1984, pp. 31-68. 80 – La “speranza” della storia. Note in margine a un libro sullo storicismo Politico in “Paradigmi”, II, 1984, n. 5, pp. 293-315. 81 – Ortega y Gasset e Dilthey, in L. Infantino, L. Pellicani (a cura di), Attualità di Ortega y Gasset, Firenze, Le Monnier, 1984, pp. 89-113. 82 – Riflessioni “inattuali” su Francesco De Sanctis, in «Rassegna storica salernitana», 1984, n. 1-2, pp. 109-115. 83 – Note sulla recezione di G. Bruno nella filosofia italiana della seconda metà dell’Ottocento, in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche» di Napoli, vol. XCV, 1984, pp. 295-313. 84 – Nichilismo attivo, storicità, futuro nella filosofia di Pietro Piovani, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIII (LXV), fasc. II, 1984, pp. 217-259. 85 – “Neue Sozialgeschichte” e teoria della storia, in «Studi storici», n. 1, 1984, pp. 119-130. 86 – La recezione italiana della Existenzphilosophie nel dopoquerra: problemi interpretativi e significati etico-politici, in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche» di Napoli, vol. XCV, 1984, pp. 45-67. C) 87 – Recensione di L. Rossi, Terra e genti del Cilento borbonico, in «Rassegna storica salernitana», 1984, n. 1-2, pp. 200-201. 32 88 – Recensione di G. Acocella, L. Mascilli Migliorini, C. Franco, A. Aurigemma, De Sanctis e l’Irpinia, introduzione di F. Tessitore, Di Mauro, 1983, in «Rassegna storica salernitana», 1984, n. 1-2, pp. 201-203. G) 89 – Un protagonista dell’opposizione socialista. Per l’unità delle forze democratiche, in «Dossier Sud», 1984, n. 16, p. 9. * * * 1985 A) 90 – Vita e forme della storia. Saggi sulla storiografia di Dilthey, Napoli, Morano, 1985. 91 – G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985. B) 92 – Per una storia del pensiero democratico, in «Nuova Antologia», vol. 554, 1985, fasc. 2153, pp. 425-440. 93 – Politica, diritto e Stato in Dilthey, in F. Bianco (a cura di), Dilthey e il pensiero del Novecento, Milano, Franco Angeli, 1985, pp. 136-154. 94 – Dilthey e la storiografia tedesca dell’Ottocento, in G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 207-244. 33 C) 95 – Recensione di G. Vico, Neue Wissenschaft, hrsg. von F. Fellmann, Frankfurt am Main, Klostermann, 1981, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XIV-XV, 1985, pp. 349-355. 96 – Recensione di R.W. Schmidt, Die Geschichtsphilosophie G.B. Vicos, Würzburg, Königshausen und Neumann, 1982, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XIVXV, 1985, pp. 361-366. D) 97 – Scheda su F. Tessitore, La storiografia come scienza, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XIV-XV, 1985, p. 413. F) 98 – Introduzione (in collab. con G. Cantillo) a Wilhelm Dilthey. Critica della metafisica e ragione storica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 5-8. 99 – Introduzione (in collab. con G. Amarante) a F. Cacciatore, Per l’unità dei lavoratori. Raccolta di scritti e discorsi, Salerno, Boccia (ed. f.c.), 1985, pp. 13-45. * * * 1986 A) 100 – G. Cacciatore, F. Lomonaco (a cura di), Karl Marx 1883-1983, Napoli, Guida, 1986. 34 B) 101 – Il Marx di Gramsci. Per una rilettura del nesso etica-teoria-politica nel marxismo, in G. Cacciatore, F. Lomonaco (a cura di), Karl Marx 1883-1983, Napoli, Guida, 1986, pp. 259-301. 102 – Vichismo e illuminismo tra Cuoco e Ferrari, in P. Di Giovanni (a cura di), La tradizione illuministica in Italia, Palermo, Palumbo, 1986, pp. 43-91. 103 – Crisi e attualità del marxismo nel pensiero di Labriola, in «Bollettino della Società filosofica italiana», n.s., 1986, n. 129, pp. 13-36. D) 104 – Scheda su G. Cotroneo, Vico in Sicilia: Benedetto Castiglia e le “Scienze dell’umanità”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVI, 1986, pp. 451-452. 105 – Scheda su S. Otto, Rekonstruktion der Geschichte. Zur Kritik der historischen Vernunft, Erster Teil, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVI, 1986, pp. 470-471. F) 106 – Presentazione (in collab. con G. Cantillo) di W. Dilthey, Storia della giovinezza di Hegel e Frammenti Postumi, Napoli, Guida, 1986, pp. 7-10. 107 – Nota introduttiva (in collab. con F. Lomonaco) a G. Cacciatore e F. Lomonaco (a cura di), Karl Marx 1883- 1983, Napoli, Guida, 1986, pp. 4-6. G) 108 – Centro storico: ritrovarsi per riparlarne, in «La Gazzetta di Salerno», 13 febbraio 1986. 35 * * * 1987 B) 109 – Lezioni e battaglie di Pasquale Villari, in Aa.Vv., Napoli tra idealismo e positivismo, suppl. a «Itinerario», 1987, n. 2, pp. 27-31. 110 – Un convegno su Labriola in Germania, in «Studi storici», 1987, n. 1, pp. 261-268. 111 – La recezione italiana della Existenzphilosophie, in K.-E. Lösse (hrsg.), Wissenschaftstradition und Nachkriegsgeschichte in Italien und Deutschland, Düsseldorf, Schwann, 1987, pp. 112-129. * * * 1988 B) 112 – Crisi della storiografia storicistica e “bisogno” di Kulturgeschichte: il caso Lamprecht, in Aa.Vv., Le storie e la storia della cultura, Napoli, Morano, 1988, pp. 223-237. 113 – Crisi dello storicismo e bisogno di Kulturgeschichte: il caso Lamprecht, in «Archivio di storia della cultura», I, 1988, pp. 257-281. 114 – Vittorio Imbriani filosofo (in collab. con A. Giugliano), in «Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche», vol. XCIX, 1988, pp. 55-68. 36 115 – Il problema della storia alle origini del neoidealismo italiano, in P. Di Giovanni (a cura di), Il neoidealismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 111-138. 116 – Labriola et le débat sur la crise du marxisme, in G. Labica, J. Texier (a cura di), Labriola d’un siècle à l’autre, Paris, Meridiens Klincksieck, 1988, pp. 237-251. 117 – Un maestro e la sua città, in C. Coppola (a cura di), Esegesi e grammatica. Raccolta di scritti e testimonianze, Salerno, Laveglia, 1988, pp. 139-143. 118 – L’autocritica della storia, in «Rinascita», 1988, n. 21, p. 19. C) 119 – Recensione a N. Badaloni, Introduzione a Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XVII-XVIII, 1988, pp. 322-329. F) 120 – Presentazione di C. Manzi, Giacomo Leopardi e i canti napoletani, Salerno (ed. f.c.), 1988, pp. 4-6. G) 121 – Con Vico, oltre Vico, in «Il Mattino», 13 aprile 1988. 122 – Per l’impoliticità della cultura, in «Il Domani», 11 ottobre 1988. 123 – La rivoluzione dell’individuo etico, in «Il Mattino», 18 ottobre 1988. * * * 37 1989 A) 124 – G. Cacciatore (a cura di), Figure dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989. B) 125 – I modelli teorici della storiografia italiana dal 1945 al 1980, in «Archivio di storia della cultura», II, 1989, pp. 113-181. 126 – Vico e il vichismo negli “Scandagli critici” di Pietro Piovani, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XIX, 1989, pp. 241-249. 127 – Scienze dello spirito e mondo storico nel confronto Dilthey-Rickert, in M. Signore (a cura di), Rickert tra storicismo e ontologia, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 223-249. 128 – Marxismo etica utopia negli anni Venti: Bloch e Lukacs, in G. Cacciatore (a cura di), Figure dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989, pp. 35-151. C) 129 – Recensione dell’“Annuario” 1988-1989 del Liceo “Tasso” di Salerno, in «Rassegna storica salernitana», 1989, n. 12, pp. 401-404. F) 130 – Presentazione di A. Matano, Il pensiero Politico di A. Labriola, Marsala, La Medusa, 1989, pp. I-V. 131 – Premessa a G. Cacciatore (a cura di), Figure dell’Utopia. Saggi su Ernst Bloch, Avellino, F. Redi, 1989, pp. 5-6. 38 G) 132 – Il futuro del Passato. In ricordo di A. Omodeo, in «Il Mattino», 19 settembre 1989. 133 – L’idealismo realistico di Lotze (a proposito di H. Lotze, Microcosmo, Torino, UTET,1989), in «Il Mattino», 3 dicembre 1989. * * * 1990 B) 134 – Labriola, l’imperialismo e la storia italiana, in F. Lomonaco (a cura di), Cultura, società, potere. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Napoli, Morano, 1990, pp. 399-436. 135 – Labriola e l’imperialismo, in E. Serra, C. SetonWatson (a cura di), Italia e Inghilterra nell’età dell’imperialismo, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 15-46. 136 – Imbriani filosofo, in R. Franzese, E. Giammattei (a cura di), Studi su Vittorio Imbriani, Napoli, Guida, 1990, pp. 147-164. 137 – Nuove ricerche sul “Liber Metaphysicus” di Giambattista Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XX, 1990, pp. 211-221. 138 – Dahrendorf, storia e lotta di classi, in «Rinascita», n.s., I, 1990, n. 23, pp. 54-61. 139 – Dahrendorf e la “rivoluzione incompiuta del mondo moderno”, in «Prospettive Settanta», 1990, n. 1-2, pp. 176-190. 140 – Salerno: la vita culturale di una città attraverso la storia del suo liceo, in P. Macry, P. Villani (a cura di), La Campania (“Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi”), Torino, Einaudi, 1990, pp. 868-883. 39 141 – Il dibattito sul metodo della ricerca storica, in G. Di Costanzo (a cura di), La cultura storica italiana tra Otto e Novecento, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», vol. l, Napoli, Morano, 1990, pp. 161-244. 142 – Utopia della pace e senso della storia, in «Enne», II, 1990, n. 10-17, p. 10. 143 – Nove tesi provvisorie per la discussione sulla formapartito, in «Enne», II, 1990, n. 25, p. 12. C) 144 – Recensione di Sachkommentar zu G. Vicos “liber metaphysicus”, hrsg. von S. Otto, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», band 72, 1990, heft 1, pp. 94-102. 145 – La storia del Pensiero: istruzioni per l’uso (a proposito del vol. III, 1990, dell’«Archivio di storia della cultura»), in «Il Mattino», 2 dicembre 1990. G) 146 – Filiberto Menna, in «Gazzetta di Salerno», n. 8-9, 15 marzo 1990. 147 – Oltre Hegel, in «Il Mattino», 27 febbraio 1990. 148 – Un progetto incompiuto, in «Il Giornale di Napoli», 27 giugno 1990. 149 – La civiltà del potere, in «Il Mattino», 3 agosto 1990. * * * 1991 B) 150 – Storicità e Historismus, in F. Tessitore (a cura di), L’opera di Pietro Piovani, Napoli, Morano, 1991, pp. 345-398. 40 151 – Il concetto di “empiria” nell’Historismus: Droysen e Dilthey, in V.E. Russo (a cura di), La questione dell’esperienza, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, pp. 85-102. 152 – Il fondamento dell’intersoggettività tra Dilthey e Husserl, in A. Masullo, C. Senofonte (a cura di), Razionalità fenomenologica e destino della filosofia, Genova, Marietti, 1991, pp. 143-173. 153 – La sinistra socialista. Meridionalismo e politica unitaria nel PSI attraverso l’opera e l’azione di Luigi Cacciatore, in G. Muzzi (a cura di), La Sinistra meridionale nel secondo dopoguerra (1943-1954). Giornate di studio in onore di Francesco De Martino, Firenze, “Istituto Socialista di Studi Storici”, 1991, pp. 59-88. 154 – Socialismo, meridionalismo e unità della sinistra nell’azione di Luigi Cacciatore, in «Rassegna storica salernitana», n.s., VIII, 1991, n. 16, pp. 123-158. 155 – Il concetto di “Empiria” tra Droysen e Dilthey, in «Atti della Accademia Pontaniana», n.s., vol. XL, 1991, pp. 55-73. 156 – Il concetto politico-filosofico di interesse in Marx, in Aa.Vv., Ethos e Cultura, Studi in onore di Ezio Riondato, Padova, Antenore, 1991, vol. I, pp. 393-422. 157 – Crisi delle ideologie e nuove forme politiche nel mondo contemporaneo: principio di democrazia e socialismo possibile, in «Prospettive Settanta», n.s., XIII, 1991, n. 4, pp. 616-633. 158 – Laicismo, modernità e “Centesimus Annus”, in «Prospettive Settanta», n.s., XIII, 1991, n. 4, pp. 584-589. 159 – Il concetto di vita in Croce, in «Criterio», n.s., IX, 1991, nn. 3-4, pp. 165-201. 160 – Per aprire il discorso. Note sulla recente traduzione tedesca della “Scienza nuova”, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXI, 1991, pp. 129-135. 161 – Il rifiuto “politico” di questa guerra, in «Enne», III, 1991, n. 49, p. 2. 162 – Le opzioni dell’area riformista salernitana, in «La Piazza», V, 1991, n. 5, pp. 9-11. 41 C) 163 – Recensione di B. De Giovanni, Dopo il Comunismo, Napoli, 1990, in «Enne», III, 1991, n. 57, p. 15. 164 – Recensione di A. Musi (a cura di), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di Storia del Mezzogiorno, Napoli, 1991, in «Rassegna storica salernitana”, n.s., VIII, 1991, n. 16, pp. 374-377. 165 – Recensione di A. Menna, Il banco e la cattedra, Salerno, De Luca, 1991, in «Rassegna Storica salernitana», n.s., VIII, 1991, n. 16, pp. 377-379. 166 – Recensione di J.M. Sevilla Fernández, G. Vico: metafísica de la mente y historicismo antropológico, Sevilla, Servicio de Publicaciones de la Universidad, 1988, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXI, 1991, pp. 166-171. 167 – Lo Statuto del Comune di Salerno, in «Zona Orientale», ottobre 1991, n. 5, p. 4. G) 168 – In conflitto con la storia (a proposito dei Quaderni per una morale di Sartre), in «Il Giornale di Napoli», 28 giugno 1991. 169 – Quale stile di vita?, in «Il Giornale di Napoli», 12 luglio 1991. 170 – Oltre la fine del leninismo, in «Il Giornale di Napoli», 1 settembre 1991. 171 – La filosofia dell’individualità (a proposito di W.V. Humboldt), in «Il Giornale di Napoli», 12 settembre 1991. 172 – Alle origini della vita, tra miti e simboli, in «Il Giornale di Napoli», 18 ottobre 1991. 173 – Il tempo della vitalità, in «Il Giornale di Napoli», 6 novembre 1991. 174 – Quei valori da non smarrire. A proposito del bene comune in ogni momento della storia, in «Il Giornale di Napoli», 13 novembre 1991. 42 175 – La legge del Principe (recensione di F. Lomonaco, Lex regia, Napoli, Guida, 1991), in «Il Mattino», 18 giugno 1991. * * * 1992 B) 176 – I “principi” della Kulturgeschichte, in «Archivio di storia della cultura», V, 1992, pp. 315-324. 177 – Tra Fenomenologia ed Esistenzialismo. Considerazioni su Banfi e Paci (in collab. con G. Cantillo), in Aa.Vv., I progressi della filosofia nell’Italia del Novecento, Napoli, Morano, 1992, pp. 315-345. 178 – Karl Lamprecht und die “Kulturgeschichte”. Nachdenken über die überlieferten Paradigmen der Theorie der Geschichte, in Aa.Vv., Universalgeschichte - gestern und heute, “Comparativ” (Leipziger Beiträge zur Universalgeschichte und vergleichenden Gesellschaftsforschung), Heft 1, 1992, pp. 79-91. 179 – Karl Lamprecht und die “Kulturgeschichte”, in «Geschichte und Gegenwart», XI, giugno 1992, n. 2, pp. 120-133. 180 – “Historismus” e mondo moderno: Dilthey e Troeltsch, in «Giornale critico della Filosofia italiana», VI serie, LXXI, 1992, fasc. I, pp. 14-48. 181 – Tocqueville nell’interpretazione dello storicismo tedesco, in V. Dini, D. Taranto (a cura di), Individualismo, assolutismo, democrazia (atti del convegno in memoria di Anna Maria Battista), Napoli, ESI, 1992, pp. 489-499. 182 – Croce e il suo tempo nel carteggio con Prezzolini, in «Nord e Sud», n.s., XXXIX, 1992, n. 3, pp. 43-59. 183 – Alcuni spunti su Gramsci teorico della politica, in «Studi Critici», II, 1992, nn. 1-2, pp. 25-32. [apparso, con 43 il titolo Annotazioni su Gramsci teorico etico-politico, anche in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico», Socialismo e democrazia, Atti del convegno di studi nel centenario della nascita di Gramsci, 1992, n. 38-40, pp. 209-221]. 184 – Storia e teoria dello storicismo, in «Prospettive Settanta», 1992, n. 2-3, pp. 305-321. F) 185 – Introduzione a E. Todaro, Sottovoce, Salerno, Boccia, 1992, pp. 7-8. G) 186 – Una nuova razionalità, in «Il Giornale di Napoli», 24 gennaio 1992. 187 – Carteggi d’autore, in «Il Giornale di Napoli», 31 gennaio 1992. 188 – Un esempio di coraggio (a proposito di Nicola Fiore), in «Il Giornale di Napoli», 25 febbraio 1992. 189 – A confronto con i valori del passato, in «Il Giornale di Napoli», 1 marzo 1992. 190 – Quale ideale di emancipazione, in «Il Giornale di Napoli», 10 marzo 1992. 191 – In viaggio da settant’anni (Festa di compleanno per Mario Carotenuto), in «Il Giornale di Napoli», 30 aprile 1992. 192 – Le strade per l’unità della sinistra, in «Il Giornale di Napoli», 13 maggio 1992, p. 7. 193 – Il paesaggio come risorsa, in «Il Giornale di Napoli», 3 giugno 1992. 194 – Il comportamento dei singoli (lettera aperta a Norberto Bobbio), in «Il Giornale di Napoli», 17 giugno 1992. 195 – Quella parabola della neutralità (a proposito del libro di G. Nuzzo, A Napoli nel tardo Settecento), in «Il Giornale di Napoli», 18 giugno 1992. 44 196 – Se si superano i separatismi, in «Il Giornale di Napoli», 24 giugno 1992. 197 – Sul mare del tempo, in «Il Giornale di Napoli», 2 luglio 1992. 198 – Questione morale, in «La Repubblica» (ed. di Napoli), 26 agosto 1992, pp. I e IV. 199 – La cultura e l’economia meridionale nella integrazione europea, in «Nadir», II, agosto 1992, nn. 7-8, p. 6. 200 – La libera filosofia di Abbagnano, in «La Repubblica» (ed. di Napoli), 13 novembre 1992, p. XVIII. * * * 1993 A) 201 – Storicismo problematico e metodo critico, Napoli, Guida, 1993. B) 202 – La cultura e l’economia meridionale nell’integrazione europea, in «Diritto allo studio», III, 1993, n. 4, pp. 20-21. 203 – Profilo di Michelangelo Schipa, in Aa.Vv., Cultura e Università in Campania, Salerno, «Quaderni» della Società Dante Alighieri di Salerno, 1993, pp. 19-52. 204 – Studi vichiani in Germania 1980-1990 (in collab. con G. Cantillo), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXII-XXIII, 1992-1993, pp. 7-39. 205 – La cultura e l’economia meridionale nella integrazione europea, in «Nadir», II, agosto 1992, nn. 7-8, p. 6. 206 – Historismus e mondo moderno: Dilthey e Troeltsch, in T. Albertini, Lang Verlag (hrsg.), Verum et Factum. Bei- 45 träge zur Geistesgeschichte und Philosophie der Renaissance zum 60, München, Geburtstag von Stephan Otto, 1993, pp. 247-272. 207 – Karl Lamprecht und die “Kulturgeschichte” im Rahmen des Nachdenkens über die überlieferten Paradigmen der Theorie der Geschichte, in Gerald Diesener (hrsg.), Karl Lamprecht weiterdenken. Universal und Kulturgeschichte heute, Leipzig, Leipziger Universitätsverlag 1993, pp. 335-351. 208 – Il concetto di vita in Croce, in M. Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 145-180. 209 – Terra. Il Punto di vista filosofico, in «Fridericiana», I, 1992-1993, n. 4, pp. 201-215. 210 – Karl Lamprecht an den Ursprüngen der Sozialgeschichte, in «Geschichte und Gegenwart», XII, 1993, n. 3, pp. 131-140. 211 – Pensare l’Europa nell’epoca dell’universalismo dei diritti umani, in «Prospettive Settanta», n.s., XV, I, 1993, pp. 712-724. 212 – Der Begriff der “Empirie” von Droysen zu Dilthey, in «Dilthey-Jahrbuch für Philosophie und Geschichte der Geisteswissenschaften», Band 8, 1992-1993, pp. 265-288. 213 – Wilhelm von Humboldt, Dilthey e la tradizione del “Historismus”, in A. Carrano (a cura di), W. von Humboldt e il dissolvimento della filosofia nei “saperi Positivi”, Napoli, Morano, 1993, pp. 337-387. 214 – Per una rivalutazione storica di Nicola Fiore, in G. Scarsi, M. Autuori (a cura di), Nicola Fiore un sindacalista rivoluzionario?, Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1993, pp. 13-19. 215 – Su alcuni modelli teorici e metodologici nella scienza storica del Novecento, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», n.s., 1993, n. 150, pp. 19-30. 216 – Etica tempo soggetto. Una ricerca in comune sull’etica contemporanea, in «Criterio», XI, 1993, n. 2-3, pp. 75-81. 46 217 – Storia etico-politica e storia della cultura in Benedetto Croce, in Aa.Vv., Croce quarant’anni dopo, (Istituto Nazionale di Studi Crociani - Pescara/Sulmona), Pescara, Ediars, 1993, pp. 221-238. 218 – Conflitto prassi totalizzazione. Il tema della storia, in G. Invitto, A. Montano (a cura di), Gli scritti postumi di Sartre, Genova, Marietti, 1993, pp. 209-226. F) 219 – Introduzione (in collab. con G. Cantillo) a Aa.Vv., Vico in Italia e in Germania. Letture e prospettive (Atti del Convegno Internazionale. Napoli, 1-3 marzo 1990), Napoli, Bibliopolis, 1993, pp. 5-6. G) 220 – Emozioni e reazioni, in «Il Giornale di Napoli», 13 febbraio 1993. 221 – Libertà e sapere, in «Il Giornale di Napoli», 2 marzo 1993. 222 – Una politica diversa invecchiata presto, in «Roma», 2 aprile 1993. 223 – Ma dov’è la Patria?, in «Il Giornale di Napoli», 8 aprile 1993. 224 – La libertà possibile, in «Il Giornale di Napoli», 15 maggio 1993. 225 – Ma la teoria non è eterna, in «Il Giornale di Napoli», 6 ottobre 1993. 226 – Emozioni della cultura, in «Il Giornale di Napoli», 29 dicembre 1993. * * * 47 1994 A) 227 – La lancia di Odino. Teorie e metodi della scienza storica tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini, 1994. B) 228 – Storia etico-politica e storia della cultura in Benedetto Croce, in «Rassegna di Studi Crociani», IV, 1993-1994, n. 6-7, pp. 23-30 [pubblicato anche in «Oggi e Domani», XXI, 1994, n. 1, pp. 23-30]. 229 – Scienza dell’uomo e condotta di vita. Alle origini dell’etica moderna: l’analisi di Dilthey, in «Paradigmi», XII, n. 34, 1994, pp. 23-38. 230 – 1744-1994, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 7-9. 231 – Ortega e Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 236-246. 232 – Observaciones al margen a la investigación viquiana en la España contemporánea, in «Cuadernos sobre Vico», 1994, n. 4, pp. 75-81. 233 – L’etica fra storicismo e fenomenologia, in G. Cantillo, R. Viti Cavaliere (a cura di), La tradizione critica della filosofia. Studi in memoria di Raffaello Franchini, Napoli, Loffredo, 1994, pp. 501-517. 234 – Il problema della religione in Dilthey, in G. Gembillo (a cura di), Storicismo come tradizione. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, Messina, Perna, 1994, pp. 41-91. 235 – Profilo di Michelangelo Schipa, in P. Macry, A. Massafra (a cura di), Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 187-203. 48 C) 236 – Recensione di S. Otto, Giambattista Vico. Lineamenti della sua filosofia, Napoli, Alfredo Guida Editori, 1992, in «Bolletino del Centro di studi vichiani», XXIVXXV, 1994-1995, pp. 269-275. 237 – Recensione di «Cuadernos sobre Vico» II (1992), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994-1995, pp. 320-324. D) 238 – Scheda di U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 1994, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXIV-XXV, 1994- 1995, pp. 376-377. G) 239 – Motivo immortale (a proposito dello Spinoza di Rensi), in «Il Giornale di Napoli», 13 marzo 1994. 240 – Incontri della mente, in «Il Giornale di Napoli», 1 aprile 1994. 241 – La città capitale della Scienza nuova, in «Il Mattino», 9 ottobre 1994. 242 – Napoli e il “futuro” di Vico, in «l’Unità», 17 ottobre 1994. 243 – Spengler e Troeltsch, tramonto a due voci, in «Il Mattino», 5 dicembre 1994. 244 – I contrasti di una città che cresce, in «La Voce» (ed. Campania), 31 dicembre 1994. * * * 49 1995 A) 245 – Democrazia e informazione, Acerra, Metis, 1995, pp. 15. 246 – G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Una filosofia dell’uomo, atti del convegno in memoria di N. Abbagnano, Salerno, Edizioni Comune di Salerno, 1995. 247 – G. Cacciatore, C. Senofonte, A. Costabile (a cura di), Francesco De Sarlo, Potenza, Edizioni Ermes, 1995. B) 248 – Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in J. Trabant (hrsg.), Vico und die Zeichen. Vico e i segni, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1995, pp. 257-269. 249 – L’edizione critica delle opere di Giambattista Vico, in «Lettera dall’Italia», X, 1995, n. 37, pp. 48-49. 250 – Filosofia e Weltanschauung in Bernhard Groethuysen, in «Archivio di storia della cultura», VIII, 1995, pp. 111-123. 251 – Vita e storia. Biografia e autobiografia in Wilhelm Dilthey e Georg Misch, in I. Gallo, L. Nicastri (a cura di), Biografia e autobiografia degli antichi e dei moderni, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 243-296. 252 – Die kritische ausgabe der Werke Giambattista Vicos und die Aufgaben des Vico-Forschungszentrums in Neapel, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 1995, n. 5, pp. 885-887. 253 – “Scienze dello spirito” e conoscenza storica. Croce, Dilthey, Rickert, in M. Losito (a cura di), Croce e la sociologia, Napoli, Morano, 1995, pp. 35-57. 254 – La qualità della vita: il punto di vista filosofico, in Aa.Vv., Prospettive della “Total Quality”, Napoli, Editoriale Scientifica, 1995, pp. 23-33. 50 255 – Dilthey: Die Typologie der Weltanschauungen zwischen historischer Vernunftkritik und Wesen der Philosophie, in K.-E. Lönne (hrsg.), Kulturwandel im Spiegel des Sprachwandels, Tübingen und Basel, Francke Verlag, 1995, pp. 137-151. 256 – “Politicka” dimenzija talijanskog kriticko-problematskog historicizma, in «Filozofska Istrazivanja», 15, 1995, n. 4, pp. 875-885. 257 – Da Le sorgenti irrazionali del pensiero all’esistenzialismo positivo (in collab. con G. Cantillo), in G. Cacciatore, G. Cantillo (a cura di), Una filosofia dell’uomo, atti del convegno in memoria di N. Abbagnano, Salerno, Edizioni Comune di Salerno, 1995, pp. 23-37. 258 – Tra illuminismo e massoneria, in «Criterio», XIII, 1995, n. 1-2, pp. 107-112. 259 – Psicologia e filosofia in Francesco De Sarlo, in G. Cacciatore, C. Senofonte, A. Costabile (a cura di), Francesco De Sarlo, Potenza, Edizioni Ermes, 1995, pp. 13-30. 260 – Halle-Napoli: un incontro tra grandi tradizioni storico-culturali, in «Notiziario», Università degli studi di Napoli Federico II, I, 1995, n. 6, pp. 35-38. 261 – I rapporti tra l’Università di Napoli Federico II e la Freie Universität di Berlino (siglato G.C.), in «Notiziario», Università degli studi di Napoli Federico II, I, 1995, n. 6, pp. 41-42. 262 – Per un nuovo meridionalismo, in «Mezzogiorno Italia», III, 1995, n. 1, pp. 3-4. 263 – Arte, scienza, cultura, storia: risorse per lo sviluppo e il lavoro, in «Mezzogiorno Italia», III, 1995, n. 3, pp. 4-5. 264 – L’Italia dimenticata, in «Mezzogiorno Italia», III, 1995, n. 4, pp. 6-8. F) 265 – Prefazione a E. Iarrusso, Quale sindaco per la seconda repubblica, Benevento, Kat edizioni, 1995, pp. 13-18. 51 266 – Avvertenza (in collab. con G. Cantillo) a Una filosofia dell’uomo, atti del convegno in memoria di N. Abbagnano, Salerno, Edizioni Comune di Salerno, 1995, pp. 11-13. G) 267 – Islam. Schegge di storicismo nell’indagine di Tessitore, in “Il Mattino”, 21 marzo 1995. 268 – All’“Internazionale” il magico mondo dell’Islam, in «Il Mezzogiorno», 26 maggio 1995. 269 – Povero Socialismo, in «Cronache del Mezzogiorno», 8 agosto 1995. * * * 1996 B) 270 – Cassirer interprete di Kant, in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche» di Napoli, vol. CVI, 1996, pp. 5-40. 271 – Labriola: da un secolo all’altro, in L. Punzo (a cura di), Antonio Labriola filosofo e politico, Milano, Guerini, 1996, pp. 209-228. 272 – Meridione/Modernità/Tradizione, in A. Iovino (a cura di), Meridiani. Segmenti eterogenei di arte nuova. Rassegna internazionale di arte contemporanea, Salerno, Kreis, 1996, pp. 45-51. 273 – Die Tradition des kritisch-problematischen Historismus im Rahmen der italienischen philosophischen Kultur der zweiten Hälfte des 20. Jahrhunderts, in O.G. Oexle, J. Rüsen (hrsg.), Historismus in den Kulturwissenschaften, Köln-Weimar-Wien, Böhlau, 1996, pp. 331-339. 52 274 – Labriola: da un secolo all’altro, in «Archivio di storia della cultura», IX, 1996, pp. 217-231. 275 – Gildo Ciafone: dirigente e militante della sinistra socialista, in Aa.Vv., Gildo Ciafone. Scritti e testimonianze, Salerno, Arti Grafiche Boccia, 1996, pp. 175-181. 276 – Temporalità e storicità nello Historismus di Wilhelm Dilthey, in P. Venditti (a cura di) Filosofia e storia. Studi in onore di P. Salvucci, Urbino, Quattroventi, 1996, pp. 429-441. 277 – Kant, Dilthey e il problema della religione, in N. Pirillo (a cura di), Kant e la filosofia della religione, 2 voll., Brescia, Morcelliana, 1996, vol. II, pp. 563-571. F) 278 – Presentazione di A. Montano, Storia e convenzione. Vico contra Hobbes, Napoli, La città del sole, 1996, pp. 9-16. 279 – Introduzione [in collab. con G. Cantillo] a E. Troeltsch, Spengler e la cultura di Weimar, numero monografico di «Diritto e Cultura», VI, 1996, n. 1, pp. 5-13. G) 280 – Quando Croce incontrò Hegel. Alle origini della dialettica, in «Il Giornale di Napoli», 30 gennaio 1996. 281 – Le ceneri di Gramsci, in «Il Giornale di Napoli», 25 febbraio 1996. 282 – Solo l’etica potrà salvarci, in «Il Mattino», 29 marzo 1996. 283 – Il Punto. Speciale elezioni, in «La Città», Quotidiano di Napoli, 23 aprile 1996. 284 – L’errore delle candidature, in «La Città», Quotidiano di Salerno, 23 aprile 1996. 285 – «Lo Sciacallo». Al telefono con uno sconosciuto, in «La Città», 24 maggio 1996. 286 – Renzo De Felice. La fatica dietro ogni pagina, in «La Città», 26 maggio 1996. 53 287 – Nicolini o della poliedricità, in «La Città», 10 ottobre 1996 288 – Amendola contro la babele dei liberalismi, in «La Città», 13 ottobre 1996. 289 – Vico e i codici della ragione, in «La Città», 30 ottobre 1996. 290 – A rischio l’equilibrio tra i poteri, in «La Città», 2 novembre 1996. 291 – La sinistra illiberale vinta dalla Coca Cola, in «La Città», 3 novembre 1996. 292 – Il mercato e la “ragionevolezza” della fame, in «La Città», 10 novembre 1996. 293 – La democrazia dei decimali, in «La Città», 17 novembre 1996. 294 – La solida incertezza della ragione contro le “prigioni” della memoria, in «La Città», 21 novembre 1996. 295 – Le gabbie etiche dello sviluppo, in «La Città», 24 novembre 1996. 296 – Smitizziamo la memoria storica, in «La Città», 1 dicembre 1996. 297 – Come è miope il tatticismo dell’Ulivo, in «La Città», 4 dicembre 1996. 298 – Un caso di colpa oggettiva, in «La Città», 8 dicembre 1996. 299 – Bassolino e un’esperienza da esportare, in «La Città», 8 dicembre 1996. 300 – La speranza “sopportabile”, in «La Città», 15 dicembre 1996. 301 – Chi paga il conto dello sviluppo, in «La Città», 22 dicembre 1996. 302 – Enrico e la buona ideologia, in «La Città», 29 dicembre 1996. 303 – Il pianto e le scelte di sviluppo, in «La Città», 31 dicembre 1996. 54 * * * 1997 A) 304 – G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati, 1997. 305 – G. Cacciatore, A. Stile (a cura di), L’edizione critica di Vico: bilanci e prospettive, Napoli, Guida, 1997. 306 – G. Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla (a cura di), Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, 3 voll., Napoli, Morano, 1997. B) 307 – Die “politische” Dimension des problematischenkritischen Historismus in Italien, in G. Scholtz (hrsg.), Historismus am Ende des 20. Jahrhunderts. Eine internationale Diskussion, Berlin, Akademie Verlag, 1997, pp. 84-101. 308 – Storia e tempo storico in Marx, in G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati, 1997, pp. 246-259. 309 – Lo storicismo critico-problematico e la tradizione della “filosofia civile” italiana, in G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa, Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati, 1997, pp. 582-597. 310 – La concezione del tempo storico nello Historismus (in collab. con G. Cantillo), in G. Casertano (a cura di), Il concetto di tempo, Atti del XXXII congresso della SFI, Napoli, Loffredo, 1997, pp. 91-104. 311 – Profilo di Michelangelo Schipa, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CXIII, 1995, pp. 527-556 [edito nel 1997]. 55 312 – Il marxismo come Weltanschauung: tra ideologia e storicità critica, in F. Tadeo (a cura di), Ragione e storia. Studi in memoria di Giuseppe Semerari, Fasano, Schena editore, 1997, pp. 43-65. 313 – Il positivismo e la storia, in L. Malusa (a cura di), I filosofi e la genesi della coscienza culturale della “nuova Italia” (1799-1900), Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 1997, pp. 275-286. 314 – Ricordo di Giorgio Tagliacozzo, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 9-10. 315 – Vico e la filosofia pratica, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp.77-84. 316 – Vico antimoderno? (in collab. con S. Caianiello), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 205-218. 317 – Alcuni “storicisti” tra “devoti” e “iconoclasti” vichiani (in collab. con F. Tessitore), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 219-225. 318 – La storia della Chiesa tra persuasione e coercizione, in «Nuova Antologia», luglio-settembre 1997, n. 2203, pp. 236-243. 319 – Europa Denken im Zeitalter des Universalismus der Menschenrechte, in U. Baumann, R. Klesczewskj (hrsg.), Penser l’Europe/Europa denken, Tübingen und Basel, Francke Verlag, 1997, pp. 91-97. 320 – Ethik und geschichtsphilosophie im Kritischen Historismus, fascicolo di «Bremer Philosophica», Universität Bremen, 1997, pp. 21. C) 321 – Recensione di U. Galeazzi, Ermeneutica e storia in Vico. Morale, diritto e società nella “Scienza Nuova”, L’Aquila-Roma, Japadre, 1993, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 254-257. 56 322 – Recensione di P. Cristofolini, Scienza Nuova. Introduzione alla lettura, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1995; P. Cristofolini, Vico et l’histoire, Paris, P.U.F., 1995, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIXXVII, 1996-1997, pp. 269-273. 323 – Recensione di C. Castellani, Dalla cronologia alla metafisica della mente. Saggio su Vico, Bologna, Il Mulino, 1995, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIXXVII, 1996-1997, pp. 276-280. 324 – Recensione di «Cuadernos sobre Vico», nn. III (1993) e IV (1994), in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVI-XXVII, 1996-1997, pp. 304-310. F) 325 – Introduzione a G. Cacciatore, A. Stile (a cura di), L’edizione critica di Vico: bilanci e prospettive, Napoli, Guida, 1997, pp. 9-17. 326 – Introduzione (in collab. con G. Cantillo e G. Lissa) a G. Cacciatore, G. Cantillo, G. Lissa (a cura di), Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, Milano, Guerini e Associati, 1997, pp. 11-14. 327 – Presentazione di F. Cacciatore, Floriano Del Zio. Patriota, filosofo, deputato e senatore del Regno, Melfi, Mediacom, 1997, pp. 3-6. 328 – Premessa (in collab. con M. Martirano ed E. Massimilla) a G. Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla (a cura di), Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, 3 voll., Napoli, Morano, 1997, pp. 11-13. G) 329 – Tanti auguri a Bossi da Jerome Cristian, in «La Città», 5 gennaio 1997. 330 – Luzi: poeta, storico e filosofo, in «La Città», 12 gennaio 1997. 57 331 – Scuola senza falsi egualitarismi, in «La Città», 19 gennaio 1997. 332 – Filosofi tra la vita e la morte, in «La Città», 26 gennaio 1997. 333 – Perdono, condanna e vacui moralisti, in «La Città», 2 febbraio 1997. 334 – La calma inquieta del sapere. La vita e la storia: Giuseppe Cantillo interprete di Hegel, in «La Città», 4 febbraio 1997. 335 – Confronto tra pochi intimi. Cultura assente, in «La Città», 9 febbraio 1997. 336 – Il doppiofondo del secolo breve, in «La Città», 16 febbraio 1997. 337 – Politici smemorati dal “core ‘ngrato”, in «La Città», 23 febbraio 1997. 338 – Dall’intellettuale organico al “filosofo democratico”, in «La Città», 26 febbraio 1997. 339 – Wojtyla imbavaglia la cultura, in «La Città», 1 marzo 1997. 340 – L’embrione e l’etica condivisibile, in «La Città», 2 marzo 1997. 341 – Salerno e l’etica contemporanea, in «Cronache del Mezzogiorno», 4 marzo 1997. 342 – La traccia storica della città borghese, in «La Città», 6 marzo 1997. 343 – Chiedi al “chierico” lealtà civile, in «La Città», 9 marzo 1997. 344 – Nel nome del Papa-re, in «La Città», 12 marzo 1997. 345 – Va’ dove ti porta il senso comune, in «La Città», 16 marzo 1997. 346 – Incenso di regime sul dialogo ecumenico, in «La Città», 23 marzo 1997. 347 – De Luca liberale? Macché..., in «La Città», 28 marzo 1997. 348 – Quell’Europa senza volto che batte moneta, in «La Città», 30 marzo 1997. 58 349 – Quelle domande cruciali sui principi dell’agire, in «La Città», 1 aprile 1997. 350 – La prospettiva dell’utopia. Gramsci tra etica e politica, in «La Città», 15 aprile 1997. 351 – Il conte Yorck nella Salerno senza memoria, in «La Città», 20 aprile 1997. 352 – Senza retorica né rimozioni. Una mostra sull’antifascismo nel segno di Giovanni Amendola, in «La Città», 23 aprile 1997. 353 – Ma l’abito “dalemiano” non si addice a Gramsci, in «La Città», 27 aprile 1997. 354 – Mediterraneo, rotta della tolleranza, in «La Città», 1 maggio 1997. 355 – Un fiume carsico bagna la politica, in «La Città», 7 giugno 1997. 356 – Liberalizzare contro il marcio (a proposito di aborti clandestini), in «La Città», 22 giugno 1997. 357 – Se la ricchezza non fa la felicità, in «La Città», 25 giugno 1997. 358 – Ricordando Giacumbi, in «La Città», 2 luglio 1997. 359 – De Luca ha fatto bene ad aprire il palazzo, in «La Città», 3 luglio 1997. 360 – L’eroe il prete e poi?, in «La Città», 9 luglio 1997. 361 – Vico? Meglio una suite di lusso, in «La Città», 13 luglio 1997. 362 – Le contraddizioni di un “liberatore”, in «La Città», 24 luglio 1997. 363 – Non c’è più rispetto per il popolo tifoso, in «La Città», 12 agosto 1997. 364 – Stupidità formato europeo, in «La Città», 14 agosto 1997. 365 – I camerati e il boia Hess, in «La Città», 17 agosto 1997. 366 – Solo silenzi e improvvisazione, in «La Città», 19 agosto 1997. 367 – Wojtyla un grande pontefice, in «La Città», 22 agosto 1997. 59 368 – Napoli, l’hegelismo e la filosofia civile, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 agosto, 1997. 369 – Intellettuali, liberatevi della società spettacolo, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 settembre 1997. 370 – Berlino la “rossa”, in «La Città», 27 settembre 1997. 371 – La Berlino delle piazze, in «La Città», 28 settembre 1997. 372 – Filosofi a confronto nel nome di Valitutti, in «La Città», 1 ottobre 1997. 373 – La “Cosa 2” non sia il comitato di De Luca, in «La Città», 5 ottobre 1997. 374 – Berlino, oltre il muro, in «La Città», 5 ottobre 1997. 375 – Berlino, storia senza “lezioni”, in «La Città», 12 ottobre 1997. 376 – La civiltà delle “illusioni”, in «La Città», 15 ottobre 1997 377 – Staatsbibliothek, miracolo tedesco, in «La Città», 18 ottobre 1997. 378 – Immagini della Germania. Arte da un paese diviso, in «La Città», 26 ottobre 1997. 379 – Bohème e dittatura DDR. Ribelli nel segno dell’arte, in «La Città», 2 novembre 1997. 380 – I politici? Ultimi in classifica, in «La Città», 5 novembre 1997. 381 – La filosofia del lavoro e le riflessioni di Vico, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 novembre 1997. 382 – Amarcord Brandeburgo. Pennellate sulla memoria, in «La Città», 9 novembre 1997. 383 – Fantasmi comunisti nella “metafisica” Halle, in «La Città», 16 novembre 1997. 384 – Con la collaborazione di tutti si può stroncare il fenomeno, in «La Città», 16 novembre 1997. 385 – Bravo, ma dopo di lui?, in «Corriere del Mezzogiorno», 19 novembre 1997. 386 – Che saggio quel clown! Fo, profeta fuori patria, in «La Città», 23 novembre 1997. 60 387 – Mezzogiorno e politica. La lezione di Machiavelli, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 novembre 1997. 388 – Lipsia, gli ultimi venti e la rivoluzione, in «La Città», 29 novembre 1997. 389 – Salerno raccontata via etere, in «La Città», 7 dicembre 1997. 390 – Così lontani così vicini. Miopi verso l’Europa, in «La Città», 14 dicembre 1997. 391 – Il nipote di Heidegger, in «La Città», 21 dicembre 1997. 392 – Le ragioni del compromesso, in «La Città», 24 dicembre 1997. 393 – Dresda, l’arte è servita, in «La Città», 28 dicembre 1997. 394 – Siamo più poveri. Gravi le colpe, in «La Città», 30 dicembre 1997. 395 – Lettere di viaggiatori tedeschi da Salerno e dintorni, in «La Provincia di Salerno», n. 2, dicembre 1997, pp. 15-18. * * * 1998 A) 396 – La quercia di Goethe. Note di viaggio dalla Germania, introduzione di P. Chiarini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998. B) 397 – Voce Storicismo, in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione, Torino, Utet, 1998, pp. 1051-1053. 398 – Voce Storiografia, in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione, Torino, Utet, 1998, pp. 1056-1057. 61 399 – Die Tradition des problematisch-kritischen Historismus im Rahmen der italienischen philosophischen Kultur der zweiten Hälfte des 20 Jahrhunderts, in «Geschichte und Gegenwart», 17, 1998, n. 2, pp. 121-125. 400 – Bio-Bibliographie von Fulvio Tessitore, in F. Tessitore, Wilhelm von Humboldt und der Historismus, Nürnberg, Seubert Verlag, 1998, pp. 43-47. 401 – Dilthey e Cassirer interpreti del Rinascimento, in «Rinascimento», vol. XXXVII, 1997 [edito nel 1998], pp. 45-63. 402 – Gli studi su Vico fuori d’Italia nelle ricerche del “Centro di Studi vichiani”, in F. Fanizza, M. Signore (a cura di), Filosofia in dialogo. Scritti in onore di Antimo Negri, Roma, Pellicani Editore, 1998, pp. 111-135. 403 – Bloch su Feuerbach, in W. Jaeschke, F. Tomasoni (a cura di), Ludwig Feuerbach und die Geschichte der Philosophie, Berlin, Akademie Verlag, 1998, pp. 363-385. 404 – Düsseldorf: la partecipazione dell’Ateneo fridericiano alle giornate di cultura italiane, in «Notiziario», Università degli Studi di Napoli Federico II, III, 1998, nn. 18-19, pp. 47-51. 405 – Filosofia e storia a Napoli nel ’900, in «Notiziario», Università degli Studi di Napoli Federico II, III, 1998, nn. 18-19, pp. 51-68. 406 – Ethik und Geschichtsphilosophie im kritischen Historismus, in D. Losurdo (hrsg.), Geschichtsphilosophie und Ethik, Frankfurt a. M., Peter Lang Verlag, 1998, pp. 57-86. 407 – La hermenéutica de Vico entre filosofía y filología, in «Intersticios. Filosofía, Arte, Religión», Universidad Intercontinental de México, 3, 1997-1998, n. 6, pp. 93-98. 408 – Hegel e la religione nell’interpretazione di Dilthey, in R. Bonito Oliva, G. Cantillo (a cura di), Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, Milano, Guerini e Associati, 1998, pp. 402-417. 409 – Antonio Genovesi economista e riformatore, in «Rassegna storica salernitana», XV, 1998, n. 30, pp. 103-116. 62 410 – Le fait e la fiction. Storicità e vita nel pensiero di Bernhard Groethuysen, in «Rivista di storia della filosofia», 1998, n. 2, pp. 267-287. 411 – Filosofia della pratica e filosofia pratica in Croce, in P. Bonetti (a cura di), Per conoscere Croce, Napoli, ESI, 1998, pp. 213-230. F) 412 – Nuovi itinerari per la storia della cultura, presentazione di A. Giugliano, La storia della cultura fra Gothein e Lamprecht, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, pp. 5-11. 413 – Un “intermezzo” vichiano sul concetto di cittadinanza, introduzione a G. Cordini, Studi giuridici in tema di cittadinanza, Napoli, Metis, 1998, pp. 5-10. 414 – Vita, coscienza storica e visioni del mondo, prefazione a W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo, Napoli, Guida, 1998, pp. I-IX. G) 415 – Senza tetto al di là del muro, in «La Città», 4 gennaio 1998. 416 – L’onda d’urto del revisionismo lato “inedito” della Resistenza, in «La Città», 6 gennaio 1998. 417 – Gli occhi dei bambini e la topografia del terrore, in «La Città», 11 gennaio 1998. 418 – Scongiuro granata in salsa partenopea, in «La Città», 17 gennaio 1998. 419 – La scuola napoletana rilegge Hegel, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 gennaio 1998. 420 – Una birra al tavolo della filosofia, in «La Città», 18 gennaio 1998. 421 – L’altra faccia di Spencer Tracy, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 1998. 63 422 – La quercia di Goethe sulle ceneri di Buchenwald, in «La Città», 25 Gennaio 1998. 423 – Così il modello americano ha stregato Amburgo e Brema, in «La Città», 1 febbraio 1998. 424 – Noi cittadini in ospedale, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 febbraio 1998. 425 – Millennium. Chimere e paure, in «La Città», 8 febbraio 1998. 426 – Vico e la cultura francese. Modernità di un rapporto, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 febbraio 1998. 427 – Vico, la storia nel castello, in «La Città», 15 febbraio 1998. 428 – Editoria, la fabbrica dei casi, in «La Città», 22 febbraio 1998. 429 – La filosofia e i “nipotini” di Kant, in «La Città», 1 marzo 1998. 430 – La Berlino di Brecht e di Mann, in «La Città», 10 marzo 1998. 431 – I grovigli positivistici. Errico De Marinis tra politica e sociologia, in «La Città», 15 marzo 1998. 432 – Bene il decisionismo. Ma la progettualità?, in «La Città», 18 marzo 1998. 433 – Berlino espressionista, in «La Città», 24 marzo 1998. 434 – Le tentazioni del leaderismo, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 marzo 1998. 435 – Il decalogo neo-liberale di De Luca, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 marzo 1998. 436 – Intellettuali dove siete finiti?, in «La Città», 1 aprile 1998. 437 – Gli artigli dell’editoria minore, in «La Città», 3 aprile 1998. 438 – È morto Menna, il patriarca della “grande Salerno”, in «Corriere del Mezzogiorno”, 11 aprile 1998. 439 – Il sol levante riscoperto. Altri studi di storia orientale, in «La Città», 12 aprile 1998. 440 – Razzismo off limits, in «La Città», 21 aprile 1998. 64 441 – L’aberrazione della sproporzione tra il reato e la condanna, in «La Città», 22 aprile 1998. 442 – Tributo “di piazza” per Valitutti, in «La Città», 24 aprile 1998. 443 – L’urlo impegnato della politica, in «La Città», 5 maggio 1998. 444 – Bruno dalle censure al futuro, in «La Città», 8 maggio 1998. 445 – Giordano Bruno sopravvalutato?, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 maggio 1998. 446 – La risorsa che ignoravamo, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 maggio 1998. 447 – La forza? A Partenope. La Napoli degli intellettuali liberi, in «La Città», 23 maggio 1998. 448 – Il Novecento a Napoli. Modernità e arcaismo, in «Il Corriere del Mezzogiorno», 26 maggio 1998. 449 – Nella città senza memoria, in «La Città», 10 giugno 1998. 450 – Cassandra abitava a Sarno, in «La Città», 13 giugno 1998. 451 – La linea di ‘frontiera’ della scienza politica, in «La Città», 23 giugno 1998. 452 – Centocinquanta saggi per festeggiare Tessitore, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 giugno 1998. 453 – Le ali blu e gli squarci rossi della storia, in «La Città», 30 luglio 1998. 454 – Sarno protesta. La politica frana, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 agosto 1998. 455 – Il contenitore amorfo dell’estate, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 agosto 1998. 456 – La politica dei re nudi, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 agosto 1998. 457 – Ma il Novecento non è solo scontro tra totalitarismi, in «Il Mattino», 1 settembre 1998. 458 – Il viaggio di Bodei nell’identità nazionale, in «La Città», 20 settembre 1998. 65 459 – Autodafé oltre il luogo comune, in «La Città», 1 ottobre 1998. 460 – Il barone assediato. Meridione e latifondo nell’era dei Borbone, in «La Città», 11 ottobre 1998. 461 – Un’etica per la bioetica, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 ottobre 1998. 462 – Il PCI secondo Galasso. Viaggio fino alla Quercia, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 ottobre 1998. 463 – Quel “Manifesto” vecchio di 150 anni è ancora vivo nel dibattito attuale, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 dicembre 1998. 464 – 1799: ecco il boom degli ideali, in «La Città», 18 dicembre 1998. 465 – L’Occidente che non ama il dissenso, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 dicembre 1998. 466 – Condannati dai numeri al ruolo di fanalino di coda, in «La Città», 29 dicembre 1998. * * * 1999 A) 467 – Metafisica. Appunti dalle lezioni a.a. 1998-1999, Napoli, E.DI.SU., 1999. 468 – Giordano Bruno, Napoli, Metis, 1999. 469 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida, 1999. B) 470 – Etica esistenziale e filosofia pratica in Nicola Abbagnano, in M. Delpino, P. Riceputi (a cura di), Nicola Abba- 66 gnano. L’uomo e il filosofo, S. Margherita Ligure, Edizioni Tigullio, 1999, pp. 18-48. 471 – La dimensione civile, in M. Delpino, P. Riceputi (a cura di), Nicola Abbagnano. L’uomo e il filosofo, S. Margherita Ligure, Edizioni Tigullio, 1999, pp. 15-17. 472 – Il Positivismo e la storia, in A. Coco (a cura di), Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Catania-Roma, Edizioni del Prisma, 1999, pp. 115-130. 473 – Bloch, il male, l’utopia, in P. Amodio, R. De Maio, G. Lissa (a cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Napoli, Vivarium, 1999, pp. 337-359. 474 – Bloch, das Böse und die Utopie, in «Dialektik», 1999, n. 2, pp. 131-150. 475 – Giambattista Vico: l’ordine della “comunità” e il senso comune della “differenza”, in F. Ratto (a cura di), All’ombra di Vico. Testimonianze e saggi vichiani in ricordo di Giorgio Tagliacozzo, Ripatransone, Edizioni Sestante, s.i.d., pp. 191-199. 476 – Etica filosofica ed etica politica in Giovanni Amendola, in M.R. De Divitiis (a cura di), Giovanni Amendola. Una vita per la democrazia, Napoli, Arte Tipografica, 1999, pp. 237-250. 477 – Osservazioni in margine alla ricerca vichiana nella Spagna contemporanea, in A. Quarta, P. Pellegrino (a cura di), Humanitas. Studi in memoria di Antonio Verri, 2 voll., Galatina, Congedo Editore, 1999, vol. I, pp. 63-70. 478 – Storia, memoria e vita nella Napoli di Fulvio Tessitore, in «Ora Locale», III, n. 2, 1999, p. 3. 479 – Nuove soggettività per il Mezzogiorno europeo, in «Ora Locale», III, 1999, n. 2, p. 13. 480 – Il Novecento non è solo scontro tra totalitarismi, in E. Nolte, Le ragioni della storia, a cura di C. Marco, Cosenza, Marco Editore, 1999, pp. 124-126. 481 – Intellettuale a tutto campo, in E. Todaro (a cura di), Una vita per l’arte. Gli ottant’anni di Carmine Manzi, Salerno, Boccia Edizioni, 1999, pp. 32-36. 482 – Note sull’attualità del pensiero etico di Giuseppe 67 Capograssi, in «Bollettino Filosofico», (Filosofia e storia delle idee. Studi in onore di Francesco Crispini), 1999, n. 15, pp. 53-64. 483 – Hegel e la religione nell’interpretazione di Wilhelm Dilthey, in G. Luongo (a cura di), Munera Parva. Studi in onore di Boris Ulianich, 2 voll., Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 1999, vol. II, pp. 435-451. 484 – Gramsci: problemi di etica nei Quaderni, in G. Vacca (a cura di), Gramsci e il Novecento, 2 voll., Roma, Carocci Editore, 1999, vol. II, pp. 123-139. 485 – Voce Erlebnis, in H.G. Sandkühler (a cura di), Enzyklopädie Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol. I, pp. 356-358. 486 – Voce Historismus, in H.G. Sandkühler (hrsg.), Enzyklopädie Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol. I, pp. 551-556. 487 – Voce Geschichtsphilosophie, in H.G. Sandkühler (hrsg.), Enzyklopädie Philosophie, Hamburg, Meiner Verlag, vol. II, pp. 1073-1081; 1087-1090. 488 – Il Premio Salvatore Valitutti, in «L’Agenda», n.s., III, novembre 1999, n. 30, pp. 10-11. 489 – Gli studi su Vico fuori d’Italia nelle ricerche del “Centro di Studi Vichiani”, in M. Agrimi (a cura di), Giambattista Vico nel suo tempo e nel nostro, Napoli, CUEN, 1999, pp. 549-577. 490 – Il pensiero e l’opera di Salvatore Valitutti, in «Rassegna storica salernitana», XVI, 1999, n. 32, pp. 255-264. 491 – Dilthey und Cassirer über die Renaissance, in E. Rudolph (hrsg.), Cassirers Weg zur Philosophie der Politik, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 1999, pp. 113-131. 492 – In ricordo di Fausto Nicolini, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 221-226. 493 – Intervento al Seminario di presentazione dell’edizione critica di Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 254-257. 494 – L’edizione degli scritti postumi di Cassirer, in «Archivio di storia della cultura», XII, 1999, pp. 167-170. 68 495 – Omaggio a Giuseppe Giarrizzo, in «Archivio di storia della cultura», XII, 1999, pp. 203-209. 496 – Filosofia “civile” e filosofia “pratica” in Vico, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida, 1999, pp. 25-44. C) 497 – Recensione di L. Amoroso, Nastri vichiani, Pisa, ETS, 1997, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 280-283. 498 – Recensione di «Cuadernos sobre Vico», V-VI, 1995-1996; VII-VIII, 1997, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 343-353. D) 499 – Scheda di S. Martelli, La floridezza di un reame. Circolazione e persistenza della cultura illuministica meridionale, Salerno, Pietro La Veglia editore, 1996, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998- 1999, pp. 398-401. 500 – Scheda di G. Paganini, Vico et Gassendi: de la prudence à la politique, «Nouvelles de la republique des lettres», 1995, II, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 409-410. 501 – Scheda di J.M. Sevilla Fernández, Ciencia Nueva, «Ajoblanco», LXXVII, 1995, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, p. 418. 502 – Scheda di J.M. Sevilla Fernández, El enigma de un clásico, «Lateral. Revista del Cultura», 1996, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXVIII-XIX, 1998-1999, pp. 418-419. 69 F) 503 – Andrea Torre, filosofo ed educatore, introduzione a A. Torre, Saggi filosofici e pedagogici, Casalvelino Scalo, Galzerano Editore, 1999, pp. 9-70. 504 – Introduzione a P. Villari, Teoria e filosofia della storia, a cura di M. Martirano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 7-23. 505 – Presentazione (in collab. con R. Cangiano) di La Provincia di Salerno per Salvatore Valitutti, Salerno, Provincia di Salerno, 1999, pp. 4-6. 506 – Introduzione (in collab. con V. Gessa Kurotschka) a G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, H. Poser, M. Sanna (a cura di), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell’età di Wolff e Vico, Napoli, Guida, 1999, pp. V-XVII. G) 507 – Episodio criminale, in «La Città», 14 gennaio 1999. 508 – Il “controcanto” salernitano, in «Cronache del Mezzogiorno», 14 gennaio 1999. 509 – A lezione di diritti umani, in «La Città», 23 gennaio 1999. 510 – Il Referendum non ci salverà, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 febbraio 1999. 511 – Camorrista. Un insulto senza limiti, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 febbraio 1999. 512 – Un impegno collettivo, in «La Città», 28 febbraio 1999. 513 – “Napoli capitale” secondo Galasso, una lezione sulla contemporaneità della storia, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 marzo 1999. 514 – La rivoluzione attiva del Sud, in «La Città», 28 marzo 1999. 515 – Quegli oscuri conflitti della fede, in «La Città», 10 aprile 1999. 70 516 – “La mia Napoli”, autobiografia intellettuale tra ricordi e pensieri, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 1999. 517 – Salernitani per la Liberazione, in «La Città», 23 aprile 1999. 518 – Troppe analisi “nordiste”, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 aprile 1999. 519 – Colpevole tolleranza, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 maggio 1999. 520 – L’impolitico della democrazia, in «La Città», 1 giugno 1999. 521 – La plebe inesistente di Salerno, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 giugno 1999. 522 – Salerno saluta Kristeller, in «La Città», 12 giugno 1999. 523 – Incontri ravvicinati con cultura, letteratura e politica del Sud America, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 giugno 1999. 524 – Cari esangui cultori nichilisti, lo storicismo napoletano è vivo e invidiato, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 luglio 1999. 525 – Quel popolo in bilico tra ragione e sentimento, in «La Città», 3 agosto 1999. 526 – Lo storicismo messo alla gogna, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 agosto 1999. 527 – Dopo l’urbanistica un sintomo di svolta, in «La Città», 7 novembre 1999. 528 – Non siamo un’isola felice, in «La Città», 21 novembre 1999. 529 – Tattiche e passioni del burocrate illuminato, in «La Città», 24 novembre 1999. 530 – Salerno e il destino dei numeri, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 dicembre 1999. 531 – Una terza via tra ottimismo e pessimismo, in «La Città», 27 dicembre 1999. * * * 71 2000 A) 532 – L’etica dello storicismo, Lecce, Milella edizione, 2000. 533 – G. Cacciatore, I. Gallo, A. Placanica (a cura di), Opera (Storia di Salerno), Pratola Serra, Sellino Editore, 2000. 534 – M. Beetz, G. Cacciatore (hrsg.), Hermeneutik im Zeitalter der Aufklärung, Köln Weimar Wien, Böhlau Verlag, 2000. B) 535 – Le fait et la fiction. Historicité et vie dans la pensée de Bernhard Groethuysen, in «L’art du comprendre», janvier 2000, n. 9, pp. 14-32. 536 – Esiste una filosofia italiana?, in «Palomar», marzoaprile 2000, n. 1, pp. 80-86. 537 – Die Hermeneutik Vicos zwischen Philosophie und Philologie, in M. Beetz, G. Cacciatore (hrsg.), Hermeneutik im Zeitalter der Aufklärung, Köln Weimar Wien, Böhlau Verlag, 2000, pp. 311-330. 538 – America latina e pensiero europeo nella “filosofia del viaggio” di Ernesto Grassi, in «Cultura latinoamericana», annali 1999-2000, nn. 1-2, pp. 367-381. 539 – Marxismo e storia nel carteggio Labriola-Croce, in G. Giordano (a cura di), Gli epistolari dei filosofi italiani (1850- 1950), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 89-112. 540 – Etica e filosofia della storia nello storicismo critico, in G. Cantillo, F.C. Papparo (a cura di), Genealogia dell’umano. Saggi in onore di Aldo Masullo, Napoli, Guida Editori, 2000, t. II, pp. 473-499. 541 – Individualità ed etica: Vico e Dilthey, in A. Ferrara, V. Gessa Kurotschka, S. Maffettone (a cura di), Etica individuale e giustizia, Napoli, Liguori, 2000, pp. 241-267. 542 – Di una nuova traduzione e commento della Repub- 72 blica platonica, «Rivista di storia della filosofia», 2000, n. 2, pp. 229-234. 543 – Mediterraneo tra geopolitica e filosofia, in «L’Acropoli», I, 2000, n. 2, pp. 164-172. 544 – La sinistra tra omologazione culturale e frammentazione partitica, in «Ora Locale», IV, 2000, n. 1, pp. 3-4. 545 – Alfonso Menna. Un secolo di storia salernitana, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», gennaio 2000, n. 32, pp. 9-11. 546 – Salerno fra anni Ottanta e Novanta. Ascesa e crollo di un sistema di potere, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», aprile 2000, n. 35, pp. 22-24. 547 – Brigantaggio. Vecchi e nuovi itinerari interpretativi, in «Rassegna Storica Irpina», 1998 [stampato nel settembre 2000], nn. 15-16, pp. 221-226. 548 – Storie di vita e storie reali ne L’ombra della sera di Mario Postiglione, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., XVII/2, 2000, n. 34, pp. 271-275. 549 – Sull’opera di Ruggero Moscati, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., XVII/2, 2000, n. 34, pp. 281-286. 550 – Poesia e storia in Vico, in F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico / Vico nel mondo. In ricordo di Giorgio Tagliacozzo, Perugia, Guerra, 2000, pp. 143-156. 551 – Politica, nazione e Stato in Karl Lamprecht, in «Società e Storia», 2000, n. 88, pp. 309-322. 552 – Appunti per un dibattito su Fides et Ratio, in «Archivio di storia della cultura», XIII, 2000, pp. 193-201. C) 553 – Recensione di V. Vitiello, Vico e la topologia, Napoli, Cronopio, 2000, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXX, 2000, pp. 262-268. 554 – Recensione di «Cuadernos sobre Vico» IX-X, 1998, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXX, 2000, pp. 283-291. 73 F) 555 – All’ombra di Vico. Testimonianze e studi vichiani in ricordo di G. Tagliacozzo, presentazione di F. Ratto (a cura di), Il mondo di Vico / Vico nel mondo. In ricordo di Giorgio Tagliacozzo, Perugia, Guerra, 2000, pp. 447-449. 556 – Introduzione a G. Cacciatore, I. Gallo, A. Placanica (a cura di), Opera (Storia di Salerno), Pratola Serra (AV), Sellino Editore, 2000, pp. 13-17. 557 – Prefazione a G. Di Costanzo, Lo storicismo realistico di Otto Hintze, Bari, Palomar, 2000, pp. 5-10. 558 – Introduzione a M. Sanna, A. Stile (a cura di), Vico tra l’Italia e la Francia, Napoli, Guida, 2000, pp. 9-12. 559 – Prefazione a G. Magnano San Lio, Filosofia e storiografia. Fondamenti teorici e ricostruzione storica in Dilthey, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, pp. 7-10. G) 560 – De Luca, ammuffita è la politica, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 gennaio 2000. 561 – Referendum sul lavoro. È vero, il Far West già c’è, ma non si batte con un sì, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 gennaio 2000. 562 – Referendum e Mezzogiorno. Pagano i sindacati, in «Salerno 2000», I, 2 febbraio 2000, n. 3, p. 1. 563 – Una grande testa poggiata su un gracile corpo, in «Salerno 2000», I, 9 febbraio 2000, n. 4, p. 1. 564 – Bassolino e De Luca senza ricambio di classe dirigente, in «Salerno 2000», I, 1 marzo 2000, n. 7, p. 1. 565 – Maffettone, la filosofia del nuovo millennio punta sul “valore della vita”, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 marzo 2000. 566 – Ma Vyšinskij era un inquisitore senza controlli, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 21 marzo 2000. 567 – La sinistra e l’unità smarrita, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 aprile 2000. 74 568 – Le ragioni del cuore e quelle dei diessini (in collab. con A. Piscopo), in «La Città», 29 aprile 2000. 569 – Il patrimonio del cinema muto, in «La Città», 30 aprile 2000. 570 – Fatima, “bagliore” che brucia secoli di laicismo, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 maggio 2000. 571 – In ricordo di Achille Mango, in «Cronache del Mezzogiorno», 23 maggio 2000. 572 – Sfida di un giornale, in «La Città», 23 maggio 2000. 573 – Moscati intellettuale vero, in «La Città», 23 maggio 2000. 574 – Gerratana, un rosso sotto il sole di Vietri, in «La Città», 21 giugno 2000. 575 – Galasso. Storicismo e dintorni, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 giugno 2000. 576 – Insigne riformista al servizio del paese, in «La Città», 4 luglio 2000. 577 – Cosa resta della festa, in «La Città», 21 agosto 2000. 578 – I salernitani alla riscossa, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 settembre 2000. 579 – Gabelli e l’identità italiana: biografia di un originale positivista, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 settembre 2000. 580 – Racinaro “rilegge” il diritto penale: una denuncia della crisi della giustizia, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 ottobre 2000. 581 – Quando si spia dalla serratura, in «La Città», 25 ottobre 2000. 582 – I ceti nobiliari dell’antica Salerno in un volume, in «La Città», 25 novembre 2000. 583 – Franchini, un crociano che trovò la sua autonomia, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 dicembre 2000. * * * 75 2001 A) 584 – G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino (a cura di), Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori, 2001. B) 585 – Costituzione europea e identità nazionali, in «Mezzogiorno Europa», II, n. 1, pp. 1-4. 586 – Filosofia e storia a Napoli nel Novecento, in «Horizonte. Italianistische Zeitschrift für Kulturwissenschaft und Gegenwartsliteratur», V, 2000 [pubblicato nel 2001], pp. 169-184. 587 – Tradizione meridionalistica e “nuovi pensieri” sul Sud, in «Ora locale», IV, marzo-aprile 2001, n. 3, pp.1 e 13. 588 – Storia e natura nella tipologia diltheyana delle Weltanschauungen, in D. Conte, E. Mazzarella (a cura di), Il concetto di tipo tra Ottocento e Novecento, Napoli, Liguori, 2001, pp. 235-246. 589 – Individualidad y ética: Vico y Dilthey, in «Cuadernos sobre Vico», 1999-2000 [pubblicato nel 2001], nn. 11- 12, pp. 81-96. 590 – La storiografia filosofica italiana tra storia delle idee e storia della cultura, in «Rivista di Storia della filosofia», n.s., LVI, 2001, n. 2, pp. 205-224. 591 – Libertà e storia delle idee in Isaiah Berlin, in «L’Acropoli», II, 2001, n. 3, pp. 363-365. 592 – Sul voto meridionale guardarsi dalle semplificazioni, in «Mezzogiorno Europa», II, 2001, n. 3, pp. 16-17. 593 – La tradizione storicistica nell’Italia del Novecento, in «Palomar”, I, 2001, n. 6, pp. 15-27. 594 – Storicismo ed ermeneutica, in G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino (a cura di), Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori, 2001, pp. 55-74. 76 595 – Il concetto di “cittadinanza” in Giambattista Vico, in E. Hidalgo-Serna, M. Marassi, J.M. Sevilla Fernández, J. Villalobos (a cura di), Pensar para el nuevo Siglo. Giambattista Vico y la cultura europea, 3 voll., Napoli, La Città del Sole, 2001, vol. II, Vico y la cultura europea, pp. 389-407. 596 – Machiavelli e l’Italia moderna nelle analisi di Francesco De Sanctis e Pasquale Villari, in G. Borrelli (a cura di), Machiavelli e la cultura politica del meridione d’Italia, Napoli, Archivio della Ragion di Stato (Quaderno n. 2), 2001, pp. 206-225. 597 – Etica dello storicismo e filosofia pratica nel pensiero di Piovani, in «Archivio di storia della cultura», XV, 2001, pp. 27-43. 598 – La democracia de los derechos: una visión comparada de la Carta Europea de Niza y la Constitución Venezolana de 1999, in «Telos. Revista de Estudios Interdisciplinarios», Maracaibo, Universidad URBE, III, 2001, n. 3, pp. 287-295. 599 – Amore, solitudine, metafisica del vissuto. Su alcuni motivi poetici di Vicente Gerbasi, in V. Galeota, A. Scocozza (a cura di), Orillas. Studi in onore di Giovanni Battista De Cesare. Il mondo iberoamericano, 2 voll., Salerno, Edizioni del Paguro, 2001, vol. II, pp. 27-35. C) 600 – Recensione di G. Galasso, Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, Bologna, Il Mulino, 2000, in «Intersezioni», XXI, 2001, n. 1, pp. 203-208. F) 601 – Introduzione a E. Todaro, Penalisti in toga, Salerno, Boccia Edizioni, s.d., 2001, pp. 7-14. 602 – Presentazione di G. Amarante, Memoria storica. Scritti vari 1997-2000, Salerno, Edizioni Marte, 2001, pp. 9-13. 603 – Presentazione (in collab. con P. Colonnello, D. 77 Jervolino) di G. Cacciatore, P. Colonnello, D. Jervolino (a cura di), Ermeneutica, Fenomenologia, Storia, Napoli, Liguori, 2001, pp. 1-4. G) 604 – Preferii Calogero a Carbonara, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 gennaio 2001. 605 – Tutto previsto, molti hanno taciuto, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 gennaio 2001. 606 – Ruggero Moscati e la tradizione liberale italiana, in «L’Agenda di Salerno e provincia», V, gennaio 2001, n. 43, pp. 15-16. 607 – La fine del comunismo nella “filosofia” di Occhetto, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 gennaio 2001. 608 – E ora basta esagerazioni, in «La Città», 3 febbraio 2001. 609 – Vecchi principi del foro e nuovi rampolli a confronto, in «La Città», 27 febbraio 2001. 610 – Tra Cassandre e novelli manager della cultura, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 febbraio 2001. 611 – Sinergie positive per sfruttare le risorse, in «La Città», 28 febbraio 2001. 612 – Caro Masullo, torna in campo, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 marzo 2001. 613 – Gerratana, lo storico del marxismo che ancora adesso può far riflettere la sinistra, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2001. 614 – Salzano, non citarmi. Esigo più rispetto per la mia coerenza, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 aprile 2001. 615 – Omaggio a Valentino Gerratana, in «L’agenda di Salerno e provincia», maggio 2001, n. 47, p. 8. 616 – La sinistra e De Luca, in «La Città», 16 maggio 2001. 617 – Uno storico con le stellette racconta il dramma dell’emigrazione, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 giugno 2001. 78 618 – La “Isla” felice della cultura ispanica, in «La Città», 23 giugno 2001. 619 – Quel busto trafugato e l’indifferenza della città per la sua memoria, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 luglio 2001. 620 – DS oltre il risentimento, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 luglio 2001. 621 – Caro Musi…, in «Corriere del Mezzogiorno», 2 agosto 2001. 622 – Ho aderito a quell’appello e non intendo pentirmi, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 agosto 2001. 623 – I granata e il grande sogno del filosofo, in «Guida al campionato di calcio 2001-2002», supplemento a «La Città», 26 agosto 2001, p. 26. 624 – L’Agenda festeggia 50 numeri, in «La Città», 15 settembre 2001. 625 – Globalizzazione, un processo ambiguo da “addomesticare”, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 ottobre 2001. 626 – DS a congresso, troppe pratiche da basso impero, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 ottobre 2001. 627 – Si scrive divisione, si legge estinzione, in «Il Mattino», 17 novembre 2001. 628 – Sylos Labini dà giudizi filosofici discutibili, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 dicembre 2001. * * * 2002 A) 629 – Metaphysik, Poesie und Geschichte. Über die Philosophie von Giambattista Vico, Berlin, Akademie Verlag, 2002, pp. 235. 630 – G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Il Manifesto del partito comunista a 150 anni dalla sua pubblicazio- 79 ne, numero monografico di «Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel 2002], n. 1-2. 631 – G. Cacciatore, R. Cangiano (a cura di), Per Salvatore Valitutti, Salerno, Provincia di Salerno, 2002. B) 632 – Il Manifesto tra “criticità” delle idee e immagini “funerarie”, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Il Manifesto del partito comunista a 150 anni dalla sua pubblicazione, numero monografico di «Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel 2002], n. 1-2, pp. 7-14. 633 – Le filosofie dello storicismo italiano, in P. Di Giovanni (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 343-365. 634 – Etica, utopia, rivoluzione, in E. Granito, M. Schiavino (a cura di), Utopia e rivoluzione, Napoli, La Città del Sole, 2002, pp. 83-105. 635 – Etica e principio speranza, in G. Cantillo, G. Mangrella (a cura di), Politica, arte, religione nel pensiero utopico di Ernst Bloch, «Quaderni del Centro studi di filosofia e teoria delle scienze umane Maurizio Mangrella», Salerno, Boccia, 2002, pp. 61-76. 636 – Storicismo e Historismus a confronto nella seconda metà del Novecento, in M. Martirano, E. Massimilla (a cura di), I percorsi dello storicismo italiano nel secondo Novecento, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», n.s., vol. 3, Napoli, Liguori editore, 2002, pp. 157-181. 637 – Quale Europa vogliamo costruire. Non bastano entusiasmo e fedeltà, in «Mezzogiorno Europa», III, 2002, n. 1, pp. 1 e 5-7. 638 – Un deficit di risposte alle insicurezze, in «Mezzogiorno Europa», III, 2002, n. 4, pp. 1 e 8-10. 639 – Un pesante deficit di ricerca storica e sociologica, in «Mezzogiorno Europa», III, 2002, n. 5, pp. 29-30. 640 – Relativo e sapere del relativo, in «L’Acropoli», III, 2002, n. 3, pp. 322-328. 80 641 – Liberalismo filosofico e liberalismo politico in Valitutti, in G. Cacciatore, R. Cangiano (a cura di), Per Salvatore Valitutti, Salerno, Provincia di Salerno, 2002, pp. 19-29. 642 – Etica e diritti umani nella democrazia. Una prospettiva comparata, in «Cultura latinoamericana», 2002, n. 4, pp. 217-241. 643 – La filosofia italiana tra storia europea e tradizione nazionale, in N. Pirillo (a cura di), I filosofi e la città, Dipartimento di Scienze filologiche e storiche, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2002, pp. 293-310. 644 – Simbolo e segno in Vico. La storia tra fantasia e razionalità, in «Il Pensiero», n.s., XLI, 2002, n. 1, pp. 77-89. 645 – Machiavelli e l’Italia moderna nelle analisi di Francesco De Sanctis e Pasquale Villari, in G. Bentivegna, S. Burgio, G. Magnano San Lio (a cura di), Filosofia Scienza Cultura. Studi in onore di Corrado Dollo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 95-120. 646 – Il giorno della memoria. Monito per i giovani, in «L’Agenda di Salerno e provincia», VI, 2002, n. 55, pp. 23-24. 647 – La transumanza, in «L’Agenda di Salerno e provincia», VI, 2002, n. 61, pp. 23-24. 648 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e progetto politico, in «Critica Marxista», n. 5-6, 2002, pp. 56-64. 649 – Le “nonne coraggio” argentine, in «Critica Marxista», n. 5-6, 2002, pp. 117-120. 650 – Lo storicismo “prospettico” di Raffaello Franchini, in G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere (a cura di), Il diritto alla filosofia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 41-48. 651 – Storicismo e antistoricismo tra Croce e Gentile, in P. Colonnello, G. Spadafora (a cura di), Croce e Dewey cinquanta anni dopo, Napoli, Bibliopolis, 2002, pp. 89-106. 652 – Congedo, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXI-XXXII, 2001-2002, pp. 5-9. 653 – Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXI-XXXII, 2001-2002, pp. 97-114. 81 654 – Musica e Utopia, in «Rivista di storia della filosofia», 2002, n. 4, pp. 627-630. F) 655 – Presentación de las Actas de Sevilla (a proposito del volume Pensar para el nuevo siglo. Vico y la cultura europea), in «Cuadernos sobre Vico», 2001-2002, nn. 13-14, pp. 283-286. 656 – Premessa (in collab. con M. Martirano) a G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Il Manifesto del partito comunista a 150 anni dalla sua pubblicazione, numero monografico di «Diritto e Cultura», X, 2000 [stampato nel 2002], n. 1-2, pp. 5-6. 657 – Premessa a F. Tessitore, Bibliografia degli scritti (1961-2001), Salerno-Milano, Oèdipus, 2002, pp. 7-10. 658 – Introduzione a J.M. Sevilla Fernández, Ragione narrativa e ragione storica. Una prospettiva vichiana su Ortega y Gasset, Perugia, Guerra, 2002, pp. 9-14. 659 – Prefazione a W. Dilthey, Federico il Grande e l’illuminismo tedesco, a cura di G. Magnano San Lio, Soneria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. I-VI. G) 660 – Io, filosofo, tra giudici giacobini e teste tagliate per sbaglio, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 gennaio 2002. 661 – Vico, un punto di riferimento anche per la cultura ispanica, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2002. 662 – Una vigile e calma memoria, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 gennaio 2002. 663 – Ma l’argentino doveva entrare in campo prima (sul derby Napoli-Salernitana), in «La Città», 28 gennaio 2002. 664 – Con il patto scompare la sinistra, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 gennaio 2002. 82 665 – L’effetto Moretti e un partito che continua a farsi del male, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 febbraio 2002. 666 – Storia e politica nel volume di Amarante, in «La Città», 19 febbraio 2002. 667 – L’etica secondo Croce: una riflessione ancora aperta nel suo sistema filosofico, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 marzo 2002. 668 – L’uscita dalla minorità, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 marzo 2002. 669 – Quella storia della costiera raccontata attraverso i suoi limoni, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 aprile 2002. 670 – Le opere magiche di Giordano Bruno, riscoperta di un “eroico furore”, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 aprile 2002. 671 – La transumanza e le ritualità della pastorizia, in «La Città», 30 aprile 2002. 672 – Attualità di Vico, profeta del mito e della fantasia accanto alla ragione, in «Il Mattino», 26 maggio 2002. 673 – Centrosinistra senza progetto, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 maggio 2002. 674 – Fondazione Menna, un “Quaderno” su Bloch e la musica, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 giugno 2002. 675 – Il coraggio di ricostruire la Quercia, in «La Repubblica», ed. di Napoli, 3 luglio 2002. 676 – Ds e spoil system clientelare, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 settembre 2002. 677 – La protesta è generosa, ma non basta, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 settembre 2002. 678 – L’intellettuale che sapeva indignarsi, in «Il Mattino», 4 novembre 2002. 679 – Addio a De Martino, in «Il Salernitano», 19 novembre 2002. 680 – Croce, la libertà che si rinnova, in «La Repubblica», ed. Napoli, 26 novembre 2002. 681 – È ora di accorgersi che troppi giovani si stanno perdendo, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 novembre 2002. 83 682 – Salerno-Regione. La sinergia assente, in «Corriere del Mezzgiorno», 13 dicembre 2002 * * * 2003 A) 683 – Giordano Bruno e noi. Momenti della sua fortuna tra ’700 e ’900, Salerno, edizioni Marte, 2003. B) 684 – Passioni e ragione nella filosofia civile di Vico, in P. Venditti (a cura di), La filosofia e le emozioni, Atti del XXXIV Congresso nazionale della Società Filosofia Italiana (Urbino, 26-29 aprile 2001), Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 213-230. 685 – Luigi Cacciatore: una vita per il socialismo e l’unità della classe operaia, in L. Rossi (a cura di), Luigi Cacciatore. La vita politica di un socialista a cento anni dalla nascita, Salerno, Plectica, 2003, pp. 87-97. 686 – Il concetto di imputazione in alcuni momenti della filosofia giuridica italiana: Vico, Filangieri, Pagano, in «Diritto e Cultura», XI, 2001 [pubblicato nel 2003], n. 1, pp. 41-57. 687 – Die Idee der Moderne bei Dilthey und Cassirer, in Th. Leinkauf (hrsg.), Dilthey und Cassirer. Die Deutung der Neuzeit als Muster von Geistes – und Kulturgeschichte, Hamburg, Meiner Verlag, 2003, pp. 69-82. 688 – Vico e Bruno, in N. Pirillo (a cura di), Autobiografia e filosofia. L’esperienza di Giordano Bruno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 147-161. 84 689 – Historicisme, philologie, herméneutique chez August Boeckh, in «Le Cercle Herméneutique», 2003, n. 1, pp. 94-107. 690 – Vico, héritier de Bruno?, in «L’art du Comprendre», 2003, n. 11-12, pp. 212-225. 691 – Salvatore Valitutti a dieci anni dalla morte, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 68, p. 19. 692 – Una prefazione mai pubblicata a un libro su Luigi Angrisani, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 68, pp. 22-23. 693 – La storia della cultura salernitana nella ricerca di Italo Gallo, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 69, pp. 22-24. 694 – Arte e letteratura in altri viaggi al Sud, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 70, pp. 16-19. 695 – Intellettuali italiani del secondo dopoguerra, in «L’Agenda di Salerno e Provincia», n.s., VII, 2003, n. 73, pp. 26-27. 696 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e progetto politico, in «Civiltà del Mediterraneo», 2003, n. 3, pp. 63-77. 697 – Destini personali per l’individualità post-metafisica, in «Iride», XVI, 2003, n. 39, pp. 385-389. 698 – Lo storicismo come scienza etica e come ermeneutica dell’individualità, in «Magazzino di filosofia», 2002 [stampato nel 2003], n. 8, pp. 120-133. 699 – Dal “logo astratto” al “logo concreto”, dal tempo all’eternità. Gentile e la storia, in P. Di Giovanni (a cura di), Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 97-122. 700 – Le Opere magiche di Giordano Bruno, in «Archivio di storia della cultura», XVI, 2003, pp. 165-168. 701 – Il Mediterraneo tra idea filosofico-culturale e progetto politico, in Aa.Vv., Mediterraneo e cultura europea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 7-19. 702 – Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Marchetti, O. Rignani, V. Sorge (eds.), Ratio et Su- 85 perstitio. Essays in Honor of Graziella Federici Vescovili, Fédération Internationale des Institus d’Études Médiévales, Louvain-La-Neuve, 2003, pp. 483-505. 703 – Croce e l’idea di Europa, in Seduta inaugurale dell’anno accademico 2003, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, Napoli, Giannini, 2003, pp. 33-45. 704 – La filosofia dello storicismo di Vincenzo Cuoco, in «Rassegna storica salernitana», n.s., XX, 2003, n. 40, pp. 107-120. 705 – Per la critica del riformismo “apatico”, in «Ora Locale», VI, 2003, n. 3, pp. 5-6. 706 – Una nuova morfologia del potere, in «Mezzogiorno Europa», IV, 2003, n. 5, pp. 27-29. 707 – La “Quercia di Goethe”. Note di viaggio dalla Germania (conversazione registrata non corretta) in «Rotary Club Salerno. Il Bollettino», LIV, 2003, n. 3, pp. 4-5 e 8. 708 – Bellum justum, bellum sanctum, in «Iride», XVI, 2003, n. 40, pp. 425-432. 709 – Die “politische” Dimension des kritisch-problematische Historismus in Italien, in K.E. Lönne (hrsg.), Historismus in den Kulturwissenschaften, Düsseldorf, Francke Verlag, 2003, pp. 39-65. 710 – Dilthey: connessione psichica e connessione storica, in M.G. Lombardo (a cura di), Una logica per la psicologia: Dilthey e la sua scuola, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 211-223. 711 – Sul concetto di progresso. L’interpretazione di Hegel in Croce e Bloch, in P. Cipolletta (a cura di), Ereditare e sperare. Un confronto con il pensiero di Ernst Bloch, Milano, Mimesis, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 113-130. 712 – Storia, memoria, immagini tra Vico e Hegel, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXIII, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 199-208. 713 – Intervento nella Tavola rotonda, Salerno: città della rimozione?, in M. Schiavino (a cura di), Un secolo di libri. La libreria Carrano a Salerno (1920-1986), Salerno, Marte Editore, 2003, pp. 22-26. 86 714 – Note in margine al problema del modello francese nella filosofia e nella politica della rivoluzione napoletana, in E. Di Rienzo, A. Musi (a cura di), Storia e vita civile. Studi in memoria di Giuseppe Nuzzo, Napoli, ESI, 2003, pp. 189-202. D) 715 – Scheda di M. Perniola, Del Sentire, Torino, 2002, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXIII, 2003 [pubblicato nel 2004], pp. 396-397. F) 716 – Prólogo a H. Calello, Gramsci del “americanismo” al talibán. Globalización, imperialismo y reconstrucción en America Latina, Buenos Aires, ed. Altamira, 2003, pp. 5-11. 717 – Introduzione a A. Di Maio, M. Malatesta, La filosofia di Cleto Carbonara, Napoli, Luciano Editore, 2003, pp. 5-8. G) 718 – Com’è politica la filosofia di Nietzsche. Parola di Losurdo, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 gennaio 2003. 719 – “Colloqui” su Croce: cinque modi per rileggerne il pensiero, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 febbraio 2003. 720 – Non toccate Matteotti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 26 febbraio 2003. 721 – Lanocita storico tra contadini e latifondisti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 7 marzo 2003. 722 – L’esempio di Ninì Di Marino, in «Il Salernitano», 10 marzo 2003. 723 – Le opinioni di Ietto e le intuizioni di Borges, in «Il Salernitano», 17 marzo 2003. 724 – Quel “sole nero” non scalda il Sud, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 marzo 2003. 87 725 – Oscurantismo culturale o miopia amministrativa?, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 aprile 2002. 726 – Altri viaggi nel Sud: quando la storia si fa paesaggio e avventura mentale, in «Corriere del Mezzogiorno», 2 aprile 2003. 727 – Il vescovo s’invischia in politica, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 aprile 2003. 728 – Cuba, è svanito il sogno, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 maggio 2003. 729 – Comunisti e cultura, il caso italiano, in «Il Mattino», 26 maggio 2003. 730 – La Spagna degli anni ’30 e la “guerra civile europea”, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 giugno 2003. 731 – Lo Stato di Giffoni oltre le microstorie, in «Il Salernitano», 21 giugno 2003. 732 – La fortuna non fa miracoli due volte, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 20 agosto 2003. 733 – Un forum per scegliere il candidato alla Provincia, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 5 settembre 2003. 734 – Diametro? Ecco perché non potrò mai aderire, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 ottobre 2003. 735 – Cuoco e la filosofia politico-civile del nuovo secolo, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 novembre 2003. 736 – Se l’unica variante è la fedeltà al leader, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 20 novembre 2003. * * * 2004 A) 737 – G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Vico nelle culture iberiche e lusitane, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004. 88 738 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004. B) 739 – Su alcune interpretazioni tedesche del Rinascimento nel Novecento, in F. Meroi, E. Scapparone (a cura di), Humanistica. Per Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, 2004, pp. 345- 368. 740 – Commento a Rudolf Makkreel, in R. Bodei, G. Cantillo, A. Ferrara, V. Gessa Kurotschka, S. Maffettone, (a cura di), Ricostruzione della soggettività, Napoli, Liguori, 2004, pp. 55-61. 741 – Una filosofia per l’America Latina: Leopoldo Zea, in «Cultura Latinoamericana», 2003 [edito nel 2004], n. 5, pp. 431-453. 742 – Bruno tra Spaventa e Labriola, in F. Meroi (a cura di), La mente di Giordano Bruno, Firenze, Olschki, 2004, pp. 463-483. 743 – Qualche riflessione filosofica sulla giustizia, in «La Giustizia», XXVI, 2004, n. 1-2, pp. 8-11. 744 – Socialismo meridionale. Mancini e De Martino, in «Ora locale», VII, 2004, n. 1, pp. 5-6 e p. 20. 745 – Il meridionalismo socialista di Francesco De Martino e Giacomo Mancini, in «Rassegna storica salernitana», 2004, n. 41, pp. 283-298. 746 – Marxismo e storia tra Labriola e Croce, in M. Griffo (a cura di), Croce e il marxismo un secolo dopo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2004, pp. 315-339. 747 – Vico: narrazione storica e narrazione fantastica, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004, pp. 117-139. 89 748 – Der Begriff der Zurechnung in einer Phase der italienischen Rechtsphilosophie: Vico, Filangieri, Pagano, in M. Kaufmann, J. Renzikowski (hrsg.), Zurechnung als Operationalisierung von Verantwortung, Frankfurt a. M., Peter Lang, 2004, pp. 29-45. 749 – Cassirer interprete di Kant, in A. Anselmo (a cura di), La presenza di Kant nella filosofia del Novecento, Messina, Siciliano Editore, 2004, pp. 13-67. 750 – Croce: il concetto di progresso e la critica della filosofia della storia, in M. Meletti Bertolini (a cura di), Etica e politica. Saggi in memoria di Ferruccio Focher, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 21-32. 751 – Manfred Riedel, der Freund und Lehrer, in H. Seubert ((hrsg.), Verstehen in Wort und Schrift. Europäische Denkgespräche. Für Manfred Riedel, Köln Weimar Wien, Böhlau Verlag, 2004, pp. 66-77. 752 – Storicismo, filologia, ermeneutica in August Boeckh, in G. Indelli, G. Leone, F. Longo Auricchio (a cura di), Mathesis e Mneme. Studi in memoria di Marcello Gigante, Napoli, Pubblicazioni Dipartimento di Filologia Classica “F. Arnaldi”, 2004, vol. II, pp. 381-397. 753 – Leggere Vico, in M. Filoni (a cura di), Leggere e rileggere i classici. Per Livio Sichirollo, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 39-63. 754 – Un’idea moderna di certezza: la filologia di Vico tra ermeneutica e filosofia, in S. Caianiello, A. Viana (a cura di), Vico nella storia della filologia, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2004, pp. 177-197. 755 – Croce und Bloch über den Begriff des Fortschritts, in «Jahrbuch für Recht und Ethik», Band 12, 2004, pp. 383-399. 756 – “Eranos” nella storia della cultura europea del ’900, in «Archivio di storia della cultura», XVII, 2004, pp. 241-248. 757 – Gramsci: problemas de ética en Los Cuadernos, in «Telos. Revista de estudios interdisciplinarios en ciencias sociales», Maracaibo, VI, 2004, n. 3, pp. 351-362. 90 F) 758 – Presentazione (in collab. con A. Scocozza) di G. Bellini, Dal Mediterraneo al mare oceano. Saggi tra storia e letteratura, Salerno-Milano, Oèdipus, 2004, pp. 7-23. 759 – Il contributo delle culture ispaniche e lusitane alla conoscenza di Vico, introduzione a G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Vico nelle culture iberiche e lusitane, Napoli, Guida, 2004, pp. 5-18. G) 760 – Il futuro di Salerno, in «Il Quartiere», II, 2004, n. 6, p. 3. 761 – L’avvocato militante. Ricordo di mio padre, in «Cronache del Mezzogiorno», 19 gennaio 2004. 762 – Dall’etologia all’etica. Il cammino di Lorenz passa anche da Napoli, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2004. 763 – Il giorno della memoria senza riti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 27 gennaio 2004. 764 – L’indipendenza e le mosche, in «Il Salernitano», 20 febbraio 2004. 765 – Martino e le varianti della smemoratezza, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 18 marzo 2004. 766 – De Luca, l’autocritica di un Ulivo in affanno, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 marzo 2004. 767 – Sinistra riformista e socialista, è ora di ritrovare vera unità (in collab. con E. Ajello e A. Trione), in «Corriere del Mezzogiorno», 4 aprile 2004. 768 – Diritti umani, questione non solo filosofica ma politica, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 aprile 2004. 769 – Quelle lettere a Croce e a Engels (a proposito del Carteggio Labriola), in «Corriere del Mezzogiorno», 12 maggio 2004. 770 – Amendola: in volume quattro anni di lettere, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 giugno 2004. 91 771 – Se l’Ulivo scopre le sue lobby di potere, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 24 giugno 2004. 772 – Rinascita a S. Lucia, in «L’Articolo Domenica», 5 settembre 2004, n. 16. 773 – Io, contribuente prigioniero di una voce, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 2 ottobre 2004. 774 – Il programma della coalizione priorità assoluta, in «L’Articolo Domenica», 3 ottobre 2004, n. 20. 775 – Il buonsenso dei cittadini. Quando gli elettori sono più convinti degli eletti, in «L’Articolo Domenica», 31 ottobre 2004, n. 24. 776 – Vico e il corpo: se la genetica attinge alla filosofia, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 novembre 2004. 777 – Programmi condivisi, «L’Articolo Domenica», 5 dicembre 2004, n. 29. * * * 2005 A) 778 – Cassirer interprete di Kant e altri saggi, Messina, Siciliano Editore, 2005. 779 – Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, presentazione di F. Tessitore, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005. 780 – G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere, Croce filosofo, 2 voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 [pubblicato nel 2005]. 781 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna, A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista Vico, «Laboratorio dell’ISPF», II, 2005, 1. 92 B) 782 – Leben und Struktur. Dilthey und die Zweideutigkeit von Sprache der Geschichte, in J. Trabant (hrsg.), Sprache der Geschichte, Schriften des Historischen Kollegs Kolloquien 62, München, Oldenbourg, 2005, pp. 55-64. 783 – Identità, pluralismo, universalismo dei diritti, in A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino, Edizioni QuattroVenti, 2005, pp. 397-407. 784 – Capograssi e l’idealismo, in P. Di Giovanni (a cura di), Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 73-91. 785 – La cultura storica a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento, in G. Vitolo (a cura di), Storia, filologia, erudizione nella Napoli dell’Ottocento, Napoli, Guida, 2005, pp. 133-146. 786 – Croce: l’idea di Europa tra crisi e trasformazione, in G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere (a cura di), Croce filosofo, 2 voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 [pubblicato nel 2005], vol. I, pp. 117-144. 787 – Il concetto di imputazione in alcuni momenti della filosofia giuridica italiana, in C. Giarratana, I. Randazzo (a cura di), Seminari di Filosofia Corrado Dollo, I, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004 [pubblicato nel 2005], pp. 21-39. 788 – Il Marx “democratico”, in M. Musto (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Roma, Manifestolibri, 2005, pp. 145-160. 789 – Le facoltà della mente “rintuzzata dentro il corpo”, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna, A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà. Giambattista Vico, «Laboratorio dell’ISPF», II, 2005, 1, pp. 91-105. 790 – Modernità e filosofia. Per una discussione del rapporto fede ragione, in E. Granito (a cura di), La fede nella ragione e le ragioni della fede, Napoli, La Città del Sole, 2005, pp. 93-106 [cfr. in questo stesso volume gli interventi nella tavola rotonda, pp. 204-210 e 228-229]. 93 791 – Una filosofia per l’America latina: Leopoldo Zea, in P. Colonnello (a cura di), Filosofia e politica in America latina, Roma, Armando Editore, 2005, pp. 51-67. 792 – Vico e Kant sulla storia, in «Studi Italo-Tedeschi / Deutsch-Italienische Studie», XXIV, 2004, Collana di Monografie dell’Accademia di Studi italo-tedeschi, Merano, 2005, pp. 271- 293. 793 – María Zambrano: la storia come “delirio” e “destino”, in L. Silvestri (a cura di), Il pensiero di María Zambrano, Udine, Forum, 2005, pp. 29-62. 794 – Identità e filosofia dell’interculturalità, in «Iride», XVII, 2005, n. 45, pp. 235-244. 795 – Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe Capograssi, in «Civiltà del Mediterraneo», 2005, nn. 6-7, pp. 167-187. 796 – Interprétations historicistes de la “Scienza Nuova”, in «Noesis», 2005, n. 8, pp. 45-63. 797 – Significato e prospettive della “cittadinanza attiva”, in «Ora Locale», VII, 2005, n. 4, pp. 5-6. 798 – Intervento del moderatore in L. Rossi (a cura di), Elea. Il divenire di una cultura, l’essere di un pensiero, Atti del Convegno, Ascea 23-28 maggio 2000, Agropoli, Tipografia Iannuzzi, 2005, pp. 77-80. 799 – Ricordo di Nicola Badaloni, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 9-12. 800 – Sull’edizione critica della Scienza Nuova 1730, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 160-165. 801 – Interpretazioni storicistiche della Scienza Nuova, in F. Rizzo (a cura di), Filosofia e storiografia. Studi in onore di Girolamo Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 53-70. 802 – Leer a Vico hoy, in «Cuadernos sobre Vico», 2004- 2005, nn. 17/18, pp. 21-36. 803 – La ingeniosa ratio de Vico entre sabiduria y prudencia, in «Cuadernos sobre Vico», 2004-2005, nn. 17/18, pp. 37-45. 94 804 – Croce: l’idea di Europa tra crisi e trasformazione, in «Rassegna di Studi crociani», XV, 2005, n. 29-30, pp. VII-XVIII. 805 – María Zambrano: ragione poetica e storia, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 1/2005, pp. 107-126. 806 – Un libro sulle parole chiave di Gramsci, in «Archivio di storia della cultura», XVIII, 2005, pp. 299-306. C) 807 – Recensione di E. Nuzzo, Tra ordine della storia e storicità. Saggi sui saperi della storia in Vico, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 185-191. 808 – Recensione di F. Crispini, Idee e forme di pensiero. Brevi saggi di storiografia filosofica, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXV, 2005, pp. 225-228. D) 809 – Scheda di F. Marone, Narrare la differenza, Milano, Unicopli, 2003, in «L’Articolo», 7 gennaio 2005. F) 810 – Introduzione e Presentazione (in collab. con L. Rossi) di Ricordo di Francesco Cacciatore, Salerno, Plectica, 2005, pp. 7-17. 811 – Prefazione (in collab. con G. Cotroneo e R. Viti Cavaliere) a G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere (a cura di), Croce filosofo, 2 voll., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003 [pubblicato nel 2005], pp. VII-VIII. 812 – Prefazione a E. Todaro, Vorrei, Salerno, Arti Grafiche Boccia, 2005. 813 – Prefazione a G. Magnano San Lio, Forme del sapere e struttura della vita. Per una storia del concetto di Wel- 95 tanschauung. Tra Kant e Dilthey, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. III-VII. 814 – Presentazione di F. Lomonaco, Tracce di Vico nella polemica sulle origini delle pandette e delle XII Tavole nel Settecento italiano, Napoli, Liguori, 2005, pp. VII-IX. G) 815 – Quando un filosofo-tifoso non la prende con filosofia, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 gennaio 2005. 816 – Andiamo oltre i tatticismi e le convenienze di parte, in «L’Articolo della Domenica», 16 gennaio 2005, n. 3. 817 – Brutta Salernitana. Un grazie a Rubino, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 gennaio 2005. 818 – Com’è destabilizzante il mercato di gennaio, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 gennaio 2005. 819 – Anche il computer contro la Salernitana, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 gennaio 2005. 820 – Alle regionali una lista unica delle sinistre, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 1 febbraio 2005. 821 – Ma non è solo sfortuna, sbaglia anche il tecnico, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 febbraio 2005. 822 – Quelle quattro “polpette” da stropicciarsi gli occhi, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 febbraio 2005. 823 – Se manca del tutto il blocco sociale di riferimento, in «L’Articolo della Domenica», 13 febbraio 2005, n. 7. 824 – Tra dottor Jekill e Mister Hyde, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 febbraio 2005. 825 – Difese le ragioni dei deboli, in «Agire», XXXIII, 20 febbraio 2005, n. 6. 826 – La forza dell’umiltà, ma secondi a nessuno, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 febbraio 2005. 827 – Gregucci fa le raccomandazioni agli altri e dimentica se stesso, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 marzo 2005. 828 – Storia di umano dolore, in «Agire», XXXIII, 6 marzo 2005, n. 8. 96 829 – Si conferma la storia di Davide. E Golia-Torino è stato fermato, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 marzo 2005. 830 – Confesso: al fischio finale sono saltato in piedi come un ossesso, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 marzo 2005. 831 – Più cittadinanza attiva nella Regione del futuro, in «L’Articolo della Domenica», 20 marzo 2005, n. 12. 832 – Attenzione, bisognerà lottare fino alla fine, in «Corriere del Mezzogiorno», 29 marzo 2005. 833 – Dal Sud una leadership al servizio del paese, in «L’Articolo», 5 aprile 2005. 834 – Attore del Novecento, in «Agire», XXXIII, 10 aprile 2005, n. 13. 835 – La Salernitana in stato di grazia. Ma ora non parliamo del futuro, in «Corriere del Mezzogiorno», 12 aprile 2005. 836 – Dopo il passo falso col Modena ora si spera nell’effetto trasferta, in «Corriere del Mezzogiorno», 19 aprile 2005. 837 – Sale all’Arechi contro il malocchio, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 aprile 2005. 838 – Ora sono seriamente preoccupato dall’involuzione della Salernitana, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 aprile 2005. 839 – Un grande impegno in difesa della Costituzione, in «Il Quartiere», III, 11 aprile 2005. 840 – L’auriga Gregucci tenga in equilibrio il “carro alato” della Salernitana, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 maggio 2005. 841 – Occorre un ultimo sforzo per uscire dal labirinto, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 maggio 2005. 842 – Che fatica essere più di Trenta, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 13 maggio 2005. 843 – Sono preoccupato, in panchina c’è troppa confusione mentale, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 maggio 2005. 844 – Adesso le armi migliori sono il cuore e il carattere, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 maggio 2005. 845 – Democrazia progressiva. La lezione di Amendola, in «L’Articolo della Domenica», 29 maggio 2005, n. 21. 97 846 – Non c’è tempo per diatribe e recriminazioni. Bisogna solo vincere per rimanere in B, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 maggio 2005. 847 – È tempo di pensare al nuovo progetto, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 giugno 2005. 848 – La solita telenovela, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 giugno 2005. 849 – Isla: Italia e Venezuela incontro tra due culture, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 giugno 2005. 850 – Con i DS divisi l’unità è impossibile, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 luglio 2005. 851 – Levi della Vida, l’islamista del ’900 che sfidò Gentile, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 luglio 2005. 852 – Non si può costruire fuori l’unità che manca nei DS, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 agosto 2005. 853 – Le colpe di Aliberti e del Napoli, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 agosto 2005. 854 – Pronti per il campionato, evitiamo dannose illusioni, in «Corriere del Mezzogiorno», 6 settembre 2005. 855 – Ora dobbiamo limitare i danni, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 settembre 2005. 856 – Depressione addio, finalmente l’orgoglio, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 settembre 2005. 857 – Carissima Salernitana, resto ancora ottimista, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 ottobre 2005. 858 – Un master per consulenti di filosofia, in «Il Mattino», ed. di Napoli, 5 ottobre 2005. 859 – Salernitana grigia con sprazzi di colore, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 ottobre 2005. 860 – Occorre una frustata psicologica, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 ottobre 2005. 861 – Vent’anni dopo, siamo tornati alle beghe paesane, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 ottobre 2005. 862 – Cinque squilli di tromba: ora Salerno è più serena, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 novembre 2005. 863 – Vico studiava l’Oriente. Oggi cinesi e giapponesi 98 rileggono il filosofo, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 novembre 2005. 864 – Salernitana mi avevi illuso. Ora si giochi come si fa in serie C, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 novembre 2005. 865 – Squallore e desolazione: domenica da dimenticare, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 novembre 2005. 866 – Orgogliosi del “nostro” Zoro e della Salernitana di Cuoghi, in «Corriere del Mezzogiorno», 29 novembre 2005. 867 – Parola di filosofo. L’imponderabile fa bello il calcio, in «Corriere del Mezzogiorno», 1 dicembre 2005. 868 – Per la Salernitana di Cuoghi una vittoria utile per il rilancio, in «Corriere del Mezzogiorno», 6 dicembre 2005. 869 – Se la bravata di Ambrosio non sarà punita allo stadio non andrò più, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 dicembre 2005. 870 – Un’altra gara grigia e mediocre in attesa di un regalo a gennaio, in «Corriere del Mezzogiorno», 20 dicembre 2005. 871 – Una questione di sistema, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 dicembre 2005. 872 – Ha ragione Cuoghi: gioco brutto ma la classifica adesso ci sorride, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 dicembre 2005. 873 – Il rischio è che la politica sia nuovamente sconfitta, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 dicembre 2005. * * * 2006 A) 874 – Antonio Labriola in un altro secolo. Saggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. 99 B) 875 – L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche, in V. Gessa Kurotschka (a cura di), I saperi dell’umano, il sapere umano, la consulenza filosofica, in www.unica.it/rfiscuman/. 876 – L’etica e la sacralità del corpo umano, in F. Salvatore (a cura di), Le cellule staminali miniere di salute, «Come alla corte di Federico II», 2006, n. 7, pp. 21-22. 877 – Relazione tenuta al convegno su Le forme del dissenso tra riformismo e globalizzazione (10-11 maggio 2002), in Aa.Vv., Le forme del dissenso tra riformismo e globalizzazione, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2006, pp. 133-150. 878 – Si sta imponendo un laboratorio politico al negativo, in «Mezzogiorno Europa», VII, 2006, n. 2, pp. 24-25. 879 – Il concetto di progresso e la critica della filosofia della storia in Benedetto Croce, in M. Agrimi, R. Ciafardone, B. Razzotti (a cura di), Croce all’aprirsi del XXI secolo, Lanciano, Rocco Barabba Editore, 2006, pp. 307-322. 880 – Per Leopoldo Zea, in «Cultura Latinoamericana», 2004 [stampato 2006], n. 6, pp. 111-18. 881 – Capire il racconto degli altri, in «Reset», 2006, n. 97, pp. 16-19. 882 – Vita e struttura: Dilthey e l’“ambiguità” della lingua della storia, in M. Failla (a cura di), «Bene navigavi». Studi in onore di Franco Bianco, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 5-14. 883 – Croce e l’autobiografia, in A. Marini (a cura di), Temi crociani della “nuova Italia”, numero monografico di «Magazzino di filosofia», 2004 [stampato nel 2006], pp. 49-61. 884 – Cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Salerno a Fulvio Tessitore, Laudatio, Comune di Salerno, 18 gennaio 2005, Napoli, Arte Tipografica, 2006, pp. 13-26. 885 – Croce nell’interpretazione di Alberto Caracciolo, in «Archivio di storia della cultura», XIX, 2006, pp. 375-384. 100 886 – L’unità di storia filologica e logica speculativa. Gentile e la storia della filosofia, in G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, a cura di P. Di Giovanni, Firenze, Le Lettere, 2006, pp. 233-248. 887 – Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe Capograssi, in «Civiltà del Mediterraneo», n. 7-8, 2005/2006, pp. 245-265 [numero monografico a cura di S. Langella, che raccoglie gli Atti del Convegno su “Genesi, sviluppi e prospettive dei diritti umani in Europa e nel Mediterraneo”, Genova 26-28 ottobre 2004]. 888 – La sinistra tra omologazione culturale e frammentazione partitica, in M. Cimino, M. Alcaro (a cura di), Politica e cultura in Calabria. Ora Locale (1996-2005), Cosenza, Klipper, 2006, vol. II, pp. 166-172. 889 – Ancora sulla storia in Sartre, in «Bollettino Studi sartriani», II, 2006, 1, pp. 25-34. 890 – La Escolástica española y la génesis de la filosofía latinoamericana. Alonso Briceño: metafísica e individualidad, in «Límite. Revista de filosofía y Psicología», Universidad de Tarapacá, Arica (Chile), vol. I, 2006, n. 14, pp. 5-24. 891 – María Zambrano. Ragione poetica e storia, in «Il Pensiero», XLV, 2006/2, pp. 93-107. 892 – Di alcuni pensieri filosofici sul Chisciotte, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 2/2006, pp. 19-27. 893 – Voce Sviluppo (in collab. con G. D’Anna), in Enciclopedia filosofica Bompiani, vol. XI, Milano, Bompiani, 2006, pp. 11247-11249. F) 894 – Editoriale in «Logos. Rivista annuale del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”», n.s., 2006, n. 1, pp. 7-9. 895 – Nota introduttiva (in collab. con P. Di Giovanni) a P. Di Giovanni (a cura di), La cultura filosofica italiana attraverso le riviste 1945-2000, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 9-10. 101 896 – Introduzione a Poesia e filosofia, raccolta di testi del Seminario tenutosi a Cagliari, 20-22 maggio 2004, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXVI, 2006, pp. 49-53. G) 897 – Tifo venezuelano per la Salernitana, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 gennaio 2006. 898 – I granata ancora a bagnomaria. Ma il gioco incoraggia a sperare, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 gennaio 2006. 899 – Ma senza vittorie non si cantano messe, in «Corriere del Mezzogiorno», 24 gennaio 2006. 900 – Una vittoria macchiata, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 gennaio 2006. 901 – Una giornata negativa proprio contro la migliore, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 febbraio 2006. 902 – Gli arbitri difendano il “povero” Di Vicino. Ma prima che finisca in ospedale come Totti, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 febbraio 2006. 903 – Altro che Pinturicchio. L’artista ora è Di Vicino, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 febbraio 2006. 904 – Diversità è ricchezza, in «Agire», XXXIV, 5 marzo 2006, n. 8. 905 – Playoff, io lascio aperto uno spiraglio alla speranza, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 marzo 2006. 906 – La sacralità del corpo umano e l’etica della ricerca, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 marzo 2006. 907 – Ora è inutile recriminare. Bisogna stringere i denti, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 marzo 2006. 908 – Cresce il rammarico per i punti perduti, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 marzo 2006. 909 – Quel nervosismo è di buon auspicio, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 marzo 2006. 910 – “De Profundis” da veri caimani, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 marzo 2006. 102 911 – Finale emozionante. Tifosi in prima linea, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 aprile 2006. 912 – Amendola, democrazia come dono, in «Corriere del Mezzogiorno», 7 aprile 2006. 913 – Manteniamo i nervi saldi e l’impresa si concretizzerà, in «Corriere del Mezzogiorno», 11 aprile 2006. 914 – Non cediamo all’isterismo. Bisogna lottare e sperare, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 aprile 2006. 915 – Il Teramo è l’unica squadra che possiamo acciuffare, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 aprile 2006. 916 – Non è stata solo sfortuna, il tecnico ha qualche colpa, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 maggio 2006. 917 – In attesa della giustizia sportiva non posso che promuovere tutti, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 maggio 2006. 918 – Da filosofo granata a Tifoso Accademico: Rettore non smettere, in «Corriere del Mezzogiorno», 13 maggio 2006. 919 – Sono più che convinto, il Genoa sarà eliminato, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 maggio 2006. 920 – Cari D’Alema e Fassino, sul caso Salerno schieratevi, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 giugno 2006. 921 – Il sogno non è finito e la rinascita è sicura, in «Corriere del Mezzogiorno», 6 giugno 2006. 922 – Un’altra politica: qualcuno ci aveva creduto, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 settembre 2006. 923 – Salernitana d’alta quota, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 ottobre 2006. 924 – Rimettiamo i piedi a terra. E regoliamo bene la difesa, in «Corriere del Mezzogiorno», 10 ottobre 2006. 925 – Giuseppe Cantillo: indagine sull’uomo tra storia e natura, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 ottobre 2006. 926 – Rispetto le scelte di Novelli. Ma non rimproveri Mattioli, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 ottobre 2006. 927 – Né cappa né spada, solo politica, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 30 ottobre 2006. 928 – Una vittoria ottenuta senza spettacolo, in «Corriere del Mezzogiorno», 31 ottobre 2006. 103 929 – Quei minuti di pura follia con tanti, troppi colpevoli, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 novembre 2006. 930 – Così non va: per aspirare ai playoff il club dovrà intervenire sul mercato, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 novembre 2006. 931 – Una squadra troppo mediocre contro un combattivo Lanciano, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 novembre 2006. 932 – Come nacque e come morì il gruppo dei Trenta, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 1 dicembre 2006. 933 – Olio nelle giunture e pedalare. E che non si parli di sfortuna, in «Corriere del Mezzogiorno», 5 dicembre 2006. 934 – Ma senza (il criticato) Mancini sarebbero tornati a mani vuote, in «Corriere del Mezzogiorno», 19 dicembre 2006. 935 – La crisi non si cura con l’aspirina, in «Corriere del Mezzogiorno», 19 dicembre 2006. * * * 2007 A) 936 – G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2007. 937 – G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007. 938 – G. Cacciatore, D. Conte, F. Lomonaco, E. Massimilla (a cura di), Filosofia, storia, letteratura. Scritti in onore di Fulvio Tessitore, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007. B) 939 – Finito e infinito nella filosofia vichiana della storia, in D. Venturelli, R. Celada Ballanti, G. Cunico (a cura di), 104 Etica, religione e storia. Studi in memoria di Giovanni Moretto, Genova, Il Melangolo, 2007, pp. 37-48. 940 – Immaginazione, identità e interculturalità, in «Postfilosofie», II, 2006, n. 3 [stampato nel 2007], pp. 119-133. 941 – La filosofia dello storicismo come narrazione della storia pensata e della storia vissuta, in G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2007, pp. 109-168. 942 – Dall’ermeneutica allo storicismo, e ritorno, in F. Coniglione, R. Longo (a cura di), La filosofia generosa. Studi in onore di Anna Escher Di Stefano, Catania, Bonanno Editore, 2007, pp. 11-18. 943 – Genesi crisi e trasformazioni della filosofia civile italiana, in F. Coniglione, R. Longo (a cura di), La filosofia generosa. Studi in onore di Anna Escher Di Stefano, Catania, Bonanno Editore, 2007, pp. 143-154. 944 – La Escolástica española y la génesis de la filosofía latinoamericana. Alonso Briceño: metafísica e individualidad, in M. Kaufmann, R. Schnepf (hrsg.), Politische Metaphysik. Die Entstehung moderner Rechtskonzeptionen in der Spanischen Scholastik, Bern, Peter Lang, 2007, pp. 107-121. 945 – Riflessioni sui diritti umani nel pensiero di Giuseppe Capograssi, in A. De Simone (a cura di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Perugia, Morlacchi, 2007, pp. 439-461. 946 – El historicismo como ciencia ética y como hermenéutica de la individualidad, in M.E. Borsani, C.E. Gende, Filosofía-Crítica-Cultura, Neuquén, EDUCO, 2006 [stampato nel 2007], pp. 81-93. 947 – Vico: i saperi poetici, in A. Battistini, P. Guaragnella (a cura di), Giambattista Vico e l’enciclopedia dei saperi, Lecce, Pensa, 2007, pp. 257-267. 948 – L’ingeniosa ratio di Vico tra sapienza e prudenza, in C. Cantillo (a cura di), Forme e figure del pensiero, Napoli, La Città del Sole, 2007, pp. 225-240. 949 – Mediterraneo e filosofia dell’interculturalità, in F.M. Cacciatore, A. Niger (a cura di), Il Mediterraneo. Incontro 105 di culture, Roma, Aracne, 2007, pp. 29-42. 950 – I saperi umani e la consulenza filosofica (in collab. con V. Gessa Kurotschka), in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007, pp. 13-34. 951 – L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saper umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007, pp. 319-327. 952 – Para Leopoldo Zea, in «Cuadernos Americanos», vol. 4, 2007, n. 122, pp. 177-183. 953 – Formas y figuras del ingenio en Cervantes y Vico, in «Quaderns de Filosofia i Ciència», n. 37, 2007, pp. 57-70. 954 – Praxis e storia in Sartre, in G. Stoica, R.V. Pantelimon, E. Tusa (coord.), Gramsci si Sartre mari gânditori ai secolului XX, Bucuresti, Editura ISPRI, 2007, pp. 114-123. 955 – Per una redifinizione del concetto di identità, in M. Mafrici, M. R. Pellizzari (a cura di), Tra res e imago. In memoria di Augusto Placanica, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007, t. II, pp. 717-728. C) 956 – Recensione di A. Tortora, Presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XV-XVII), Salerno, Laveglia, 2004, in «Bollettino della Società di Studi Valdesi», CXXIV, dicembre 2007, pp. 134-137. F) 957 – Storicismo in nuove dimensioni (in collab. con A. Giugliano), in G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Storicismo e storicismi, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2007, pp. VII-XI. 958 – Presentazione (con D. Conte, F. Lomonaco, E. Massimilla) di G. Cacciatore, D. Conte, F. Lomonaco, E. 106 Massimilla (a cura di), Filosofia, storia, letteratura. Scritti in onore di Fulvio Tessitore, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007, pp. 5-7. 959 – Anarchia illuminata. Una nuova sintesi tra universalismo e contestualismo nell’età contemporanea, prefazione a M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica, Napoli, Liguori, 2007, pp. XI-XXI. 960 – Verità e storicità nella metafisica dell’espressione di Nicol, prefazione a E. Nicol, Metafisica dell’espressione, traduzione, introduzione e cura di M.L. Mollo, Napoli, La Città del Sole, 2007, pp. 9-26. 961 – La Pedagogia come etica civile, premessa a S. Valitutti, La rivoluzione giovanile, Roma, Armando, 2007, pp. V-X. 962 – Presentación di J.M. Sevilla, El Espejo de la época. Capítulos sobre G. Vico en la cultura hispánica, Napoli, La città del Sole, 2007, pp. 13-16. 963 – Prefazione (in collab. con V. Gessa Kurotschka) a G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka (a cura di), Saper umani e consulenza filosofica, Roma, Meltemi, 2007, pp. 9-11. 964 – Presentazione di G. Magnano San Lio, Forme del sapere e struttura della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. Dopo Dilthey, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007, pp. 7-9. 965 – Fulvio Tessitore. Lo storicismo come filosofia dell’evento. Dialogo filosofico a cura di G. Cacciatore, in «Iride», XX, 2007, n. 52, pp. 483-529. G) 966 – Vacca, il riformismo italiano in odore di controriformismo, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 gennaio 2007. 967 – Una svolta necessaria, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 gennaio 2007. 968 – Nuove professioni. Il filosofo diventa consulente etico, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 gennaio 2007. 969 – Zero centrocampisti. È l’ultimo schema, in «Corrie- 107 re del Mezzogiorno», 30 gennaio 2007. 970 – Tutte soluzioni tampone, ma per tre anni nessuno ha pensato ai lavori, in «Corriere del Mezzogiorno», 14 febbraio 2007. 971 – La presunzione a volte gioca brutti scherzi, in «Corriere del Mezzogiorno», 20 marzo 2007. 972 – Dovremo sorbirci un altro anno di C, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 marzo 2007. 973 – Squadra senza muscoli e senza dignità, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2007. 974 – È bene riflettere solo sul futuro, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 aprile 2007. 975 – Relativismo e relatività nel dibattito filosofico contemporaneo, in «Corriere del Mezzogiorno», 17 maggio 2007 [anche in Come alla corte di Federico II, 8, Università di Napoli Federico II, 2007, pp. 17-18]. 976 – Diversità e tolleranza, una lunga storia europea, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 giugno 2007. 977 – Due volumi in onore dei settant’anni di Fulvio Tessitore, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 giugno 2007. 978 – Venezuela: a proposito di un articolo di Pierluigi Battista, in «Liberazione», 19 agosto 2007. 979 – Carlo Pisacane, il volto democratico e socialista del Risorgimento, in «Liberazione», 22 agosto, 2007. 980 – Vi spiego perché di calcio non scrivo più, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 agosto 2007. 981 – Chavez e la visione apocalittica della stampa italiana, in «Liberazione», 26 agosto 2007. 982 – De Luca va oltre i poli, ma per rafforzare se stesso, in «Corriere del Mezzogiorno», 28 settembre 2007. 983 – Valitutti, l’etica che diventa azione politica, in «Il Mattino» (cronaca di Napoli), 30 settembre 2007 [anche su «Il Mattino», cronaca di Salerno, 1 ottobre 2007]. 984 – Apriamo un dibattito serio ed informato sulla riforma della Costituzione di Chavez, in «Liberazione», 21 novembre 2007. 108 985 – Valitutti e la scuola nel libro di Ietto, in «Corriere del Mezzogiorno» (ed. di Salerno), 30 novembre 2007. 986 – La lezione democratica e il caudillo inesistente, in «Liberazione», 4 dicembre 2007. * * * 2008 A) 987 – G. 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Neacsu (coord.), Sartre în gândirea contemporanea, Craiova, Editura Universitaria, 2008, pp. 32-44. 999 – Note su Cenni e voci. Saggi di sematologia vichiana di J. Trabant, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXVIII, 2008, n. 1, pp. 171-183. 1000 – L’immutato amore per gli apostoli del socialismo, in C. Raia (a cura di), Per Gaetano Arfé. Testimonianze, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2008, pp. 48-53. 1001 – Cultura e strutture del sapere tra Ottocento e Novecento (in collab. con L. Rossi) in G. Cacciatore, L. Rossi (a cura di), Storia di Salerno, vol. III, Salerno in età contemporanea, Avellino, Sellino Editore, 2008, pp. 235-243. 1002 – Forme e figure dell’ingegno in Cervantes e Vico, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», III, 2007-2008, n. 3, pp. 13-24. 1003 – Percorsi della filosofia italiana nell’opera di Santucci, in W. Tega, L. Turco (a cura di), Un illuminismo scettico. La ricerca filosofica di Antonio Santucci, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 19-41. 110 1004 – Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco nella tradizione della filosofia civile italiana (in collab. con M. Martirano), in G. Minichiello, C. Gily (a cura di), Il pensiero politico meridionale, “Centro di Ricerca Guido Dorso”, Annali 2007, Avellino, Edizioni del Centro Dorso, 2008, pp. 219-235, 1005 – Una nuova edizione di Teoria e storia della storiografia di Benedetto Croce, in «Archivio di storia della cultura», XXI, 2008, pp. 267-272. 1006 – Per il settantesimo compleanno di Fulvio Tessitore, in «Archivio di storia della cultura», XXI, 2008, pp. 373-376. 1007 – Elias Canetti: la vita delle parole, in E. De Conciliis (a cura di), La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti, Milano, Mimesis, 2008, pp. 157-176. 1008 – Carlo Pisacane. Socialismo e Risorgimento, in «Rassegna Storica Salernitana», n. 49, 2008, pp. 163-173. 1009 – Genesi, crisi e trasformazione della filosofia civile italiana, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 9-18. 1010 – Filosofia “civile” e filosofia “pratica” in Giambattista Vico, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 21-43. 1011 – La filosofia civile nello storicismo di Antonio Labriola, in G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 233-252. 1012 – Carlo Pisacane: Socialismo e Risorgimento, in R. Diana (a cura di), Il pensiero civile a Napoli fra Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri, 2008, pp. 59-77. 1013 – Croce: l’idea di Europa tra crisi e trasformazione, in R. Diana (a cura di), Il pensiero civile a Napoli fra Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri, 2008, pp. 189-215. 1014 – Etica filosofica ed etica politica in Giovanni Amendola, in R. Diana (a cura di), Il pensiero civile a Napoli fra 111 Ottocento e Novecento, Napoli, Il Denaro Libri, 2008, pp. 217-229. 1015 – L’unità di storia filologica e logica speculativa. Gentile e la storia della filosofia, in R. Lazzari, M. Mezzanzanica, S. Storace (a cura di) Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini, Mimesis, Milano, 2008, pp. 51-60. 1016 – Ancora sul positivismo e la storia, in G. Bentivegna, F. Coniglione, G. Magnano San Lio (a cura di), Il positivismo italiano: una questione chiusa?, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, pp. 14-26. 1017 – Giovanni Cuomo. Le istituzioni culturali e la nascita del Magistero, in V. Bonani (a cura di), Giovanni Cuomo. Una vita per Salerno e il Mezzogiorno, Salerno, Editrice Gaia, 2008, pp. 101-108. 1018 – Il posto dell’Oriente nel pensiero di Vico, in D. Armando, F. Masini, M. Sanna (a cura di), Vico e l’Oriente: Cina, Giappone, Corea, Roma, Tiellemedia Editore, 2008, pp. 25-35. 1019 – Filosofia e crisi in Ortega e Nicol, in G. M. Pizzuti (a cura di), Studi in onore di Ciro Senofonte, Napoli, ESI, 2008, pp. 13-28. 1020 – Universalismo etico e differenza: a partire da Vico, in «Bollettino del Centro di Studi vichiani», XXXVIII, 2/2008, pp. 7-26. 1021 – L’oggetto della scienza in Vico, in G. Federici Vescovini, O. Rignani (a cura di), Oggetto e spazio: fenomenologia dell’oggetto, forma e cosa dai secoli XIII-XIV ai postcartesiani, Firenze, Sismel Edizioni, 2008, pp. 227-240. 1022 – La logica poetica e l’identità meticcia. Note sul nesso tra immaginazione, identità e interculturalità, in V. Gessa Kurotschka, C. De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità, Milano, Mimesis, 2008, pp. 213-229. 1023 – Storia e marxismo in Sartre, in G. Farina (a cura di), Sartre après Sartre, Torino, Aragno, 2008, pp. 215-226. 1024 – Universalismo etico y diferencia: a partir de Vico, in «Cuadernos sobre Vico», nn. 21-22, 2008, pp. 57-72. 112 F) 1025 – Introduzione (in collab. con L. Rossi) a Storia di Salerno, vol. III, Salerno in età contemporanea, Avellino, Sellino Editore, 2008, pp. 15-19. 1026 – Introduzione a G. Buono (a cura di), Contigo aprendí. Studi iberici e iberoamericani in onore di Antonio Scocozza, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2008, pp. 9-13. 1027 – Fulvio Tessitore. Lo storicismo come filosofia dell’evento. Dialogo filosofico a cura di G. Cacciatore, in F. Tessitore, Per una critica di me stesso. I vent’anni dell’Archivio di storia della cultura, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2008, pp. 9-66. 1028 – Prefazione a P. Di Vona, L’ontologia dimenticata. Dall’ontologia spagnola alla Critica della ragion pura, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 7-11. 1029 – Premessa (in collab. con M. Martirano) a G. Cacciatore, M. Martirano (a cura di), Momenti della filosofia civile italiana, Napoli, La Città del Sole, 2008, pp. 7-8. 1030 – Presentazione (in collab. con P. Di Giovanni) a P. Di Giovanni (a cura di), La cultura filosofica italiana attraverso le riviste (1945-2000), vol. II, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 7-8. G) 1031 – Giunte nuove, sono d’accordo, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 gennaio 2008. 1032 – “Guernica 1937”, un pezzo di storia che spiega il Novecento, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 gennaio 2008. 1033 – Il socialismo affronta la globalizzazione, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 febbraio 2008. 1034 – D’Agostino e la Salerno yiddish, in «Corriere del Mezzogiorno», 16 febbraio 2008. 1035 – Il mercato cancellò la politica, in «Roma», 9 marzo 2008. 113 1036 – Promessa mantenuta. E adesso arrivederci in serie A, in «Corriere del Mezzogiorno», 29 aprile 2008. 1037 – Teologia politica. Il nuovo pericolo per l’Occidente, in «Il Mattino» (Cultura Napoli), 1 giugno 2008. 1038 – L’emergenza della fame, in «Roma», 8 giugno 2008. 1039 – PD campano, afasia totale, in «Roma», 15 giugno 2008. 1040 – Le due virtù della politica, in «Roma», 22 giugno 2008. 1041 – Sopportare, c’è un limite, in «Roma», 29 giugno 2008. 1042 – Università nel mirino, in «Roma», 6 luglio 2008. 1043 – Eutanasia, ieri e oggi, in «Roma», 13 luglio 2008. 1044 – Una chance per rinascere, in «Roma», 20 luglio 2008. 1045 – Mezzogiorno, ora si svolti, in «Roma», 27 luglio 2008. 1046 – Dai militari alla fiducia, in «Roma», 3 agosto 2008. 1047 – Olimpiadi tra sport e politica, in «Roma», 10 agosto 2008. 1048 – La brutta fine della sinistra senza più idee, in «Roma», 17 agosto 2008. 1049 – Torniamo alla realtà, in «Roma», 24 agosto 2008. 1050 – Il meridione e la scuola, in «Roma», 31 agosto 2008. 1051 – Caso Englaro, non cambia nulla, in «Roma», 7 settembre 2008. 1052 – Ora si teme un effetto boomerang, in «Roma», 10 settembre 2008. 1053 – Via gli slogan dalla scuola, in «Roma», 14 settembre 2008. 1054 – Kalashnikov e zone franche, in «Roma», 21 settembre 2008. 1055 – Un’analisi spietata senza risentimento, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 settembre 2008. 1056 – L’economia? La sinistra parli, in «Roma», 28 settembre, 2008. 1057 – Psicosi razzista: limiti culturali, più che politici, in «Roma», 12 ottobre 2008. 1058 – Vitiello interpreta Vico tra storia sacra e profana, in «Corriere del Mezzogiorno», 26 ottobre 2008. 114 1059 – Cara sinistra, non solo cortei, in «Roma», 26 ottobre 2008. 1060 – Sì a Obama per l’economia, in «Roma», 2 novembre 2008. 1061 – Atenei, mai più risse e steccati, in «Roma», 9 novembre 2008. 1062 – Eluana, norme e poco clamore, in «Roma», 16 novembre 2008. 1063 – Lévi-Strauss: cent’anni di vita, in «Roma», 23 novembre 2008. 1064 – Inquietudini dall’Oriente, in «Roma», 3 dicembre 2008. 1065 – Commissariare il Comune e la Regione, in «Roma», 7 dicembre 2008. 1066 – Umanità, ferite e diritti violati, in «Roma», 14 dicembre 2008. 1067 – PD, a chi serve tenerlo in vita?, in «Roma», 21 dicembre 2008. 1068 – 2009: povertà in agenda, in «Roma», 28 dicembre 2008. * * * 2009 A) 1069 – L’infinito nella storia. Saggi su Vico, con una postfazione di V. Vitiello, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2009. 1070 – G. Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009. 115 B) 1071 – Tango: tra filosofia di vita e intercultura, in «Cultura Latinoamericana», n. 8-9, 2006-2007 [editi nel 2009], pp. 493-502. 1072 – Universalismo e particolarismo, oggi. Un punto di vista filosofico, in A. Pirni (a cura di), Logiche dell’alterità, Pisa, ETS, 2009, pp. 157-169. 1073 – Intercultura e diritti di cittadinanza, in «Pedagogia più Didattica», 2, aprile 2009, pp. 19-25. 1074 – Fenomenologia esistenzialismo storicismo (in collab. con G. Cantillo), in G. Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009, pp. 9-39. 1075 – Vico tra Storicismo e Historismus, in «Philosophia. Bollettino della Società Italiana degli storici della filosofia», I, 2009, 1, pp. 113-131. 1076 – Momenti della filosofia napoletana attraverso le riviste, in A. Garzya (a cura di), Le riviste a Napoli dal XVIII secolo al primo Novecento, “Quaderni dell’Accademia Pontaniana”, 53, 2008 [uscito nel 2009], pp. 63-73. 1077 – “Rivoluzione passiva” e critica del presente, in «Logos», n.s., n. 4-5, 2009-2010, pp. 351-356. 1078 – La “duplice fiamma della vita”. Divagazioni filosofiche su amore e desiderio, in A. Amendola, E. D’Agostino, S. Santonicola (a cura di), Il desiderio preso per la coda, Salerno, Plectica, 2009, pp. 11-33. 1079 – La philosophie de l’historisme de Vincenzo Cuoco, in M. Boussy (éd.), Vincenzo Cuoco. Des Origines politiaques du XIXe siècle, Paris, Publications de la Sorbonne, 2009, pp. 183-194. 1080 – Universalismo e particolarismo, oggi. Un punto di vista filosofico, in «Archivio di storia della cultura», XXII, 2009, pp. 321-331. 1081 – Vico, in F. Coniglione, M. Lenoci, G. Mari, G. Polizzi (a cura di), Manuale di base di storia della filosofia, Firenze, University Press, 2009, pp. 101-110. 116 1082 – Pratiche filosofiche (in collab. con V. Gessa Kurotscka), in F. Coniglione, M. Lenoci, G. Mari, G. Polizzi (a cura di), Manuale di base di storia della filosofia, Firenze, University Press, 2009, pp. 259-261. 1083 – Kant e la “comunità degli uomini”. Note in margine alle pagine kantiane di Pasquale Salvucci, in N. De Sanctis, N. Panichi (a cura di), Politicità della filosofia. Atti delle giornate di sudio in memoria di Pasquale Salvucci, Urbino, Quattroventi, 2009, pp. 25-43. 1084 – “Storia falsa” e libera critica storica, in «Historia Magistra», I, 2009, n. 2, pp. 173-178. 1085 – Eduardo Nicol. Una filosofía del hombre entre metafísica de la expresión e histoicidad crítica, in R. Horneffer (ed.), Eduardo Nicol (1907-2007). Homenaje, México, UNAM, 2009, pp. 59-74. 1086 – Voce Benedetto Croce, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, pp. 186-190. 1087 – Voce Soggettivo, soggettivismo, soggettività, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, pp. 778-780. 1088 – Voce Storicismo, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, pp. 814-818. 1089 – Voce Universale, in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, 2009, p. 874. 1090 – Europa e Mediterrandeo tra identità e interculturalità, in «Civiltà del Mediterraneo», n. 15, giugno 2009, pp. 117-132. 1091 – Contributo in Note su Vico Storia natura linguaggio, di V. Vitiello, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXIX, 2/2009, pp. 110-113. C) 1092 – Recensione di S. Woidich, Vico und die Hermeneutik. Eine rezeptionsgeschichtliche Annäherung, Würzburg, Koenigshausen und Neumann, 2007, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XXXIX, 2/2009, pp. 173-178. 117 D) 1093 – Scheda di C. Pinto, Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze realtà (1945- 1964), Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2008, in «Historia Magistra», n. 1, 2009, p. 169. F) 1094 – Presentazione (in collab. con A. Di Miele) di G. Cacciatore, A. Di Miele (a cura di), In ricordo di un maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte, Napoli, Scripta Web, 2009, pp. 7-8. 1095 – Prefazione a A. Manzi, Un sacco brutto. Trentuno tesi sulla Napoli del degrado, Sarno (Sa), Edizioni dell’Ippogrifo, 2009, pp. 7-12. 1096 – Premessa a F. Perricelli (a cura di), Miti, antimiti e storie al femminile nelle letterature e nelle culture ispaniche, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2009, pp. 9-10. G) 1097 – Napoli, la crisi e la via d’uscita di Napolitano, in «Roma», 4 gennaio 2009. 1098 – Solo lo tsunami li spazzerà via, in 1«Roma», 1 gennaio 2009. 1099 – Guerre vere e baruffe TV, in «Roma», 18 gennaio 2009. 1100 – Lo storico umbro Salvatorelli e la ricca eredità dell’antifascismo, in «Corriere del Mezzogiorno», 23 gennaio 2009. 1101 – Con Obama, oltre il buio, in «Roma», 25 gennaio 2009. 1102 – I cattolici napoletani dal moderatismo al partito popolare, in «Corriere del Mezzogiorno», 27 gennaio 2009. 118 1103 – Lo “sfasciume” del nostro Sud, in «Roma», 1 febbraio 2009. 1104 – È una sinistra ormai immobile, in «Roma», 22 febbraio 2009. 1105 – I migliori anni del PCI nel libro di Colasante, «Corriere del Mezzogiorno», 25 febbraio 2009. 1106 – Città discariche e incubo ronde, in «Roma», 1 marzo 2009. 1107 – Contraddizioni globali e soluzioni locali: l’integrazione possibile, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 marzo 2009. 1108 – Città in crisi, antiche colpe, in «Roma», 15 marzo 2009. 1109 – Piazza fatua e politica out, in «Roma», 22 marzo 2009. 1110 – Il PD sempre nel tunnel, in «Roma», 29 marzo 2009. 1111 – Nuove identità per i moderati, in «Roma», 5 aprile 2009. 1112 – Non si ripetano vecchi scenari, in «Roma», 19 aprile 2009. 1113 – Sinistra a picco perché rimuove i bisogni veri, in «Roma», 10 maggio 2009. 1114 – Stato, partiti e tanti conflitti, in «Roma», 17 maggio 2009. 1115 – Parlate un pò dell’Europa, in «Roma», 31 maggio 2009. 1116 – Obama: mai negare la storia, in «Roma», 7 giugno 2009. 1117 – Un’occasione per riflettere, in «Roma», 9 giugno 2009. 1118 – Calcio-spettacolo e mezze verità, in «Roma», 14 giugno 2009. 1119 – La questione cattolica e il caso Napoli, in «Il Mattino» (cronaca di Napoli), 23 giugno 2009. 1120 – La Napoli del degrado in 31 voci, in «Roma», 2 luglio 2009. 119 1121 – Sicurezza sì, emotività no, in «Roma», 5 luglio 2009. 1122 – Il Papa, l’etica e il mercato, in «Roma», 12 luglio 2009. 1123 – Se il Sud perde anche i cervelli, in «Roma», 19 luglio 2009 1124 – Lo scandalo del “Crescent”, in «Roma», 26 luglio 2009. 1125 – Crescent: siamo alla bega strapaesana, in «Cronache del Mezzogiorno», 31 luglio 2009. 1126 – Il mare, un limite e un confine, «Roma», 5 settembre 2009. 1127 – Salerno, dal locale al globale (in collab. con L. Rossi), in «Roma», 26 settembre 2008. 1128 – Il nuovo tempo della politica, in «Roma», 27 settembre 2009. 1129 – Nuovi riflettori sul povero sud, in «Roma», 4 ottobre 2009. 1130 – Democrazia senza eccessi, in «Roma», 11 ottobre 2009. 1131 – Nella riflessione morale il riscatto del paese, in «Roma», 27 ottobre 2009. 1132 – L’ateneo non è un’azienda, in «Roma», 1 novembre 2009. 1133 – Il muro cadde, ripartiamo da lì, in «Roma», 8 novembre 2009. 1134 – Avanza la fame, non c’è giustizia, in «Roma», 22 novembre 2009. 1135 – Disoccupazione oltre il dramma, in «Roma», 6 dicembre 2009. 1136 – L’individuo e la comunità: l’etica secondo Cantillo, in «Roma», 20 dicembre 2009. 1137 – Il consulente filosofico? Ecco a che cosa serve (in collab. con R. Viti Cavaliere), in «Corriere del Mezzogiorno», 20 dicembre 2009. 1138 – Niente sinistra senza cultura, in «Roma», 20 dicembre 2009. 120 1139 – Quando i partiti perdono grinta, in «Roma», 27 dicembre 2009. * * * 2010 A) 1140 – G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità. Tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010. 1141 – G. Cacciatore, G. Cantillo, A quattro mani. Saggi di filosofia e storia della filosofia, a cura di M. Martirano, Salerno, Edizioni Marte, 2010. 1142 – G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità. Religione e teologia politica, Napoli, Guida, 2010. 1143 – Fatti Analisi Opinioni. Scritti giornalistici (1989- 2009), a cura di M. Martirano e R. Diana, introduzione di F. Tessitore, premessa di F. Lomonaco, Salerno, Editrice Gaia, 2010. B) 1144 – Etica interculturale e universalismo “critico”, in G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità. Tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010, pp. 29-42. 1145 – Hegel e la metafora, in «Rivista di storia della filosofia», LXV1, 2010, pp. 123-129. 1146 – Ricordo di Umberto, in Aa.Vv., Ad Umberto, la sua CGIL, Salerno, Tipografia Fusco, 2010, pp. 3-5. 1147 – Filosofia come istituzione?, in G. Macrì, A. Scocozza (a cura di), Rendiconti Dottorati di ricerca in Teoria e storia delle istituzioni, Napoli, La Città del Sole, 2010, pp. 15-25. 1148 – Storicismo speculativo e storicismo critico, in G. Po- 121 lizzi (a cura di), Tornare a Gramsci. Una cultura per l’Italia, Grottaferrata (RM), Avverbi Edizioni, 2010, pp. 197-212. 1149 – Filosofia e crisi in Ortega e Nicol, in E. Schafroth, C. Schwarzer, D. Conte (hrsg), Krise als Chance aus historischer und aktueller Perspektive, Oberhausen, Athena, 2010, pp. 349-363. 1150 – L’immaginario viaggio di Platone in Italia. Vincenzo Cuoco e il suo romanzo filosofico, in M. Bettetini, S. Poggi (a cura di), I viaggi dei filosofi, Milano, Raffaello Cortina, 2010, pp. 177-193. 1151 – Lo storicismo nell’“Archivio”, in G. Bentivegna (a cura di), «Archivio di storia della cultura». 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De La Fuente Lora (eds.), Barroco y Cultura Novohispana, Universidad de Puebla, México, Ediciones EON, 2010, pp. 21-46. 1170 – Vita e storia tra Zubiri e Dilthey, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 5/2010, pp. 101-108. 1171 – Democrazia, liberalismo, socialismo nel pensero di Giovanni Amendola, in «Lyceum», n. 40, 2010, pp. 57-61. E) 1172 – El gran majadero de América. Simón Bolívar: pensamiento político y constitucional, edición a cargo de G. Cacciatore y A. Scocozza, Bogotá, Editorial Planeta, 2010. F) 1173 – Dentro le differenze: riflessioni sull’etica interculturale (in collab. con G. D’Anna), introduzione a G. Cacciatore, G. D’Anna (a cura di), Interculturalità, Tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010, pp. 9-26. 1174 – Presentazione (in collab. con R. Diana) di G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità. Religione e teologia politica, Napoli, Guida, 2010, pp. 7-10. 1175 – Introduzione a G. Cacciatore, R. Diana (a cura di), Interculturalità. Religione e teologia politica, Napoli, Guida, 2010, pp. 11-40. 1176 – Prefazione di A. Mascolo, La vertigine del nulla. Nichilismo e pensiero tragico in Ángel Ganivet, AcirealeRoma, Bonanno Editore, 2010, pp. 9-11. 1177 – Prefazione a U. Baldi, Prima che altro silenzio entri negli occhi. Storie di salernitani dall’antifascismo alla Resistenza, Quaderni dell’Istituto Oliva, n. 1, 2010, pp. 7-11. 124 1178 – Introduzione a P. Piovani, Normatività e società, in Id., Per una filosofia della morale, a cura di F. Tessitore, Milano, Bompiani, 2010, pp. 49-82. 1179 – Premessa a E. Bloch, La filosofia di Kant. Dalle Leipziger Vorlesungen, trad. it. di V. Scaloni, Milano-Udine, Mimesis, 2010, pp. 7-10. 1180 – Premessa a A. Pezzé, L.Tassi (a cura di), Cinema e letteratura in ambito iberico e iberoamericano. Giornata di studi in omaggio al prof. Vito Galeota, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2010, pp. VII-IX. G) 1181 – Extracomunitari e cittadinanza, in «Roma», 10 gennaio 2010. 1182 – Questa sinistra dei due cowboy, in «Roma», 24 gennaio 2010. 1183 – Mai ideologia tra etica e diritti, in «Roma», 7 febbraio 2010. 1184 – Se la cultura salverà l’Italia, in «Roma», 14 febbraio 2010. 1185 – In primo luogo sia la cultura, in «Roma», 21 febbraio 2010. 1186 – Sulla pedofilia solo la verità, in «Roma», 21 marzo 2010. 1187 – La sanità di Obama e i “primati” italiani, in «Roma», 8 aprile 2010 1188 – Riforme, l’ora della svolta, in «Roma», 11 aprile 2010. 1189 – PDL, chiarezza. Mai più “inciuci”. in «Roma», 18 aprile 2010. 1190 – Salerno 1925. Il primo maggio che sfidò il fascismo, in «Il Mattino» (cronaca di Salerno), 27 aprile 2010. 1191 – Dramma lavoro, riaccendere subito i riflettori, in «Roma», 3 maggio 2010. 1192 – Vitiello, quando l’io riesce a incontare la seconda persona, in «Corriere del Mezzogiorno», 8 maggio 2010. 125 1193 – Il Trombetti assessore censurato da una sinistra sguaiata, in «Roma», 19 maggio 2010 1194 – Troppi tagli alla cultura, in «Roma», 30 maggio 2010. 1195 – Culture, intrecci nel pallone, in «Roma», 20 giugno 2010. 1196 – Modelli politici in grave crisi, in «Roma», 4 luglio 2010 1197 – I guasti dei tagli all’Università, in «Roma», 18 luglio 2010. 1198 – Una cara amicizia. Un rapporto al di là della fede e della politica, in «Agire», XXXVIII, n. 31, 5 settembre 2010, pp. 1 e 9. 1199 – Disoccupati, una tragedia, in «Roma», 26 settembre 2010. 1200 – L’Italia diventi un paese normale, in «Roma», 3 ottobre 2010. 1201 – Le picconate contro Edwards, in «Roma», 10 ottobre 2010. 1202 – Non c’è futuro senza ricerca, in «Roma», 17 ottobre 2010. 1203 – Antonio Gramsci, il Risorgimento e la storia d’Italia, in «Corriere» (quotidiano di Avellino), 17 ottobre 2010, pp. 14-15. 1204 – L’unità, valore che cementa, in «Roma», 24 ottobre 2010. 1205 – Triste tramonto del Cavaliere, in «Roma», 31 ottobre 2010 1206 – Il mea culpa di Obama, in «Roma», 7 novembre 2010. 1207 – Troppe tattiche e il paese teme, in «Roma», 14 novembre 2010. 1208 – Nel cratere ancora sommersi dignità e bene comune, in «Roma», 24 novembre 2010. 1209 – Benedetto XVI e la modernità, in «Roma», 27 novembre 2010. 126 1210 – La volgarità di Verdini, in «Roma», 5 dicembre 2010. 1211 – Wikileaks, una sfida per la politica, in «Roma»,12 dicembre 2010. 1212 – Sepe, chance per la politica, in «Roma», 19 dicembre 2010. * * * 2011 A) 1213 – El búho y el cóndor. Ensayos en torno a la filosofía hispanoamericana, prólogo de A. Scocozza, epílogo, edición y traducción de M.L. Mollo, Bogotá, Editorial Planeta, 2011. B) 1214 – Neapel und Vico (in collab. con M. Martirano e M. Sanna), in J. Rohbeck, W. Rother (hrsg.), Die Philosophie de 18. Jahrhunderts, vol. 3, Italien, (Nuova edizione dello Ueberweg, “Grundriss der Geschichte der Philosophie”), Schwabe, Basel, 2011, pp. 89-128. 1215 – Su alcuni aspetti della lettura gramsciana di Marx, in M. Cingoli, V. Morfino (a cura di), Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, Milano, Edizioni Unicopli, 2011, pp. 353-366. 1216 – Per un profilo di Andrea Sorrentino, in A. Sorrentino, La cultura mediterranea nei Principi di Scienza Nuova, a cura di A. Scognamiglio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 7-13. 1217 – Die Krise des Historismus und die Unvollständigkeit der Moderne, in S. Wilke (hrsg.), Moderne und Historizität, Klassik Stiftung Weimar, Weimar, Verlag der Bauhaus-Universität, 2011, pp. 121-133. 127 1218 – La ética de la libertad entre relativismo y pluralismo, in P. Badillo O’ Farrel (ed.), Filosofía de la razón plural, Madrid, Editorial Biblioteca nueva, 2011, pp. 71-89. 1219 – Cittadinanza interculturale, in «Cirpit Review», n. 2, 2011, pp. 16-26. 1220 – Nuove “frontiere” e nuovi concetti per la storia della filosofia, in «Philosophia», III, 2/2010 - 1/2011, pp. 13-22. 1221 – Hybrid Identities and Memory, in «Iris. European Journal of Philosophy and Public Debate», III, 5, 2011, pp. 113-124. 1222 – Il pensiero “insulare” di María Zambrano: mito, metafora, immaginazione dell’umanità originaria, in P. Volpe (a cura di), Sulla rotta di Odisseo… e oltre, Napoli, D’Auria Editore, 2011, pp. 37-52. 1223 – In ricordo di Vanna Gessa Kurotschka, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XLI, 1/2011, pp. 7-14. 1224 – Gramsci, il Risorgimento e la storia d’Italia, in F. Rizzo (a cura di), Risorgimento per lumi sparsi, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 283-294. 1225 – Religione, teologia politica, democrazia, in G. Cunico, D. Venturelli (a cura di), Culture e religioni: la pluralità e i suoi problemi, Genova, Il Melangolo, 2011, pp. 161-178. 1226 – Sull’immaginazione, in «Bollettino della società filosofica italiana», n.s., maggio-agosto 2011, n. 203, pp. 3-14. 1227 – Vico, Croce und der deutsche Historismus, in G. Furnari Luvarà, S. Di Bella (hrsg.), Benedetto Croce und die Deutschen, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2011, pp. 69-81. 1228 – Ortega e Zambrano su Croce, in G. Galasso (a cura di), Croce e la Spagna, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, pp. 299-330. 1229 – La formazione politica e culturale di Giorgio Amendola, in G. Cerchia (a cura di), La famiglia Amendola. Una scelta di vita per l’Italia, Torino, Cerabona Editore, 2011, pp. 251-259. 128 1230 - Gramsci, il Risorgimento e la storia d’Italia, in S. Azzarà, P. Ercolani, E. Susca (a cura di), Dialettica, storia e conflitto. Il proprio tempo appreso nel pensiero. Festschrift in onore di Domenico Losurdo, Napoli, La scuola di Pitagora, 2011, pp. 225-234. 1231 – Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critico-storicistica del neoumanesimo, in «Nóema», n. 2, 2011, pp. 1-15 [http://riviste.unimi.it/index.php/noema]. 1232 – Garin e Dilthey, in O. Catanorchi, V. Lepri (a cura di), Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 295-319. 1233 – Alfieri “europeo”. Su una nuova edizione tedesca della Vita, in «Fronesis», n. 13, 2011, pp. 17-24. 1234 – Interculturalità e cittadinanza, in R. Diana, S. Achella (a cura di), Filosofia interculturale. Identità, riconoscimento, diritti umani, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 255-262. 1235 – Le “borie” di Vico tra etica e filosofia della storia, in «Rivista di Filosofia», CII, 2011, n. 3, pp. 363-380. 1236 – Intercultural Ethics and “Critical” Universalism, in «Cultura. International Journal of Culture and Axiology», 8 (2), 2011, pp. 23-38. 1237 – Le filosofie del Risorgimento, in «Rassegna Storica Salernitana», n. 55, 2011, pp. 169-186. 1238 – El objeto de la ciencia en Vico, in J. Velázquez Delgado, S. Florencia De la Campa (eds.), Giambattista Vico y Baltasar Gracián. Dos visiones del Barroco, México D.F., Universidad Autónoma Metropolitana, Biblioteca de Signos, 2011, pp. 21-39. 1239 – Amarante e Biamonte nella sinistra e nel mondo del lavoro, in «L’Agenda», nn. 114-115, 2011, pp. 16-17. C) 1240 – Recensione di R. Loretelli, L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, Roma-Bari, Laterza, 2010, in «Philosophia», V, 2011, 2, pp. 138-142. 129 G) 1241 – Bene comune e diritti sacri, in «Roma», 9 gennaio 2011. 1242 – Basta Gossip. Italia a pezzi, in «Roma», 16 gennaio 2011 [con il titolo Italia a pezzi. Basta Gossip, anche in «Roma», cronache di Salerno]. 1243 – PCI, una storia contraddittoria, in «Roma», 25 gennaio 2011. 1244 – Se l’Italia non ha memoria, in «Roma», 30 gennaio 2011 [con il titolo Il giorno della memoria, anche in «Roma», cronache di Salerno]. 1245 – Il mondo brucia e l’Italia tace, in «Roma», 20 febbraio 2011. 1246 – Unità d’Italia, in «Corriere del Mezzogiorno», 25 febbraio 2011. 1247 – Atenei si spera in Trombetti, in «Roma», 27 febbraio 2011. 1248 – Toccato il fondo vadano a casa, in «Roma», 6 marzo 2011. 1249 – Scuola pubblica perno dell’Italia, in «Roma», 13 marzo 2011. 1250 – Basta pacchianate su Salerno capitale, in «Corriere del Mezzogiorno», 18 marzo 2011. 1251 – Dopo le catastrofi ripensare il mondo, in «Roma», 20 marzo 2011. 1252 – Non votiamo chi imbratta Salerno, «Corriere del Mezzogiorno», 31 marzo 2011. 1253 – Lampedusa come l’Aquila, in «Roma», 3 aprile 2011. 1254 – Abbagnano, figlio esistenzialista di un’altra Salerno, in «Corriere del Mezzogiorno» [edizione di Salerno], 16 aprile 2011. 1255 – Chi controlla i libri di scuola, in «Roma», 17 aprile 2011. 1256 – 25 aprile, Cirielli non perde il vizio, in «Corriere del Mezzogiorno» [edizione di Salerno], 24 aprile 2011. 130 1257 – Il viaggio di Tessitore nello storicismo “religiosamente laico”, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 maggio 2011. 1258 – Sud, l’opposizione faccia la sua parte, in «Roma», 8 maggio 2011. 1259 – Correttezza esemplare [titolo redazionale incongruo rispetto al contenuto], in «Roma» [edizione di Salerno], 15 maggio 2011. 1260 – Paese sfiduciato e politici distratti, in «Roma», 29 maggio 2011. 1261 – Battisti e l’Italia incompresa, in «Roma», 12 giugno 2011. 1262 – Il caos è colpa anche della Lega, in «Roma», 26 giugno 2011. 1263 – Una manovra scellerata, in «Roma», 3 luglio 2011 1264 – Senza lobby di umanisti ma comunque uniti nella ricerca del futuro (in collab. con F. Lomonaco), in «Corriere del Mezzogiorno», 6 luglio 2011. 1265 – Una carcassa che va a fondo, in «Roma», 10 luglio 2011. 1266 – Mostri in casa nell’Occidente, in «Roma», 31 luglio 2011. 1267 – Giorni infernali, la scure dei tagli, in «Roma», 7 agosto 2011. 1268 – Rivolte giovanili, le cause del male, in «Roma», 14 agosto 2011. 1269 – Giuseppe Amarante, il ricordo negli scritti del grande sindacalista, in «Corriere del Mezzogiorno», 21 agosto 2011. 1270 – Una manovra spericolata, in «Roma», 4 settembre 2011. 1271 – Restituiteci il vero Avanti, in «Roma», 18 settembre 2011. 1272 – “Forza gnocca” e le morti bianche, in «Roma», 9 ottobre 2011. 1273 – Indignados e buona politica, in «Roma», 16 ottobre 2011. 131 1274 – E ora la Libia va ricostruita, in «Roma», 23 ottobre 2011. 1275 – Masullo indaga “la libertà e le occasioni”, in «Roma», 6 novembre 2011. 1276 – Ora il tempo è scaduto, in «Roma», 13 novembre 2011. 1277 – Nessun “golpe”. Svolta urgente, in «Roma», 20 novembre 2011. 1278 – Napolitano “risorgimentale”, in «Roma», 27 novembre 2011. 1279 – Il logo è semplice, perciò a me piace, in «Corriere del Mezzogiorno», 30 novembre 2011. 1280 – Ma Monti cosa chiede ai ricchi?, in «Roma», 4 dicembre 2011. 1281 – Attacchi razzisti brutto segnale, in «Roma», 18 dicembre 2011. * * * 2012 A) 1282 – G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana, F. Santoianni (a cura di), Per una relazionalità interculturale. Prospettive interdisciplinari, Milano-Udine, Mimesis, 2012. 1283 – G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012. B) 1284 – Alcune riflessioni su storia e bios, in «Logos», n.s., 7, 2012, pp. 193-198. 132 1285 – Universalismus und Partikularismus, heute. Ein philosophischer Gesichtspunkt, in B. Henry, A. Pirni (hrsg.), Der Asymmetrische Westen. Zur Pragmatik der Koesistenz pluralistischer Gesellschaften, Bielefeld, Transcript Verlag, 2012, pp. 25-29. 1286 – Verità e filologia. Prolegomeni ad una teoria critica del neoumanesimo, in P. Amodio, E. D’Antuono, G. Giannini (a cura di), L’etica come fondamento. Studi in onore di Giuseppe Lissa, Napoli, Giannini Editore, 2012, pp. 71-86. 1287 – Problematizar la razón, a proposito di José M. Sevilla, Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en Vico y en Ortega, in «Revista de Estudios Orteguianos», 24, 2012, pp. 207-211. 1288 – Socialismo e questione sociale in Carlo Pisacane, in E. Montali (a cura di), Cattaneo e Pisacane. Gli eroi dimenticati, Roma, Ediesse Fondazione Giuseppe Di Vittorio, 2012, pp. 29-36. 1289 – «Pensiero vivente» e pensiero storico. Un paradigma possibile per ripensare la tradizione filosofica italiana, in «Iride», XXV, aprile 2012, n. 65, pp. 135-142. 1290 – Universalismo e cura per la differenza. Dimensioni interculturali nel pensiero di Vanna Gessa Kurotschka, in R. Bonito Oliva (a cura di), Identità in dialogo. La liberté des mers, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 21-30. 1291 – Formas e figura do engenho em Cervantes e Vico, in H. Guido, J.M. Sevilla, S. de Amorim e Silva Neto (org.), Embates da razão: mito e filosofia na obra de Giambattista Vico, Uberlândia, Edufu, 2012, pp. 297-321. 1292 – La “crisi” dello storicismo e l’incompiutezza del moderno, in «Topologik. Rivista internazionale di Scienze Filosofiche, Pedagogiche e Sociali», n. 11, 2012, pp. 7-18. 1293 – Fonti dell’indipendenza latinoamericana e dell’ideologia americanista: la Filosofía del Entendimiento di Andrés Bello, in V. Giannattasio, R. Nocera (a cura di) 1810-1910-2010: l’America Latina tra indipendenza, eman- 133 cipazione e rivoluzione, «Rivista Italiana di Studi Napoleonici», n.s., XLI, 1-2/2008, Napoli, ESI, 2012, pp. 61-77. 1294 – Per un’idea interculturale di cittadinanza, in P. Colonnello, Stefano Santasilia (a cura di), Intercultura Democrazia Società. Per una società educante, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 51-64. 1295 – Un profilo di Leopoldo Zea, in «Pagine inattuali. Rivista di filosofia e letteratura», 1, 2012, pp. 39-49. 1296 – Le filosofie del Risorgimento, in M. Martirano (a cura di), Le filosofie del Risorgimento, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 23-36. 1297 – Per una critica della ragione poetica: l’“altra” razionalità di Vico, in M. Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 109-128. 1298 – Giambattista Vico, in U. Eco (a cura di), L’età moderna e contemporanea, vol. 9, Il Settecento. L’età dell’Illuminismo. Filosofia, Musica, Roma, La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, 2012, pp. 276-290. 1299 – Wilhelm Dilthey, in U. Eco (a cura di), L’età moderna e contemporanea, vol. 11, L’Ottocento. L’età del Romanticismo. Filosofia, scienze e tecniche, Roma, La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso, 2012, pp. 462-470. 1300 – Per un’idea interculturale di cittadinanza, in G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana, F. Santoianni (a cura di), Per una relazionalità interculturale. Prospettive interdisciplinari, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 11-23. 1301 – Dilthey tra universalismo e relativismo, in «Giornale critico della Filosofia italiana», VII Serie, vol. VIII, Anno XCI (XCIII), Fasc. II, 2012, pp. 427-444. 1302 – Il caleidoscopio della mente. Attività simbolica e mondo storico in Vico e Cassirer, in F. Lomonaco (a cura di), Simbolo e cultura. Ottant’anni dopo la Filosofia delle forme simboliche, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 128-140. 1303 – La Religione dello storicismo. Per avviare il dibattito, in «Archivio di storia della cultura», XXV, 2012, pp. 299-306. 134 1304 – La “zattera della cultura”. Filosofia e crisi in Ortega y Gasset, in G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012, pp. 37-67. 1305 – Das Wesen der Philosophie. La determinazione del sapere filosofico tra strutture della storia e connessioni vitali, in D. Bosco, F.P. Ciglia, L. Gentile, L. Risio (a cura di), Testis fidelis. Studi di filosofia e scienze umane in onore di Umberto Galeazzi, Napoli, Orthotes, 2012, pp. 85-103. 1306 – Presentazione dei volumi Interculturalità. Tra etica e politica (a cura di G. Cacciatore e G. D’Anna) e Interculturalità. Religione e teologia politica (a cura di G. Cacciatore e R. Diana), in «Rendiconti Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», anno CDVIII, serie IX, vol. XXII, 2011, fasc. 3-4, Roma, Scienze e Lettere, 2012, pp. 549-551. 1307 – Alcuni momenti e figure delle accademie napoletane nel processo di unificazione politica e culturale dell’Italia, in Aa.Vv., Le accademie nazionali e la storia d’Italia, Atti dei Convegni Lincei n. 268, Roma, Scienze e Lettere, 2012, pp. 121-132. F) 1308 – Presentazione di M. Martirano, Filosofia Storia Rivoluzione. Saggio su Giuseppe Ferrari, Napoli, Liguori Editore, 2012, pp. IX-XII. 1309 – Introduzione di P.G. Turco, Le strade dell’amore nel mondo. Pensieri e ricordi d’Africa, Salerno, Edizioni Marte, 2012, pp. 9-14. 1310 – Prefazione a G. D’Angelo, La forma dell’acqua. I. La lenta transizione dal fascismo a Salerno capitale, Salerno, Edizioni del Paguro, 2012, pp. 9-12. 1311 – Presentazione di A. Di Miele, Antonio Banfi Enzo Paci: Crisi, Eros, Prassi, Milano-Udine, Mimesis, 2012, pp. 9-11. 135 1312 – Introduzione di C. Scudieri, Il balilla va alla guerra, i libri della leda, s.l., 2012, pp. 3-5. 1313 – Ortega o la coscienza del naufragio, introduzione (in collab. con A. Mascolo) a G. Cacciatore, A. Mascolo (a cura di), La vocazione dell’arciere. Prospettive critiche sul pensiero di José Ortega y Gasset, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012, pp. 11-14. 1314 – Lettera di saluto del presidente eletto, in «Rassegna storica salernitana», n. 58, 2012, pp. 265-266. G) 1315 – Vincenzo Giordano, sindaco socialista della grande Salerno, in «L’Agenda di Salerno e provincia», lugliodicembre 2012, pp. 24-26. 1316 – È sul lavoro la vera sfida, in «Roma», 8 gennaio 2012. 1317 – Il “porcellum” e la Consulta, in «Roma», 15 gennaio 2012. 1318 – Profitto ingordo e insaziabile, in «Roma», 22 gennaio 2012. 1319 – Politica e cultura per salvare l’euro, in «Roma», 29 gennaio 2012. 1320 – Stragi naziste, vittime beffate, in «Roma», 5 febbraio 2012. 1321 – Licenziamenti e giusti motivi, in «Roma», 12 febbraio 2012. 1322 – Il salvataggio della Grecia, in «Roma», 19 febbraio 2012. 1323 – Ma in futuro torni la politica, in «Roma», 26 febbraio 2012. 1324 - La cultura sola contro la crisi, in «Roma», 4 marzo 2012. 1325 – Questi partiti da rinnovare, in «Roma», 11 marzo 2012. 1326 – L’art.18 e i rischi per la democrazia, in «Roma», 25 marzo 2012. 136 1327 – Ecco i numeri che preoccupano, in «Roma», 29 aprile 2012. 1328 – I pericoli dell’antipolitica, in «Roma», 6 maggio 2012. 1329 – Ora si pensi alla crescita, in «Roma», 13 maggio 2012. 1330 – Lo spettro del terrorismo, in «Roma», 20 maggio 2012. 1331 – Il Premio Valitutti, in «La Città», 2 giugno 2012. 1332 – Calcio, vietiamo le scommesse, in «Roma», 3 giugno 2012. 1333 – Rai, meritato schiaffo ai partiti, in «Roma», 10 giugno 2012.4 1334 – La corruzione politica dilaga, democrazia verso il naufragio, in «I Confronti», 17 giugno 2012 [http://www. iconfronti.it]. 1335 – Medicina, patrimonio da tutelare, in «La Città», 20 giugno 2012. 1336 – Perché il colle è sotto attacco, in «Il Roma», 24 giugno 2012. 1337 – A D’Agostino dico: politica imprescindibile per regolare i conflitti, in «I Confronti», 24 giugno 2012 [http:// www.iconfronti.it]. 1338 – I due Mario e gli italiani, in «Il Roma», 1 luglio 2012. 1339 – Basta Moody’s, facciamo da soli, in «Il Roma», 15 luglio 2012. 1340 – Quella lotta agli sprechi di Berlinguer, in «La Città», 20 luglio 2012. 1341 – La riconquista della politica, in «Il Roma», 29 luglio 2012. 1342 – I programmi e le primarie, in «Il Roma», 5 agosto 2012. 1343 – Crisi, egemonia della “finanza ombra” e nuove sfide della politica, in «I Confronti», 6 agosto 2012 [http:// www.iconfronti.it]. 137 1344 – Se prevalgono le urla, in «l’Unità», 17 agosto 2012. 1345 – Germania e Europa si intenderanno, in «Il Roma», 19 agosto 2012. 1346 – Tra Nord e Sud rapporto virtuoso, in «Il Roma», 26 agosto 2012. 1347 – La deriva islamica, in «Il Roma», 16 settembre 2012. 1348 – Sud, dati Svimez e ricette note, in «Il Roma», 30 settembre 2012. 1349 – Montismo meglio del berlusconismo, in «Il Roma», 7 ottobre 2012. 1350 – Recuperare l’etica in politica, in «Il Roma», 14 ottobre 2012. 1351 – Le strade del mondo. L’Africa di Giorgio Turco luogo dell’anima, in «La Città», 17 ottobre 2012. 1352 – Primarie PD tra programmi e giacobinismi, in «La Città», 24 ottobre 2012. 1353 – Berlusconismo, quale futuro, in «Il Roma», 28 ottobre 2012. 1354 – Il giusto peso della politica, in «Il Roma», 4 novembre 2012. 1355 – L’idea di De Martino. Unificazione socialista dell’intera sinistra, in «La Città», 18 novembre 2012. 1356 – Democrazia da risanare, in «Il Roma», 18 novembre 2012. 1357 – I buoni motivi per votare Bersani, in «La Città», 23 novembre 2012. 1358 – Limiti e ombre delle primarie, in «Il Roma», 2 dicembre, 2012. 1359 – Dove ci porta Berlusconi, in «il Roma», 9 dicembre 2012. 1360 – Centrodestra senza agenda, in «Il Roma», 30 dicembre 2012. * * * 138 2013 A) 1361 – Sulla filosofia spagnola. Saggi e ricerche, presentazione di F. Tessitore, introduzione di G.A. Di Marco, Bologna, Il Mulino, 2013. 1362 – Problemi di filosofia della storia nell’età di Kant e di Hegel. Filologia, critica, storia civile, presentazione di F. Lomonaco, Roma, Aracne, 2013. 1363 – G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana (a cura di), Mente, corpo, filosofia pratica, interculturalità. Scritti in memoria di Vanna Gessa Kurotschka, Milano-Udine, Mimesis, 2013. B) 1364 – Un’etica per la contemporaneità. Sull’itinerario filosofico di Vanna Gessa Kurotschka, in G. Cacciatore, G. D’Anna, R. Diana (a cura di), Mente, corpo, filosofia pratica, interculturalità. Scritti in memoria di Vanna Gessa Kurotschka, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 9-19. 1365 – Das Wesen der Philosophie. Die Bestimmung des philosophischen Wissens zwischen Geschichtsstrukturen und Lebenszusammenhängen, in G. D’Anna, H. Johach, E.S. Nelson (hrsg.), Anthropologie und Geschichte. Studien zu Wilhelm Dilthey aus Anlass seines 100. Todestages, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2013, pp. 53-71. 1366 – Mai più pigrizia da pensiero unico, in «Il Paradosso», I, aprile 2013, n. 0, p. 5. 1367 – El pensamiento de Gaos entre historia de las ideas y filosofía de la filosofía, in S. Sevilla, E. Vázquez (eds.), Filosofía y vida. Debate sobre José Gaos, Madrid, Biblioteca Nueva/Grupo Editorial siglo XXI, 2013, pp. 219-234. 1368 – Vico und der Historismus, in P. König (hrsg.), Vico in Europa zwischen 1800 und 1950, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2013, pp. 139-153. 139 1369 – Il ruolo delle Humanities nella costruzione di una società interculturale, in «Philosophia», VII, 2/2012 [stampato nel 2013], pp. 165-176. 1370 – Interculturalità e riconfigurazione concettuale dell’ermeneutica, in «Bollettino Filosofico», XXVII, 2011- 2012 [stampato nel 2013], pp. 33-41. 1371 – Interkulturelle Philosophie zwischen Universalismus und Partikularismus, in E. Schafroth, M. Nicklaus, C. Schwarzer, D. Conte (hrsg.), Italien, Deutschland, Europa: kulturelle Identitäten und Interdipendenzen, Oberhausen, Athena Verlag, 2013, pp. 19-34. 1372 – Oltre l’idealismo. Lo storicismo in forma negativa, in «Giornale critico della filosofia italiana», XCII, 2013, fasc. II, pp. 447-455 [anche in «Bollettino Filosofico», 28, 2013, pp. 48-58]. 1373 – Die Rolle der Humanenities im Aufbau einer interkulturellen Gesellschaft, in G. Morrone (hrsg.), Universalität versus Relativität in einer interkulturellen Perspektive, Nordhausen, Traugott Bautz, 2013, pp. 59-72. 1374 – Transmediterraneo. Un approccio filosofico, in A. Scarabelli, R. Catania Marrone, D. Balzano (a cura di), Sconfinamenti. Omaggio a Davide Bigalli, Milano, Bietti, 2013, pp. 59-63. 1375 – La filosofia critica della storia di Ricoeur: narrazioine, tempo, memoria, in «Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei», serie IX, vol. XXIII, Roma, Ed. Scienze e Lettere, 2013, pp. 51-81. 1376 – Vico, Croce e l’Historismus, in G. Furnari Luvarà, S. Di Bella (a cura di), Benedetto Croce e la cultura tedesca, Firenze, Le Lettere, 2013, pp. 79-92. C) 1377 – Recensione di D. Losurdo, La Lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Roma-Bari, Editori Laterza, 2013, in «Historia Magistra», n. 12, 2013, p. 156. 140 F) 1378 – Introduzione a P. Signorino, Per Europa, Catalogo della mostra, Napoli, Arte’m, 2013, pp. 8-10. 1379 – Prefazione di R. Diana, Configurazioni filosofiche di Sé. Studi sull’autobiografia intellettuale di Vico e Croce, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 5-9. 1380 – Prefazione di E. Todaro, Vorrei ancora, Salerno, Arti Grafiche Boccia, 2013, pp. 5-7. G) 1381 – Se ritornano destra e sinistra, in «Il Roma», 6 gennaio 2013. 1382 – Se si ripete ancora il copione del 2006, in «Il Roma», 13 gennaio 2013. 1383 – Se la filosofia aiuta la politica, in «Il Roma», 20 gennaio 2013. 1384 – L’idea della storia congeniale al centrosinistra, in «l’Unità», 23 gennaio 2013. 1385 – La libertà e le occasioni. Ecco il pensiero di Masullo, in «La Città», 24 gennaio, 2013. 1386 – L’olocausto e l’indifferenza, in «Il Roma», 27 gennaio 2013. 1387 – Fuga dallo studio, segno del declino, in «Il Roma», 11 febbraio 2013. 1388 – “La scienza nuova”, un volume per capire. Vitiello e il pre-testo per dialogare con le filosofie, in «Corriere del Mezzogiorno», 15 febbraio 2013. 1389 – La Chiesa a un bivio, in «Il Roma», 17 febbraio 2013. 1390 – Attenti al rischio ingovernabilità, in «Il Roma», 3 marzo 2013. 1391 – I rischi del dopo Chavez. Venezuela al bivio, in «l’Unità», 10 marzo 2013. 1392 – I meriti di Chavez, in «Il Roma», 10 marzo 2013. 141 1393 – Il Papa e la cura per il prossimo, in «Il Roma», 24 marzo 2013. 1394 – Verso un governo del Presidente, in «Il Roma», 7 aprile 2013. 1395 – Quando la speranza si prosciuga, in «Il Roma», 13 aprile 2013. 1396 – Usciamo dall’impasse e diamo un governo all’Italia, in «l’Unità», 24 aprile 2013. 1397 – Democrazia del web e i rischi di internet, in «Il Roma», 5 maggio 2013. 1398 – La nuova dottrina di Papa Francesco, in «Il Roma», 19 maggio 2013. 1399 – Presidenzialismo scelta oligarchica, in «Il Roma», 9 giugno 2013. 1400 – Astensionismo e antipolitica, in «Il Roma», 16 giugno 2013. 1401 – Fenomenologia del berlusconismo, in «Il Roma», 30 giugno 2013. 1402 – Enciclica, più marcata la mano di Ratzinger, in «Il Roma», 7 luglio 2013. 1403 – Terra di veleni, è un genocidio, in «Il Roma», 14 luglio 2013. 1404 – Ma il vero allarme è per i nuovi poveri, in «Il Roma», 21 luglio 2013. 1405 – Il PD, il congresso e i falsi rinnovatori, in «Il Roma», 28 luglio 2013 1406 – Basta cannoneggiare il PD. È il sistema che è in crisi, in «La Città», 2 agosto 2013. 1407 – Ma il berlusconismo non è mai tramontato, in «Il Roma», 4 agosto 2013. 1408 – I casi di Silvio e il ruolo dei giudici, in «La Città», 5 agosto 2013. 1409 – Spunti di riflessione dagli affreschi ritrovati, in «La Città», 12 agosto 2013. 1410 – Berlusconi e le richieste impossibili, in «La Città», 17 agosto 2013. 142 1411 – La sorte di Berlusconi e la destra che verrà, in «Roma», 18 agosto 2013. 1412 – L’olocausto e il gesto della Merkel, in «La Città», 23 agosto 2013. 1413 – I limiti dell’intervento militare in Siria, in «Roma», 25 agosto 2013. 1414 – Lo spettro di una guerra totale, in «La Città», 28 agosto 2013. 1415 – Il paradosso dell’America, in «Roma», 1 settembre 2013. 1416 – Il peso politico di Allende 40 anni dopo, in «La Città», 11 settembre 2013. 1417 – Il linguaggio nuovo del Papa, in «Roma», 15 settembre 2013. 1418 – Memorie sulfuree di un testimone, in «Roma», 27 settembre 2013. 1419 – Il PDL e il bluff delle dimissioni, in «Roma», 29 settembre 2013. 1420 – Tessitore alla ricerca dello storicismo di Croce, in «Corriere del Mezzogiorno», 9 ottobre 2013. 1421 – Grillo, populismo e diritti umani, in «Roma», 13 ottobre 2013. 1422 – Quello che (mi) spaventa dell’astro splendente Renzi, in «La Città», 15 ottobre 2013. 1423 – Il negazionismo, idiozia o reato?, in «Roma», 20 ottobre 2013. 1424 – Se il PDL piange, il PD non ride, in «Roma», 3 novembre 2013. 1425 – Il ruolo della sinistra nel mondo che cambia, in «La Città», 12 novembre 2013. 1426 – Congressi e tessere, l’anima perduta del partito democratico, in «Roma», 24 novembre 2013. 1427 – Revisionismo e l’egemonia culturale, in «La Città», 28 novembre 2013. 1428 – La lezione storica di Mannucci, in «La Città», 4 dicembre 2013. 143 1429 – Ma il “miracolo” di Nelson Mandela non è ancora stato completato, in «Roma», 8 novembre 2013. 1430 – Rabbia e antipolitica, un mix esplosivo, in «Roma», 15 dicembre 2013. 1431 – Passate le primarie, il PD ritrovi i contenuti, in «Roma», 29 dicembre 2013. * * * 2014 A) 1432 – G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Dimensioni filosofiche e storiche dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis, 2014. B) 1433 – Storicismo critico-problematico e interculturalità, in «Research Trends in Humanities. Education & Philosophy», I (2014), 1, pp. 11-12. 1434 – Antonio Banfi dall’umanesimo critico all’umanesimo storicistico integrale, in «Critica Marxista», n.s., n. 1, 2014, pp. 28-37. 1435 – Machiavelli e l’Italia moderna nelle analisi di Francesco De Sanctis, in G. Lencan Stoica, S. Dragulin (coord.), New Studies on Machiavelli and Machiavellism. Approaches and Historiography, Universitatea Din Bucarest, Ars Docendi, 2014, pp. 299-312. 1436 – Contributo su la Scienza Nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XLIV, 2014, pp. 65-73. 1437 – Presentación del libro de J.M. Sevilla, Prolegómenos para una crítica de la razón problemática. Motivos en 144 Vico y Ortega, in «Cuadernos sobre Vico», 27, 2013, pp. 71-77 [edito nel 2014]. 1438 – Geschichte/Geschichtsphilosophie, in H.D. Brandt (hrsg.), Disziplinen der Philosophie. Ein Kompendium, Hamburg, Meiner Verlag, 2014, pp. 202-219, 233-239, 243-248. 1439 – Teorie e metodi dell’interculturalità nella prospettiva di un nuovo umanesimo, in G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Dimensioni filosofiche e storiche dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 11-18. 1440 – Contro le “Borie ritornanti”: per un sano uso della critica, in «Trans/Form/Ação. Revista de Filosofia», Universidad Estadual Paulista, vol. 37, 2014, n. 3, pp. 45-56. 1441 – Paolo Rossi storico del presente, in D. Balzano, D. Bigalli (a cura di), La ragione curiosa. Atti del convegno in memoria di Paolo Rossi, Roma, Aracne, 2014, pp. 239-262. 1442 – Nuovi percorsi dello storicismo critico: la filosofia interculturale, in M. Castagna, R. Pititto, S. Venezia (a cura di), I dialoghi dell’interpretazione. Studi in onore di Domenico Jervolino, Pomigliano D’Arco (Na), Diogene Edizioni, 2014, pp. 161-165. 1443 – Nuovo umanesimo e filosofia interculturale, in «Humanitas», n.s., LXIX, 2014, n. 4-5, pp. 584-595. 1444 – Bloch e il futuro della dignità umana, in R. Viti Cavaliere, R. Peluso (a cura di), La coscienza del futuro, Napoli, La Scuola di Pitagora Editrice, 2014, pp. 43-68. 1445 – Tra ragione storica e ragione narrativa. Sulla critica della ragione problematica di José Manuel Sevilla, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 8/2014, pp. 11-19. 1446 – Storia e rivoluzione. Per Giuseppe Prestipino, in T. Serra (a cura di), Giuseppe Prestipino. Un Maestro, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2014, pp. 13-17. C) 1447 – Recensione di F. Gallo, Dalla patria allo Stato. 145 Bertrando Spaventa, una biografia intellettuale, Roma-Bari, Laterza, 2013, in «Logos», n.s., n. 9, 2014, pp. 241-245. 1448 – Recensione di A. Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013, in «Historia Magistra», n. 14, 2014, p.147. 1449 – Passione politica e passioni morali per salvare la dignità dell’intellettuale (a proposito del carteggio Levi Della Vida-Salvatorelli), in «Historia Magistra», n. 16, 2014, pp. 145-149. F) 1450 – Introduzione a Evolving Philosophy, in «Research Trends in Humanities. Education & Philosophy», I, 2014, 1, p. 10. 1451 – Introduzione (in collab. con A. Giugliano) a G. Cacciatore, A. Giugliano (a cura di), Dimensioni filosofiche e storiche dell’interculturalità, Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 7-10. 1452 – Presentazione (in collab. con C. Cantillo) del fascicolo di «Rocinante. Rivista di filosofia iberica e iberoamericana», n. 8/2014, pp. 8-9. G) 1453 – Il futuro di Renzi e la legge elettorale, in «Roma», 5 gennaio 2014. 1454 – Attenti al razzismo strisciante della Lega, in «Roma», 19 gennaio 2014. 1455 – Legge elettorale, quante perplessità, in «Roma», 27 gennaio 2014. 1456 – Lo sfascismo intollerabile del M5S, in «Roma», 2 febbraio 2014. 1457 – L’Europa sappia ripartire dai suoi valori fondamentali, in «Roma», 9 febbraio 2014. 1458 – Renzi, la fretta e il filo del rasoio, in «Roma», 17 febbraio 2014. 146 1459 – Quell’indifferenza nei confronti del Sud, in «Roma», 24 febbraio 2014. 1460 – Psiup, il partito provvisorio, in «l’Unità», 3 marzo 2014. 1461 – Nazionalismi e populismi, in «Roma», 3 marzo 2014. 1462 – Aprile ’44: la svolta di Salerno. I partiti antifascisti al governo, in « La Città», 11 marzo, 2014. 1463 – Europa delle élites o Europa dei cittadini?, in «Roma», 23 marzo 2014. 1464 – Renzi, oppositori deboli e divisi, in «Roma», 31 marzo 2014. 1465 – Le ragioni del successo di Papa Francesco, in «Roma», 6 aprile 2014. 1466 – Embrioni scambiati e questioni morali, in “«Roma», 20 aprile 2014. 1467 – 25 Aprile: non stanca retorica ma omaggio ai combattenti, in «La Città», 25 aprile 2014. 1468 – I quattro Papi e la forza della Chiesa, in «Roma», 5 maggio 2014. 1469 – Ma l’Europa non merita la morte, in «Roma», 19 maggio 2014. 1470 – Uno scatto d’orgoglio partendo dall’Unità d’Italia, in «l’Unità», 26 maggio 2014. 1471 – Occorre cambiare politica e uomini, in «Roma», 26 maggio 2014. 1472 – Disoccupazione giovanile, i dati sono catastrofici, in «Roma», 8 giugno 2014. 1473 – Un uomo diventato eroe negli anni bui della dittatura, in «La Città», 11 giugno 2014. 1474 – Vero leader. Basta revival nostalgici (a proposito di Berlinguer), in «La Città», 12 giugno 2014. 1475 – Corruzione politica e sete di potere, in «Roma», 16 giugno 2014. 1476 – La doppia sfida di Renzi a Bruxelles, in «Roma», 25 giugno 2014. 147 1477 – Immigrati, 4 capitoli per un’agenda Ue, in «Roma», 7 luglio 2014. 1478 – Autodifesa e rappresaglia, in «Roma», 13 luglio 2014. 1479 – Il patto del Nazareno? È solo fantapolitica, in «Roma», 21 luglio 2014. 1480 – Gli opposti estremismi dell’ostruzionismo, in «Roma», 28 luglio 2014. 1481 – Riforme istituzionali teatrino della politica, in «Roma», 4 agosto 2014. 1482 – Gemelli “contesi”, dibattito aperto, in «Roma», 11 agosto 2014. 1483 – Togliatti, il leader politico che realizzò un capolavoro, in «La Città», 21 agosto 2014. 1484 – Contro i terroristi un corpo dell’ONU, in «Roma», 25 agosto 2014. 1485 – Amarante negli scritti d’agosto, in «Il Mattino», 29 agosto, 2014. 1486 – La violazione della dignità umana, in «Roma», 15 settembre 2014. 1487 – La questione italiana nell’ottica del Mezzogiorno. A proposito del libro di Barbagallo, in «La Città», 16 settembre 2014. 1488 – Sindacati e politica, basta con gli slogan, in «Roma», 22 settembre 2014. 1489 – Contro l’Isis scenda in campo l’ONU, in «Roma», 6 ottobre 2014. 1490 – Solo oggi il virus Ebola è un problema globale, in «Roma», 13 ottobre 2014. 1491 – L’ergastolo cancellato da Papa Francesco, in «Roma», 27 ottobre 2014. 1492 – Non resta che dire: povera Italia!, in «Roma», 3 novembre 2014. 1493 – Enrico Berlinguer e la questione morale, in «La Città», 7 novembre 2014. 1494 – Venticinque anni dopo, la Germania e l’Europa, in «Roma», 10 novembre 2014. 148 1495 – L’intangibilità del diritto d’asilo, in «Roma», 17 novembre 2014. 1496 – Se l’Università fa più (e meglio) del Comune, in «Roma», 1 dicembre 2014. 1497 – Berlinguer e Togliatti. Un errore storico cercare le analogie, in «La Città», 2 dicembre 2014. 1498 – I partiti macchine di potere e clientele, in «Roma», 8 dicembre 2014. 1499 – Napolitano e i rischi dell’antipolitica, in «Roma», 15 dicembre 2014. 1500 – Quel duetto comico tra anima e corpo, in «Roma», 22 dicembre 2014. 1501 – Il Papa e le quindici piaghe della Chiesa, in «Roma», 29 dicembre 2014 * * * 2015 A) 1502 – Dallo storicismo allo storicismo, introduzione di F. Tessitore, a cura di G. Ciriello, G. D’Anna, A. Giugliano, Pisa, ETS, 2015. 1503 – In dialogo con Vico. Ricerche, note, discussioni, introduzione di M. Sanna, a cura di M. Sanna, R. Diana, A. Mascolo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015. 1504 – Vita, opuscolo dal Lessico Crociano, a cura di R. Peluso, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2015. 1505 – G. Cacciatore, S. Cicenia (a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni dalla nascita, Battipaglia (SA), Laveglia&Carlone, 2015. 149 B) 1506 – Del “pensare in proprio” nell’epoca delle filosofie mediatiche, in «Research Trends in Humanities. Education & Philosophy», vol. 2, 2015, n. 2, pp. 33-39. 1507 – Il potere che frena. Una riflessione sulla teologia politica di Massimo Cacciari, in «Jura Gentium», vol. XII, 2015, pp. 76-95. 1508 – La critica in soccorso dell’umano. Filologia e Umanesimo, in F. Mora (a cura di), Metamorfosi dell’umano, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 17-32. 1509 – Intervento su Labirinto filosofico di Massimo Cacciari, in «Logos», n.s., n. 10, 2015, pp. 193-199. 1510 – Religione e violenza. Qualche riflessione a partire da Charlie Hebdo, in «Historia Magistra. Rivista di storia critica», VII, 2015, n. 17, pp. 7-10. 1511 – Contro le borie “ritornanti”. Per un sano uso della critica, in R. Diana (a cura di) Le “borie” vichiane come paradigma euristico. Hybris dei popoli e dei saperi tra moderno e contemporaneo, Napoli, ISPF Lab - Consiglio Nazionale delle Ricerche, (I Quaderni del Lab, 3), 2015, pp. 31-42. 1512 – Ancora sul Vico di Pietro Siciliani, in F. Luceri (a cura di), Pietro Siciliani e Cesira Pozzolini, Filosofia e Letteratura, introduzione di F. Tessitore, Lecce, Edizioni Grifo, 2015, pp. 35-44. 1513 – Filosofare dopo Ortega: su alcuni modelli di storia della filosofia e storia delle idee nella Spagna della seconda metà del Novecento, in «Philosophia», X-XI, 2014, 1-2 [stampato nel 2015], pp. 275-289. 1514 – Filosofi e intellettuali spagnoli nell’opera di Sciascia, in «Todomodo. Rivista Internazionale di Studi Sciasciani», V, 2015, pp. 71-79. 1515 – L’idea genovesiana di libertà, in G. Cacciatore, S. Cicenia (a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni dalla nascita, Battipaglia (SA), Laveglia&Carlone, 2015, pp. 33-48. 1516 – Il Croce di Girolamo Cotroneo, in G. Gembillo 150 (a cura di), Lo storicismo di Girolamo Cotroneo, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2015, pp. 9-26. 1517 – Il mio Gramsci, in «Gramsciana», 1, 2015, pp. 13-15. F) 1518 – Presentazione di C. Scudieri, Ascesa e fine della classe operaia angrese, Angri (SA), Centro Iniziative Culturali, 2015, pp. 5-8. 1519 – Introduzione (in collab. con S. Cicenia) a G. Cacciatore, S. Cicenia (a cura di), Antonio Genovesi a trecento anni dalla nascita, Battipaglia (SA), Laveglia&Carlone, 2015, pp. 7-10. G) 1520 – Biondi, esempio di storiografia etico-politica, in «Il Quotidiano del Sud» (edizione irpina), 11 gennaio 2015. 1521 – Ma le colpe sono anche dell’Occidente, in «Roma», 12 gennaio 2015. 1522 – Grazie Napolitano, presidente dei cittadini, in «Roma», 19 gennaio 2015. 1523 – Il PD di Renzi non è di sinistra, in «Roma», 26 gennaio 2015. 1524 – Il messaggio di Pierro nelle poesie, in «Il Mattino», 28 gennaio 2015. 1525 – Dalla balena bianca al Partito della Nazione, in «Roma», 9 febbraio 2015. 1526 – Il gravissimo errore delle sedute notturne, in «Roma», 16 febbraio 2015. 1527 – Lo scontro armato tra culture e religioni, in «Roma», 23 febbraio 2015. 1528 – L’idea pericolosa del Partito della Nazione, in «Roma», 2 marzo 2015. 1529 – Quello spirito che serve alla Campania e al Sud, in «Roma», 9 marzo 2015. 151 1530 – La misericordia e il messaggio evangelico, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 16 marzo 2015 1531 – Aiutare Tunisia e Libia contro la minaccia Isis, in «Roma», 23 marzo 2015. 1532 – La strage di immigrati e l’inerzia della politica, in «Roma», 20 aprile 2015. 1533 – Il 25 aprile e la resistenza dei profughi, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 25 aprile 2015. 1534 – Italicum, un colpo letale per la nostra democrazia, in «Roma», 27 aprile 2015. 1535 – Il protagonismo tedesco e la sua colpa storica, in «Roma», 11 maggio 2015. 1536 – Amarante. Il dovere storico della memoria e il futuro da salvare, in «La Città», 12 maggio 2015. 1537 – La globalizzazione della cieca violenza, in «Roma», 18 maggio 2015. 1538 – La Resistenza di Salerno e il dovere della memoria, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 22 maggio 2015. 1539 – L’Occidente miope e l’avanzata dell’Is, in «Roma», 25 maggio 2015. 1540 – Partito della Nazione: il progetto è fallito, in «Roma», 8 giugno 2015. 1541 – Relazione virtuosa tra scienza e vangelo, in «Roma», 22 giugno 2015. 1542 – La conversione ecologica di Papa Francesco, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 2 luglio 2015. 1543 – Che fine ha fatto la sinistra moderata?, in «Roma», 6 luglio 2015. 1544 – Reddito di cittadinanza nelle riforme di Renzi, in «Roma», 20 luglio 2015. 1545 – Il pianeta “gemello” e il futuro della terra, in «Roma», 27 luglio 2015. 1546 – Serve un piano Marshall per il Mezzogiorno, in «Roma», 3 agosto 2015. 1547 – Barbarie post-atomica e dominio della ragione, in «Roma», 10 agosto 2015. 152 1548 – Isis, serve un’alleanza come contro il nazismo, in «Roma», 24 agosto 2015. 1549 – Come si uccidono le università del Sud, in «Roma», 31 agosto 2015. 1550 – La “nuova” S. Teresa e la politica del territorio, in «La Città», 14 settembre 2015. 1551 – Germania più europea grazie ai profughi, in «Roma», 14 settembre 2015. 1552 – Tragedia immigrati e diritto d’asilo, in «Roma», 21 settembre 2015. 1553 – Quando il rapporto dolore-paziente diventa consapevole, in «La Città», 22 settembre 2015. 1554 – L’apocalisse delle migrazioni, in «Roma», 28 settembre 2015. 1555 – La forza del papa che parla ai Sud del mondo, in «Il Mattino», 29 settembre 2015. 1556 – La lobby delle armi e le stragi in Usa, in «Roma», 5 ottobre 2015. 1557 – Il Sud dimenticato da questo governo, in «Roma», 19 ottobre 2015. 1558 – Non illudiamoci sul Sud. Il governo lo ha abbandonato, in «Roma», 2 novembre 2015. 1559 – La risposta forte del papa ai corvi e ai faraoni, in «Roma», 9 novembre 2015. 1560 – Bisogna evitare reazioni emotive, in «Roma», 16 novembre 2015. 1561 – Il reciproco rispetto di tutte le religioni, in «Roma», 23 novenbre 2015. 1562 – La misericordia non è un atto autoreferenziale, in «Roma», 7 dicembre 2015. 1563 – L’università verso un’irreversibile agonia, in «Roma, 21 dicembre 2015. 1564 – Lo spettacolo gender e il paradigma dell’identità sessuale, in «Il Mattino», 27 dicembre 2015. * * * 153 2016 A) 1565 – G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014), Napoli, Guida Editori, 2016. B) 1566 – Time, Narration, Memory: Paul Ricoeur’s Theory of History, in F. Santoianni (ed.), The Concept of Time in Early Twentieth-Century Philosophy. A Philosophical Thematic Atlas, Switzerland, Springer, 2016, pp. 167-173. 1567 – Le nuove edizioni delle Scienze Nuove nel contesto del progetto per l’edizione critica dell’opera vichiana, in «Rendiconti. Atti della Accademia Nazionale dei Lincei», serie IX, vol. XXVI, Roma, Bardi Edizioni, 2016, pp. 265-271. 1568 – La polemica sulla «Voce» tra filosofi ‘amici’, in Aa.Vv., Croce e Gentile. La cultura italiana e l’Europa, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2016, pp. 281-287. 1569 – Da Gramsci a Said. Filologia vivente e critica democratica, in Aa.Vv., Attualità del pensiero di Antonio Gramsci, «Atti dei Convegni Lincei - 292. Accademia Nazionale dei Lincei», Roma, Bardi Edizioni, 2016, pp. 41-57. 1570 – Bruno Trentin: la critica del finalismo storicistico e del comunismo “schematico” e “ossificato”, in A. Gramolato, G. Mari (a cura di), Il lavoro dopo il Novecento: da produttori sociali ad attori sociali, Firenze, Firenze University Press, 2016, pp. 221-232. 1571 – El pensamiento mediterráneo y la filosofía intercultural, in P. Badillo O’Farrel, J.M. Sevilla Fernández (eds.), La Brújula hacia el sur. Estudios sobre filosofía meridional, Madrid, Biblioteca Nueva, 2016, pp. 73-85. 1572 – Il posto della parola: lo stile filosofico di Ortega tra meditazione e saggio, in G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), 154 Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014), Napoli, Guida Editori, 2016, pp. 31-47. 1573 – In ricordo di Franco Crispini, in «Logos», n.s., n. 11, 2016, pp. 95-99. 1574 – Die Freiheitsidee bei Genovesi, in M. Kaufmann, J. Renzikowski (hrsg.), Freiheit als Rechtsbegriff, Berlin, Duncker und Humblot, 2016, pp. 201-211. 1575 – Per Roberto Volpe. A quarant’anni dalla morte, in «Rassegna Storica Salernitana», n. 65, 2016, pp. 181-184. 1576 – Ordine e disciplina: usura di parole e di idee, in «Archivio di storia della cultura», XXIX, 2016, pp. 31-33. 1577 – Ricostruzione, interpretazione, storicità. Ancora sul rapporto tra psicoanalisi e storia, in «Bollettino Filosofico», 31, 2016, pp. 17-28. 1578 – Filosofia pratica e filosofia civile, in A. Musci, R. Russo (a cura di), Filosofia civile e crisi della ragione. Croce filosofo europeo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. 47-67. 1579 – Etica, progresso, marxismo, in «Materialismo storico», n. 1-2, 2016, pp. 12-17. 1580 – Il concetto di cittadinanza in Vico come manifestazione del nesso tra universalità della legge e storicità empirica della civitas, in «Laboratorio dell’ISPF», XIII, 2016, n.16, pp. 1-10. 1581 – Diversioni e riflessioni in un recente libro sul Chisciotte, in «Rocinante. Rivista di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», n. 9/2015-2016, pp. 97-101. C) 1582 – Recensione di A. Labriola, Tra Hegel e Spinoza. Scritti 1863-1869, a cura di A. Savorelli e A. Zanardo, Napoli, Biblipolis, 2015, in «Historia Magistra», n. 22, 2016, p. 146. 155 E) 1583 – J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, a cura di G. Cacciatore e M.L. Mollo, Napoli, Guida Editori, 2016. F) 1584 – Introduzione (in collab. con C. Cantillo) a G. Cacciatore, C. Cantillo (a cura di), Omaggio a Ortega. A cento anni dalle Meditazioni del Chisciotte (1914-2014), Napoli, Guida Editori, 2016, pp. 5-10. 1585 – Premessa a J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, a cura di G. Cacciatore e M.L. Mollo, Napoli, Guida Editori, 2016, pp. V-XIII. 1586 – Introduzione a D. Di Iasio, Dark Age. Per una rinascita dell’umano, Manfredonia, Pacilli Editore, 2016, pp. 7-13. 1587 – Introduzione a M Scalercio, Umanesimo e storia da Said a Vico. Una prospettiva vichiana sugli studi postcolionali, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. VII-XII. 1588 – Introduzione a L. Anzalone, Eroi nel paese della mafia. Storie italiane: Impastato, Ambrosoli, Falcone e Borsellino, Don Puglisi, S. Cesario di Lecce, Pensa Editore, 2016, pp. 7-18. G) 1589 – Vecchi e nuovi conflitti: scenari inquietanti, in «Roma», 4 gennaio 2016. 1590 – Zanone, studioso e politico legatissimo a Salerno (in collab. con R. Cangiano), in «La Città», 9 gennaio 2016. 1591 – Immigrazione, politici sull’onda dell’emozione, in «Roma», 11 gennaio 2016. 1592 – Esprit de finesse et de géométrie. Il connubio felice di Cicenia, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 16 gennaio 2016. 156 1593 – L’America di Obama profondamente divisa, in «Roma», 18 gennaio 2016. 1594 – Le unioni civili e i dubbi del Papa, in «Roma», 25 gennaio 2016. 1595 – La sconfitta del socialismo democratico e riformista, in «Roma», 1 febbraio 20169 1596 – L’adozione del figliastro, quanta confusione, in «Roma», 15 febbraio 2016. 1597 – Umberto Eco, l’Europa e l’uscita degli inglesi, in «Roma», 22 febbraio 2016. 1598 – Volpe e la città ricostruita dalle macerie, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 7 marzo 2016. 1599 – Facciamo attenzione alla polveriera Libia, in «Roma», 7 marzo 2016. 1600 – La crisi della sinistra con la nascita del PD, in «Roma», 14 marzo 2016. 1601 – La nazione napoletana tra mito e realtà, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 aprile 2016. 1602 – Francesco De Martino, un uomo che ci manca, in «Roma», 11 aprile 2016. 1603 – La misericordia del Papa e i fallimenti dei politici, in «Roma», 18 aprile 2016. 1604 – Questa spaccatura non serve a nessuno, in «Roma», 25 aprile 2016. 1605 – La realtà di una metropoli tra immagini e parole, in «La Città», 3 maggio 2016. 1606 – Papa Bergoglio e il sogno di un’Europa nuova, in «Roma», 9 maggio 2016. 1607 – Il populismo dell’antipolitica, in «Roma», 16 maggio 2016. 1608 – I politici studino il rapporto Istat per capire cosa fare, in «Roma», 23 maggio 2016. 1609 – Un appuntamento importante campo di prova per Renzi, in “Roma», 6 giugno 2016. 1610 – L’obiettivo deve essere la serie A, in «La Città», 8 giugno 2016. 157 1611 – Un libro che diffonde l’odio contro l’uomo, in «Roma», 13 giugno 2016. 1612 – Anche con la Brexit l’Europa non muore, in «Roma», 20 giugno 2016. 1613 – Si è concesso troppo ai conservatori inglesi, in «Roma», 27 giugno 2016. 1614 – Gli errori che uccidono le nostre democrazie, in «Roma», 11 luglio 2016. 1615 – È una g uerra figlia della globalizzazione, in «Roma», 18 luglio 2016. 1616 – La religione strumento di pace per Francesco, in «Roma», 1 agosto 2016. 1617 – Sicurezza e democrazia per battere la paura, in «Roma», 8 agosto 2016. 1618 – Burkini vietati, non è vera laicità, in «Roma», 22 agosto 2016. 1619 – Subito un piano nazionale di sicurezza degli edifici, in «Roma», 29 agosto 2016. 1620 – Lo storicismo secondo Tessitore, in «Corriere del Mezzogiorno», 4 settembre 2016. 1621 – Il mondo di “Bella ciao”, la canzone della libertà, il «Il Mattino» (ed. di Salerno), 16 settembre 2016. 1622 – Ma Ciampi non fu solo un grande europeista, in «Roma», 19 settembre 2016. 1623 – Quell’inchino davanti al PCI, in «La Città», 21 settembre 2016. 1624 – Obama e l’agenda delle sfide globali, in «Roma», 26 settembre 2016. 1625 – Amendola contro i populismi, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 3 Ottobre 2016. 1626 – Il pericolo del populsimo demagogico-qualunquista. A proposito della crisi del socialismo europeo, in «Roma», 3 ottobre 2016. 1627 – Dialoghi sull’anima. Insondabile mistero, il «Il Mattino» (ed. di Salerno), 8 ottobre 2016. 1628 – Scuola dimenticata, tornano le proteste, in «Roma», 158 10 ottobre 2016. 1629 – Penalizzati le donne e i lavoratori meridionali, in «Roma», 17 ottobre 2016. 1630 – Crisi e mutamento nel senso dell’umano, in «Roma», 31 ottobre 2016. 1631 – Quegli eroi di una scelta contrastata, in «Il Quotidiano del Sud», 6 novembre 2016. 1632 – Presidenziali in Usa, scontro tra due mondi, in «Roma», 7 novembre 2016. 1633 – Apocalittici o rassegnati, ma c’è una terza via, in «Roma», 13 novembre 2016. 1634 – Fine del l’esperimento del socialismo cubano?, in «Roma», 28 novembre 2016. 1635 – Personalizzazione politica nelle logiche di partito, in «Roma», 12 dicembre 2016. 1636 – Le voci del secolo breve, in «Corriere del Mezzogiorno”, 13 dicembre 2016. 1637 – Responsabilità degli storici nella vita civile, in «La Città», 15 dicembre 2016. 1638 – La politica torni giudice di se stessa, in «Roma», 19 dicembre 2016. 1639 – Il corpo a corpo di Galasso con la storia, in «Corriere del Mezzogiorno», 22 dicembre 2016. * * * 2017 A) 1640 – Laurea Honoris Causa in Scienze Pedagogiche. Lectio Magistralis. Il futuro della filosofia sta nel suo passato, presentazione di A.Tommasetti, Laudatio: Sullo storicismo di G. Cacciatore di F. Tessitore, Salerno, Università degli Studi di Salerno, 2017. 159 1641 – L’esperienza filosofica di Fulvio Tessitore in forma di dialogo. Intervista di Giuseppe Cacciatore, a cura di S. Tarantino, in appendice la bibliografia degli scritti a cura di F. Lomonaco, presentazione di M. De Dominicis, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017. 1642 – Giuseppe Giarrizzo, Napoli, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, “Profili e Ricordi” XLI, 2017. B) 1643 – Ricostruzione, interpretazione, storicità. Ancora sul rapporto tra psicoanalisi e storia, in «Research Trend in Humanties», IV, 2017, pp. 66-73. 1644 – Croce e Dilthey. Le due vie dello storicismo europeo, in C. Tuozzolo (a cura di), Benedetto Croce. Riflessioni a 150 anni dalla nascita, Canterano (RM), Aracne Editrice, 2017, pp. 25-33 [anche in S. Di Bella, F. Rizzo Celona (a cura di), Croce e la modernità tedesca, Roma, Aracne, 2017, pp. 99-108]. 1645 – In memoria di Italo Gallo, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., XXXIII/2, dicembre 2016, n. 66, pp. 3-5. 1646 – Il sapere filosofico e la sua storia tra universalismo e relativismo, in «Storiografia. Rivista annuale di storia», n. 20, 2016, Roma, Fabrizio Serra Editore, 2017, pp. 159-167. 1647 – Dilthey e Humboldt. La fondazione filosofica dell’individualità e la nascita della coscienza storica, in A. Carrano, E. Massimilla, F. Tessitore (a cura di), Wilhelm von Humboldt, duecentocinquant’anni dopo. Incontri e confronti, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», n.s., vol. 7, Napoli, Liguori, 2017, pp. 395-422. 1648 – Tra etica dei principi ed etica pratica. I Frammenti di etica di Benedetto Croce, in «Il Pensiero italiano», I, 2017, n. 1, pp. 21-36. 1649 – Divagazioni filosofiche (e non) sulla felicità, in V. Caputo (a cura di), L’Io felice tra filosofia e letteratura, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 15-24. 1650 – Tacito e il tacitismo in Spagna, in «Rocinante. Ri- 160 vista di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», n. 10/2017, pp. 139-144. 1651 – Meticciato, ibridazione, etica interculturale, in G. Magnano San Lio, L. Ingaliso (a cura di), Alterità e cosmopolitismo nel pensiero moderno e contemporaneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 41-52 [anche in M. Longo, G. Miceli (a cura di), La filosofia e la sua storia. Studi in onore di G. Piaia, Padova, Cleup, 2017, t. 2, pp. 405-417]. 1652 – Gramsci oggi. Tra marxismo critico ed etica della realizzazione dell’umano, in «Infiniti Mondi», I, 2017, n. 1, pp. 99-106. F) 1653 – Note introduttive, in «Rassegna storica salernitana», n. 67, giugno 2017, pp. 5-7. 1654 – Prefazione a G. Magnano San Lio, Per una filosofia dello storicismo. Studi su Dilthey, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, pp. 7-11. G) 1655 – Non basta l’accoglienza senza vera integrazione, in «Roma», 9 gennaio 2017. 1656 – Il futuro dell’America nell’addio di Obama, in «Roma», 16 gennaio 2017. 1657 – Come cambiano gli Usa nell’era del populismo, in «Roma», 23 gennaio 2017. 1658 – Olocausto, una eredità da trasmettere ai giovani, in «Roma», 30 gennaio 2017. 1659 – Post, il prefisso che avvelena la democrazia, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 2 febbraio 2017. 1660 – Le ambizioni di Renzi e il bene del paese, in «Roma», 6 febbraio 2017. 1661 – Tradizione socialista: è in crisi profonda, in «Roma», 13 febbraio 2017. 161 1662 – Diritto all’obiezione e all’autodeterminazione, in «Roma», 27 febbraio 2017. 1663 – La sinistra ora recuperi i valori espressi dal voto del 4 dicembre, in «La Città», 28 febbraio 2017. 1664 – Edizione nazionale di Labriola, spunta il testo su Spinoza, in «Corriere del Mezzogiorno», 3 marzo 2017. 1665 – I nuovi schiavi del nostro secolo, in «Roma», 6 marzo 2017. 1666 – Magistrati e politica, un rapporto irrisolto, in «Roma», 20 marzo, 2017. 1667– Cambio d’epoca. 1917 l’anno della rivoluzione, in «La Città», 25 marzo 2017. 1668 – Rappresentante e rappresentato, in «Roma», 27 marzo, 2017. 1669 – Ecco la nuova casa a sinistra del PD, in «Roma», 3 aprile 2017. 1670 – Si va verso la terza catastrofe mondiale, «Roma», 10 aprile 2017. 1671 – Francia, una risposta per il futuro europeo, in «Roma», 24 aprile 2017. 1672 – Legittima difesa, tante incongruenze, in «Roma», 8 maggio 2017. 1673 – Di che cosa sarà fatto il futuro? Emmanuel guardi alle ingiustizie, un «La Città», 8 maggio 2017. 1674 – Tragedia e sofferenze di un popolo, in «La Città», 21 maggio 2017. 1675 – De Sanctis, zoom su un maestro, in «Roma», 23 maggio 2017. 1676 – I sette “grandi” e l’inutile incontro di Taormina, in «Roma», 29 maggio 2017. 1677 – Ma la vera sinistra rischia di scomparire, in «Roma», 5 giugno 2017. 1678 – La reintroduzione del sistema voucher, in «Roma», 12 giugno 2017. 1679 – PD, è un dualismo di difficile soluzione, in «Roma», 3 luglio 2017 162 1680 – Le tante responsabilità dell’emergenza incendi, in «Roma», 17 luglio 2017. 1681 – Migranti, sta fallendo lo spirito comunitario, in «Roma», 24 luglio 2017. 1682 – Rapporto da chiarire tra obbligo e libertà, in «Roma», 31 luglio 2017. 1683 – Migranti, l’Europa tradisce se stessa, in «Roma», 7 agosto 2017. 1684 – Multinazionali estere libere di avvelenare, in «Roma», 14 agosto 2017. 1685 – S. Matteo? Basta amenità, è culto storico, in «La Città», 18 agosto 2017. 1686 – Raggi come Pilato. Serve buon senso, in «Roma», 28 agosto, 2017. 1687 – Il mondo dei robot, è l’era post-umana?, in «Roma», 4 settembre 2017. 1688 – Gli abusi di potere di qualche magistrato, in «Roma», 18 settembre 2017. 1689 – I mitici anni 60 dei primi “nettuniani”, in «La Città», 24 settembre 2017. 1690 – Spagna e Catalogna sull’orlo del baratro, in «Roma», 25 settembre 2017. 1691 – L’Università italiana non va criminalizzata, in «Roma», 2 ottobre 2017. 1692 – Così il “giornalista” Gramsci rilegge gli eventi della rivoluzione d’ottobre, in «La Città», 6 ottobre 2017. 1693 – Cosa si nasconde dietro la crisi catalana, in «Roma», 9 ottobre 2017. 1694 – Democrazia italiana: è sempre più stanca, in «Roma», 16 ottobre 2017. 1695 – I quattro populismi sula scena politica, in «Roma», 23 ottobre 2017. 1696 – Spagna, è a rischio il futuro democratico, in «Roma», 30 ottobre 2017. 1697 – Che fine ha fatto la sinistra italiana?, in «Roma», 6 novembre 2017. 163 1698 – Ma dov’è finita la dignità umana?, in «Roma», 13 novembre 2017. 1699 – Emergenza migranti, la sciagurata decisione di affidarsi alla Libia, «La Città», 20 novembre 2017 [anche in «Roma» col titolo Le ventisei migranti sepolte a Salerno]. 1700 – Quando ci dimentichiamo delle nostre origini, in «Roma», 27 novembre 2017. 1701 – Passioni e debolezze di Gramsci nell’originale biografia di D’Orsi, in «La Città», 27 novembre 2017. 1702 – Se patria e matria diventano contaminazione virtuosa, in «La Città», 4 dicembre 2017 [anche in «Roma» col titolo Il duro confronto tra Patria e Matria]. 1703 – Rinnovare la cultura politica per debellare i neo fascismi, in «La Città», 11 dicembre 2017. 1704 – La svolta umanistica del biotestamento, in «La Città», 18 dicembre 2017 [anche in «Roma» col titolo Biotestamento e dignità, una rivoluzione culturale]. 1705 – La Catalogna vittoriosa non rilanci lo scontro, in «La Città», 27 dicembre 2017 [anche in «Roma», 28 dicembre 2017, col titolo La questione catalana e i rischi per l’Europa]. 1706 – Umanesimo. La linea analitica di Cacciari. Interrogativi sulla crisi tra filologia e filosofia, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 27 dicembre, 2017. * * * 2018 B) 1707 – Acerca de la génesis de los conceptos viquianos de ingenio y fantasía, in «Cuadernos sobre Vico», 30/31, 2016-2017 [pubblicato nel 2018], pp. 87-94. 164 1708 – In difesa della Carta Costituzionale, oggi come ieri, in «Infiniti Mondi», II, 2018, n. 4, pp. 35-45. 1709 – Divagazioni sulla felicità, in P. Rumore (a cura di), Momenti di felicità. Per Massimo Mori, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 115-126. 1710 – Humboldt und Dilthey. Die philosophische Begründung der Individualität und das Entstehen des geschichtlichen Bewusstseins, in J. Trabant (hrsg.), Wilhelm von Humboldt: Sprache, Dichtung, Geschichte, Paderborn, Wilhelm Fink Verlag, 2018, pp. 83-100. 1711 – Etica e storia in Ernst Troeltsch, in G. Cantillo, D. Conte, A. Donise, E. Massimilla (a cura di), Ernst Troeltsch. Religione, etica, filosofia della storia, Quaderni dell’«Archivio di storia della cultura», n.s., vol. 8, Napoli, Liguori, 2018, pp. 101-111. 1712 – Humanismus e Umanesimo, in «Archivio di storia della cultura», XXXI, 2018, pp. 339-344. 1713 – Sulla genesi dei concetti vichiani di ingegno e fantasia, in «Bollettino del Centro di studi vichiani», XLVIII, 2018, pp. 21-28. 1714 – Pena di morte e letteratura. Una prospettiva storico-filosofica, in «Logos», n.s., 13, 2018, pp. 249-253. E) 1715 – A. Labriola, I problemi della filosofia della storia (1887). Recensioni (1870-1896), a cura di G. Cacciatore e M. Martirano, Napoli, Bibliopolis, 2018. F) 1716 – Premessa a G. Cirillo (a cura di) L’italia a cento anni dalla grande guerra. Miti, interpretazioni, politiche industrali, Fisciano (SA), Gutenberg Edizioni, 2017 [ma distribuito nel 2018], pp. 10-13. 1717 – Prefazione a S. Tarantino, Chiaroscuri della ragio- 165 ne. Kant e le filosofe del Novecento. Napoli, Guida Editori, 2018, pp. 7-11. 1718 – Introduzione a L. Cicalese, A Nocera Superiore dal 1943 al 1946, Nocera Superiore, PrintArt Editore, 2018, pp. 5-7. G) 1719 – La “vecchia” Costituzione che rianima la democrazia stanca, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 5 gennaio 2018. 1720 – La Costituzione merita una riflessione storica, in «Roma», 8 gennaio 2018. 1721 – “Rubentus”, sperando nel gesto dell’ombrello, in «Roma», 15 gennaio 2018. 1722 – La Segre e gli orrori di ieri, oggi e domani, in «Roma», 22 gennaio 2018. 1723 – Si alla clonazione ma solo a fin di bene, in «Roma», 29 gennaio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo La clonazione tra ragionevoli e catastrofisti, 1 febbraio 2018]. 1724 – Attenti al pericolo dei nuovi nazifascisti, in «Roma», 5 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo L’Olocausto e la legge polacca. L’aggettivo che nasconde i carnefici della porta accanto, 6 febbraio 2018]. 1725 – La storia e le rivoluzioni culturali e sociali, in «Roma», 12 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Il Sessantotto delle libertà sospeso tra il silenzio e l’idillio della retorica, 13 febbraio 2018]. 1726 – Sacralità della vita e libertà di suicidio, in «Roma», 19 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo La dignità della vita e i sentieri interrotti della ragion politica, 20 febbraio 2018]. 1727 – Intanto cresce l’odio verso gli immigrati, in «Roma», 26 febbraio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di 166 Salerno, col titolo Fascismo e antifascismo: le parole “vecchie” che nominano il nuovo, 27 febbraio 2018]. 1728 – Restare ottimisti nonostante tutto, in «Roma», 5 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Stare al mondo con ottimismo nel grigio weekend, 6 marzo 2018]. 1729 – Quella scintilla viva nell’idea di socialismo, in «Roma», 12 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, La coperta del socialismo che contamina lo scandalo della modernità, 13 marzo 2018]. 1730 – I populismi, malattia senile della democrazia, in «Roma», 19 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Il “possibile” dei partiti senza demonizzare i congiuntivi sbagliati, 20 marzo 2018]. 1731 – La preoccupazione per i due populismi, in «Roma», 26 marzo 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo L’aventinismo nullista travolto dall’onda populista, 27 marzo 2018]. 1732 – Giornalismo d’inchiesta tra politica e informazione, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 3 aprile 2018. 1733 – La razza non esiste, lo dice la scienza, in «Roma», 9 aprile 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, 10 aprile 2018]. 1734 – Informazione digitale: uso improprio e illegale, in «Roma», 16 aprile 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, 17 aprile 2018]. 1735 – Perché i diritti sono radice immutabile della sinistra, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 24 aprile 2018 [anche in «Roma», 23 aprile 2018]. 1736 – Le istituzioni possono fermare un altro declino. A proposito della chiusura della Libreria Internazionale, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 1 maggio 2018. 1737 – Internazionale, patrimonio culturale della città, in «YouCamp», 3 maggio 2018. 1738 – Recuperare Marx senza totalitarismi, in «Roma», 7 maggio 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col 167 titolo A che condizione non possiamo non dirci marxisti, 8 maggio 2018]. 1739 – La strada stretta tra populisti e sovranisti, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 15 maggio 2018 [anche in «Roma» col titolo L’ultima spiaggia: potere a Mattarella, 14 maggio 2018]. 1740 – Fionda e cecchini. Il nuovo apartheid dei palestinesi, in «Il Mattino», ed. di Salerno, 22 maggio 2018 [anche in «Roma» col titolo Non resta che diventare cittadini israeliani, 21 maggio 2018]. 1741 – Uno scontro istituzionale che non ha precedenti, in «Roma», 28 maggio 2018. 1742 – Apprendisti stregoni contro la costituzione, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 29 maggio 2018. 1743 – La mutazione genetica del populismo tradizionale, in «Roma», 4 giugno 2018. 1744 – La piazza multiclassista e la sinistra incerta, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 5 giugno 2018. 1745 – Governo muto su diritti e lavoro, in «Roma», 11 giugno 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo La testa dura dei fatti e le visioni innegabili, 12 giugno 2018]. 1746 – La sinistra sconfitta ma non ancora sepolta, in «Roma», 18 giugno 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Un nuovo socialismo per la nuova sinistra, 19 giugno 2018]. 1747 – Ambiente e cervello: un dialogo continuo, in “«Roma», 25 giugno 2018 [anche in «Il Mattino», ed. di Salerno, col titolo Tra anoressia dei valori e bulimia dei consumi, 26 giugno 2018]. 1748 – Se la nostra Europa rinnega la vocazione umanitaria, in «Il Mattino» (ed. di Salerno), 3 luglio 2018. 1749 – La perdita d’influenza della classe operaia, in «Roma», 9 luglio 2018. 1750 – Guardiamo la storia come “Magistra Vitae”, in «Roma», 16 luglio 2018. 1751 – Immigrati, il razzista della porta accanto, in «Roma», 23 luglio 2018. 168 1752 – L’indifferenza convive con l’odio, dal giudice xenofobo a Federica, in «La Città», 24 luglio 2018. 1753 – Il mondo cattolico argine al razzismo, in «Roma», 30 luglio 2018. 1754 – Sud nel baratro. Governo assente, in «Roma», 6 agosto 2018. 1755 – Renato Cangiano, l’anima del premio Salvatore Valitutti, in «La Città», 11 agosto 2018. 1756 – Basta proclami, ora servono i fatti, in «Roma», 20 agosto 2018. 1757 – La democrazia “sostituita” dai social, in «Roma», 27 agosto 2018. 1758 – Dalla Chiesa l’appello in difesa dell’ambiente, in «Roma», 3 settembre 2018. 1759 – L’ignoranza “democratica” che genera i populismi, in «Il Mattino», 11 settembre 2018 [anche in «Roma» col titolo La storia è il sapere più vicino alla politica, 10 settembre 2018]. 1760 – Amendola, le lettere della libertà, in «La Città», 14 settembre 2018. 1761 – Bergoglio e la dura critica al populismo dilagante, in «Roma», 24 settembre 2018. 1762 – Verso la “dittatura della maggioranza” [titolo originale del giornale: Verso una dittatura delle fake-news], in «Roma», 1 ottobre 2018. 1763 – Perché i populisti odiano la storia, in «Roma», 15 ottobre 2018. 1764 – Scivoliamo verso il baratro con gli apprendisti stregoni, in «Roma», 22 ottobre 2018. 1765 – Il nemico non è alle porte, ma il pre-fascismo sì, in «Roma», 5 novembre 2018. 1766 – Salerno e la sua storia, in «Cronache della sera», 9 novembre 2018. 1767 – Ecco come nascono i governi autoritari, in «Roma», 12 novembre 2018. 1768 – Dalle veline fasciste ai messaggi grillini, in «Roma», 19 novembre 2018. 169 1769 – Dalle donne parta una rivolta civile, in «Roma», 26 novembre 2018. 1770 – I preoccupanti dati del rapporto Censis, in «Roma», 10 dicembre 2018. 1771 – Diritti umani ancora calpestati nel mondo, in «Roma», 17 dicembre, 2018 * * * 2019 B) 1772 – Dilthey zwischen Universalismus und Relativismus, in «Aoristo. Journal of Phenomenology, Hermeneutics and Metaphysics», n. 3, 2019, pp. 84-102. 1773 – Etica e storia in Troeltsch, in «Aoristo. Journal of Phenomenology, Hermeneutics and Metaphysics», n. 3, 2019, pp. 227-237. 1774 – “Mis” Vico, in «Cuadernos sobre Vico», 32, 2018 [pubblicato nel 2019], pp. 53-59. 1775 – La lingua della Scienza Nuova di Vico. In dialogo con una inedita interpretazione della lingua vichiana, in F. Cacciapuoti (a cura di), Il corpo dell’idea. Immaginazione e linguaggio in Vico e Leopardi, Roma, Donzelli, 2019, pp. 103-106. 1776 – Un appuntamento mancato? Il carteggio AndersLukács 1964-1971, in A. Meccariello, A. Infranca (a cura di), Vie traverse. Lukács e Anders a confronto, Trieste, Asterios, 2019, pp. 19-30. 1777 – Bloch e l’alleanza tra diritto naturale e diritti umani, in «Infiniti Mondi», III, 2019, n. 11, pp. 25-39. 1778 – L’Europa nelle riflessioni di Benedetto Croce e Thomas Mann, in Aa.Vv., Adotta un filosofo, pogetto di formazione rivolto alle scuole superiori, Fondazione Campania dei Festival, pp. 29-31. 170 1779 – Il marxismo di Antonio Banfi, in «Critica Marxista», n. 4-5, 2019, pp. 71-80. 1780 – Bloch e l’utopia della Menschenwürde, in «B@belonline», n. 5, 2019, pp. 107-118. 1781 – Storia filosofica o storia storica della filosofia?, in «Iride», n. 86, 2019, pp. 75-80. 1782 – Weimar 100 anni dopo. Lezioni da meditare, in «Historia Magistra», XI, 2019, n. 30, pp. 5-8. C) 1783 – Recensione di F. Esposito, R. Guerriero, Il capitano. La storia di Donato Vestuti, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 72, dicembre 2019, pp. 190-193. G) 1784 – Rivolta anti-Salvini, disobbedire è giusto, in «Roma», 7 gennaio 2019. 1785 – Sconfessare le promesse dei nostri governanti, in «Roma», 14 gennaio 2019. 1786 – Così vogliono demolire la democrazia parlamentare, in «Roma», 21 gennaio 2019. 1787 – Lelio Basso e quell’incontro mancato tra Marx e Kant, in «Salerno Sera», 26 gennaio 2019. 1788 – Il giorno della memoria e la nuova barbarie, in «Roma», 28 gennaio 2019. 1789 – Italiani abbindolati grazie alla paura, in «Roma», 4 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 4 febbraio 2019, col titolo Prigionieri dell’istrionismo salviniano]. 1790 – La pietà verso i morti e i diritti dei migranti, in «Roma», 11 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 11 febbraio 2019, col titolo Il volto salato dei naufraghi]. 1791 – L’eutanasia del Sud, morte lenta indotta, in «Roma», 18 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 18 febbraio 2019, col titolo Giù le mani dalla Costituzione]. 171 1792 – L’attacco alla storia: rischia di scomparire, in «Roma», 25 febbraio 2019 [anche in «Salerno Sera», 25 febbraio 2019, col titolo Giù le mani dalla storia]. 1793 – La “Città” e quei pirati sulla nave di Teseo, in «Salerno Sera», 3 marzo 2019 [anche in «Roma» col titolo La truffa delle tre tavolette de “La Città” di Salerno, 4 marzo 2019]. 1794 – Diseguaglianze e violenze, una svolta per le donne, in «Roma», 11 marzo 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Non una di meno, 11 marzo 2019]. 1795 – Nuova Zelanda, l’orrore si rinnova, in «Salerno Sera», 18 marzo 2019 [anche in «Roma», col titolo Abbassiamo a 14 anni il diritto al voto, 18 marzo 2019]. 1796 – Ius soli, è solo un dovere, in «Salerno Sera», 25 marzo 2019 [anche in «Roma», col titolo Populismo e sovranismo, una miscela pericolosa, 25 marzo 2018]. 1797 – No al suprematismo neofascista, in «Salerno Sera», 1 aprile 2019 [anche in «Roma» col titolo Il populismo italiano e la tragedia umanitartia, 1 aprile 2019]. 1798 – La letteratura e il senso del viaggio, in «Salerno Sera», 8 aprile 2019 [anche in «Roma» col titolo “Giornalisti all’inferno”, romanzo sorprendente, 8 aprile 2019]. 1799 – Difendiamo la storia o si vendicherà, in “«Roma», 29 aprile 2019 [anche in «Salerno Sera», 1 maggio 2019, col titolo La storia un bene comune, se ignorata si vendica]. 1800 – La necessità storica dell’Europa, in «Salerno Sera», 6 maggio 2019 [anche in «Roma», 6 maggio 2019, col titolo Un’Europa unita contro il nazionalismo]. 1801 – Per Roberto Visconti, in «Le Cronache», 6 maggio 2019. 1802 – Decreto sicurezza? È incostituzionale, in «Roma», 13 maggio 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo La Costituzione non resti sulla carta, 14 maggio 2019]. 1803 – La dittatura della Rete, in «Salerno Sera», 20 maggio 2019 [anche in «Roma» col titolo La dittatura informatica dei social network, 20 maggio 2019]. 172 1804 – Il Presidente Mattarella è l’ombrello protettivo, in «Roma», 3 giugno 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Meno male che Mattarella c’è, 2 giugno 2019]. 1805 – L’ambiente, occasione persa per la sinistra, in «Roma», 10 giugno 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo La sinistra si allei con i movimenti ecologisti, 11 giugno 2019]. 1806 – L’eredità perduta della classe operaia, in «Roma», 17 giugno 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo La sinistra riscopra la “fatica del lavoro”, 18 giugno 2019]. 1807 – La vergognosa politica antimeridionalista, in «Roma», 24 giugno 2019. 1808 – Attenti al populismo penale, in «Salerno Sera», 8 luglio 2019 [anche in «Roma» col titolo Populismo penale e sequestro di persone, 8 luglio 2019]. 1809 – I testi Invalsi e la crisi del linguaggio pubblico, in «Salerno Sera», 14 luglio 2019 [anche in «Roma» col titolo La scuola scivola sui testi Invalsi, 15 luglio 2019]. 1810 – È un pianeta dominato dall’egoismo del potere, in «Roma», 29 luglio 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Fermiamo la catastrofe ecologica, 29 luglio 2019]. 1811 – Il Sud è all’ultima spiaggia, in «Salerno Sera», 5 agosto 2019 [anche in «Roma» col titolo Sud, serve un piano di emergenza, 5 agosto 2019]. 1812 – Tutti uniti contro il pericolo sovranista, in «Salerno Sera», 11 agosto 2019 [anche in «Roma» col titolo Il sussulto di orgoglio del premier Conte, 12 agosto 2019]. 1813 – Amazzonia-Italia, così va in fumo il futuro, in «Salerno Sera», 26 agosto 2019 [anche in «Roma» col titolo Il balletto PD-5Stelle mentre il mondo brucia, 26 agosto 2019]. 1814 – Il “nuovo umanesimo” e l’insidia dei fondamentalismi, in «Salerno Sera», 2 settembre 2019 [anche in «Roma» col titolo L’umanesimo di Conte e i rifugiati in alto mare, 2 settembre 2019]. 1815 – Non basta aver messo Salvini fuori gioco, in «Roma», 9 settembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col 173 titolo Il governo giallorosso tiri fuori il coraggio, 9 settembre 2019]. 1816 – Diritti umani universali e libera circolazione, in «Roma», 16 settembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Ma i diritti dell’uomo sono ancora universali?, 20 settembra 2019]. 1817 – L’urlo di Greta e il silenzio assordante delle istituzioni, in «Salerno Sera», 29 settembre 2019 [anche in «Roma» col titolo E il decreto sull’ambiente ancora una volta rinviato, 30 settembre 2019]. 1818 – Se l’essere umano batte l’algoritmo, in «Roma», 14 ottobre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Se l’algoritmo diventa rischio per la democrazia, 15 ottobre 2019]. 1819 – Il dramma dei curdi, un popolo senza, in «Roma», 21 ottobre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo La tragedia dei curdi e l’ipocrisia dell’Europa, 22 ottobre 2019]. 1820 – Finalmente un disegno per la difesa della storia, in «Roma», 28 ottobre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Il ritorno della storia contro la civiltà delle fake news, 29 ottobre 2019]. 1821 – Ricordando la caduta del muro di Berlino, in «Roma», 4 novembre 2019 [anche in «Salerno Sera», col titolo 30 anni fa la caduta del muro, ma l’Europa dov’è?, 3 novembre 2019]. 1822 – Ora la classe operaia si scuota dal letargo, in «Salerno Sera», 17 novembre 2019 [anche in «Roma» col titolo La lenta “dismissione” della lotta operaia, 18 novembre 2019]. 1823 – Quello delle sardine è un mare promettente, in «Salerno Sera», 2 dicembre 2019 [anche in «Roma» col titolo Le sardine e la polemica contro i populismi, 2 dicembre 2019]. 1824 – Dai movimenti di piazza un’inversione di tendenza, in «Roma», 9 dicembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Se le classi più deboli invocano l’uomo forte, 9 dicembre 2019]. 1825 – La brexit e i doveri della sinistra europea, in «Salerno Sera», 16 dicembre 2019 [anche in «Roma» col tito- 174 lo La classe operaia cambiata, lo sfruttamento invece no, 16 dicembre 2019]. 1826 – Altri tagli alla ricerca, ci vuole uno sciopero,in «Roma», 23 dicembre 2019 [anche in «Salerno Sera» col titolo Tagli alla ricerca, l’Italia sempre più povera, 23 dicembre 2019]. * * * 2020 A) 1827 – Sulla Pandemia. Appunti di un filosofo in quarantena, Sant’Egidio del Monte Albino, Francesco D’Amato Editore, 2020. 1828 – G. Cacciatore, M. Kaufmann, F. Lomonaco (hrsg.), Zwischen Sprache und Geschichte. Vicos Methode beim Umgang mit Recht und Naturrecht, Berlin, Peter Lang, 2020. 1829 – G. Cacciatore, M. Sanna, A. Mascolo (a cura di), Le trame dell’ingegno. Vico nell’orizzonte della cultura iberica e iberoamericana, «Rocinante. Rivista di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», ISPF-CNR, n. 11/2018-2019, Napoli, Diogene Edizioni, 2020. 1830 – Giuseppe Capograssi e Pietro Piovani. Riflessioni sull’opera di due maestri, Lettera ad un amico a guisa di introduzione di F. Tessitore, Napoli, Liguori Editore, 2020. B) 1831 – Der Zusammenhang zwischen der Universalität des Gesetzes und der empirischen Geschichtlichkeit der Civitas in Vicos Begriff der Bürgerschaft, in G. Cacciatore, M. Kaufmann, F. Lomonaco (hrsg.), Zwischen Sprache und Geschichte. Vicos Methode beim Umgang mit Recht und Naturrecht, Berlin, Peter Lang, 2020, pp. 61-69. 175 1832 – Una “svolta” negli studi su Vico in Spagna. Note in margine all’opera di José M. Sevilla Fernández, in G. Cacciatore, M. Sanna, A. Mascolo (a cura di), Le trame dell’ingegno. Vico nell’orizzonte della cultura iberica e iberoamericana, «Rocinante. Rivista di filosofia iberica, iberoamericana e interculturale», ISPF-CNR, n. 11/2018-2019, Napoli, Diogene Edizioni, 2020, pp. 41-51. 1833 – Carlo Pisacane. Risorgimento e questione sociale, in L. Melillo (a cura di), La lezione di Carlo Pisacane, «Il Pozzo», 1, 2020, pp. 7-12. 1834 – Mito e storia in Vico, in P. De Lucia, S. Langella, M. Longo, F.L. Marcolungo, L. Mauro, S. Zanardi (a cura di), Storiografia filosofica e storiografia religiosa. Due punti di vista a confronto. Scritti in onore di Luciano Malusa, Milano, Franco Angeli, 2020, pp. 176-181. 1835 – Una nuova edizione de La Giovinezza di De Sanctis, in M. Trotta (a cura di), Francesco De Sanctis tra storia e memoria. Sulla Giovinezza, edizione critica di Giovanni Brancaccio, Milano, Biblion Edizioni, 2020, pp. 9-18. 1836 – “Meine” Vico, in A. Krause, D. Simmermacher (hrsg.), Denken und Handeln. Festschrift für Matthias Kaufmann zum 65. Geburtstag, Berlin, Duncker & Humblot, 2020, pp. 217-222. 1837 – L’identità ritrovata, in L. Libero (a cura di), Cosa ci resta? Ambiente, Risorse, Cultura, prefazione di T. Montanari, Salerno, Oèdipus edizioni, 2020, pp. 22-24. 1838 – Banfi e il marxismo tra razionalismo critico e materialismo storico, in C. Tuozzolo (a cura di), Marx in Italia. Ricerche nel bicentenario della morte di Karl Marx, Roma, Aracne Editrice, 2020, t. I, pp. 163-196. 1839 – Aldo Masullo. Tra fenomenologia della soggettività e geneaologia dell’umano, in «Infiniti Mondi», n. 14, 2020, pp. 203-205. 1840 – Per la critica della “storia debole”, in G. Cirillo, M.A. Noto (a cura di), Stagioni e ragioni della storia. Le 176 “vie” della ricerca di Aurelio Musi, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2020, pp. 29-37. 1841 – Il centenario della Società Salernitana di Storia Patria, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 73, giugno 2020, pp. 3-6. 1842 – Per Aldo Masullo, maestro di vita e di pensiero, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 73, giugno 2020, pp. 199-201. 1843 – Fausto Andria. Una vita esemplare, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 73, giugno 2020, pp. 203-207. 1844 – Croce und Dilthey: die zwei Wege des europäischen Historismus, in R. Faraone, M. Kaufmann (hrsg.), Benedetto Croce, Deutschland und die Moderne, Berlin, Peter Lang, 2020, pp. 93-102. 1845 – Per Antonello Giugliano, in «Archivio di Storia della Cultura», XXXIII, 2020, pp. 1-4. 1846 – Per la critica della “storia debole”, in G. Cirillo, M.A. Noto (a cura di), Ragioni e stagioni della storia. Le “vie” della ricerca di Aurelio Musi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020, pp. 29-37. 1847 – La ricerca della giustizia tra diritto religione e società, in C. De Angelis, A. Scalone (a cura di), Πολιτεία. Liber amicorum Agostino Carrino, Milano-Udine, Mimesis, 2020, pp. 95-106. 1848 – Dilthey. La ragione tra storia e vita, in M. Cambi, R. Carbone, A. Carrano, E. Massimilla (a cura di), Ragione, razionalità e razionalizzazione in età moderna e contemporanea, Napoli, Federico II University Press, 2020, pp. 307-314. 1849 – Ricordo di Antonello Giugliano (in collab. con F. Lomonaco), in «Logos», n. 15 (2020), pp. 5-6. C) 1850 – Recensione di U. Baldi, A un semplice cenno del capo. La lotta alla Gambardella nel 1974, un episodio di “Resistenza Operaia”, Nocera Superiore (SA), Polis SA 177 Edizioni, 2020, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., n. 3, giugno 2020, pp. 211-214. F) 1851 – Presentazione di A. Franco, F. De Martino, A. Odierna (a cura di), “Studi storici sarnesi”. L’affermazione dei “civili”: il caso degli Hodierna, Torre del Greco, ESA Edizioni scientifiche ed artistiche, 2020, pp. V-IX. 1852 – Introduzione a La filosofia del Tressette, Sant’Egidio del Monte Albino, Francesco D’Amato editore, 2020, pp. 7-12. 1853 – Introduzione (in collab. con M. Martirano) a G. Cantillo, La filosofia del soggetto. Saggi su etica, comunità e storicità, Sant’Egidio del Monte Albino, Francesco D’Amato editore, 2020, pp. 5-7. 1854 – Prefazione a A. Mondillo, L. Barricelli, G. Ianniello, M. Dalmotto (a cura di), Fratelli di libertà, fumetto sulla rivolta cilentana del 1828, Castelnuovo Cilento, B.M.P. Group, 2020. G) 1855 – Il ruolo dell’Italia nella guerra Usa/Iran, in «Roma», 6 gennaio 2020 [anche in «Salerno Sera» col titolo Venti di guerra, Italia e Europa senza voce, 6 gennaio 2020]. 1856 – Habermas, la forza del pensiero, in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, 20 gennaio 2020. 1857 – Il proporzionale è più democratico, in «Roma», 20 gennaio 2020 [anche in «Quotidiano del Sud», ed. di Salerno, col titolo Proporzionale prima di tutto, 22 gennaio 2020]. 1858 – Nell’anno centenario una sinergia virtuosa tra stampa e Storia Patria, in «Quotidiano del Sud», ed. di Salerno, 26 gennaio 2020. 1859 – Il 27 gennaio resti per sempre nella coscienza collettiva, in «Salerno Sera», 27 gennaio 2020 [anche in 178 «Roma» col titolo Comprendere è impossibile, conoscere è necessario, 27 gennaio 2020]. 1860 – Il diritto per la comprensione dei processi storici e sociali, in «Salerno Sera», 4 febbraio 2020. 1861 – L’olocausto dimenticato e l’alleanza in Turingia, in «Roma», 10 febbraio 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Le democrazie, il lavoro e i rischi della libertà, 12 febbraio 2020]. 1862 – Ambiguità del masaniellismo, in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, 21 febbraio 2020 [anche in «Roma» col titolo Il libro: Masaniello e il masaniellismo, 24 febbraio 2020]. 1863 – Serve un vaccino contro la paura, in «Roma», 2 marzo 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Il morbo è la paura, 9 marzo 2020]. 1864 – Stare uniti per superare singoli interessi e paure, in «Roma», 9 marzo 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Una task force europea per tutelare la salute, 10 marzo 2020]. 1865 – Quando la fratellanza viene prima della libertà, in «Roma», 16 marzo 2020 [anche in «Il Quotidiano», ed. di Salerno, col titolo Sì a barriere protettive pur di bloccare il virus, 18 marzo 2020]. 1866 – Non violiamo la dignità dell’essere umano, in «Roma», 23 marzo 2020. 1867 – Il valore insostituibile delle persone anziane, in «Roma», 30 marzo 2020. 1868 – Qualche filosofo parla di invenzione ma sbaglia, in «Roma», 20 aprile 2020. 1869 – Aldo Masullo, il filosofo che amava confrontarsi, in «Roma», 27 aprile 2020. 1870 – “Prudenza” e “buon senso” negli attacchi al governo, in «Roma», 4 maggio 2020. 1871 – La drammatica ricaduta sulla occupazione, in «Roma», 11 maggio 2020. 1872 – Liberi di circolare ma con prudenza, in «Roma», 18 maggio 2020. 179 1873 – Virus: ancora sui più indifesi: gli ultrasessantenni, in «Roma», 25 maggio 2020. 1874 – La vita di ogni uomo ha la medesima dignità, in «Roma», 1 giugno 2020. 1875 – Una miope politica per l’occupazione, in «Roma», 8 giugno 2020 1876 – Dopo la fratellanza arrivano i nuovi caini, in «Roma», 22 giugno 2020. 1877 – Mondragone, si rischia uno scontro esplosivo, in «Roma», 29 giugno 2020. 1878 – La pandemia e il crollo del tasso di natalità, in «Roma», 6 luglio 2020. 1879 – Il “massacro sociale” è stato quasi compiuto, in «Roma», 13 luglio 2020. 1880 – Unione europea: rinvio? È un colpo mortale, in «Roma», 20 luglio 2020. 1881 – L’Europa sta a guardare la dittatura di Erdogan, in «Roma», 27 luglio, 2020. 1882 – Libertà non significa fare ammalare gli altri, in «Roma», 3 agosto 2020. 1883 – Abbiamo il diritto di difendere la vita, in «Roma», 10 agosto 2020. 1884 – Amarante e la necessità della storia, in «La Città», 21 agosto 2020. 1885 – I pericoli del Sì al Referendum, in «Roma», 24 agosto 2020. 1886 – Confindustria e Sindacati un conflitto che preoccupa, in «Roma», 31 agosto 2020. 1887 – Il Sud, nuovo motore per la ripresa del Paese, in «Roma», 7 settembre 2020. 1888 – L’indignazione di Saviano sull’attuale politica del PD, in «Roma»,14 settembre 2020. 1889 – Costruire un’unione europea della salute, in «Roma», 21 settembre 2020. 1890 – Migranti, è inaccettabile la solidarietà solo per i rimpatri, in «Roma», 28 settembre 2020. 180 1891 – Misure immediate contro gli irresponsabili, in «Roma», 5 ottobre 2020. 1892 – Bergoglio alla fraternità aggiunge l’amicizia sociale, in «Roma», 12 ottobre 2020. 1893 – I giovani e il concetto di responsabilità, in «Roma», 19 ottobre 2020. 1894 – Salute ed economia in conflitto, in «Roma», 26 ottobre 2020. 1895 – Il concetto di libertà non significa arbitrio, in «Roma», 2 novembre 2020. 1896 – Joe Biden, uniti contro pandemia e razzismo, in «Roma», 9 novembre 2020. 1897 – La sconcertante discrasia tra potere centrale e locale, in «Roma», 16 novembre 2020. 1898 – Il difficile compito del Presidente Biden, in «Roma», 23 novembre 2020. Giuseppe Cacciatore. Keywords: Vico, Croce, Labriola, Bruno, dallo storicismo allo storicismo, linceo, centro di studii vichiani.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cacciatore” – The Swimming-Pool Library.

 

Caffarelli (Faenza). Filosofo. Grice: “You’ve gotta love Caffarelli; he philosophised on all that I’m interested in, notably “il bello,” whih he relates to art, communication, love – and the rest of it!” Figlio di Colombo ed Edvige Regoli, e una figura singolare nel panorama culturale faentino della prima metà del Novecento. Frequenta la Scuola di musica di Faenza ed il Liceo musicale di Bologna, dove consegue il diploma di composizione. Direttore della Scuola di musica e autore dei poemi scenici "Galeotus" e "Kisa Gotami".  Gli anni tra la fine del secolo e lo scoppio del primo conflitto mondiale sono un periodo di intensa e tormentata ricerca interiore, caratterizzata dall'allontanamento dalle credenze religiose tradizionali. Gli esiti mistico-esoterici della sua ricerca accentuarono progressivamente il suo isolamento e la sua solitudine. In ambito locale ebbe stretti rapporti con i cattolici "autonomisti" della Lega democratica nazionale murriana e postmurriana, collaborando a diverse iniziative pubblicistiche quali l'Azione di Donati e Cacciaguerra, la «Rivista bibliografica», «La Rivolta ideale».  Partecipa al concorso della Casa Sonzogno di Milano per opere liriche da far rappresentare Teatro alla Scala con un lavoro dal titolo Galeotus, " poema scenico in 4 azioni per la musica", grazie al quale acquisì una discreta fama presso il panorama musicale italiano  Si avvicina agli ideali antroposofici di Steiner, diventando uno dei primi e principali esponenti di questa corrente in Italia. La sua piena adesione alla dottrina steineriana trova espressione ne "L'arte nel mondo spirituale”, vero e proprio manifesto di un'estetica antroposofica. Di analoga ispirazione furono il poema musicale "Adonie"  e il dramma "Ikhunaton". Molto attento alle rinnovazioni culturali della sua epoca, collabora con Pratella, e partecipa alle attività del Cenacolo Baccarini dove conobbe Campana. Organista presso la cattedrale di Faenza. Oltre alla sua attività musicale si segnalano anche traduzioni dal tedesco e saggi filosofici. Volle donare il suo archivio e la sua biblioteca alla Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza che li conserva tuttora. Il Comune di Faenza acquisì il fondo. La loro acquisizione completa avvenne anche grazie alla volontà di Silvestrini, dell'associazione faentina Amici dell'arte. Testimonianze coeve parlano di "una decina fra bauli e casse pieni di manoscritti che si trovano in un disordine impressionante". A tale donazione si aggiunse anche il pianoforte utilizzato da Caffarelli, tuttora conservato presso la biblioteca.  Partendo dalla antroposofia musicale sviluppa un sistema armonico comprendente la tavolozza dei dodici suoni della scala cromatica e che egli chiama sistema dodecamorfo, secondo il quale la musica deve divenire immagine e manifestazione traendo le sue fonti in una sfera spirituale. Così egli afferma nel saggio L'arte nel mondo spirituale. La musica non e una esteriore costruzione di un tema piacevole ma intreccio di suoni-forze, rapporti di suoni-forme, ricami di suoni-movimenti-archetipi. Tende a crear forme espansive, delle quali il nucleo germinale è suono archetipo. Così prosegue nel suo Saggio sull'Armonia sintetica. In questo senso è possibile considerare il ciclo epta-fonico accordale come il generatore del susseguente ciclo ultra-epta-fonico, precisamente come la gamma epta-fonica diatonica genera il ciclo cromatico, e perché l'analogia sia piena, come la gamma dia-tonica di sette suoni ne genera altri cinque cromatici, così il ciclo epta-fonico accordale genera altri cinque accordi ultra-eptafonici e cromatici, che sono la sua completa espansione materiale. L'accostamento che noi facciamo di queste profonde parole al mondo armonico non è arbitrario e fantastico, ma implicito nella natura stessa delle cose. E di nuova purissima luce illumina il mondo armonico, e svela così nuovi rapporti e nuove possibilità, che il mondo dei suoni ci appare essere un sistema, come un universo di suoni, che nella generazione e nella vita ri-specchia fedelmente le leggi cosmiche e le manifesta come vita sonora. Musica Messa in Mib per cori virili a tre voci ed organo, Galeotus. Silfo: commento musicale per orchestra al poemetto in prosa di Arturo Onofri. Le anime orfane: canto per violoncello e pianoforte. Triodia seconda. L' arte nel mondo spirituale: tre saggi come introduzione a una conoscenza spirituale-cosmica dell'arte (Montanari, Faenza). Saggio sull'Armonia Sintetica. Doppia generazione delle armonie. L'armonia come co-espressione  Disegno storico sulla evoluzione della Sonata, Il segreto di Boito. Gli orizzonti esoterici dell'arte. Beethoven e la Gioia (in "I nostri quaderni.  Esoterismo e fascismo. Il movimento antroposofico italiano durante il regime fascista, in Esoterismo e Fascismo. Un enigma esistenziale. Lamberto Pietro Gaetano Caffarelli. Lamberto Caffarelli. Keywords: l’armonia come co-espressione, armonia virile, coro virile. Boito, eptafornia, cromatismo, sistema dodecamorfo, saggi filosofici, teoria dell’armonia, armonia ultra-eptafonica, armonia cromatica, armonia dodecamorfica, coro virile, armonia virile, armonia come co-espressione virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caffarelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Caffi: Grice: “I like Caffi; like me, he is a pragmatist; therefore it’s all about ‘homo faber,’ never ‘sapiens,’ the cooperation makes the ego – l’altro makes the io – ‘individuo e societa’ – he has also explored myth, and was friend with the Riviera author Albert Camus!” -- Andrea Caffi (San Pietroburgo) filosofo.  Intellettuale poliedrico e ribelle, fu sodale di figure di primo piano del panorama del Novecento europeo, quali Albert Camus, Carlo Rosselli e Nicola Chiaromonte. Nacque a San Pietroburgo, in una famiglia italiana: il padre, Giovanni Caffi, era emigrato da Belluno in Russia, dove lavorava come costumista ai Teatri Imperiali; la madre, Emilia Carlini, è una figura di cui i biografi non sono riusciti a ricostruire con precisione le origini, ma si ipotizza che fosse nata in Francia da emigrati italiani.  Già da adolescente, liceale alla scuola Internazionale di San Pietroburgo, Andrea Caffi si avvicinò alle idee socialiste e al movimento operaio. In questo periodo giovanile affiancò agli studi e al confronto dialettico l'esperienza diretta che gli fece conoscere da vicino le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e dei contadini nella Russia zarista. Partecipò alla Rivoluzione russa del 1905, che esplose proprio nella sua città, fu arrestato e condannato a tre anni di reclusione. Uscirà di galera con un anno di anticipo, grazie all'intercessione delle autorità consolari italiane, e prenderà la via dell'esilio in Germania. Trascorsi alcuni anni a Berlino, dove svolse anche studi universitari in filosofia, si trasferì a Firenze e poi a Parigi, in un contesto internazionale che di lì a poco sarebbe stato segnato dall'esplosione della Prima guerra mondiale, vista da Caffi come uno scontro fra potenze portatrici di idee progressiste e il conservatorismo dell'area germanica. Dapprima volontario nell'esercito francese e poi arruolato in quello italiano, rimase ferito due volte, la seconda proprio sul fronte dolomitico bellunese, nella zona da cui proveniva suo padre, e infine fu assegnato al servizio di comunicazione e propaganda.  Dopo la guerra, mentre allacciava relazioni nel mondo culturale italiano, decise di tornare in Russia dove collaborò con i suoi vecchi compagni socialisti libertari dei quali condivideva anche la condanna indirizzata ai metodi bolscevichi, ritenuti autoritari e violenti. In seguito a questa attività politica critica nei riguardi della Rivoluzione d'ottobre, Caffi fu arrestato: dopo le carceri zariste conobbe dunque quelle leniniste. Uscito di prigione, rimase un altro periodo a Mosca, prima di rientrare in Italia, nel 1923, dove collaborò con alcune riviste dell'area socialista. Nel 1926 il degenerare della situazione politica, con l'imporsi della dittatura fascista, costrinse Caffi a fuggire in Francia, a Versailles e poi a Parigi dove si guadagnò umilmente da vivere prevalentemente lavorando come traduttore e redattore per alcune case editrici. In questo periodo intensificò i rapporti con l'antifascismo in esilio avvicinandosi in particolare al gruppo di Giustizia e Libertà, con il quale peraltro entrò rapidamente in conflitto contestandone la prassi politica. Caffi aveva via via consolidato una visione marcatamente pacifista e nonviolenta, professando un'idea di democrazia socialista e libertaria nella quale i mezzi non possono contrastare con i fini (da qui la condanna dell'autoritarismo sovietico e del fallimento sostanziale della democrazia occidentale). Nel 1940 si trasferì a Tolosa dove fu tra gli animatori della resistenza antinazista, in stretto collegamento con le comunità di emigrati e esiliati italiani.  Nel 1948 tornò a Parigi, dove lavorò per le edizioni Gallimard e fu come sempre una figura attiva nel dibattito politico e intellettuale dell'epoca.  Fu sepolto presso il Cimitero del Père-Lachaise a Parigi.  Pensiero Il suo attivismo ne segnò l'intera esistenza da cosmopolita, sotto forma di dialoghi conviviali, di lettere e articoli sulla stampa, di rapporti epistolari.  Si formò "non tanto sulla lettura dei classici, quanto dal contatto diretto con i problemi delle classi subalterne e dalla fascinazione giovanile esercitata dalle tendenze nichiliste di cui era permeata una certa intelligencija russa. Risultò inoltre fondamentale per la formazione del pensiero politico il sentimento di “filia” verso il genere umano, e come su questo concetto di naturale empatia che lega le esistenze umane Caffi puntasse per un definitivo superamento dello Stato e delle sue logiche gerarchiche e di dominio".  Nel suo intenso girovagare per l'Europa, nella sua attenzione all'attualità sociale e politica e nel tempo dedicato alle relazioni interpersonali risiede probabilmente la spiegazione della scarsa produzione letteraria lasciata da Caffi, il cui pensiero è più facilmente deducibile dalla mole di articoli in riviste e di corrispondenza con altri intellettuali che non da grandi opere scritte in modo strutturato.  Opere Critica della violenza, con prefazione di Nicola Chiaromonte, Bompiani, Milano, 1966 (nuova edizione con prefazione di Nicola Chiaromonte e postfazione di Alberto Castelli, Roma, Castelvecchi, ). Critica della violenza, con prefazione di Nicola Chiaromonte, e/o, Roma, 1995 Appunti su Mazzini, in A. Castelli , L'Unità d'Italia. Pro e contro il Risorgimento, edizioni e/o, Roma, 1997 (seconda edizione Roma, e/o, ) Note  Nicola Del Corno, Il socievole eremita, Mondoperaio, 10/: "aveva iniziato a scrivere di politica su riviste antifasciste, e più precisamente sul Quarto Stato di Carlo Rosselli e di Pietro Nenni, e su Volontà di Roberto Marvasi e Vincenzo Torraca. Su questa rivista pubblicò le famose Cronache di dieci giornate a proposito dell'assassinio di Matteotti".  Nicola Del Corno, Il socievole eremita, Mondoperaio, 10/47.  Gino Bianco, Scritti politici di Andrea Caffi, Firenze, La Nuova Italia, 1970 Gino Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, Cosenza, Edistampa Lerici, 1977.  88-87280-18-5 Lamberto Borghi, Società e nonviolenza nel pensiero di Andrea Caffi, in «Linea d'ombra», n. 93, 1994 Giampiero Landi , Andrea Caffi: un socialista libertario : atti del convegno di Bologna, 7 novembre 1993 / G. Armani ... [et al.] ; introduzione di Gino Bianco, Pisa, BFS, 1996. Alberto Castelli, Andrea Caffi e la rivoluzione delle coscienze, in Eretici e dissidenti. Nuovi protagonisti del XIX e XX secolo tra politica e cultura, G. Angelini e A. Colombo, Milano, Franco Angeli, 2006. Alberto Castelli, Socievolezza e amicizia nel pensiero di Andrea Caffi, in De amicitia. Scritti dedicati a Arturo Colombo, G. Angelini e M. Tesoro, Milano, Franco Angeli, 2007,  172–181. Marco Bresciani, La rivoluzione perduta : Andrea Caffi nell'Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009. Alberto Castelli, Andrea Caffi. Socialismo e critica della violenza, in L'altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, P.P. Poggio, Milano, Jaca Book, ,  393–408. Alberto Castelli , H. Arendt, A. CaffiGoodman, D. Macdonald, "politics" e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo, Genova-Milano, Marietti 1820, . Marco Bresciani ,Cosa sperare? Il carteggio tra Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte: un dialogo sulla rivoluzione (1932-1955), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, .  Andrea Caffi sezione biografica nel sito della rivista Una città. Fondo Andrea Caffi, Biblioteca Gino Bianco Andrea Caffi, Quaderni di appunti digitalizzati dalla Biblioteca Gino Bianco. Filosofia Politica  Politica Filosofo del XX secoloPolitici italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1887 1955 1º maggio 22 luglio San Pietroburgo ParigiAntifascisti italiani. Caffi. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caffi” – The Swimming-Pool Library.

 

Caffo (Catania). Filosofo. Grice: “I love Caffo; he has philosophised on most things *I* did! My favourite has to be his ‘bestiary’: “A is for ‘Animal’” – and that’s all the bestiary we need! He has also explored ‘altruism,’ and is in general concerned with a conceptual analysis of my basic key expressions: ‘communicazione’ (‘l’origine della communicazione umana’), ‘logica e linguaggio’ (one of the five questions of philosophy, for him), etc. – He has dialogued with syntacticians, as I did, when I met Chomsky!” --   Grice: “Caffo is a Griceian in the sense that he considers, like I do, there is a continuum between non-human animal and human animal – indeed, he is so into this, that he calls his ism ‘animalism,’ which I suppose is o-kay; perhaps we would differ on the implicatura of the term: which seems to be that ‘umano’ is JUST ‘animale’ --  Urmson and Hare loved to play witht his: “There is an animal in the backyard.” “I don’t see it.” “You won’t – it’s a bacteria.” “There is an animal in the backyard.” “I don’t see it.” “It’s Aunt Lucy.”” Si è laureato in filosofia alla Università degli Studi di Milano e ha conseguito il dottorato, sempre in Filosofia, presso l’Università degli Studi di Torino dove, sotto la guida di Maurizio Ferraris, ha poi anche lavorato al Laboratorio di Ontologia diretto da Tiziana Andina. È noto soprattutto per le sue teoria sugli Animal Studies, il postumano contemporaneo, e l’antispecismo (“debole” nella sua versione), per cui è stato anche criticato da alcuni media. Ne La vita di ogni giorno (edito da Einaudi nel ) si è invece occupato di filosofia in senso più ampio e divulgativo proponendo una "alternativa filosofia". In Fragile umanità. Il postumano contemporaneo (Einaudi, ), "si interroga su quale possa essere il nuovo paradigma di vita destinato a sostituire l'Homo Sapiens". Dal  insegna Ontologia presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino; insegna anche alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, alla Scuola Holden e al Made Program della Accademia di Belle Arti Rosario Gagliardi a Siracusa. È collaboratore de La Lettura, scrive saltuariamente anche sulle pagine culturali de La Sicilia, L'Espresso, il manifesto e il Corriere della Sera. Ha un blog su The Huffington Post. Dirige la rivista Animot: l’altra filosofia ed è opinionista di varie trasmissioni televisive, come Tagadà o Porta a Porta.  Per le sue posizioni antispeciste, interviene spesso su reti televisive e radiofoniche italiane e straniere, oltre che in festival culturali. La sua teoria dell'antispecismo debole è dibattuta nella stampa specializzata. Ha pubblicato le sue ricerche su riviste filosofiche quali The Monist, Journal of Animal Ethics, Domus, Rivista di Estetica. È stato definito da Maurizio Ferraris «il più promettente, versatile e originale tra i giovani filosofi italiani». A Milano ha co-fondato il caffè letterario Walden. Nel  è entrato a far parte, appoggiandone il progetto, nell'Advisory Panel italiano di Diem25. Nel febbraio , conduce assieme a Margherita D'Amico un programma radiofonico su Rai Radio 3, intitolato "L'umanità e altri animali". Ha partecipato come speaker alla edizione  del FestivalFilosofia di Modena con una lectio sull'antropocentrismo e le "persone non umane". È co-curatore del Public Program  della Triennale di Milano.  Altre opere: “Soltanto per loro, Roma, Aracne); “Azione e natura umana” Rimini, Fara); “La possibilità di cambiare, Milano-Udine, Mimesis); “Flatus Vocis, Novalogos, Aprilia); “Adesso l'animalità, Perugia, Graphe); “Il maiale non fa la rivoluzione, Casale Monferrato, Sonda); “Margini dell’umanità, illustrazioni di Tiziana Pers, Milano-Udine, Mimesis); “Il bosco interiore, Casale Monferrato, Sonda); “Del destino umano. Nietzsche e i quattro errori dell'umanità” Prato, Piano B); “La vita di ogni giorno, Torino, Einaudi); “Fragile Umanità. Il postumano contemporaneo, Torino, Einaudi); "28 anni. O della filosofia giovanile", in H. D. Thoreau, La Disobbedienza Civile, Einaudi, Torino); Vegan. Un manifesto filosofico, Torino, Einaudi); “Il cane e il filosofo. Lezioni di vita dal mondo animale, Milano, Mondadori); Dopo il COVID 19. Punti per una discussione, Milano, Nottetempo); Quattro Capanne. O della semplicità, Milano, Nottetempo); Un'arte per l'altro. L'animale nella filosofia e nell'arte, Firenze, goWare, Edizione cartacea: Graphe, Perugia); “Radicalmente liberi: A partire da Marco Pannella, Milano-Udine, Mimesis); “Così parlò il postumano, a cura di. E. Adorni, Aprilia, Novalogos);“A come Animale, Milano, Bompiani);“Manifesto per gli animali, Roma-Bari, Laterza);“Costruire Futuri. Migrazioni, città, immaginazioni, Milano, Bompiani);“A partire da Tiziano Terzani, con prefazione di Angela Terzani, Pordenone, Safarà);“Intromettersi, Elèuthera, Milano.Antispecismo. Specismo.Leonardo Caffo. Keywords: disobbedienza, “Homo sapiens sapiens”, homo, uomo, umano, humanus, Anthropos, aner, maschio, vir, virilita. Specismo, anti-specismo, sub-specismo, homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caffo” – The Swimming-Pool Library.

 

Calboli Grice: “I like Calboli – he philosophised on much the same subjects I did – colour words (‘that tie seems/is light blue’) – the philosophy of perception, and parabola, i.e. expression. If I use ‘utterance’ broadly so does Calboli with his ‘parabola.’ One big difference is that he is a nobleman, who owned a castle that he ceded to Firenze – I did not!” Altre opere: “Exercitatio philosophica” (Romae, Giovanni Zempel). Marchese. De Calboli. Paulucci. Paolucci. Francesco Giuseppe Paulucci di Calboli. Francesco Paulucci di Calboli. Keywords: de parabola, parabola, parola, parlare, hyperbola, cyclo, ellipsis. exercitatio philosophica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Calboli” – The Swimming-Pool Library.

 

Calderoni (Ferrara). Filosofo. Grice:”Calderoni knew everything – he corresponded with Lady Viola, as I didn’t – and he pleased the lady, because the lady knew that Calderoni was using all the right words – none of the heathen ‘mean,’ but all about ‘segno’ and ‘segnare’ and ‘intenso,’ – It is drawing from the Calderoni tradition that I arrive at the meaning-as-intention paradigm I’m identified with! And note that sous-entendue is Millian for implicatura!” -- Grice: “Calderoni is a genius; he is, like me, a verificationist – I mean, read my ‘Negation’: the two examples I give relate to sense data: “I’m not hearing a noise,’ and ‘That is not red.’ Calderoni tries the SAME! He founded a verificationist (or ‘pragmatist’ club at Firenze), and he corresponded with Peirce when I only decades later,  tutored my tutees on him!” --  Grice: “Calderoni is serious about truth-conditivions having to be understaood as ‘assertability’ conditions – and these assertability conditions providing much of the ‘sense;’ admittedly, he uses ‘sense’ more loosely than I do – but on the good side, he uses ‘nonsense’ in a tigher way than I do!” Teorico del diritto italiano (pragmatismo analitico italiano).  Studia a Firenze e si laurea a Pisa, con “I postulati della scienza positiva ed il diritto penale”. Collabora alle riviste Il Regno e Leonardo, su cui scrive una serie di saggi, in autonomia o in collaborazione col maestro Vailati. Presenta comunicazioni in diversi Congressi internazionali: Monaco, Parigi,  e Ginevra. Mantiene contatti e scambi con Halévy, Boutroux, Russell, Couturat, Brentano, Ferrari, Pikler, Mosca, Pareto, Croce, Juvalta, Peirce e molti altri. Il saggio “Disarmonie economiche e disarmonie morali”. Successivamente ottiene una libera docenza a Bologna, dove  tiene un corso sul pragmatismo dal titolo “L’assiologia, ossia, la Teoria Generale dei valori”. Scrive in collaborazione con Vailati “Il Pragmatismo” raccolta di tre articoli introdotti nella Rivista di Psicologia applicata (“Le origini e l'idea fondamentale del Pragmatismo”; “Il Pragmatismo ed i vari modi di non dir niente” – “L'arbitrario nel funzionamento della vita psichica”. Trascorsa l'estate a Rimini a curare i sintomi d'una bruttissima depressione, ritorna a Firenze, dove inizia nuovamente il corso universitario su Teoria Generale dei valori all'Istituto di Studi Superiori, senza riuscire a terminarlo, dal momento che, a causa di un aggravamento repentino dell'esaurimento mentale, abbandona la docenza. Muore in una casa di salute ad Imola. Mette sotto analisi e in correlazione senso comune e scienza attraverso lo strumento meta-discorsivo della filosofia, intendendo costruire conoscenza e scienza coi mattoni della teoria della mente, e usando come riferimenti culturali analisi brentaniana di stati mentali e teoria dinamico-funzionale della mente di James e di Pikler. Saggi di riferimento sono due: è con “La Previsione nella teoria della conoscenza” che  intende analizzare condizioni di verità e condizioni di validità della conoscenza, sia discernendo enunciazioni sensate da non-sensi sia indicando un metodo di verificazione, nell'istanza verificazionista di illustrare a fondo i meccanismi della conoscenza (verificazione e verità), oltre all'obiettivocome accade anche nel Peirce di avvicinare teoria della conoscenza e semantica dei discorsi (verità e senso); ed è col successivo saggio, “L'arbitrario nel funzionamento della vita psichica” che, accettata l'eredità vailatiana, intende mostrare l'esistenza di una stretta connessione tra attività conoscitive dell'uomo comune ed attività conoscitive dello scienziato, accostando tale saggio teoria della mente e teoria della scienza. La lettura sinottica dei due testi conduce a riconoscere la tendenza a costruire una teoria dell’animo caratterizzata da riferimenti costanti alla teoria della conoscenza e alla teoria della scienza.  Precorrendo semiotica moderna e verificazionismo schlickiano, costuisulla scia di una certa tradizione continentale e americana indicata dal maestro Vailati- riconosce nei discorsi umani un trait d'union irresistibile tra senso e verità, e ri-definisce la norma di Peirce come norma di senso e norma di verificazione [articoli di riferimento sono due: col breve Il senso dei non sensi,  intende esaminare cosa sia senso di una enunciazione e se esista un unico criterio idoneo a differenziare enunciazioni sensate da non-sensi o a costruire un concreto metodo di verificazione, unendo all'istanza semantica di attribuire un senso ai vari modelli di mezzo comunicativo inter-individuale (intersoggetivo) il sincero desiderio analitico di rinvenire rimedi sicuri contro l'indeterminatezza naturale di termini, enunciazioni e discorsi e la conversazione umana, ed essendo cassa di risonanza all'obiezione contestualistica vailatiana contro l'atomismo semiotico dominante. Nel successivo saggio Il Pragmatismo e i vari modi di non dir niente totalmente debitore alla prolusione vailatiana al corso di Storia della meccanica “Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienza e della cultura”, mostra di essere abile concretizzatore dell'eredità vailatiana tentando di mettere in stretta combinazione intuizione dell'artificialità della conversazione umana e nozione di analisi semantica come rimedio all'indeterminatezza dei mezzi di comunicazione. La lettura sinottica dei due saggi conduce a riconoscere in Calderoni tendenze a costruire una teoria della conversazione umana caratterizzata da riferimenti a convenzionalismo e contestualismo, a rifiutare derive essenzialistiche nell'uso di termini ed enunciazioni e a sottolineare la valenza farmaceutica o terapeutica dell'analisi semantica.  Nella posizione giusfilosofica, l'etica, nella sua dimensione totale, è tematica centrale nella sua filosofia, introducendo costui una modalità rivoluzionaria di considerare tale materia; In lui e in altri autori d'ambiente simile come Juvalta e Limentanila tradizionale distinzione tra etica normativa o prescrittiva ed etica descrittiva o meta-etica è considerata insufficiente. Si mostra sostenitore di un orientamento innovativo in merito al discorso sullo statuto dell'etica. Se l'etica normativa o materiale domina l'intero corso della storia dell'etica umana, il riconoscimento della valenza descrittiva o metaetica o formale dell'etica è ricorrenza teoretica dell'intero ottocento, avendo effetto sulla cultura ottocentesca la tendenza rinascimentale a considerare l'etica come una scienza o un calcolo more geometrico. L'Ottocento concretizza antecedenti tendenze ad estendere all'ambito dell'etica i metodi delle scienze naturali e delle scienze sociali. Questa intuizione e il riconoscimento della centralità dell'analisi lo conducono ad introdurre e sostenere un nuovo modello di statuto dell'etica: etica è una scienza costituita dai tre rami della meta-etica, dell'etica descrittiva e dell'etica normativa. Più che al discorso meta-etico, si orienta verso l'etica descrittiva e normative. In merito alla meta-etica non esiste un discorso diretto dei nostri due autori, laddove invece etica descrittiva e etica normativa sono esaminate coàn riferimenti diretti ed attraverso articoli mirati. Saggi a cui si rinviasenza tener conto della tesi di laurea I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale dove è comunicata una visione immatura e non ancora coerente dell'etica- sono: con Du role de l'évidence en morale, del Calderoni introduce una coerente critica dell'etica normativa tradizionale mettendo sotto esame utilitarismo e kantismo etici, e con il saggio successivo “De l'utilité “marginale” dans les questions d'etìque, introduce un tentativo di indicare un'etica descrittiva che si serva dello strumentario dell'economia; tali tentativi si concretizzano nel saggio “Disarmonie economiche e disarmonie morali” contenente estesi accenni a tutti i rami della nuova scienza e mirando ad estendere in maniera definitiva all'etica lo strumentario della recente scienza economica;. In “L'imperativo categorico” c'è la reazione al neokantismo etico e ad un saggio di Croce in cui si recensiva, con molte riserve, Disarmonie; con i brevi La filosofia dei valori ed Il filosofo di fronte alla vita morale, ci si limita a riassumere tematiche e discussioni antecedenti, introducendo chiarimenti ed attuando delucidazioni. La lettura sinottica dei testi di Calderoni e Vailati conduce ad indicare l'esistenza di tre aree tematiche essenziali: un discorso sulle funzioni e sullo statuto dell'etica (meta-teoria etica);  un dibattito sul senso di termini, enunciazioni e discorsi morali e; una discussione su funzionamento effettivo ed ideale di un sistema morale (etica descrittiva e normativa). Ssi chiede cosa sia l'etica, che senso abbiano i suoi discorsi e che modello di normatività essa abbia, e si domanda come descrivere in maniera esauriente i cosiddetti mercati etici o come massimizzare l'incidenza dello scienziato della morale nella modificazione delle scelte sociali.  Più che Vailati, è lui ad estrinsecare l'«atteggiamento» giuridico del Pragmatismo italiano, nella sua riflessione ius-criminalistica sulle nozioni di volizione, libertà e responsabilità. La discussione in merito alle relazioni tra volizione e diritto è fervente all'interno della cultura italiana dell'Ottocento. Secondo Scuola Classica del diritto criminale, volizione umana è base del momento d'attribuzione della sanzione, in connessione al libero arbitrio. Secondo la Scuola Positiva del diritto criminale è necessario sconnettere tale nozione dal concetto di libero arbitrio, non esistendo azioni incausate (scevre da co-azione) e cadendo volizione insieme a libero arbitrio. Affronta il dilemma della volizione (distinzione tra atto volontario e involontario) all'interno del suo cammino di chiarimento e ridiscussione dei termini di discorso ordinario e discorsi tecnici, stimolato da alcune antecedenti intuizioni di Vailati; e analizza tale dilemma in due diversi momenti della vita, in I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale, e sia nel saggio leonardiano Credenza e volontà. Intorno alla distinzione fra atti volontari ed involontari, sia in un successivo contributo su altra rivista La volontarietà degli atti e la sua importanza sociale. Il saggio introduce un'analisi culturale ricchissima di riferimenti al diritto e immersa nello scenario storico del conflitto ottocentesco tra determinismi ed indeterminismi. Il dibattito tra scuola classica italiana (classici) e Positivisti sulle condizioni teoretiche del diritto criminale evidenzia il suo tentativo conciliazionista di mediare tra due diversi modi di intendere libertà, sanzione e metodo scientifico, ricorrendo ad un uso attento della ri-definizione tanto caro a Vailati e all'intera analitica novecentesca. Pescando dalla metodica analitica lo strumento della ri-definizionemutuato dal maestro Vailati e riassunto con estrema abilità nella recensione al volume I presupposti filosofici della nazione del diritto di Del Vecchio -, avvia un tentativo di «conciliazione» tra scuola classica e positivisti, in cui, la riflessione sul libero arbitrio e il diritto di punire costituisce la premessa per affrontare con un chiaro apparato concettuale l'ulteriore questione dei metodi di studio del diritto penale, attraverso un'esaustiva ridiscussione dei binomi libertà/ causazione (momento di attribuzione del delitto), tutela/ difesa (momento di esecuzione della sanzione) e metodo astratto/ concreto (momento di determinazione del delitto). Rconosce due sono i punti teorici fondamentali nei quali la scuola positiva si pone come avversaria alla classica. L'uno è rappresentato dalla questione del libero arbitrio, l'esistenza del quale la scuola classica postula come fondamento della imputabilità, mentre è dall'altra scuola negata. L'altro punto è la gius-tificazione del diritto di punire, che l'una pone nella giustizia, l'altra nell'utilità, nella necessità in cui si trova la società di difendersi dai suoi nemici.  Per misurare la nozione di responsabilità introdotta nell'orizzonte culturale italiano d'inizio secolo scorso da lui è necessario muoversi tra i sue due contribute scarsamente esaminati dalla dottrina moderna (I Postulati della Scienza Positiva ed il Diritto Penale e Forme e criteri di responsabilità, senza trascurare come tale concetto mai si distacchi dalla distinzione vailatiana tra atto volontario e atto involontario o dal binomio libertà/causazione, tanto cari al dibattito ottocentesco tra Positivisti e scuola classica italiana del diritto criminale. Gli accenni vailatiani e calderoniani ai temi della volizione, causazione, libertà confluiscono alla luce di suo attento ed autonomo esame  in un'assai moderna definizione del concetto di responsabilità, in cui il negatore del libero arbitrio che non sia vittima di equivoci sul valore di tal negazione, sarà portato invece a vedere nella libertà e responsabilità, qualità esistenti nell'uomo, ma analoghe alle altre, atte cioè ad essere studiate nella loro genesi e nella loro evoluzione, suscettibili di gradazioni infinite, e subordinate alla presenza di certe condizioni e concomitanti, a concepire in altri termini la responsabilità piuttosto dinamicamente ed evoluzionisticamente, che staticamente. Pur se tale concetto sottenda contaminazioni etiche d'inaudita modernità e benché in Forme e criteri di responsabilità sia delineata l'idea dell'esistenza di un confine sottile tra morale e diritto, nascendo come teorico del diritto- si mantiene saldo nel declinare come il termine “responsabilità” si usi all'interno dell'universo di diritto criminale e diritto civile; nella trattazione calderoniana «responsabilità» si immettecome in Hegel/Weber nel contesto della vita statale o sociale e si smarcacome nel «marxismo occidentale» moderno e in Lévinasdai risvolti individualistici dell'etica antica. Calderoninell'incipit di Forme e criteri di responsabilità- scrive:  Pochi termini trovano, in ogni campo della vita sociale, così larga applicazione come il termine responsabilità. L'andar soggetto a responsabilità è la sorte, spiacevole o piacevole, di chiunque vive nella compagnia dei propri simili e si trovi in una data compagnia di dati suoi simili. Nulla potrebbe meglio servire a distinguere l'uomo vivente in società da un ipotetico uomo vivente in stato di natura” che l'essere il primo avvolto in una fitta rete di responsabilità. Responsabilità se ne trovano dovunque gli uomini vengano in urto o in conflitto fra di loro. La riflessione calderoniana incentrata sulla strada della critica sia nei confronti del nazionalismo corradiniano sia nei confronti del socialismo rivoluzionario si innesta su un contesto storico e culturale come l'Italia di Giolitti d'inizio Novecento caratterizzato dalla intensa dialettica civile tra nazionalismi e socialismi, e, all'interno di essa, tra visioni moderate (nazionalismo liberale e socialismo riformista) e concezioni estreme (nazionalismo estremo e socialismo rivoluzionario). Gli auoi interventi di pubblicati sulla rivista di Corradini scrive M. Toraldo di Francia- possono distinguersi dal punto di vista dei contenuti e cronologicamente in due gruppi. Del primo fanno parte gli articoli polemici nei confronti del nazionalismo propagandato dalla rivista, nel secondo invece si collocano gli ultimi due scritti, di impronta nettamente “anti-socialista”. La via dell'analisi sul nazionalismo moderato (liberale e liberista) sondata nelle recensioni vailatiane a Pareto, Dumont, Trivero, Tombesi, Pierson, Einaudi, Rignano e Landryè battuta da lui in maniera minuziosa alla luce dei due saggi “Nazionalismo antiprotezionista? e Nazionalismo borghese e protezionista” nella direzione d'una estesa accusa al nazionalismo di Corradinia. Moderati dall'interesse vailatiano verso il socialismo riformista, internazionalista, e non materialista di darwinismo sociale kiddiano e anti-materialismo effertziano, I suoi moniti critici nei confronti del socialismo rivoluzionario si estrinsecano invece con consueta chiarezza nei due contribute, “La questione degli scioperi ferroviari” “e La necessità del capitale”. Dalle colonne della rivista corradiniana Il Regno, isulla scia del moderatismo del maestro Vailatitenta di maturare una concezione intermedia tra estremismi di destra e di sinistra, idonea a sacrificare valori e ideali della borghesia italiana alla tutela del bene comune dell'intera nazione e stato italiano, in nome della necessaria vitalità di un'industria e di un'economia in inarrestabile ascesa internazionale; a dettacontra Prezzolini- si deve sacrificare il “bene comune” dei ceti sociali abbienti sull'altare del bene nazionale:  Per me personalmente, che mi sento anzitutto italiano e poi borghese, mi auguro che l'Italia sappia sbarazzarsi di tutti gli elementi dannosi ed infecondi che la dissanguano e la opprimono. Dovesse anche, in questo processo di eliminazione, andar sacrificata buona parte della borghesia attuale, per essere sostituita (attraverso il meccanismo democratico) da elementi più vitali e più utili che sono veramente gli interessi della Patria.  Scritti, Firenze, La Voce.  voll. I e II M. Toraldo di Francia, Pragmatismo e disarmonie sociali. Scritti sul Pragmatismo (Roma) Pragmatismo analitico. Dizionario biografico degli italiani. Mario Calderoni. Keywords: fascismo, politica italiana, stato italiano, comunita, bene comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Calderoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Caloprese: (Scalea). Filosofo. Grice: “Strictly, Caloprese taught Metastasio to be a Cartesian – I know because I relied on him for my ‘Descartes on clear and distinct perception.’” “I love Caloprese; he brings philosophy to Arcadee – The keyword is ARCADIA – or GLI ARCADI, if you must – Caloprese tutored Metastasio – Arcadia is like Oxford – et in Arcadia ego – or Cambridge – the other place – it’s a bit of a utopia – of course, Arcadia as a REAL place is in the Pelopponesus, as any Lit. Hum. Oxon. schoolboy knows! – But Caloprese brings it to civilisation, i.e. to the Roman-Italian tradition! Figlio di Carlo e da Lucrezia Gravina, che si sposarono a Roggiano, cade così la leggenda che fosse nato quando i suoi genitori ancora non si conoscevano. Da onestissimi parenti, di condizione cittadina, nella terra di Scalea, posta nel paese dei Bruzii, trasse i suoi natali. Celebre pel suo ingegno, e per l'universale sua letteratura. Visse molto tempo in Napoli, e in Roma; finalmente tornato alla patria vi morì. I suoi genitori si resero presto conto dell'intelligenza del loro figliolo e lo avviarono a studiare a Napoli sotto la guida di Porcella  Si laurea successivamente nel campo a lui più congeniale della medicina. Rimase sempre in rapporto da Scalea, dove si era ritirato, con i centri intellettuali di Napoli e Roma dove risiedeva suo cugino e dove lo stesso Caloprese soggiorna. A Scalea fondò una scuola  che ebbe una certa rinomanza e partecipò all'attività culturale dei Medinaceli traendone ispirazione per i suoi interessi antiautoritari e antidogmatici scientifici e filosofici che lo fecero schierare dalla parte di coloro che subordinavano l'indagine naturalistica al metodo razionale di tipo cartesiano.  Vico, Metastasio , Giannone lo qualificano come gran renatista  ma la sua reale posizione filosofica è piuttosto da rintracciare in chi era a lui più vicino: il suo discepolo Spinelli che racconta come Caloprese, tornato da Napoli a Scalea visse dei proventi di alcune sue proprietà praticando la medicina solo per i suoi amici e i poveri e che descrive la scuola di Caloprese come fondata sullo studio letterario e scientifico e l'esercizio fisico nella convinzione del rapporto tra corpo ed animo. Alla lettura dei testi di Cartesio si associava quella di Lucrezio e Bacone secondo l'ideale teorico di una sintesi di sperimentalismo e atomismo, razionalismo e mentalismo. Altre opere: “Dell'origine degli imperi. Un'etica per la politica”. Uomini illustri delle Calabrie”. Meravigliosa vivezza d'ingegno ed acume d'intendimento comparvero in lui sin dai più teneri anni, e gran diletto di apprendere; per cui gli avveduti genitori, solleciti di coltivare in lui si belle doti, apparati nella patria i primi rudimenti delle lettere lo inviarono di buon'ora in Napoli per imprendervi l'usato corso degli studii. Ebbe da prima a maestro delle lettere umane Porcella insigne filosofo a quel tempo, e non ignobil poeta. Sotto la costui disciplina molto si approfittò, congiungendo alla fertilità d'ingegno fervente non interrotta applicazione; di modo che egli fece la soddisfazione del Maestro e dei suoi genitori, e l'emulazione dei compagni. Nella sua patria intanto per qualche tempo era egli stato, dove date avea le prime letterarie istituzioni al celebratissimo suo cugino per madre, Gravina, .ed ebbe il vanto d'istruire nelle materie filosofiche, in cui era versatissimo, il gran Metastasio, che seco avea per ciò condotto alla sua patria, come attesta il Metastasio medesimo in una sua lettera scritta da Vienna. Godeva gran fama come uno dei maggiori cartesiani italiani ('gran renatista' lo dissero, fra gli altri, il Vico e il Giannone). Teorico e critico della letteratura. Calopresiane. La civil società e il viver civile: una lettura sociologica delle Lezioni dell'Origine degli Imperij di in «Rivista di Studi Politici», n. 4, Roma, Editrice Apes, .Dizionario biografico degli italiani. Pn di Fabri^o Lomonaco 1 Introduzione Scalea il paese del Caloprese 1; La vita del Caloprese 11; L'estetica e la poetica 15; II pensiero filosofico, politico e "civile" 22; Caloprese educatore 33. 37 Bibliografia Edizioni delle opere di Gregorio Caloprese 37; Studi generali sul periodo e sull'ambiente calopresiani 38; Studi sul Caloprese 45; Articoli brevi sul Caloprese 47; Opere in cui viene trattato il Caloprese 47; Recensioni sulle opere e sugli studi del Caloprese 52. “Questa è tutta l'idea colla quale questi maestri della civil prudenza si sono ingegnati di far altrui concepire la natura del uomo; dopo la quale, non accorgendosi di haver buttato a terra tutti gli fondamenti della pace e della concordia, e che, se i loro insegnamenti fossero veri, i pericoli sarebbon in[e]vitabili, tutto il loro studio non si raggira in altro che in dare precetti di sicurtà, come se gl'accidenti humani stessero tutti sottoposti a i loro consigli.” Chi è Gregorio Caloprese? Un altro Carneade, meritevole di interesse speciale per quegli studiosi, accreditati e no, in cerca del minore, soddisfati o illusi, a seconda dei casi, del nuovo per il nuovo nel vasto campo della ricerca storico-filosofica? Questo lavoro di Alfonso Mirto, vivace studioso della cultura italiana tra Seicento e Settecento, esperto delle relazioni epistolari tra librai-stampatori europei (dai Borde agli Arnaud, dai Blaeu agli Janson, dagli Huguetan agli Anisson e agli Associati lionesi) ed eruditi italiani (da Magliabechi a Cassiano Dal Pozzo, da Carlo Roberto Dati a Leopoldo e Cosimo III de’ Medici) smentisce un fortunato stereotipo, offrendo agli studiosi questa Bibliografia del filosofo calabrese, articolata in sei dense sezioni (scritti di e su Caloprese, opere sul periodo e l’ambiente. Gregorio Calopreso. Gregorio Caropreso. Gregorio Caroprese. Gregorio Caloprese. Keywords: naturalism di Lucrezio, renatismo, cartesianismo, impero romano, vita civile, Vico, Caloprese e Vico, Croce e Caloprese, animo, corpo ed animo, renatismo, Ariosto, Orlando innamorato, Orlando furioso, passione, filosofia, Arisosto tra i filosofi, il nuovo Carneade. Refs.: Speranza, “Grice e Caloprese” – The Swimming-Pool Library.

 

Caluso (Torino). Filosofo. Valperga: essential italain philosopher. Grice: “Noble Italians love a long surname, so this is Valperge-Di-Caluso,” and so Ryle had in under the “C””.  Tommaso Valperga di Caluso. Discendente dai Valperga, nobile famiglia piemontese, nei primi anni della giovinezza si sentì attratto dalla carriera delle armi. A Malta, ospite del governatore dell'isola, si addestra alla vita marinara imparando le dottrine nautiche e fu capitano sulle galee del re di Sardegna. Entrato poi a Napoli nella congregazione dei padri filippini fu professore di teologia.  Tornato a Torino studia fisica e matematica sotto la guida del Beccaria, con Lagrange, Saluzzo e Cigna. Frequentatore delle riunioni culturali sampaoline nelle sale della casa di Gaetano Emanuele a di San Paolo ritrova l'Alfieri, che aveva conosciuto a Lisbona. Scopre in lui il futuro poeta e tra loro nacque una profonda amicizia.  Eccelse negli studi filosofici e apprese l'inglese, il francese, lo spagnolo e l'arabo e conobbe con sicurezza il latino, il greco, il copto e l'ebraico. Insegna a Torino. Fu direttore dell'osservatorio astronomico di palazzo Madama, incarico che cede al Vassalli Eandi.  Membro della Massoneria. "Le veglie di Torino, Joseph de Maistre", in: Storia d'Italia, Annali 25, Esoterismo, Gian Mario Cazzaniga, Einaudi, Torino. Fratello del viceré di Sardegna. Altre opere: “Literaturae Copticae rudimentum” Parmae, Ex regio typographaeo); “La Cantica ed il Salmo 18. secondo il testo ebreo tradotti in versi” (Parma, tipi bodoniani); “Prime lezioni di gramatica Ebraica” (Torino, Stamperia della corte d'Appello, 1805. 27 giugno .  Tommaso Valperga di Caluso, Thomae Valpergae inter Arcades Euphorbi Melesigenii latina carmina cum specimine graecorum, Augustae Taurinorum, in typographaeo supremae curiae appellationis; Principes de philosophie pour des initiés aux mathématiques, Turin, Bianco. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Renzo Rossotti, Le strade di Torino. L'‘Orlando Innamorato' in «Giornale storico della letteratura italiana», Milena Contini, La felicità del savio. Ricerche su Tommaso Valperga di Caluso, Alessandria, Edizioni dell'Orso. Traduttore in piemontese dell'incipit dell'Iliade, in «Studi Piemontesi», Milena Contini, Le riflessioni di Tommaso Valperga di Caluso sulla lingua italiana, in La letteratura degli italiani. Centri e periferie, Atti del Congresso Adi, Pugnochiuso D. Cofano e S. Valerio, Foggia, Edizione del Rosone. Ugolini mors. Traduzioni latine di Inferno XXXIII, in «Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri»,  Poetica teatrale: traduzioni ed esperimenti, in La letteratura degli italiani II. Rotte, confini, passaggi, Atti del Congresso Adi, Genova A. Beniscelli, Q. Marini, L. Surdich, DIRAS, Università degli Studi di Genova. Il corpo martoriato. L'interesse di Caluso per quattro atroci fatti di sangue, in Metamorfosi dei lumi 7: il corpo, l'ombra, l'eco, Clara Leri, Torino, aAccademia university press,  Versione latina di Inferno XXXIII, in «Lo Stracciafoglio». Plagio dal Villebrune apposto al Petrarca: un'appassionata confutazione di “meschine, arroganti e scortesi” calunnie sull’Africa, in «Sinestesie», Un maestro da ricordare, in «Rivista di Storia dell'Torino.” Principi di Filosofia per gl' Iniziati nelle matematiche di Tommaso Valperga-Caluso volgarizzati dal Professore Pietro Conte con Annotazioni dell 'Abate Antonio Rosmini-Serbati (Turin, 1840). See also M. Cerruti's La Ragione Felice e altri miti del Settecento (Florence, 1973).Caluso:   motivi   prerosminiani   del   sentimento   fondamentale   corporeo. demiurgo  piemontese.  L’interesse del Caluso per l’omicidio e il “lato oscuro” non è mai stato indagato, perché la critica, nella rappresentazione dell’abate, ha sempre privilegiato l’immagine severa e inflessibile di maestro onnisciente e di saggio imperturbabile, scolpita dai biografi ottocenteschi. Questo ritratto idealizzato e deformato dell’abate ha generato non pochi equivoci interpretativi: se si studia la sua vita attraverso i suoi diari e il suo ricco epistolario e si analizzano con attenzione le sue opere tanto edite quanto inedite, ci si accorge, infatti, che la sua personalità è tutt’altro che granitica. Prima di accingersi a esaminare la sua figura è necessario quindi liberarsi di questi stereotipi: il fatto che l’ottimista abate, come lo definì il Foscolo, avesse dedicato molti scritti allo studio della ragione non esclude affatto che egli fosse incuriosito anche dalla parte irrazionale dei uomini, anzi le sue considerazioni sui “limiti della ragione” si collocano perfettamente all’interno delle sue riflessioni sulle facoltà intellettive. L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Naziona. Gli studi calusiani sulla ragione, e in particolar modo sul rapporto tra ragione e virtù, sono inseriti nelle opere dedicate alla felicità, tema particolarmente caro a lui, che si impegnò nell’indagine di questo complesso concetto dalla gioventù fino all’estrema vecchiaia: è possibile, infatti, seguire l’evoluzione della riflessione del Caluso sulla felicità dalle lettere al nipote degli anni Sessanta del Settecento fino al Della felicità de’ governati. Il tema della felicità pervade tutta la produzione dell’autore; esso non è affrontato solo nella saggistica filosofica, nelle lettere intime ad amici e parenti e nelle poesie, ma si ritrova anche nei trattati didattici e in alcune opere erudite, perché e convinto che il fine di ogni studio fosse la felicità, la quale puo essere conquistata solo attraverso una profonda passione per le lettere e per le scienze.  A proposito del concetto calusiano di “rassegnazione” si legga il seguente passo, tratto della lette. Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit. Diderot constata che nella pratica quotidiana si incontravano uomini felici, pur essendo tu… L’indagine sulla felicità porta inevitabilmente il Caluso a scontrarsi con lo studio della ragione. Secondo Caluso, la ragione ha un duplice ruolo: da un lato ci fornisce gli strumenti adatti a conquistare la felicità, dall’altro ci fa acquisire la coscienza di non avere sempre il dominio su ciò che accade. La consapevolezza porta alla rassegnazione, questa rassegnazione però aiuta sì a sopportare i casi della vita, ma non dona la felicità, come teorizzavano gli stoici. Caluso pensa, quindi, che i poteri della ragione siano limitati. Questa presa di coscienza però non lo porta a meditare sul fatto che la felicità possa essere disgiunta dalla ragione. Infatti, se da un lato ammette che anche il più saggio tra gli uomini è vittima della sofferenza («né sognai che ad uom concesso / Viver fosse ognor lieto, o ne’ tormenti / Sdegnerò dir misero il Saggio stesso»), dall’altro non arriva a constatare, come avevano fatto, per esempio, Diderot e Voltaire, che spesso nella vita reale gli uomini privi di ragione e di virtù sono felici. Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni fossero necessarie all’uo (...) 8 Id., Versi italiani cit., p. 33. Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (ms Varia 176, 4). I manoscritti di L’Amour vaincu (ms Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures du Marquis de Bel (...). La ragione ha anche il fondamentale compito di dominare le passioni. Ripropone la celebre esortazione platonica alla misura, ripresa da molti autori, tra i quali Rousseau, che in più luoghi sottolineò come la ragione avesse la funzione di equilibrare i moti violenti dell’animo. E convinto che i sentimenti estremi causassero soltanto sofferenza. Non invita certo ad anestetizzare gli affetti, anzi pensava che non vi fosse nulla di peggio che una vita senza passioni ed emozioni («Che un dolce pianto è più felice molto / Non delle noie sol, ma dell’inerte / Ghiaccio d’un cor, cui ogni affetto è tolto»), ma crede che la morbosità fosse una pericolosa malattia. Nella Ragione felice egli porta l’esempio della follia amorosa di Polifemo per Galatea. Il poeta descrive la corruzione del corpo del ciclope, consumato dal desiderio ed incapace di dominarsi («Odil che fischia, livido qual angue / Le spumeggianti labbra, e l’occhio in foco / Vedil cerchiato di vermiglio sangue»). L’autore crede che solo i casti amori, congiunti a «l’arti e gli studi, possano regalare la felicità. Questo riferimento all’amore platonico è un omaggio alla principessa di Carignano, dedicataria del poemetto, che teorizza come la felicità si fonda sulla rinuncia alla passione sia nel saggio filosofico inedito Sur l’amour platonique sia nei due romanzi, anch’essi inediti, L’Amour vaincu e Les nouveaux malheurs de l’amour. Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., pp. 213-247. La follia amorosa non è l’unica passione condannata da Caluso. Infatti deplora ogni sentimento capace di far perdere il controllo delle proprie azioni. Nel poemetto La Tigrina o sia la Gatta di S. E. la madre donna Emilia, composto a Napoli, descrive le funeste conseguenze della gelosia, mentre nei “Varia Philosophica” presenta l’esempio della vendetta:  12 L’inedito Varia Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Univers. Onde sono le passioni uno scaldamento di fantasia, una specie di pazzia, che perverte il giudicio, e ne fa credere che in quella tal cosa passionatamente voluta vi sia per noi un bene, un piacere, una soddisfazione che veramente non vi è né la ragione per tanto ve la può trovare. Tale è per esempio la vendetta. T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie d.  La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio Barre nel 1555. 15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251. Si dedicò allo studio dei limiti della ragione in una serie di scritti e appunti su fatti di sangue; nell’articolo Di Livia Colonna, per esempio, ricostruisce la tragica fine della nobildonna romana basandosi sulla raccolta di poesie Rimedi diversi autori, in vita, e in morte dell’ill. s. Livia Colonna14 («Da parecchi versi per la di lei morte si ritrae che in aprile del 1554, al più tardi, e certamente non prima del 1550, fu Livia trucidata barbaramente» Quest’opera comprende numerosi componimenti dedicati a Livia Colonna, scritti da trentuno poeti, tra i quali anche il Caro e il Della Casa.  In un brano del Della certezza morale ed istorica sottolinea come sia importante esaminar. Cita le seguenti fonti: G.B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani genti. Ricorda che vari poeti avevano scritto «molte dolenti rime» su questo tema e cita un pass. Sottolinea che la raccolta, non essendo dotata né di prefazione né di note, non permette di contestualizzare i fatti ai quali si allude nelle rime, ma aggiunge che, vista la notorietà del casato di Livia, non gli è stato difficile identificare la donna e reperire informazioni in merito alla sua vita17: Livia nacque prima del 1522 da Marcantonio Colonna e Lucrezia della Rovere; nel 1539 fu rapita da Marzio Colonna duca di Zagarolo, che in questo modo riuscì a sposare la bellissima e ricchissima giovinetta; qualche anno dopo perse, e di lì a poco riacquistò, la vista18, nel 1551 rimase vedova. Dopo aver elargito queste informazioni, il Caluso passa a parlare del tema che lo ha maggiormente interessato:  19 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna cit., p. 251. Ma qui veniamo al punto, che ha stimolata la mia curiosità, e richiede più diligenti ricerche. Da parecchj versi per la di lei morte si ritrae che in aprile del 1554 al più tardi, e certamente non prima del 1550, fu Livia trucidata barbaramente19.  20 L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di Livia: “la figliuola della nostra Livia da Dom (...) Egli deduce da alcune evidenti allusioni presenti nelle rime della raccolta che Livia fu uccisa dal proprio genero Pompeo Colonna, che aveva sposato la figlia Orinzia20 poco tempo prima:  21 Ivi, p. 252. Rivolta la carta 87 delle mentovate rime si legge, che l’uccisore l’empio ferro tinse nel proprio sangue, e alla carta 113 si fa dire a Livia già ferita, che fai figliuol crudele? Pompeo suo genero aveva tratto il sangue dallo stesso casato, non che da Camillo suo padre, da Vittoria sua madre, anch’essa Colonna. E qual altro assassino, che un genero, poteva chiamarsi figliuolo da una donna giovine, che non avea prole maschile?21  Identificato l’assassino, passa a esaminare i possibili moventi dell’omicidio: Pompeo fu spinto a uccidere la suocera dall’avidità, dall’ira o dal senso dell’onore.  22 Ibid. 23 Ivi, p. 253. 7L’autore sembra propendere per il primo movente: nelle rime, infatti, si legge che la nobildonna fu uccisa «sol per far ricco un uomo»22; l’abate riflette inoltre sul fatto che, con la morte di Livia, Orinzia avrebbe ereditato numerosi poderi, sui quali avrebbe poi messo le mani Pompeo, dato che «ognun sa quanto facilmente dell’aver della moglie sia più ch’essa padrone un marito fiero e imperioso»23.  24 Ivi, p. 252. 8Per quanto concerne invece il movente dell’ira, suggerito dal fatto che «la mano del parricida vien detta forse di sangue ingorda più che di vero onor»24, il Caluso non si profonde in ipotesi specifiche, ma si limita a osservare che i motivi di astio tra persone «che hanno a fare insieme» sono innumerevoli. Questo movente può essere collegato con quello dell’onore: la collera di Pompeo, infatti, potrebbe essere stata causata dalla scoperta o dal sospetto che la suocera si fosse sposata segretamente con un servo. L’autore trae questa idea da un verso del Dardano, nel quale si fa riferimento alla mano mozzata di Livia («E la recisa man, l’aperto lato»), l’abate immagina che Pompeo avesse mutilato la suocera per punirla d’aver concesso la propria mano a un servitore. Il Caluso riflette inoltre sul fatto che questo terzo movente può essere collegato anche col primo, dato che il matrimonio di Livia avrebbe ridotto l’eredità di Pompeo:  25 Ivi, p. 254. ogni matrimonio della suocera dovea spiacergli per lo pensiero che in conseguenza n’andrebbe ad altri gran parte di quello che aspettava dover dalla suocera, quando che fosse, venir a lui25.  26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere (1522-1554), in Studi offerti a Giovanni (...) 27 Ivi, p. 293. L’interpretazione calusiana del verso del Dardano è criticata da Gian Ludovico Masetti Zannini nel saggio Livia Colonna tra storia e lettere26, nel quale egli fa numerosi riferimenti al “cittadino” Tommaso Valperga di Caluso, che centosettant’anni prima, «imbastì su fragilissime basi la trama di un romanzetto che avrebbe potuto incontrare fortuna, come altri fatti di sangue del secolo xvi, presso fantasiosi lettori»27.  28 Archivio di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec. xvi, 19 (1554, gennaio 25). 29 I responsabili furono condannati grazie alle deposizioni di testimoni oculari. 30 La testimone oculare Beatrice di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia fu ferita due volte alla (...) 31 Ivi, p. 309. 32 Ivi, p. 310. 33 D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito nel F (...) 9Il Masetti Zannini ricava dai documenti processuali28, trascritti in appendice al saggio, che Livia fu uccisa da due sicari assoldati da Pompeo, che non partecipò attivamente all’omicidio della suocera, ma si limitò ad assistere. I giudici stabilirono che il movente del crimine fu il denaro; nelle carte del processo e nel documento di condanna contro il mandante Pompeo Colonna e gli esecutori Paciacca di Terni e Filippo di Metelica, emesso il 16 marzo 155429, non vi è alcun accenno né alla mutilazione della mano30 né al matrimonio di Livia con un domestico. Lo studioso riflette inoltre sul fatto che nel xvi secolo difficilmente sarebbero stati scritti e pubblicati «tutti quegli elogi» su Livia, se quest’ultima avesse «abbandonato la castità vedovile per unirsi a un servitore»31. Egli quindi ritiene che il Caluso abbia mal inteso il verso del Dardano, che doveva invece essere interpretato in un altro modo: «dando a “mano” il senso di “fianco”, avremmo una plausibile spiegazione del sogno. Infatti Livia scopertosi il “lacero petto” non poteva in tal guisa mostrare una “mano”, ma un fianco con una profonda lacerazione»32. Contro questa interpretazione polemizza, giustamente, Domenico Chiodo, che difende le ragioni del Caluso: «le sue [dell’abate] capacità di lettura erano infinitamente superiori alle ‘ragionevoli’ supposizioni del nostro contemporaneo»33.  34 L’opera (mm 198x285) è scritta con inchiostro nero e grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto(...) 35 È bene precisare che il Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di commentare il (...) 36 Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-ago (...) 10Anche ai tempi del Caluso era stata sollevata una critica alla ricostruzione dell’abate; nel manoscritto inedito Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-agostiniano34, conservato presso il Castello di Masino (ms 399), il Verani35 dichiarava di non fidarsi delle parole dei poeti della raccolta, perché: «la maggior parte di essi soggiornavano lontano dalla Capitale del Mondo Cattolico e perciò soggetti a ricevere da’ loro corrispondenti varie o false o almen dubbiose relazioni»36.  37 Scrive il Verani: «Quanto a Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia, non vi è a (...) 11Egli spiegava diversamente il significato dei versi citati dal Caluso e in questo modo metteva in discussione sia la colpevolezza di Pompeo37 sia l’interpretazione del verso del Dardano:  38 Ibid. Altrettanta fede merita il sogno del Dardano, a cui non comparve Livia con la recisa man, l’aperto lato, sembrandomi assai più probabile che al primo colpo ella cercasse di ripararsi colla mano, ed anche al secondo, onde la mano venisse gravemente ferita, ma non recisa38.  39 L’articolo di lettera è conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca Reale di Torino (ms (...) La sua spiegazione ha invece persuaso il Vice Bibliotecario di Mantova Ferdinando Negri, che in una lettera inedita dell’aprile del 1815 scrisse al Napione di aver trovato un epigramma latino che confermava le ipotesi del Caluso39; nel componimento però non vi è un riferimento esplicito alla mutilazione della mano.     40 Il caso dell’assassinio della Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero Ponziglione, che n (...) 41 Il manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate sia sul recto sia sul (...) 12Il Caluso si occupò anche di un altro fatto di cronaca nera dai risvolti torbidi e brutali: l’assassinio di una contessa da parte di un ufficiale francese40. Presso il Fondo Peyron sono conservati due documenti, scritti da mani diverse41, concernenti la vicenda del delitto della Contessa Aureli della Torricella; le prime due carte contengono una raccolta di cinque testimonianze intorno a Monsù, ovvero Monsieur, Bresse («Memorie intorno Monsù Bresse che li 3 Maggio 1747 uccise la Contessa Aureli della Torricella, nata Colli, famiglia patrizia della Presente Città di Cherasco»), mentre le successive quattro carte contengono un racconto particolareggiato dei fatti.  42 Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse che, a seconda dei diversi indizi, può (...) 43 Sotto il racconto si legge la seguente nota: «La presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’al (...) 13La vicenda esposta nel secondo documento è la seguente: l’ufficiale francese Monsieur Bresse42 è follemente innamorato della Contessa Aureli della Torricella che però, pur apprezzando la sua compagnia, non vuole concedersi all’amico. Dopo un anno di incessanti nonché vani corteggiamenti, domenica 3 maggio 1747, Monsieur Bresse sale a casa della donna e, approfittando di un momento di intimità, tenta per l’ennesima volta di sedurla; la Contessa Aureli però si nega in modo risoluto e la fermezza del suo rifiuto umilia a tal punto il Bresse da farlo cadere in preda a un raptus omicida: egli brandisce la spada e sferra sei colpi nel petto della donna. La vittima, nel tentativo di difendersi, si taglia di netto un dito della mano e il suo disperato schermirsi eccita ancor più il furore sadico del Bresse, che la colpisce sul volto con pugni e con l’elsa della spada. Finito il massacro, l’assassino chiude la porta a chiave e torna a casa, dove, colto dal rimorso e dall’orrore delle proprie azioni, si toglie la vita con un colpo di baionetta in mezzo agli occhi. La Contessa intanto, non ancora sopraffatta dalla morte, striscia in un lago di sangue e tenta di alzarsi aggrappandosi alla tappezzeria, che cede per il peso del corpo e fa ricadere a terra la donna ormai agonizzante. L’Aureli viene ritrovata qualche ora dopo col volto tumefatto, il petto squarciato dalle ferite e un orecchio aperto in due. Più tardi viene rinvenuto anche il cadavere del Bresse, che dopo essere stato conservato tre giorni nella sabbia, viene seppellito, secondo un ordine giunto da Torino, come si farebbe con «dei cani o degli asini morti». Il racconto si conclude con una tirata moraleggiante contro la pratica del cicisbeismo, ormai diffusasi anche presso le «petecchie di Cherasco» che fanno carte false per procurarsi un «damerino»43.  44 Il suo comment si trova nella parte inferiore del recto dell’ultima carta. È da segnalare i (...) 14Il Caluso scrisse alcune considerazioni in merito al secondo documento del manoscritto44:  45 Ibid. Questa non è relazione, ma novella, a imitazione di quelle del Boccaccio, benché non molto felicemente lavorata. Le ultime parole sono d’un impostore, che le ha aggiunte a disegno di far credere che fosse questo un ragguaglio fatto a un Cardinale. Ma oltre che vi stanno appiccicate collo sputo, e non sono dello stile del rimanente, non si confanno in modo alcuno col titolo e cominciamento. Senza dubbio l’autore finì ove ha posta la stelletta. È qui del rimanente questa novella molto mal concia del suo copista45.  46 Ibid. L’abate quindi commenta il manoscritto da due diversi punti di vista: da un lato dimostra la falsità delle dichiarazioni che chiudono il racconto e dall’altro critica i contenuti e lo stile della narrazione. Per quanto concerne il primo aspetto, il Caluso fa riferimento all’ultima frase del testo, scritta dopo un asterisco: «E con questa scrizione sonomi ingegnato di contentare l’eminenza vostra, alla quale contarlo profondissime riverenze divotamente mi raccomando»46.  47 Lo scritto ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è preceduto da un breve r (...) 15Le argomentazioni addotte dall’abate per smascherare la contraffazione sono convincenti: lo stile dell’ultima frase non si sposa con quello del racconto e anche il contenuto di questa presunta aggiunta è svincolato dalle altre parti del testo. La nostra analisi grafologica ha stabilito che l’ultima frase fu scritta dalla stessa mano del resto del testo; questo dimostra che il documento posseduto dal Caluso non è l’originale, ma è una trascrizione realizzata da un copista inesperto, che non si era accorto della falsificazione. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, l’abate sottolinea che il testo del secondo documento non possiede né lo stile né la struttura di un resoconto rigoroso e oggettivo, ma somiglia a una novella di poco valore47. Questo giudizio è dovuto allo stile lambiccato e ridondante del narratore, che in diversi punti cade nel comico involontario.  16Questo caso di omicidio-suicidio avvenuto nella provincia cuneese del Settecento stimolò la curiosità del Caluso, che, come abbiamo visto, si era già interessato al delitto di Livia Colonna. Molti sono i punti di contatto tra i due fatti di cronaca: in entrambi i casi si ha una bellissima nobildonna massacrata e mutilata (a Livia, secondo la ricostruzione dell’abate, viene tagliata la mano, mentre alla Contessa vengono recisi un dito e parte di un orecchio) da una persona apparentemente fidata e intima (Livia è trucidata dal genero, mentre la Contessa è uccisa dal proprio cavalier servente).     48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. 49 Si veda a questo proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un incontro. Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La Motte (1723), che ebbe uno straor (...) 17Il Caluso si era interessato anche a un terzo caso riguardante una bella e sfortunata vittima di un efferato omicidio dalle conseguenze raccapriccianti: il sonetto Agnese io son, che in freddo marmo, e spenta dei Versi italiani, infatti, è dedicato a Inês de Castro, che, come ricorda l’abate nell’intestazione, fu «fatta uccidere nel 1355 da Alfonso VI re di Portogallo, perché sposa di Pietro suo figlio, poi successore, che nel 1361 la fece dissotterrare e coronare»48. Le notizie indicate dall’autore sono corrette: Inês de Castro fu l’amante del principe Pietro di Portogallo dal 1340 al 7 gennaio del 1355, giorno nel quale fu pugnalata barbaramente di fronte ai propri figlioletti da due sicari mandati dal re Alfonso VI, che era stato indotto ad autorizzare questo gesto sanguinoso da tre consiglieri, preoccupati dalla crescente prepotenza dei fratelli della donna, che si erano conquistati la fiducia e l’appoggio del principe. Pedro perdette il senno per lo shock e, raggruppate alcune milizie, mosse guerra contro il proprio padre, con il quale stipulò una tregua solo grazie all’intercessione della madre. Una volta divenuto re, Pedro diede sfogo alle proprie vendette e ai propri deliri: condannò a morte due dei consiglieri del padre, ai quali venne strappato il cuore di fronte ai cortigiani e ai militari d’alto rango, costretti ad assistere a questa atroce punizione, e fece disseppellire e ricomporre il cadavere di Inês, affinché la salma della propria amata fosse incoronata dal vescovo “regina di Portogallo”. Questo fatto sanguinoso ispirò molti autori, primo tra tutti Camões, che cantò le lacrime di Inês nei Lusiadi; nel Settecento e nell’Ottocento la dolorosa vicenda di Inês ebbe ampia fortuna sia nel mondo del teatro musicale49 sia in ambito tragico50.  18Nel sonetto calusiano, Inês ricorda la propria triste vicenda terrena e la propria incoronazione post mortem e sottolinea la crudeltà del re e l’efferatezza dell’omicidio:  Agnese io son, che in freddo marmo, e spenta Ebbi scettro e corona, in vita affanni; Benché pur di pensar foss’io contenta Fra gli opposti furor di due tiranni.  Amando me, cagion de’ nostri danni L’un, di me privo Re crudel diventa; Sdegnando, credé l’altro i miei verd’anni Ragion di Re troncar con man cruenta.  Ahi suocero spietato! e in che t’offese Beltà modesta, umil, se de’ suoi rai Perdutamente il tuo figliuol s’accese?  51 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83. Io vinta, mal mio grado il riamai. E se incolpi Imeneo, che a noi discese, Mio bel fallo sarà che non peccai.51  Il Caluso si dilungò nella descrizione di un macabro fatto di cronaca anche nella lettera al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di Albery del 24 maggio 1775, nella quale viene narrato l’agghiacciante suicidio del giovane professore torinese Don Casasopra, che, caduto in un profondissima depressione, si era tolto la vita nella notte tra il 20 e il 21 maggio del 1775:  52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di Caluso al nipote Giovanni Alessandro (...) si trovò il letto imbrattato copiosamente di sangue ed egli con un laccio al collo, soffocato presso a una scanzia, ed era lacerato di colpi di temperino, che alcuni dicono giungere al numero di vent’otto. Se ne poté conchiudere che egli cominciò per tentar d’uccidersi sul letto con volersi tagliare i polsi alle mani e alle tempia e poi si dié tre colpi di punta verso il cuore, e tardando forse la morte, o che immediatamente egli siasi anche a ciò trasportato, egli passò a impicarsi. La cagione si può credere una frenesia nata di malinconia e d’accension di sangue52.  19Se indaghiamo in modo approfondito i quattro casi che attirarono la curiosità dell’abate, ci accorgiamo subito che l’elemento che li accomuna è la brutalizzazione del corpo. Livia e la Contessa Aureli non sono semplicemente uccise con violenza; i loro corpi sono massacrati in modo gratuito, perché la maggior parte delle ferite inferte non sono funzionali alla morte delle donne, ma sono frutto della rabbia e del sadismo degli assassini (la criminologia contemporanea cataloga questi atti come overkilling, considerandoli una importante aggravante in sede processuale). In questo modo gli omicidi privano le donne non solo della vita, ma anche della bellezza e, quel che è peggio, della dignità: lo spettacolo che si apre a coloro che trovano i cadaveri infatti è indecente. L’insistere sull’avvenenza delle due donne quindi è funzionale per creare il contrasto tra ante e post flagitium; il potere deturpante della follia colpisce la sensibilità del lettore, che inevitabilmente resta più impressionato di fronte al corpo straziato di due belle e giovani donne rispetto a quello, per esempio, di uomini adulti. L’assassino di Livia – anzi, stando alle carte processuali, i due killer assoldati da Pompeo – mutila la donna per lanciare un messaggio, mentre il Bresse stacca un dito e parte di un orecchio alla Contessa perché non sa dominare la propria furia. Tanto i primi quanto il secondo non portano con loro le parti mozzate per farne un trofeo o una macabra reliquia, perché non sono mitomani o psicopatici, i primi, infatti, lavorano “su commissione”, mentre il secondo agisce in preda a un raptus.  53 A. Favole, Resti di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p. 37. 20Nel terzo caso, quello di Inês, si assiste a un ribaltamento di prospettiva: all’amputazione si sostituisce la ricomposizione del cadavere; opposto è anche il tipo di follia che provoca il “gesto”, si passa dal furore omicida al furore amoroso, che sembra essere ancora più sconcertante. Anche in questo caso il contrasto tra la «beltà onesta, umil» di Inês e la sua salma ricomposta – o meglio quello che resta della sua salma dopo oltre due anni di decomposizione – è molto forte; l’incapacità di dominare il desiderio di vedere riconosciuto il ruolo di regina all’amatissima defunta porta Pedro a spalancarne la bara (la cui chiusura, ci insegnano gli antropologi, segna «la fine di ogni possibilità di intervento sociale, culturale e affettivo sul corpo»)53 e a plasmare una creatura mostruosa.  21Nel quarto caso è l’accumulo verticale di violenze autoinflitte a creare ribrezzo: la mente allo stesso tempo si serve del corpo e lotta contro esso, che da un lato si fa strumento di tortura e dall’altro si ribella, resistendo alla morte il più possibile. Ciò che sconvolge è la frenetica impazienza del Casasopra, che desidera a tal punto annullare la propria esistenza da suicidarsi, potremmo dire, tre volte contemporaneamente. L’abate quindi osserva una terza tipologia di follia, quella suicida.  22Il Caluso si concentra tanto sul corpo mutilato delle vittime quanto sul corpo mutilante dei carnefici, che possono trasformarsi a loro volta in vittime di se stessi; in Don Casasopra carnefice e vittima coesistono, mentre il Bresse, spinto dal rimorso, decide di togliersi la vita in modo razionale, per quanto è possibile, contrariamente al professore torinese che cede invece alla «frenesia».  23Negli occhi del Caluso è assente la pietà cristiana, non perché egli fosse insensibile alle sciagure, ma perché l’interesse che lo spinge a osservare questi fatti di sangue è di tipo scientifico; egli, in generale nei suoi scritti filosofici, evita di introdurre considerazioni di carattere teologico o semplicemente religioso, perché non sente l’esigenza, provata da molti suoi contemporanei, di conciliare il cristianesimo con la filosofia dei lumi o con le correnti filosofiche antiche, i concetti di virtù o di colpa vanno intesi sempre in senso laico. Lo sguardo scientifico è evidente, per esempio, nella descrizione del terrificante suicidio del professore torinese. L’abate non spende parole di pietà per il Casasopra, ma presenta subito le proprie ipotesi in merito alle cause di un gesto così estremo: egli suppone che la follia suicida sia stata scatenata dalla combinazione di una causa psicologica («malinconia») e una organica («accension di sangue»). Senza la sentenza scientifica finale, la descrizione del suicidio del Casasopra potrebbe avere anche un che di farsesco (un farsesco funereo, ma pur sempre farsesco): l’immagine di un uomo che con ventotto coltellate e i polsi tagliati tenta di impiccarsi però non fa sorridere cinicamente, perché il Caluso descrive il tutto come un caso clinico e non come una scena, mi si passi il termine, splatter, anzi comic splatter.  54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio 1770 al settembre 1773, ospite del fratello Carlo Francesco, (...) 24L’abate non sovrappone la fiction agli oggetti della propria riflessione filosofica. La componente orrorifica, per esempio, è molto presente nel Masino, poemetto popolato da mostri, diavoli, folletti malvagi e morti resuscitati; questo testimonia che egli non fu immune all’influenza dell’Arcadia lugubre, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con i quattro casi dei quali ci stiamo occupando, che non sono trattati come storie, come racconti, ma come fatti di cronaca, recente o lontana, da esaminare. La terrificante incoronazione di Inês è sviluppata sì in un sonetto, ma la prefazione in prosa che illustra la vicenda storica testimonia che l’autore aveva compiuto studi approfonditi sull’episodio, forse durante il suo soggiorno lusitano54.  25Il corpo smembrato viene “osservato” non con compiacimento morboso, ma con l’occhio attento del filosofo, che, studiando il potere della ragione, è costretto a indagarne anche i limiti e le ombre. Il Caluso in verità non censura in alcun modo i particolari più macabri delle vicende, come l’arto mozzato di Livia, la pozza di sangue nella quale striscia la Contessa, il foro in mezzo alle ciglia del Bresse (poi sotterrato come la carogna di un animale), lo scettro ricevuto da Inês «in freddo marmo», le ventotto ferite del Casasopra; questo sguardo fisso sui dettagli più agghiaccianti però non è fine a se stesso, ma serve a “toccare con mano” quanto orrore generi la follia. Così nella vicenda di Inês, ciò che disgusta maggiormente il lettore non è il ripugnante cadavere ricomposto, ma la pazzia di Pedro: insomma il mostro non è lo scheletro di Inês, ma Pedro stesso.  26L’interesse per i fatti di sangue dimostra come sia fuorviante e falsa la rappresentazione del Caluso come saggio rintanato nel proprio rassicurante romitorio, dal quale contempla con indifferenza il mondo e le sue passioni; egli, al contrario, era attaccato alla “vita reale” (ne è una riprova il fatto che nelle sue opere preferisce sempre offrire esempi tangibili, senza abbandonarsi a teorie fumose o ad astratte elucubrazioni) ed era desideroso di studiare l’uomo “vero” – quello che, a volte, cede alla brutalità e alla follia più nera – e non l’uomo ideale. Il Caluso crede che ogni progresso sia possibile solo partendo dall’analisi di «ciò che esiste», egli non vuole proporre un modello utopistico di uomo perfetto, ma desidera ragionare concretamente sulla natura umana, sulle sue luci e sui suoi spettri.  NOTES 1 Sulla figura dell’abate di Caluso (1737-1815) si vedano gli studi del Calcaterra e, soprattutto, del Cerruti (M. Cerruti, La ragione felice e altri miti del Settecento, Firenze, Olschki, 1973; Id., Le buie tracce: intelligenza subalpina al tramonto dei lumi; con tre lettere inedite di Tommaso Valperga di Caluso a Giambattista Bodoni, Torino, Centro studi piemontesi, 1988; Id., Un inedito di Masino all’origine dell’opuscolo dibremiano ‘Degli studi e delle virtù dell’Abate Valperga di Caluso’, «Studi piemontesi», XXIX, 2000, pp. 7-21. Inoltre mi permetto di rinviare anche alla mia monografia: M. Contini, La felicità del savio. Ricerche su Tommaso Valperga di Caluso, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011.  2 Si legga il seguente passo, tratto da una lettera del Foscolo alla Contessa d’Albany del 1813: «e io lasciai l’ordine ch’ella, e il pittore egregio, e l’ottimista abate di Caluso avessero l’edizione in carta velina» (U. Foscolo, Epistolario, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1956, IV, p. 317). Questo appellativo si riferisce, ovviamente, alla più famosa composizione dell’abate, il poemetto in terza rima La Ragione felice, composto a Firenze nel 1779, come precisa l’abate stesso nell’introduzione alla raccolta Versi italiani (Euforbo Melesigenio, Versi italiani di Tommaso Valperga Caluso fra gli Arcadi Euforbo Melesigenio, Torino, Barberis, 1807).  3 L’inedito Della felicità de’ governati, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ms segnato 287, II), è ora pubblicato in M. Contini, La felicità cit., pp. 157-194.  4 A proposito del concetto calusiano di rassegnazione, si legga il seguente passo, tratto della lettera alla Contessa d’Albany del 14 aprile 1808: «De’ cardinali Doria lodo la rassegnazione, virtù troppo necessaria alla felicità, o per parlare più esattamente a scemare l’infelicità nostra, onde io ne fo uno de’ punti precipui della mia filosofia, d’acquetarsi alla necessità» (L.G. Pélissier, Le portefeuille de la comtesse d’Albany, Paris, Fontemoing, 1902, pp. 14-15).  5 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 38.  6 Diderot aveva constatato che nella pratica quotidiana si incontravano uomini felici, pur essendo tutt’altro che virtuosi, e lo stesso ragionamento era stato presentato da Voltaire a proposito della razionalità.  7 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., p. 22. Il fatto che le passioni fossero necessarie all’uomo per sfuggire la noia era stato sottolineato con forza dall’abate Du Bos nel primo capitolo delle Réflexions critiques sur la poésie et la peinture (1718), opera che eserciterà una grande influenza sull’estetica settecentesca. In questi versi il Caluso non fa riferimento alla noia, ma descrive uno stato d’animo ancora peggiore: l’apatia.  8 Id., Versi italiani cit., p. 33.  9 Il manoscritto è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino (ms Varia 176, 4).  10 I manoscritti di L’Amour vaincu (ms Varia 176 1/2, s.1, b. 14) e di Les aventures du Marquis de Belmont écrites par lui même ou les nouveaux malheurs de l’amour (ms Varia 176 1/2, s.2, b. 16) sono conservati presso la Biblioteca Reale di Torino.  11 Euforbo Melesigenio, Versi italiani cit., pp. 213-247.  12 L’inedito Varia Philosophica, ritrovato presso l’Archivio Peyron della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (ms segnato 286, 4), è riprodotto in M. Contini, Nuove ricerche sull’attività letteraria di Tommaso Valperga di Caluso, tesi di dottorato, tutor Enrico Mattioda, Torino, Università degli Studi, a. a. 2010-11, II, pp. 218-229.  13 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga, in Mémoires de l’Académie des sciences littérature et beaux-arts de Turin, X-XI, Torino, Imprimerie des sciences et des arts, 1803-1804, pp. 247-257.  14 La raccolta fu pubblicata a Roma da Antonio Barre nel 1555.  15 Id, Di Livia Colonna cit., p. 251.  16 Il Caluso in un brano del Della certezza morale ed istorica sottolinea come sia importante esaminare le notizie riferite dai poeti: «Diciamone adunque partitamente, vediamo prima qual sia l’esame del fatto per trarne i precetti per questa prima parte anche per la critica degli avvenimenti che ci siano tramandati dagli scrittori di qualche genere, e partitamente da’ Poeti» (Della certezza morale ed istorica; Fondo Peyron; ms 286, 2). L’abate cita le seguenti fonti: G.B. Adriani, Istoria de’ suoi tempi di Giouambatista Adriani gentilhuomo fiorentino. Diuisa in libri ventidue, Firenze, Giunti, 1583 e D. De Santis, Columnensium procerum imagines, et memorias nonnullas hactenus in vnum redactas, Roma, Bernabo. Il Caluso ricorda che vari poeti avevano scritto «molte dolenti rime» su questo tema e cita un passo di un madrigale del Caro. Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana è conservato il manoscritto Composizioni latine et volgari di diversi eccellenti authori sovra gli occhi della Ill. Signora Livia Colonna (ms Capponi 152).  19 T. Valperga di Caluso, Di Livia Colonna. L’abate fa una precisazione sul nome della figlia di Livia: “la figliuola della nostra Livia da Domenico Santi chiamata Orintia, Oritia, trovisi altrove chiamata Ortenzia” (ivi, p. 257).  21 Ivi, p. 252.  22 Ibid.  23 Ivi, p. 253.  24 Ivi, p. 252.  25 Ivi, p. 254.  26 G. L. Masetti Zannini, Livia Colonna tra storia e lettere in Studi offerti a Giovanni Incisa della Rocchetta, Roma, Società romana di storia patria, Archivio di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Processi, sec. xvi, 19 (1554, gennaio 25).  29 I responsabili furono condannati grazie alle deposizioni di testimoni oculari.  30 La testimone oculare Beatrice di Petrella, per esempio, dichiarò che Livia fu ferita due volte alla gola e molteplici volte ai fianchi, ma non fece alcun riferimento alla mutilazione di arti.  31 Ivi, p. 309.  32 Ivi, p. 310.  33 D. Chiodo, Di alcune curiose chiose a un esemplare delle “Rime” di Gandolfo Porrino custodito nel Fondo Cian, «Giornale storico della letteratura italiana», L’opera (mm 198x285) è scritta con inchiostro nero e grafia minuta su 5 carte scritte sia sul recto sia sul verso, a parte l’ultima, scritta solo sul recto.  35 È bene precisare che il Verani si rivolge a un anonimo amico che gli aveva chiesto di commentare il saggio del Caluso. Probabilmente questo anonimo amico aveva poi consegnato all’abate lo scritto del Verani.  36 Di Livia Colonna del cittadino Tommaso Valperga-Caluso: Osservazioni del Cit. Tommaso Verani Ex-agostiniano (Fondo Masino; ms 399).  37 Scrive il Verani: «Quanto a Pompeo Colonna, che egli fosse il barbaro uccisore di Livia, non vi è altro documento, ch’io sappia, se non la semplice osservazione del Sansovino, di cui non possiamo fidarci, poiché non Livia, ma Lucia donna di Marzio Colonna, la quale fu morta da Pompeo suo genero. Quindi è che non so indurmi a credere Pompeo capace di sì orrido fatto, e molto meno per un vile interesse o di eredità o di dote o di qualunque altro motivo o di odio e vendetta a noi ignoto». Egli in un passo successivo sottolinea anche che Livia chiamò “figliuolo” il proprio uccisore non perché era suo genero, ma per intenerirlo e indurlo a desistere dal gesto delittuoso (ibid.).  38 Ibid.  39 L’articolo di lettera è conservato presso gli Annali calusiani della Biblioteca Reale di Torino (ms St. Patria 689). Non si tratta della lettera originale del Negri al Napione, ma di una copia dello stesso Napione, che, su richiesta del Balbo, trascrisse la parte della lettera che riguardava il Caluso.  40 Il caso dell’assassinio della Contessa Aureli aveva interessato anche A. Ferrero Ponziglione, che nell’adunanza della Patria Società letteraria del 20 maggio 1790 propose la composizione di una novella su questo argomento (C. Calcaterra, Le adunanze della ‘Patria Società Letteraria’, Torino, SEI, 1943, p. 250). INon era presente a questa adunanza, in quanto entrerà nella Filopatria solo il 20 dicembre 1792; sappiamo però che egli intervenne a qualche assemblea anche prima di questa data e che intrattenne stretti rapporti coi Filopatridi. Probabilmente quindi l’abate si interessò alla vicenda di Monsù Bresse grazie a qualche conversazione con gli amici e colleghi torinesi.  41 Il manoscritto (ms 279, III, 3) è vergato su 6 carte (mm 211x305), compilate sia sul recto sia sul verso: le prime due sono scritte da una mano, mentre le altre 4 da un’altra. Entrambe le grafie non sono riconducibili a quella del Caluso. Il narratore formula varie ipotesi sulle origini del Bresse che, a seconda dei diversi indizi, può essere identificato con un ugonotto, un massone o un ex chierico.  43 Sotto il racconto si legge la seguente nota: «La presente Relazione fu trovata trai Scritti dell’allora profess. di Retorica D. Castellani, ed è questa in data dei 12 Maggio 1747, 9 giorni dopo l’avvenimento». Annotazione scritta dalla stessa mano che aveva compilato il primo dei due documenti (Memoria intorno a Monsù Bresse; Fondo Peyron 279, III, 3).  44 Il commento del Caluso si trova nella parte inferiore del recto dell’ultima carta. È da segnalare inoltre che nel verso dell’ultima carta si leggono alcune prove di firma del Caluso.  45 Ibid.  46 Ibid.  47 Lo scritto ricalca la struttura tipica della novella; il racconto infatti è preceduto da un breve riassunto: «Un’ufficiale di Francia ama una Donna Piemontese per lo spazio di più di un anno, e perché da lei gli è vietato il venir ad ottenere qualche suo fine poco onesto, la uccide, e ultimamente pentito di tanta atrocità usata, da se medesimo si dà la morte» (ibid.).  48 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83.  49 Si veda a questo proposito D. Goldin Folena, Inês de Castro e il melodramma ita-liano: un incontro obbligato, in Inês de Castro: studi, a cura di P. Botta, Ravenna, Longo. Si ricordi, per esempio, l’Inês de Castro di Antoine Houdar de La Motte (1723), che ebbe uno straordinario successo di pubblico e venne tradotta dall’Albergati nel 1768 (F. Albergati Capacelli - A. Paradisi, Scelta di alcune eccellenti tragedie francesi tradotte in verso sciolto italiano, vol. III, Liegi ma Modena, 1768).  51 T. Valperga di Caluso, Versi italiani cit., p. 83.  52 M. Cipriani, Le lettere inedite dell’abate Tommaso Valperga di Caluso al nipote Giovanni Alessandro Valperga marchese di Albery conservate nei fondi del castello di Masino, tesi di laurea, relatore Marco Cerruti, Torino, Università degli Studi, a.a. 2001-2002, pp. 101-102.  53 A. Favole, Resti di umanità: vita sociale del corpo dopo la morte, Bari, Laterza, 2008, p. 37.  54 Il Caluso visse a Lisbona dal febbraio 1770 al settembre 1773, ospite del fratello Carlo Francesco, ambasciatore in Portogallo e futuro viceré di Sardegna. In questo periodo venne a contatto con la cultura portoghese, spagnola e inglese e, come tutti sanno, conobbe e “iniziò alla poesia” l’amico Alfieri. Euforbo Melesigenio. Dydimus Taurinensis. Tommaso Valperga di Caluso. Caluso. Keywords: principi di filosofia per gli initiate nelle matematiche, implicature corporali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caluso” – The Swimming-Pool Library.

 

Camilla (Genova). Filosofo. Grice: “You gotta love Camilla; I mean, if his name were not Camilla, I would call him Grice: he philosophised on all that I’m into: mainly ‘uomo’ (since he was an ancient Italian, he used the mute ‘h’ (dell’huomo’): his anima, the concetti dell’animma that he ‘dichara’ in il suo palare – la bellezza is without equal --.” De' misterii e maravigliose cause della compositione del mondo, 1564 Giovanni Camilla (scritto anche Camilli o Camillo) (Genova), filosofo.  Opere Giovanni Camilla, De' misterii e maravigliose cause della compositione del mondo, In Vinegia, Gabriele Giolito de Ferrari, 1564. Note  Camilla, Giovanni CERL cnp Filosofia Matematica  Matematica Categorie: Medici italianiFilosofi italiani ProfessoreXVI secolo XVI secolo Genova. Ma che diraßi parlar del dela lingua e diuerſo parlare coſi pronunciato diſtin- l'huc'mo tamente , beneficio de i denti e delle labra, il quale coſi benedichiara iconcetti dell'anima ? CAM . penſate , che ſe piu l'huomo andaſſe conſiderando le coſe marda uiglioſe di D10 , tanto piu ſe gli infiammerebbe l'ar nimo di riconoſcerne altre , e contemplarne , e quanto piu stå inuolto e priuo delle ſcienze e cognitione di tai cole , tanto manco ne prende marauiglia , e ſe ne in fiamma. .Liv . Auanza , l'huomo tutti gli altri ania mali di ſottigliezza di ſangue, di memoria , bellezza di corpo , e larghezza di ſpalle . creſce ſino a uentidue anni , la donna ſino a uenti . Hora che ueggiamo al triſino da piccioli atti e quaſi inſtrutti beniſsiino in diuerſeſcienze oarti , è coſa manifeſta. Onde quel Mercurio gran filoſofo Mercurio Trimegiſto chiamò l'huomo Tremigi - un grande miracolo . Oltre poi , che con l'intelletto fto . intende,capiſce e diſcorre fopra ogni coſa , e chiamato un picciol mondo ; e tantage, coſi bella dignità di eſo ON Elle 80 E. = .. 0 . cica . laconoſceuano benißimo quegli ans 74 ENTHOSIA SMO DI huomo uiene tutta dall'anima . E queſto ui bafti qudra to alla dichiaratione di quelle coſe , che ſono chiamate naturali , ueniamo hora alle Mathematiche . CAM ; Se io debbia hauere queſto a caro , laſciolo confiderda re a uoi : eſſendo , che tai ragionamenti ſopra tante ecoſi belle coſe , miſaranno aſſai facile uia ad intendea re poi eſſe ſcienze . -- diverso parlare cosi pronunciato distintamente beneficio de i denti e della labra, il quale cosi benedichiara i concetti dell'anima? AVO PRIMO , OVERO Proemio . a carte . I Cap.2. Dellauirtù . 3 Cap : 3 : Dell'anoicitia . Cap. 4 Dell'amore IO Cap. s . Del Cielo e delle Stelle . 13 Cap. 6. De gli elementi . 18 Cap.7. Di quelle cole, che fi generano nell'aere. 22 Cap. 8. Dell'anima.. 34 Cap . 9. Dell'anima dell'huomo . 45 Cap.io. Delle Piante . 47 Cap. 11. De gli animaliſenſitiui, e prima di quelli, che non hanno ſangue. 53 Cap. 12. Di quelli Animali, che hanno ſapgue primie. ramente de peſci . 15. 59 Cap.13. De gli uccelli . 63 Cap 14. De gliAnimali quadrupedi . 66 Cap.is. Delſhuomo. 71 Cap.16. Della Arithmetica , e fue parti. 74 Cap.17. Della Muſica . 77 Cap.18. Della Geometria, e ſue parti. Cap.19. Della Coſmografia . Gap.20. Dell'arte del nauigare, e de' precetti , chi fi debbono ofleruare a intender quella . 86 Cap.21. Della fPerſpectiua, & inſiemedella Symetria dell'uomo , 91 Cap.22. Dell'Aſtronomia . 95 Cap.23. Della Metafiſica . 107DELLA PERSPESTTIVA , ET IN = fiemedella Simetria dell'huomo . Cap. XXI. Sole pche Holl Utre, Duit 3 bel A PERSPETTIVA dunque , Perſpetti - stando nel mezo della Geometria 4a, . Aſtronomia , proua neceſſaridal incnte molte coſe , che in eſſe ſi ri = * trouano . Onde che'l Sole illumini pru dela metà della terra , e che lucendo non ſi poſſa illumini no ueder le stelle , lo proua il Perſpettivo : dicendo ,'piu della che ogni corpo luminoſosferico illumina una piu pica metà della ciola sfera piu dela metà . Nella Geometria etiandio queſto è manifefto , come nell'arte di rileuo , ſecondo* ; ſi vedono in Romaalcủne statue , con tanto artificio store fatte , che quantunque una ſia piu grande dell'altra , @unapoſta in alto , l'altra a baſſo , paiono nondia 1 : meno tutte diunamedeſima groſſezza e grandezza . Effetti del la perſpect e cio come ſi faccid', diſſe il Perſpettiuo', la comprena tiua, en fione della quantità della coſa urſibile proceder dalla din comprenſione della piramideralioſa , e dalla compaa ratione dellabafi alla quantità dell'angulo ,o alla lun= ghezza della diſtanza. Perla medeſima hanno detto gli Aſtrologile stelle effer corpi sferici'e tondi : pera cioche daejja uien- lor"detto i corpi sferici da lunge ofind pri 14 . ܙܐ ܕ 2 WA ENTHOSIASMO DI parere piani ; l'eſempio ſia di uno ouo : oltre di ciò Le ſtelle le stelle nell'Orizonte apparere piu grandi, etiano, a ell'Ori dio l'iſteſſo Orizonte alla terra contingente , e piu: zones apo lontano di qual ſi uoglia altro punto aßegnato nel ciez iori, per lo . L'iſteſſo fàil naturale , il quale afferma, che l'oca chio non baſterebbe a comprender la grandezza delle coſe ,s'eglinon fuſſe tondo . & etiandio ſenza luce 1. non uederſi niente. Per queſta ſi ſono ritrouati gli fpecchi: imperoche il raggio dell'occhio cadente pera pendicularmenteſopra delloſpecchio, ritorna adietro , e coſi fa , che l'imagine èueduta . Si danno ancora le cagioni, perche nella piu parte de gli ſpecchiſi ueda stig als t'imagine dalla banda dilà di ello ſpecchio, &in alcue ni dinanzi: o oltre di ciò coſi diſcoſta e lontana dallo specchio , quanto é l'occhio lontano da eſo, e di molte altre. si sà ancora la diuerſa compofitioneloro , coa me de' tondi , concaui , colonnari, piramidalize triana Pianeri og ifcintilla . gulari. Laſcioper hora , chela reuerberatione de nocome raggi faccia le stelle fille ſcintillare: imperoche i pia = le ftefle fiłnetinon ſcintillano . Proua ultimamente , perche nela l'acqua le coſe paiano piu grandi , e fuori dal ſuo luos Perche le coſepaia. 80 ;imperochenon ſipuò diſcernere e giudicare la no mag. grandezza di una coſa per raggio rotto : e per ciò le giori nel ſtelle nell'orizonte appaiono piu uicine a noi , che nel l'acqua. Meridiano . Si danno inſieme congnitioni di Iride , e molte altre ; la enumeratione delle quali troppo longa ſarebbe a dirle . CAM. Veramente tutte le ſcienze ſono di talforte tra loro ordinate , che’n loro a punto ſi uede fe . GIO. CAMILLA : 93 COM Iron chat lan ED fi uede una ciclopedia . Liv . Tal dunque è la pera ſpettiua , la cui conſideratione e di raggio retto, rea feffo , erotto. nella quale non ui marauigliate che ſi ueggiano coſi eccellenti e buoni Scultori: eſſendo che scultura ciò ſiuedafacilmente nella Chimica ,Ectypoſi, Celaa parci d tura , Plaſtica , Proplaſtica , Paradigmatica , Tomia fa . ca., Colaptica , le quali ſonotutte parti della Scultuz ra , o hanno della ſua cognitione biſogno. Hora di queſte nonuoglio io parlare , eccetto ſe a voi pareſſe della simetria dell'huomo ; dcció da eſſa comprendiate ogn’hora piu le marauiglioſe opere di Dio . Cam . Queſto miſarebbe di grandißimo contento , è maßime che per la intelligenza loro ſi potrebbono etiandio conſiderar le parti de gli animali ſenza ragione.Liv. Queſta miſura dunque, la quale Simetria chiamiamo, Simetria duenga che'n tutte le coſe create da Dio ſia maraui: dell'huog glioſa , è però di marauiglia e stupore grandißimo mo. nell'huomo . imperoche miſurate tutte le parti effatta = mente , dalle quali è compoſto , iui non ſi uede altro , che ogni coſa piena di harmonia e perfettißima in tuta ti i numeri. E perciò hanno diuiſo il corpo dell'huomo in noue parti , le quali tutte ſi prendonodalla faccid ;. hauendola coſi poſta diſopra Iddio grandißimo,aca ciò tutte le altre pigliaſſero la miſura da eſſa , come contenuta da tutto il corpo noue uolte : s'intende però queſto degli huominifatti , e non de' fanciulli , i quaa li non ſono eccetto quattro . La proportion poi de membri tra loroquanta fia , è coſa di grande contenta CA ľ 94 ENTHOSIASMODI tan è platione. Quanto é dalle ciglia ſino alla fine del nära ſo , tanto dal mento fino alla gola quanto dal labro di fopra ſino alla punta del naſo , tanto é la larghezza del naſo di ſotto , è la concauità de gl'occhi, quanto dalla cima del fronte fino alle ciglia , tanto ſino alla punta del naſo , o etiandio fino al mento . Hora che tanto ſia la faccia , quant'è la mano , e dalle congiunz ture di eſa fi ueggiano le proportioninella faccia ,¿ coſa aſſai ben chiara . Della larghezza, che ne dires di eſſo al naſo , tanto la larghezza della bocca, quanto la longhezza del naſo , tanto é la larghezza delle an= che, quanto ſono due faccie inſieme. L'altezza poi, cioè quello , che uolge e circonda all'intorno , e mard uigliosa . uolge la teſta , e in quella parte del fronte tre faccie , il petto cinque , il uentre , paſſato però l'ombilico , quattro . Laſcio ultimamente , che con tenga l'huomo la figura circolare , e quadrata , e che da eſſo ſia cauata la proportione e miſura di far caſei, Fabriche Rocche , Caſtelli , e Chieſe . Hauete hora viſto la dir moſtrate uifione del corpo del'huomo , quanto ſia artificioſa , e dalla fime. tria del di quanta armonia e contemplatione . E di qui conſie l'huomo. deriate qual Geometria ,qual Muſico debbia eſſer l'aua tore e fattore di tutto queſto, CA M. Veramente da tutte le coſe da D1o create ſiamobenißimoinſegnati uiuer bene : imperoche hauendo ogni noſtra parte del corpo con tal proportione diſpoſta, e fatta , ci mom che 3 stra , 1 GIO. CAMILLA. stra, che ordiniamo i coſtuminoſtri ; acciò in ſi bel corpo poſſa eſſere una bella anima . Liv. E queſto ulbaſti in queſti ragionamenti, & andiamo alla Aſtro . nomia . Cam. Come a uoi pare. His “Enthusiasm” has a brief section on ‘parlare humano’, parabolize – wondering how men can ‘express’ the ‘conceptions’ of their ‘souls’ – via this ‘parlare’ – also philosophised on symmetry, which is like K. O. Apel’s reciprocity. Giovanni Camillo. Giovanni Camilli. Giovanni Camilla. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Camilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Cammarata (Catania). Filosofo. Grice: “You gotta love Cammarata; for one, like Austin, he goes by initials, and indeed like me, A. E. – he is the Italian Hart – he thinks legality comes first, justice second – and he is possibly right – his example is Oreste’s murder and the institution of justice in Athens – However, that’s because of his Magna Grecia background – Speranza tells me that at Rome, things are different, since it’s all Brutus and the beginning of the republic – ‘il ratto di Lucrezia,’ as he puts it.” -- Fu uno dei più conosciuti rettori dell'Trieste dal 1946 al 1952, per la difesa della quale ricevette la medaglia d'oro della Cultura e dell'Arte, mentre all'Ateneo fu conferita nel 1962 la medaglia d'oro al valor civile.  Biografia Nel corso della sua carriera insegnò filosofia del diritto e altre materie giuridiche nelle Messina, Macerata, Trieste, Napoli e Roma. Allievo di Giovanni Gentile, aderì all'idealismo immanentista. Gli scritti principali di filosofia del diritto sono inseriti, in massima parte, in Formalismo e sapere giuridico, Giuffrè 1963. Buona parte degli scritti riguardanti invece la "questione di Trieste" sono pubblicati in Fra la teoria del diritto e la questione di TriesteScritti inediti e rari, Eut, Trieste 2007.  Fu anche un notevole fotografo, come documentano le due mostre (Trieste 2004 e Gorizia ) a lui dedicate.   Cammarata, Angelo Ermanno, in Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. 9 luglio . Opere di Angelo Ermanno Cammarata, . Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloAvvocati italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1899 1971 Catania RomaFilosofi del diritto. Grice: “Excellent philosopher, comparable with Hart – only not Jewish and thus friendly with the Fascists!” A student of Gentile, more of an idealist than a positivist, but still. Angelo Ermanno Cammarata. Keywords: H. L. A. Hart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cammarata” – The Swimming-Pool Library.

 

Campa (Presicce). Filosofo. Grice: “You gotta love Campa; he has a gift for unusual metaphors: la fantasmagoria della parola, -- my favourite has to be his conjunct, ‘stupidity and unfaithfulness!’ --  Grice: “Philosophy runs out of names: there are British philosophers G. R. Grice and H. P. Grice, and Itallian philosophers R. Campa, and R. Campa.” Riccardo Campa  Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai cercando il sociologo, vedi Riccardo Campa (sociologo).  Riccardo Campa con il premio Nobel Eugenio Montale (1971) Riccardo Campa (Presicce), filosofo. Storico della filosofia italiano, la cui indagine teorica si è incentrata sulla relazione fra la cultura umanistica e la cultura scientifica, delineando il percorso storico della cultura occidentale, in particolare nell'ambito europeo-latinoamericano.   Negli anni sessanta e settanta ha diretto la Biblioteca delle idee, sotto la presidenza scientifica del premio Nobel Eugenio Montale e contemporaneamente è stato condirettore responsabile del periodico Nuova Antologia, nel quale ha pubblicato saggi di letteratura e filosofia sul pensiero del Novecento; vi ha inoltre tradotto e pubblicato testi di Jorge Luis Borges, George Uscătescu, Vittorio Dan Segre, André Chastel, Walter Kaufmann, Ortega y Gasset.   Riccardo Campa con Jorge Luis Borges a Roma (1983)«Riccardo Campa fue nombrado doctor honoris causa en las ciudades de Atenas y Nueva York, alfa y omega del conocimiento de lo que constituye Occidente [...] Asombra en su obra la recopilacion enciclopedica del pensamiento europeo, cimentada en la razon que la describe.» «Riccardo Campa ha ricevuto dottorati honoris causa nelle città di Atene e New York, l'alfa e l'omega della conoscenza di ciò che costituisce l'Occidente [...] Sorprende nella sua opera la raccolta enciclopedica del pensiero europeo, fondata sulla ragione che lo descrive.»  (Domingo Barbolla Camarero, Prologo, in Riccardo Campa La razon instrumental. El mesianismo nostalgico de la contemporaneidad, Madrid, Editorial Biblioteca Nueva, ) Ha partecipato, a seguito di regolare concorso a livello internazionale, al Forum Europeo di Alpbach, al Collège de France, e all'Universidad Internacional Menéndez Pelayo, e, a partire dal 1973, ha insegnato presso diverse università italiane e straniere (Bologna, Università degli Studi di Napoli Federico II, Università per stranieri di Siena, Universidad de Morón), tenendo corsi di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia,,storia delle Americhe e diritto politico.   Riccardo Campa all'Università per Stranieri di Siena () Dal 1987 al 1991 ha diretto l'Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires e successivamente, dal 1991 al 1992, ha coordinato in Italia e nell'America Latina le attività celebrative del V Centenario dell'America , per disposizione del Ministero degli Affari Esteri.. Dal 1993 al 1997 ha svolto le funzioni di Vicepresidente della Commissione Nazionale per la promozione della cultura italiana all'estero (Legge 22.12.1990, n.401). Quale ormai consolidata personalità-ponte fra i due mondi, geograficamente separati ma culturalmente legati dalle comuni radici, dal 1994 svolge le funzioni di Direttore del Centro Studi, Documentazione e Biblioteca dell'Istituto Italo-Latino Americano di Roma. Contemporaneamente è stato Vicedirettore della Società Dante Alighieri. Dal 2002 al 2005 ha presieduto il Forum Internazionale sulla Società Contemporanea di Madeira e, alla scadenza di questo mandato, è stato eletto a Roma presidente della Federazione Internazionale di Studi sull'America Latina e i Caraibi per il biennio 2005-2007.  In questo ambito, con il suo operato, ha garantito l'interscambio delle figure intellettuali più significative fra la cultura latinoamericana e quella europea, favorendone la reciproca conoscenza.  Riceve la nomina di Director Emeritus del Giambattista Vico Chair of Italian Studies en Dowling College, Nueva York nel .  Studioso di diverse discipline: dalla linguistica teorica alla filosofia del linguaggio, dalla filologia all'analisi letteraria alla storia della lingua; dalla filosofia teoretica alla filosofia della scienza, nella gestione della complessa realtà istituzionale, dal 2005 al , ha assunto l'incarico di Direttore del Centro di Eccellenza della Ricerca dell'Siena.  Già Ordinario del S.S.D SPS/2 (Storie delle dottrine politiche) presso la Facoltà di Lingua e Cultura Italiana dell'Università per Stranieri di Siena, l'11 febbraio  gli è stato conferito il titolo di "Professore emerito".  Opere: Appartengono, fra gli altri, alla produzione classica:  Il potere politico nell'America Latina, Edizioni di Comunità, Milano, 1968; Il riformismo rivoluzionario cileno, Marsilio, Padova, 1970; Appunti per una storia del pensiero politico latino-americano, Lugano, Pantarei, 1971; L'universo politico omogeneo, Istituto Editoriale Internazionale, Milano, 1974 Las nuevas herejias, Biblioteca de Estudios Criticos, Madrid, Ediciones Istmo, 1978; La visione e la prassi: profilo di Bolìvar (pref. diPignatti, intr. di R. Medina Elorga, postfaz. di L. C. Camacho Leyva), Istituto Italo Latino-Americano, Roma 1983; A reta e a curvaReflexōes sobre nosso tempo (Riflessioni con Oscar Niemeyer), São Paulo, Max Limonad, 1986; El estupor de EpicuroEnsayo sobre Erwin Schrödinger, Buenos Aires-Madrid, Alianza Editorial, 1988; La emocion: la filosofia de la infidelidad (prol. di R. H. Castagnino), Editorial Sudamericana, Buenos Aires, 1988; La escritura y la etimologia del mundo (con un saggio di Roland Barthes), Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1989; La malinconia di EpicuroRiflessioni in penombra con Jorge Luis Borges, Buenos Aires, Editorial SudamericanaFondazione Internazionale Jorge Luis Borges, 1990; La primeva unità: saggio sulla storia, Le Monnier, Firenze, 1990; La practica del dictamen: del ius a la humanitas, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1990; El sondeo de la apariencia: el libro y la imagen, Gedisa, Buenos Aires, 1991; La trama del tiempo: ensayo sobre Italo Calvino, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1991; L'avventura e la nostalgia: Omaggio al Portogallo, Presidenza dei Consiglio dei Ministri, Roma 1994 La metarrealidad, Buenos Aires, Biblios, 1995; Le daimôn de la persuasion, Toulouse Cedex, Éditions Universitaires du Sud, 1996; The Renaissance and the invention of method, New York, Dowling College, 1998; La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", M. Pacini Fazzi, Lucca, 1999, L'esilio saggi di letteratura Latinoamericana, Il Mulino, Bologna, 2000; Il sortilegio e la vanità: saggio su Louis-Ferdinand Céline, Welland Ontario, Soleil, 2000; Caratterizzano la produzione più recente:  L'immediatezza e l'estemporaneità, New York, Dowling College PressBinghamton University, 2000; L'età delle ombre, New York, Binghamton University, 2001; Dismisura, Bologna, il Mulino, 2003; Le vestigia di Orfeo. Meditazioni in penombra con Jorge Luis Borges, Bologna, Il Mulino, 2003; A modernidade, Lisboa, Fim de século, 2005; Della comprensioneCompendio di mitografia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2005; Ontem. L'elegia del Brasile, Bologna, il Mulino, 2007; Vicinanze abissali. L'approssimazione nell'epoca della scienza, Bologna, il Mulino, 2009; Langage et stratégie de communication, Paris, L'Harmattan, 2009; El Inca Garcilaso de la Vega, Madrid, Binghamton University, Ediciones ClasicasEdiciones del Orto, ; I Trattatisti spagnoli del diritto delle genti, Bologna, Il Mulino, ; La place et la pratique plébiscitaire, Paris, L'Harmattan, ; El sortilegio de la palabra, Madrid, Biblioteca Nueva, ; Elegy. Essays on the Word and the Desert, University Press Of The South, ; L'America Latina. Un profilo, Bologna, Il Mulino, ; La filosofia de la crisis. Epicureismo y Estoicismo, Editorial Sindéresis, Madrid, ; El tiempo de la inedia. El invierno de Gunter, AntropiQa 2.0, Badajoz, ; La eventualidad y la inexorabilidad. El invierno de Gunter, Editorial Sindéresis, Madrid, ; La Destreza y el engano. Ensayo sobre Don Quijote de Miguel de Cervantes Saavedra, Ediciones Clasicas, Madrid, ; L'America Latina. Un compendio, Bologna, Il Mulino, ; Octavio Paz. El desconcierto de la modernidad, Ediciones Clasicas, Madrid, ; La parola, Bologna, Il Mulino, ; Cervantes. La linea del horizonte, Valencia, Albatros, , L'elegia del Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, . La mundializacion, Valencia, Albatros, . Il convivio linguisttico. Riflessioni sul ruolo dell'italiano nel mondo contemporaneo, Roma, Carocci,  Note  Anno di conseguimento del titolo di Professore.  Dal 1974 al 1987 ne ha diretto l'Istituto Storico-politico della Facoltà di Scienze Politiche.  Con decreto dell'11 febbraio  del Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, vi è stato nominato Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche.  Dopo averne curato, dal 2003 al 2005, il XII Congresso Internazionale, designato dall'Accademia delle Scienze di Russia ed eletto dall'Osaka.  Luigi Trenti , Il viaggio delle parole: scritti in onore di Riccardo Campa, Perugia, Guerra Editore, 2008.  978-88-557-0155-6 Antonio Requeni, Nueva vision de la literatura argentina, "Les Andes", 16 settembre 1984, 3° Seccion pag.1. Antonio Requeni, Presencia cultural de Italia en la Argentina, "La Prensa", 18 ottobre 1987, pag.3. Antonio Requeni, Los intelectuales del mundo: hoy, Riccardo Campa: la Argentina, en el laberinto de Borges, "La Nacion", 20 settembre 2006, 1-3. Jesus Francisco Sanchez, Crisis del neocapitalismo podria hacer renacer ideas del socialismo y la izquierda: Ricardo Campa, "El Sol de Durango", 22 ottobre 2008, 6/A Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Riccardo Campa Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Riccardo Campa Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloStorici della filosofia italiani 1934 21 aprile PresicceProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Campa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The Swimming-Pool Library.

 

Campa (Mantova). Filosofo. Grice: “You gotta love Campa – he is right that ‘artificial species’ is an oxymoron – as is ‘transhuman’ – but his philosophising about the heathens, which is how Nero found the Christians, is very relevant!”  Riccardo Campa (Mantova), filosofo. È conosciuto soprattutto per i suoi studi nel campo dell'etica della scienza e del transumanesimo e, precisamente, per la sua difesa dell'idea di evoluzione autodiretta. Svolge ricerche sia nella veste di Professore associato di Sociologia della scienza e della tecnica all'Università Jagellonica di Cracovia, sia nella veste di Presidente dell'Associazione Italiana Transumanisti, della quale è fondatore.  Si laurea a Bologna. Ha conseguito il titolo di Giornalista professionista presso l'Ordine dei giornalisti di Roma nel 1995, il dottorato in Epistemologia all'Università Nicolaus Copernicus di Torun nel 1999 e l'abilitazione in Sociologia all'Università Jagellonica di Cracovia nel 2009. Nell'ambito della sociologia della scienza, è annoverato tra gli allievi di Robert K. Merton, fondatore di questa disciplina. A differenza di alcuni continuatori della scuola costruttivista, Merton ha sempre mostrato un atteggiamento positivo nei confronti delle scienze, e Campa è rimasto fedele a questa impostazione. A tal proposito, il filosofo argentino-canadese Mario Bunge ha rimarcato il fatto che «Campa è uno degli ultimi esemplari rimasti di una specie in estinzione: lo studioso pro-scienza della comunità scientifica».  I suoi studi hanno ricevuto una certa attenzione da parte dei media dopo che Francis Fukuyama, all'epoca consigliere per la bioetica del presidente statunitense George W. Bush, ha definito il transumanesimo «l'idea più pericolosa del mondo». Secondo Fukuyama il transumanesimo è una nuova forma di biopolitica che, pur essendo liberale e non coercitiva, rischia di minare il concetto di uguaglianza tra gli uomini. Simili posizioni critiche hanno assunto, in Italia, Marcello Veneziani, Giuliano Ferrara, Paolo Rossi, e diversi opinionisti del quotidiano cattolico Avvenire, che hanno criticato le idee di Campa e di altri filosofi e scienziati transumanisti (tra i quali, Nick Bostrom, James Hughes, Gregory Stock, e Max More), stimolando un dibattito ad ampio raggio sulle prospettive aperte dalle nuove tecnologie. Campa ha difeso le idee transumaniste in numerose pubblicazioni, interviste e dibattiti pubblici, apparendo talvolta anche in televisione, e sostenendo che le tecnologie emergenti e convergenti GRIN (un acronimo per Genetica, Robotica, Informatica e Nanotecnologia) non rappresentano un rischio inutile, come lasciano intendere i critici, ma un'opportunità di sviluppo in linea con l'atteggiamento prometeico che caratterizza la storia della civiltà occidentale. Le sue valutazioni, sull'opportunità di allungare la vita media e potenziare le facoltà mentali e fisiche dell'uomo, sono soprattutto di ordine etico e sociale. È autore di numerosi articoli e saggi, tra i quali spiccano sette libri monografici. Il filosofo è nudo (Marszalek) Etica della scienza pura (Sestante Edizioni) Mutare o perire. La sfida del transumanesimo (Sestante Edizioni, ) Le armi robotizzate del futuro. Il problema etico (CEMISS, ) Trattato di filosofia futurista (Avanguardia 21 Edizioni, ) La specie artificiale. Saggio di bioetica evolutiva (D Editore, ) La rivincita del paganesimo. Una teoria della modernità (D Editore, ) Creatori e Creature. Anatomia dei movimenti pro e contro gli OGM (D Editore, ) La società degli automi. Studi sulla disoccupazione tecnologica e sul reddito di cittadinanza (D Editore, ) Credere nel futuro: Il lato mistico del transumanesimo (Orbis Idearum Press, ) È inoltre curatore della serie "Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano".  Note  Cerimonia di abilitazione all'Cracovia  C. Cipolla, Manuale di sociologia della salute, Franco Angeli,  R. Campa, Epistemological Dimensions of Robert K. Merton's Sociology, Copernicus University Press, quarta di copertina.  F. Fukuyama, “Transhumanism: The World's Most Dangerous Idea”, Foreign Policy, La versione italiana è apparsa sul Corriere della Sera con il titolo “Biotecnologie: la fine dell'uomo”, .  M. Veneziani, “Attenti l'uomo è fuori moda. La scienza prepara “l'oltreuomo”, Libero,  G. Ferrara, “Mettere in dubbio il dubbio”, Il Foglio,  Rossi, Speranze, Il Mulino, Bologna  A. Galli, “Nietzsche, profeta dell'eugenetica”, Avvenire,  Rassegna stampa degli articoli pro e contro il transumanesimo.  “Nascita del superuomo”, documentario di RAI 3,  Archiviato l'11 aprile  in .; “Futuro in pillole”, puntata de Le Invasioni Barbariche condotta da Daria Bignardi, LA7, 21 gennaio .;“Musica maestro”, servizio biografico di RAI 1, Sito della rivista Divenire  Giorgia Mazzotti, Il Prof che suonava il rock, Gazzetta di Mantova, 8 gennaio 2008. Roberto Guerra, Futurismo per la nuova umanità, Armando Editore, Roma .  Il transumanismo. Cronaca di una rivoluzione annunciata, Lampi di Stampa, Milano 2008.  Riccardo Campa biografia e  nel sito "transumanisti". Riccardo Campa. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campa” – The Swimming-Pool Library.

 

Campailla (Modica). Filosofo. Grice: “You have to love Campailla; when I philosophised on ‘be orderly,’ I was drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato discorso dell’uomo;’ Campailla flouts the maxim: he allows that a man in ecstasi, in mutual contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly, Campailla dedicates more than a section to, then, ‘del disordinato discorso dell’uomo,’ or men, as we’d prefer!”  Grice: “You’ve gotta love Campailla – I would have preferred he chose the Graeco-Roman mythology, but he chose “Adamo,” and he provides, in verse, all I ever philosophised on – human discourse – discorso umano – on top, he considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’ and speaks of ‘self-love’ (amore proprio) and even virility and testicles – a Renaissance man!” Nasce sotto la rupe del Castello dei Conti. Tommaso Campailla, incisione dall'Adamo (Roma-Palermo, 1737) Mostrò le sue migliori doti d'ingegno in età matura, giacché, in gioventù, per la sua gracile costituzione, il padre preferì educarlo in campagna affinché si irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che indirizzarlo agli studi. Nel 1684, si trasferì a Catania per studiarvi giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo lasciava erede di un discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città natale, la sua cara Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi da essa.  Lì, poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente da autodidatta, coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante discipline, l'astronomia, le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta, studiò Aristotele e i classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto dall'onda emotiva suscitata dal terribile sisma che, nel 1693, distrusse Modica e tutto il Val di Noto.  Morì per un colpo apoplettico, il 7 febbraio del 1740. Il suo corpo fu sepolto sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del quale una lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo ricorda.  Campailla, filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare con la filosofia scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini conoscitive, fatte di osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col filosofo trapanese Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle teorie cartesiane in Sicilia.  Poeta raffinato, fu accademico degli Assorditi di Urbino, dei Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia degli Arcadi di Roma; restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua città natale. Nel 1709 diede alle stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli letterari lucreziani) del poema filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il Mondo Creato, successivamente dedicato, nella sua stesura completa (in venti canti) del 1723, a Carlo VI d'Austria, Imperatore e Re di Sicilia. Il poema, che conobbe una discreta fortuna e che è stato recentemente ristampato, rappresenta una summa delle idee teologiche, cosmologiche, fisiche e filosofiche dell'autore, alla luce del cartesianesimo.  All'inizio del Settecento, la fama del Campailla, tra l'altro in corrispondenza epistolare con importanti personalità fra i quali Ludovico Antonio Muratori (bibliotecario del Duca di Modena), si diffuse anche all'estero, toccando Lipsia, Parigi, Londra, tanto che il filosofo George Berkeley volle conoscerlo personalmente e, poiché il Campailla non si muoveva mai dalla sua città natale (come Kant), nel 1718 fu lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo, informandolo fra l'altro delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi usate dal Campailla nelle sue successive opere.  Il Muratori si fece intermediario persino per una cattedra all'Padova da assegnargli, invito che venne pure da Londra, ma il suo ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua Modica (in ciò, ancora simile a Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed onorevoli proposte. Per lo stesso motivo, invitato ad assistere, il 24 dicembre 1713, all'incoronazione a Re di Sicilia, nella Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di Savoia, disdisse gentilmente la visita.  Nel 1738, pubblicò, rimanendo però incompiuto, il poema sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad affrontare i temi della grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale confutazione delle teorie di Miguel Molinos, fondatore del "Quietismo", un'eresia che aspirava all'unificazione con Dio. Infine, nello stesso periodo, iniziò a scrivere il primo volume di un'opera sistematica intitolata Opuscoli filosofici, di cui uscì solo il primo volume (in dialoghi) intitolato Considerazioni sopra la fisica del signor Isacco Newton (1738), contemporaneamente alla stesura di un trattato, in due volumi, di fisica cartesiana, pubblicato postumo, nel 1841, sotto il titolo Filosofia per principi e cavalieri.  La cura della sifilide con le botti del Campailla Pur non essendo medico di professione, Campailla riuscì tuttavia a promuovere, nella Contea di Modica, gli studi di medicina. Infatti, il suo impegno, quasi umanitario, lo portò a sperimentare, dal 1698 in poi, le sue famose "botti" (dette poi botti del Campailla) per la cura non solo della sifilide (considerata, allora, il male del secolo, e ritenuta dalla Chiesa come un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche dei reumatismi e, in genere, di qualunque forma di artrosi.  La "botte", in realtà, è una stufa mercuriale con all'interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un braciere che si trovava pure all'interno della stufa, la relativa dose di cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta dal Campailla consistette nell'aggiunta di incenso all'interno della botte, in una dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di essere più "respirabili" per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del paziente.  Il contributo del Campailla consentì pure di modificare la forma della botte, rispetto alle altre già esistenti in Italia ed in Europa, le quali avevano un foro in alto da cui fuoriusciva la testa del paziente che, in tal modo, non poteva respirare i vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia, questi vapori, così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute, i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo (che solo con l'avvento della penicillina, nel '900, si debellerà), con i germi patogeni che continuavano ad agire e moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti.  Invece, grazie all'innovazione del Campailla, i pazienti, completamente all'interno della botte, potevano ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale, agendo così in modo sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica patogena; spesso, si ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive, che, all'epoca, venivano considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto medico dell'epoca riferisce che  " [...] Dopo la cura mercuriale col metodo Campailla, si può assistere a delle rinascite complete di individui ridotti in condizioni impressionanti di cachessia o con lesioni tali da rendersi impossibile qualsiasi intervento curativo per via percutanea o ipodermica".  I risultati furono talmente soddisfacenti che Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per le botti del Campailla, ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale di S. Maria della Pietà e visitabili all'interno di un percorso museale appositamente dedicato.  Negli anni a venire, le botti del Campailla furono, ma con scarsi risultati, imitate altrove, sia in Italia che all'estero: ad esempio, nel 1891, sorse a Palermo, per volere del prof. Mannino della locale facoltà di Medicina, un Sanatorio Campailla; agli inizi del '900, fu poi costruita, a Roma, una cosiddetta Botte di Modica; a Milano, ancora negli anni '50, furono costruite botti di vetro sul modello di quelle del Campailla; mentre, a Parigi, furono fondati istituti a imitazione del Sifilocomio Campailla palermitano, per la cura delle malattie reumatiche e nevralgiche.  Teatro La rappresentazione Cygnus, atto unico scritto da Nausica Zocco, prende spunto dalla vita e dalle opere di Tommaso Campailla, ed è stato portato in scena l'8 maggio  a Modica, per la regia di Tiziana Spadaro.  Note  L'esatta data di nascita è riscontrabile, come quella di morte, negli appositi registri dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di San Giorgio in Modica.  Taluni, sulla base di nessuna fonte storica attendibile, hanno diffuso l'infondata notizia secondo cui il Campailla stesso sia stato vittima della sifilide, contrariamente al fatto che lo studioso modicano costruì comunque le sue botti, per il trattamento di questa infezione, nel 1698, quando aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni, età veneranda e considerevole, per quei tempi, in cui la vita media di un individuo di sesso maschile era di 55-58 anni, per non tener conto poi del fatto che, nel Settecento (e così, fino all'avvento degli antibiotici nel Novecento), un sifilitico aveva comunque delle bassissime aspettative di vita dopo il manifestarsi della malattia, dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni modo, le botti del Campailla raccolsero, per molti decenni, un gran numero di pareri positivi a favore di un loro benefico influsso contro il morbo.  Tommaso Campailla, "L'Adamo" ovvero "Il mondo creato" poema filosofico , Volume unico, Messina, Michele Chiaramonte e Antonino Provenzano, 1728. //treccani/enciclopedia/tommaso-campailla/  Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Tipografia Lorenzo Dato, Palermo, 1824,  I, Capo III.  Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e Scienze Affini, Anno XXVIII, Fascicolo IV.  Secondio Sinesio, Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. Tommaso Campailla, Patrizio modicano, Siracusa, 1783; ristampa Modica, 2005. Valentino Guccione , Tommaso Campailla ed il suo museo in Modica, Leggio & Diquattro, Ragusa, 1992. Carmelo Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note Domenico D'Orsi, CEDAM, Padova, 1999. Giovanni Criscione, Tommaso Campailla. Un poeta e filosofo modicano, Idealprint, Modica, 2000. Valentino Guccione, Tommaso Campailla, il suo museo, la scuola medica modicana, Comune di Modica, Modica, 2001.  Tommaso Campailla e la Scuola Medica Modicana, Ed. IngegniCulturaModica, Modica, . Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Tommaso Campailla Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso Campailla  Tommaso Campailla, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Tommaso Campailla, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Tommaso Campailla, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Sotto il titolo “Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti due saggi pioneristici del filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni, nel delirio, nell’estasi e nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ o ἐξ + στάσις, ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo: da qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di sé».  Nonostante la diversità delle religioni, culture e popoli in cui l'estasi è stata sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene raggiunta risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi momenti una sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con l'"Anima del mondo".[2]   Indice 1Descrizione ed effetti 2Manifestazioni dell'estasi nell'antichità 2.1Il corteo dionisiaco 2.2L'estasi oracolare 2.2.1Figure oracolari 3L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi in Plotino 5L'estasi cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento 8L'Ottocento e il Romanticismo 9Note 10Bibliografia 11Voci correlate 12Altri progetti 13Collegamenti esterni Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata dalla cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (noto anche come emisfero dominante o della "razionalità discorsiva"), consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o passivo, detto anche "emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema concentrazione simile per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente rimane attonita nel fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro pensiero. Generalmente produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore.[3]  Manifestazioni dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era nota sin dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della divinità.[4]  Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente e uccidevano a mani nude degli animali.[5] Si trattava di elementi legati all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6]  L'estasi oracolare L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni insoliti.[7]  Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro estasi collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che gravitavano presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di connettersi col divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra, non mostrandosi facilmente agli umani che le avessero consultate ed interrogate; oppure poi la Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che dimorava nel famoso santuario apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai fedeli e proferiva gli oracoli dopo appositi riti e sacrifici. La Pizia raggiungeva uno stato di estasi indotto dai vapori inebrianti che uscivano da una spaccatura del suolo, durante il quale proferiva gli oracoli.[8] In Magna Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma, antica città greca situata nei Campi Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia erano spesso oscuri e non facilmente interpretabili, venendo compresi ora in un senso, ora in un altro.[9]  L'estasi nelle filosofie orientali Nelle religioni asiatiche, come l'induismo, il taoismo, e soprattutto il buddismo, l'estasi è il momento sacro in cui avviene l'illuminazione, ed è il pieno sviluppo delle potenzialità e delle qualità naturali presenti nell'individuo.[10] Questo stato è anche chiamato onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal sanscrito anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e corrisponde all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa illimitata e non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il microcosmo della persona si fonde con il macrocosmo dell'universo.[11]  Diventa così possibile una condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di un maestro tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la consapevolezza della propria energia.[12]  L'estasi in Plotino Secondo Plotino (filosofo ellenistico neoplatonico del III secolo d.C.), l'estasi è il culmine delle possibilità umane, che avviene dopo aver compiuto a ritroso il processo di emanazione da Dio: essa è un'autocoscienza, ed è la meta naturale della ragione umana, la quale, desiderando ricongiungersi col Principio da cui emana, riesce a coglierlo non possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il pensiero cioè deve rinunciare ad ogni pretesa di oggettività abbandonando il dinamismo discorsivo della razionalità, ovvero negando se stesso.[13] Tramite un severo percorso di ascesi, che si serve del metodo della teologia negativa e della catarsi dalle passioni, la ragione riesce così a uscire dai propri limiti, superando il dualismo soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno. Quello di Plotino non è tuttavia un semplice panteismo naturalistico, poiché per lui l'estasi è essenzialmente un percorso in salita verso la trascendenza.[14]   Il circolo nella filosofia di Plotino: dalla processione all'anima umana, e dalla contemplazione all'estasi.[15] Essendo l'Uno non descrivibile, perché descriverlo significherebbe sdoppiarlo in un soggetto descrivente e un oggetto descritto (e quindi non sarebbe più Uno, ma due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato psichico non descrivibile a parole, dato che l'estasi è la condizione stessa dell'Uno che si auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione: tramite il suo contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del molteplice. L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi deve pertanto uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto l'atto con cui l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme l'uno e i molti, in un circolo che dalla processione ritorna alla contemplazione.[15] Cusano, teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera simile che l'universo è l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé da parte di Dio.  A differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino l'estasi non è un dono della divinità, ma una possibilità naturale dell'anima. Essa tuttavia si manifesta non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in un momento fuori della portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi solo tre o quattro volte nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a pochissimi, in rari momenti della loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno scopo pratico; essendo contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è nulla di più inutile.[16] È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la rivelazione della sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via indicata da Plotino verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure nella ricerca di espressioni artistiche come la musica.  L'estasi cristiana  Santa Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio a una lunga tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un eros o tensione amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La teologia di Plotino fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata però alla luce dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in un senso più ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una contemplazione fine a se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè non solo verso Dio, ma anche verso il mondo.[17] Tale mutamento di prospettiva venne introdotto affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente al concetto di eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico di àgape.[18] L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una sorta di abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di alleviarne le sofferenze e ricongiungerla al Padre.  Essa avviene tramite un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata volontà individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.[19] A differenza di altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la propria individualità, pur compenetrandosi in Lui.[20]  Per i mistici medioevali, come San Bernardo,[21] o i neoplatonici tedeschi come Meister Eckhart, l'estasi è una visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita in Dio, e l'essere si annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio infatti non può essere oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si tratta di una comunione mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di beatitudine suprema simile a quelle che saranno riferite in seguito anche da Santa Teresa d'Avila,[22] figura di riferimento della Controriforma. Un'altra testimonianza sull'estasi in tal senso è quella medioevale del beato Jacopone da Todi nella lauda O iubelo de core.  L'estasi paradisiaca in Dante Nel Trecento Dante Alighieri, nel Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla visione beatifica di Dio, negli ultimi versi della cantica prova così a descrivere l'estasi, conscio della sua ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a parole in maniera oggettiva:   Dante contempla l'Empireo, incisione colorata dell'originale di Gustave Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi s'indova;  ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.  A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa,  l'amor che move il sole e l'altre stelle.[23]»  (Paradiso, canto XXXIII, vv. 133-145) Il Rinascimento Il desiderio di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna durante il Rinascimento.[24] Al di là del significato religioso l'estasi assunse allora principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia dai filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via privilegiata per ricongiungersi a Dio.[25] Nel Cinquecento Giordano Bruno paragonò l'estasi a un eroico furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la memoria, ma al contrario li acuisse, simile a un impeto razionale.[26]  L'Ottocento e il Romanticismo A una rivalutazione dell'estasi nell'Ottocento contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant, sia l'idealismo di Fichte e Schelling.[27] Kant vedeva nel giudizio estetico un sentimento universale di partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione non è più vincolata da un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle relazioni causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi. Per Fichte l'estasi è intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io, nel diventare autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un non-io; così nel porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al di fuori di sé.[28] Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con cui Dio crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica con la Natura.[29]  Note ^ Paolo Mantegazza, Le estasi umane (1887), Marzocco, Firenze 1939, pag. 5. ^ La Civiltà Cattolica, p. 321, Legislative Reference Bureau, anno 80°, vol. II, Roma 1929. ^ Enciclopedia Treccani alla voce «estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, 1999. ^ Paola Giovetti, Dizionario del mistero, p. 161, Mediterranee, 1995. ^ Atlante illustrato della mitologia del mondo, p. 304, Giunti Editore, 2002. ^ U. Bianchi, A. Motte e AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano 1992. ^ Diana Tedoldi, L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza, p. 66, Anima Srl, 2014. ^ Walter Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, p. 245, Jaca Book, 2003. ^ Rocco Messina, Riflessioni e verità, vol. II, p. 2, Edizioni del Faro, 2015. ^ Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale: Buddhismo, Induismo, Taoismo, Zen, p. 433, Mediterranee, 1991. ^ Jack Kerouac, Il libro del risveglio, p. 33, a cura di T. Pincio, Mondadori, 2010. ^ Julius Evola, Oriente e Occidente, p. 100, Mediterranee, 2001. ^ «La scienza è ragione discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la scienza e non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la scienza. [...] Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino, Enneadi, VI, 9, 4, traduzione di G. Faggin). ^ Giuseppe Faggin, in La presenza divina, pag. 23, D'Anna editrice, Messina-Firenze 1971.  Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, pp. 253-271, Il circolo nella filosofia di Plotino, Milano, Rizzoli, 1996. ^ G. Faggin, op. cit., pag. 25. ^ Giuseppe Mazza, La liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario, p. 556, Gregorian Biblical BookShop, 2005. ^ Sulla differenza terminologica tra agape ed eros, cfr. E. Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1965, coll. 57-146. ^ R. Bonetti, Matrimonio in Cristo è matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova, 1998. ^ Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca Book, 2008. ^ «Come una piccola goccia d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra diluirsi e sparire per assumere il sapore e il colore del vino; [...] così ogni affetto umano, nei santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla volontà divina. Come infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo restasse qualcosa di umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra forma, un'altra potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De diligendo Deo, 10, trad. di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive l'estasi come un momento di "assenza" nel quale afferma di aver percepito tutto il dolore provato da Cristo durante la Passione, ma anche una così grande gioia interiore da coprire il dolore (cfr. Autobiografia, XXIX, 13). ^ Nella descrizione di Dante si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per cui la mente esce di sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo, Paradiso, Zanichelli, 1988, p. 622). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione a Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a., 2003. ^ «Una delle qualità necessarie al sapiente, cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino all'estasi e all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la bellezza, un furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, p. 238, Giunti Editore, 1999). ^ Ubaldo Nicola, Atlante illustrato, ivi. ^ Alessio Dal Pozzolo, La fede tra estetica, etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011. ^ S. Mati Novalis, Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti filosofici, p. 81, Pendragon, 2005. ^ Antonello Franco, Essere e senso: filosofia, religione, ermeneutica, p. 170, Guida Editori, 2005. Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979. Bibliografia Carlo Landini, Psicologia dell'estasi, Franco Angeli, Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze dell'estasi dall'ellenismo al Medioevo, Laterza, Bari 1986 Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, ed. Mediterranee, 1995 Luigi Razzano, L'estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov, Città Nuova, 2006 ISBN 8831133594 G. Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni Cleup, Padova 2007 ISBN 978-88-6129-079-2 Voci correlate Beatitudine Esperienza extracorporea Illuminazione (Buddhismo) Illuminazione (cristianesimo) Indiamento Misticismo Sofianismo Trance (psicologia) Transverberazione Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sull'estasi Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «estasi» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'estasi Collegamenti esterni (EN) Estasi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata V · D · M Stati di coscienza Controllo di autoritàThesaurus BNCF 32810 · LCCN (EN) sh85040886 · BNF (FR) cb11934577d (data) Filosofia Portale Filosofia Psicologia Portale Psicologia Religione Portale Religione Categorie: Concetti e principi filosoficiEmozioni e sentimentiFilosofia della menteMisticaTeologia  SOMMARIO 226 . DEL CANTO DECIMOTTAVO. IL DISCORSO UMANO. A 28. 37. Comie ſi genera. 38. Nima Ragionevole , come di Anima , come sà, che, fuor del ſuo ſcorre nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno , altre Coſe Corporee.27. Obbietti Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli Obbietti,nel Senſo nel Senſo Comune. St. 2 . Comune rappreſentatele. Corpi Striati , e loro ſtruttura, 3. Cometalora s'inganna. 29. Fornice, e ſua teſtura . 4. Delirio nell'Ubriachezza. 31 . Setto Lucido, e ſua fabrica . 5. Vino or fà dormire ,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e ſua anatomia . 6. Come alle volte porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi Striati. 7. Come talora induce vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti Ubriaco, perche Delira. 35. Motivi , e i Senſitivi. 8. Mania , eſuo Delirio. Anima,in quanto ſente,riſiede ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare. 40. Fantaſia ſi eſercita nel Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo , e lor Memoria riſiede nel CorpoCallofo.1.1 . Delirio. 43 . Imaginativa, come ſérve al Di Come prendon proprietà Canine. 44. ſcorrere. 12. E credono , eller Cani. 45. Facoltà Motiva ,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee Senſibili,coine ſi formano,e 's' Delirio Febrile , ò Frene fiu . 48. imprimono nel Cerebro. 14. Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi dà Febre ſenza Delirio , e Paragone fra queſta, e quelli. 16 . Delirio ſenza Febre. Spiriti Animali , comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee. 17 . li , e il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in Anatomia del Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono dalCerebello. 53 . Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come laſciano la loro inpronta rebello . 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni fra il Cerebro , e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55. Guajti gli organi del Diſcorrere , Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello , e quelle 50. 52. del 227 84. del Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera . 79. Agitazione Febrile, cagionata al Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81 . Cerebello, partecipanıloj al Ce Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti. 85. Non comunicandoſi , no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de ' Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa . 64. Per gli efluvj degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90 . Sogni, come ſi formano. 69. | Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura Sanità gli Organi , guariſcono, degli Appetiti , e delle Paffioni dal Delirio. 91 . attuali , 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo . 77. gici, e ſuoi rimedja IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1% XKAYARANJE D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il dotto Serafin , poi de l’ Inſano Le falſe Idee , l Opere prave eſpone : Qual ne i Senni , anche Savj , il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge , e compone ; Qual la Ragion prevarica , e travia L ' Ipocondriaca , à l' Uom , Malinconia . STATE 24789273173727WTAYARAN485 27382838485 484 1 sãto, 2 . CANTO DECIMOTTAVO . 4. Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile , c mortale La propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto , Il Fornice , che il Cerebro ſoftenta , Lo ſtato lagrimevole , e fatale , Ed in Corpo Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar , per conſolarmialquanto, Sul Midollo allungato ei , dietro, afſenta De l'Anima si nobile , c Immortale ; Due pic poſterior , di Volta in foggia : Coin'ella , in queſta fua Corporca mole, Del Palagio cosi de l'Alma intero Intende , idea , membra , diſcorre , e vuole. L'uno , e l'altro loftien doppio Emisfero . 5 E il Serafin : Dopo che invia l'Obbietto Mà del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento eſterno , Qual Zona , un Setto lucido li appende ; Per il canal de Nervi , ei và diretto Che , in mezo , da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun Senfo interno . A la poſterior , curvo , diſcende . Queſto è il luogo del Cerebro , ch'eletto A i lati fuoi , con ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili al governo. Di quà , di là ſerie di ſtrie , ſi ſtende , Qual van le linee al centro , in lui convienli, Che tutte in lui riguardano egualmente , Ch’entrin tutte le Idee de gli altri Senſi . Il qual, di Vetro in guiſa , è traſparente . 3 . 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci accoppi L'ampio Corpo Calloſo è ſovrapoſto In Midollo allungato , e poi Spinale, Al Fornice, e sù quel li ammaſſa , e annette , Da quai ſpuntano pofcia , ad ordin doppi E con ordin mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale , D'inteſti filamenti à retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi , Di cui l'immenſo numero diſpoſto Conici , e curvi , in forma lunga ovale In fuperficie vien piane perfette, Che , perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati , Molli così , che ammettono , à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti , ogni minima impreffione. Entso CANTO DECIMOTTAVO , 229 8. 7 . 13 . Entro de i Midollar Corpi Striati , E de gli eſterni Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun Senſo ottiene , Hà la Malizia , d la Bontà compreſa , C'hà de le proprie Glandole irrigati I principj de i Nervi apre, e vi piove Le cavità , di Spiriti ripiene, Copia di Spirti, ove ella vuole, inteſa : Atti ad eſſere impreſli , e conformati I Muſcoli ritira, e i membri move In ogni Idea ,che a lor da i Senſi viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à la difeſa; Azili , e fnelli , à figlirarſi eſpoſti E quando poi di quei reſta ſicura D'infiniti , in cui fian , modi , diſpoſti. Più Spiriti non manda , e i Nervi ottura 14. I Nervi in lor degli Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge Adam )traslata, Tutti invian de gli Spiriti i refulli : Come i'ldea nel Comun Senſo ha forma: E quei , da lor , de gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata , Spontanei tutti han degli Spirti i fluſſi : Entro il Corpo Calloſo imprime l'orma : Cid, che vien dentro ammeſio , ch'eſce fuori E come poi , che in quel reſta improntata, Di Senſitivi , o di Motivi in Auſli , Entro la Fantafia la Copia forma, Del Cerebro , ove l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea , che pria l'affiſſe: Per queſta regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede : E così Quei gli diffe 9. 15. In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente , Benchè vario fra loro il naſcimento Corpi Striati aſſiſte , e ognor riſiede : Han la Luce , e gli Spiriti Aninali : Quilegata, à gli Spirti intimamente , Che quella dal ſottil Primo Elemento, La sè, incorporea , à i Corpi aggir concede : Queſti portan dal Terzo i lor natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente : Ne la velocità , nel movimento , Qui tocca , guſta, odora, afcolta, e vede : Nel Terbar riflettendo angoli eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à l'angolo, ſembianti Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote . Fra lor ſon inolto , c in eſſere rifranti. 16 . La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli ſpazi de GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli , cui Ruota in centro la Luce, à vorticetti : Come pervio , e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui , Sottilmente formatl in Globoletti : Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto , Son de la Luce i Corpi agili, e preſti, Che dal Senſo Comun paſſano in lui : Atti à modificarli in vari aſpetti ; Le mira in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde ſon mai rifelli , L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla . Tornano poi modificati anch'eſſi. 17 . La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de i Corpi, onde riflette Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa , Ovunque dirizzarſi abbia permeſſo, E ne le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le colorate Immagginette Imprime , e il ſuo Carattere vi laffa . Modificate al par porta in sè ſteſſo : S'impronta in lor , come Sugello in cera , Ne gli ſpirti de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì facile fi caffa . Quelle dipinge , entro de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre fibre impreffe poi Laſciando in quegli Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i teſor fuoi. Che ne la fuperficie ebb’ei di quelli . 12 . 18 . Se diſcorrer talor la Mente hà brame Tal gli Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee , che il Comun Senſo invia Da gli obbietti, onde füro indietro ſpinti ; Uop'è , che le trafcorſe Idee richiame Nel Comun Senſo portano traslati , Dala Mémoria à la fua Fantaſia . Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva , odia, ò defia , Ne la Memoria alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello ſteſſo colorato aſpetto , Utili , a infaufte à sè le conſeguenze . Che in ſuperficie å vea l'efferno Obbietto . L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro . II . 230 IL DISCORSO UMANO : 20. 19 . L'idea, che ne le fibre interiori In queſta forma, Adam , l'Umana Mente ; Del Caitofo Midol poi fi figura , Mêtre informa il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di quello è dipendente: Non è, ch'una verilima pittura , Con queſti ſente , immagina , e rimembra : Per via dipinca in lor , non di colori, Mà in sè diſcorre , e vuol liberardente, Mà per mutazion de la teſtura, E ciò clegge , che buon , che bel le ſembra : Chenegli Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur , de gli Enti Corporei , uop'e , che penſi, Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee material di Senſi. 26 . Non ſono i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd , che del Corpo i Morbi fono Che ſuperficie , tal.configurata , Per l'intima union, Morbi de l'Alma , Sù cui rifranti i raggi , e infiem rifleſſi, Perdendo il Corpo il natural ſuo tuono , Han si la rifleſſion modificata , Se inferma è mai la fua Corporea Calma , Che imprimono ne l'Occhio i color Ateli . La Mente , che nel Cerebro ha il ſuo trono Con cui la ſuperficie è colorata : Tra gli Spirti animai non reſta in calma ; Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di lor difregolato il corſo , Sol culorir per Refrazzione , il Lume. La perturbata Idea turba il Diſcorſo. 21 . 27., Si diffé il Serafino , e tenue Stile Che ſien fuori de l'Anima in Natura Che di piun colore affatto intinſe , Corpi reali , e fisici , eſiſtenti, Sù quella , che il veſtia , tela ſottile La Mente entro il ſuo carcere procura Scolpi la fuperficie , e la dipinfe , Da i canvelli ſcoprir de'Sentimenti, E à colorata Immagine fimile , Sol per mezo de'Senſi ella è ſicura , Immago in lei, fenza color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo preſenti. Che in quel fcolpito Lin con par tenora Nel Comun Senfo , à l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea , qual fa il Colore. De le coſe attual så l'Efiſtenza . 28. Cosi ( poi fegue à dir ) la ſola azzione. Sc al Comun Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr odifica to, Idea , che altronde ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo impreſione, L'Obbietto, far non può, che allor non ſenta , Con renderlo, in riflettervi', improntato. E ſentirlo non può , che non lo creda. Tanto , ver'fua natia coſtituzione , Così à l'Occhio ſe alcun ti ſi preſenta , E' quel Midollo tenero formato Tu già mai far potrai , che non lo veda : A''Idea Spiritofa in lei rifleffa Così se ne lo Specchio Immigo eſpreſſa , Ccde la superficie , e reſta impreſa. Noncrederla non puoi da Obbietto impreſa. ?? 29. De l'Occhio in modo tal sù la Retina, Or qualvolta à la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla Soſtanza è Midollare , Entro il Senſo Comun per altra via , Se talun filo 1 riguardar ſi oſtina Che per la regia , ed ordinata porta , Illuminofo in Ciel Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea s'invia , Per molto tempo,ancor, che il guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda la porta Del Sol P'linmago lucida gli appare; Da la Memoria , • da la Fantasia, Elabbagliato acume ovunque gira , Per la ſtrada de'Senfi allor la crede Quell'infocato lampo ognor rimira . Da Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede. 24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia E Fede tal , che giudica , e diſcorre , La Mente poi di un traſandato Obbietto , Qual ſe agiffe , nel senſo eſterno Obbietto ; Al Calloſo Midot , placido , invia E a miſura ingannata amalo, dabborre , Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova in sè ſvegliar gioja , è diſpetto ; Che in quell'Idea incontrandoſi per via, Agita i membri , e à un operar traſcorre Torna modificato in Idoletto : Corriſpondente à l'eccitato affetto : Dal Tipo Midollar la forina prende , Depravato cosi delira infano E de l'antica Idea ( imil ſi rende. Per morboſa cagion Diſcorſo Umano . A tur CANTO CECIMOTTAVO 238 37 . 32. 312 A turbar giunge un Senno , anche prudente, Per fimile cagion , ſe non la ſteſſa , De l'afforbito Vin le copia enorme : Mania provien , d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente , Perchè la delirante Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è una Mania ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente , E la Mania , nel Senno Umano impreffa , Che n'è ſopito ogni fuo Senſo , e dorme . Di lungo tempo è un'Ebrietà perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi , Furiola Mania , cui fon ſoggetti Ch'or furiofi rende , or fonnolenti. Gli acuti più talor favj Intelletti. 38. Il come ad indagar , contrari , vate, Il Sangue de Maniàci è con ecceffo Effetti à partorir ne gli Ebri il Vino , Tal di Sulfurei ſpiriti impregnato Rifletci , che nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in eſſo Del Sangue è un doppio fpirito falino : Il Nitro aereo ſpirto infinuato, L'un ,che diſciolto entro il fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole congreſſo Urinoſo volatile Alcalino : Indomitaura , ed alito sfrenato , L'altro dentro del Sangue infinuato , Ch'eſalta in movimenti univerfali Con l'Aria , e i Cibi, è un fpirito Nitrato , Pria gli Spirti vitai , poi gli animali, 334 39 . In quei,che la purpurea,in copie,han piena, Che concorrendo ai Cerebro , accreſciuta Mafia Sanguigna , di Alcali urinofo , Di moto, e quantità, rapiſcon tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena , Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che genera un coagolo vifcolo . Trovan nel Setto lucido, e ridutti, La Linfa ingroffa , e i vitai Spirti affrena, O fien da la Memoria, ivi venuti, E concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia coftrutti , Tal Miſto , fi condenfa in gelatina , E invianli al Comun Senſo, e de la Mente Lo ſpirito di Vino à quel di Urina , Ingannano colà l'occhio preſente. 34. 40. Mà in quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam : D'un operar al ſcempio Il Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore , De PUman miſerabile Intelletto Mifta appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo , ed empio, Che à gli Spirti vitai creſce il fervore , Di prudente, che ſia , ſano Soggetto, Spirando un'aura Elaſtica potente , Deh dona à me , mio Precettor, l'eſempio Che gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto , Tai lpiran , mitti , un'alito focolo Cosi lo prega , e il Serafin verace Del Viu la Ipirto. , e l'Acido Nitroſo , Il di lui bel deſio cosi compiace. 35. 414 Quindi de gii Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore Lo Spirito con impeto s'invia : Nel ſuo Corpo talor riſveglia , e crea , Seco il caratter trae , che ne ſuggelli, Che il capo punge , o il petto , e di un dolore Trova de la Memoria , e il porta via , Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea , L'aſporta feco al Comun Senſo , e quelli , Quando di un ſuo Nemico oftil furore Che trova, anco tener la Fantafia , Ferillo , e tutto il fatto allor s'idea : Ne i Corpi introducendoli Striati , Poi da la Fantaſia per falla porta Per retrograda frada ivi traşlati . Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42. Quella Idea crede allor l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata, Introdotta per via di eſterni Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico , Da Obbietto , che fia à l'Organo preſente , Stima ver ciò, che vede, e che aſsaltata Che quei moti Sengbili difpenfi . Sia, già preſente à lui . , dal ſuo Nemico . Onde ingannata , avvien , che follemente Si accinge a la difeſa , ed opra irata De la ſtesſa maniera operi , e penſi , Cotr'Uoin , che gli ſi incotra ,ancor che amico , Comc fe quell'Obbietto aveffe avante , Che, preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il ſembiante, Nemico il crede, e contro lyi s'irrita. Mà 36. 233 IL. DISCORSO LIMANO. 43 51 . 49. Mà mirabil vieppiù , più portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti Loſtravoito penſiero è del Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di chi dal dente mai del Can rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in un di fue meinbra il fero morſo , L'Idee de la Memoria , à varie torme; Che infetto già dal ſuo velen bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor , che lungo tempo è ſcorſo , Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme : Fra mille altri ſintomi alfin riinane , Alfio nel Comua Senſo entran ſovente , Col creder sè già trasformato in Cane. Adingannare , à ſpaventar la Mente. 44. 50 . Nè ſolo al par del Canc addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che fpici E ſimile anche al Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le latebre : Ma con fame Canina , e voglie ingorde Delicando gli Spirti , uop'è, che giri Prono diyora į cibi, e l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e crebre : E con oprar col ſuo penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri ? Le qualità Caninç affettar gode ; Come delirj fon mai fenza Febre ? Lungi chi vien sà preſentir , dotato Adamo al Serafin cosi propoſe : Di acuto, e ſottiliffimo Odorato . E si ad Adamo il Serafin riſpoſę. 45. Premetto , per ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar Fenoineno si bello , Concetto Uom poſſa aver cotanto ſtrano , Che interamente jo ſviluprar prometto , Che allor, che vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi , che detti hò del Cervello , Il corpo fral con l'Animo ſovrano , Deggio gli uſi anche dir del Cervelletto : Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj Animali eletto è quello , L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli Naturali è queſto eletto : La qual conſiſte in ’ n Caratter tale , Må pria di eſaminar la ſua Natura. Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica Struttura . 46 . 52, Del rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro, ripoſto Hà corrottiya attività la Forma , Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che gli Spiro animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à poco in sè inuta , e trusforına , E da le due Meningi andò ammantato : In rio Venen l'Aura animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di Canin Carattere s'inforina : E il cortice di Glandole am maffato , Cool ne le Materie , oy'i gli ha loco , In cui con Meccaniſmi , al grande eguali , Muta , e trasforma il tutto in foco il Foco . Si prepurun gliSpiriti aniinali . 47. S3 Sentendo aggir quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti Impreſſion di Spiriti Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di cui f.colta immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà depravuti affatto i retti fini , Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor da quei Fantalmi, elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti , Da ſe Brutali affetti, atti Ferini , Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam , nel tuo fullir quanto hai perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti , Sei ſoggetto ad un Mal,che di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal già detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi può, come fi dia Punto non tien , nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de l'Uomo incoerente Non sà , chiuſa entro il Cerebro, nè fente , Nel Delirio Febril , ch'è Freneſia : Come il Chil ſi amminiſtri , e il Sangue ruoti. Che allor, che bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente , S fulfurea falina hà diſcraſia , Fermar non puote, è regolarne i moti . Gi Spiriti nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c mobiltà fon gencrati . Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda CANTO DECIMOTTAVO . 233 55 . 61.. Manda al Cervello il Cervelletto pria E per la via retrograda, ch'è dietro , Doppia Protuberanza orbicolare , Paffa nel Setto lucido il torrente : Più baſſo due proceſſi indi gl'invia Quelle Idee , che vi trova ei ſpinge addietro Per la Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi Striati obliquamente ; Due altri alfine imprendono la via E al corſo natural turbando il metro, Da ſuoi due Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta ivi à Ja Mente E di Spiriti alterni han participi. Che venute credendole da i Senli , De’Nervi il pajo ottavov'hà principja. Vopè , che follemente operi, e penſi. 56. 62 . Per l'uno , e l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro è riſtretto Son gli Spirci animai partecipati De'Spirti il moto , e de'fantafmi erranti , Da gli Striati Corpi al Cervelletto , E à trapaſſar non và nel Cervelletto, E daqueſto anco à i Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà deliranti : Per le altre quattro vie con corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti è il ſoggetto , Vengono , e ven gli Spiriti mandati, Che fà le Arterie , e il Cor febricitanti ; Pe'l calce midollare , ove inſeriſce E quello Spirto , onde il ſuo moto prende Le ſue due braccia il Fornice , e li uniſcea L'Arteria , e il Cor , dal Cerebel diſcende a 57. 63 . Sol queſte ſon le occulte vie , per cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò , che ſuccede in lor di ben , di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero , Mandanſi internamente infra lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il vital Miniſtero , e l'animale , Ad un ſtuol dona fe si menzogniero , La Potenza animal gli affetti ſui I qual , non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la Facoltà vitale , Mà par , ch'è falſo , e credefi per vero : Secondo , in Pro comune, à lor conviene, In modo tal , che un Senno , anche prudente , Opporſi al Mele , o farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente . 58. 64; E quinci avvien , che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel Cerebro , o di Gioja , d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia , Moffo è il Polmone , e il Cor placidamente ( Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira il Petto , e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi , e che ſia : Quete , è ſvolte le Viſcere , hà la Mente Mà pienamente , Adam , rammemorarti L'idea de la Salute , ò del Malore : La teſtura del Cerebro dei pria : Intelligenza , e auſiliario impegno Che la foſtanza ſua , teſfuta á velli Paſſa così tra le Provincie , e'l Regno . Di cavi coſta , e sferici Cannelli . 59. 65. Or mentre la febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue , e ne le.Viſcere ſi avanza , Triangolar fon gl'interſtizj inteſti : Gli efAlvj.al Cervelletto , e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per via de Nervi hà ben poſſariza : E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti , Quefto annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti : Entro i Corpi Striati , onde la Mente Che ſtan fra lor , quei di elater dotati , Di quel calor febril l'affanno ſente . Queſto di fode fibre , equilibrati. 60. 66. Mà ſe gli effuvi, ei moti ſuoi ſon tali , Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti Che al Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi , Nel Cerebro i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular Protuberanza infonde : Da ariditi , ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri , ed atti Del calce Midollare alfin trasfonde , Le fibre à ſtimolar , gli Spirti irriti , Del Fornice gli Spirti à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro , e produce E in quel gli eſtranj effuvj infinua, e caccia. Spirti continui , e la Vigilia induce. L'Adamo del Campailla. Nina Por 237 IL DISCORSO UMANO . 1 ( I 1 ( c & } ( ( 1 ( 67. 73 . Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del Dormire al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior di Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che oſtrutto allora il Cerebro , e riſtretco, i ; Tien, con più copia , e i cannellin compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già reli vuoti , e non più tenſi Maggior moto pertanto , e più perfetto Chiudonfi, molli, e calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde , Continuar nel Cerebro non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti l'influſſo : e faffi il Sonno . Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68 . 74. Il Sonno è un feriar di Senſi , e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à miſura Mà Senli eſterni , e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno ? Gli Spirti del Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea , dormendo , e mi figura Chiuſe le vie de Senſitivi Affari : Quell'Obbietto ,che temo,ò quel,che agogno ? Solo i ſuoi membri proſſimi, e i remoti Qualor per breve , in queſta notte oſcura Tutti mantiene in eſercizi varj , Michiuſe al Sonno i rai natio biſogno , ( Perchè infuſſo di Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino armato, Non hà ) la Region del Cervelletto . Che mi avventava in fen brando infocato , 69 . 75. Or così ſtando il Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe : Il già commeſſo errore In una , in tutto oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti affigge , e ti tormentas Si occultan le fue Immagini inquiete , Ti ſtringe il Cor , l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i Senti eſterni eſcluſa , L'imprellione al Cercbel preſenta, In folche folitudini fecrete Che pe'i Procelli orbicolar và fuore , La Mente è tutta in sè raccolta, e chiuſa ; E al tuo Senſo comun i rappreſenta : E del Cervello il diſcoriivo Mondo Poi ne la Fantaſia forma i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e profondo. Del Cherubin , qual ſe ti apriſſe il petto , 76. Ed ecco , che per cieca obliqua via , Altro ruſcel di Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti ſquadre Dal Cervelletto al Cerebro diſcorre ; Nel Coinun Senio , o ne la Fantaila E per la via de l'anular Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole , ed'adre , Lc radici del Fornice traſcorre . Or veſtite di ainabije bugia , De Cherubin l'idea , che trova in eſſo , Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre ; Seco rapiíce , e ullin valia : deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo : l’Alma, che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il duolo al Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede, Anch'io diſs’Eva) in quel notturo orrore , Niirando chiare aprir comiche Scene, Mentre più gli occhi mici pianger nő ponno , E da Mimi larvati aſculta , e vede Viep; iù per lo ſpavento, e pul timore , Tragiche finzion , menzogne amene : Che per quieto oblio , mentre che a !Tonno , Quali del Ver fcordato , ii Falſo crede Strangolate le fauci , oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene , Sento da un Moftro , infra vigilia, e ſonno : Chefveglia ii Finto in lui , verace intanto Volea gridar , volea fuggir , volea Odio, ) Amer,Picea, d Sdegno,c Rilo,o Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea . 28. Chile fopite Immagini alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo ( à dir riprende Svegli , i luoi Spisti in renderne eccitati , A lui rivolto , ii Filico Divino ) Facile è di aſſignar, dal Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi, • Spiriti ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier, che ſon , tra queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i Proceſi ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino ; De le Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi Proceſli , ed anulari , Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto . Cò, che 1 ( I ( 1 C 70. 71 . 79 72 . CANTO DECIMOTTAVO . 79. 85. Cio , che il Sonno al Cervel coſtituiſce , Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à produr nel Cerebello Son , ipaventoſi , e ſubiti tercori Qual, groſſo il nerveoLiquido, impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il corſo in quello , Ipocondriaci, e Iſterici Malori : Tal di queſto il medemo anche oltruiſce In queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello , Si guaſtano le Viſcere, e gli Umori : Qualvolta amplia foverchio, in modi vari , Onde mandati al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari . Spirti ne fono, à gli uſi lor malatti. 80 . 86 . Come, al Cervel gli Spiriti impediti , Mal fan l’uſo adempir più principale , Fermanſi gli uſi à gli Organi animali, Ch'è : coʻlor moti armonici, adequata Così , gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener de l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali , Quella , che al ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni , e lor vafi arteriali. Vive ad un Corpo organico ligata : Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor Tolita Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior Malinconia , 81 . 87 . Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica potenza, Al Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han vigore, La Mente un Moſtro in fantaſia s'idea , E di contrari Agenti à la prelenza Qual ſe l'affoghi, e le comprima il petto : Producon , contraendoſi, il Tiinore. Poi tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli , oltre del dover, ne l'aderenza Con un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina maggiore : La Idea ne vede, e la impreſſion ne ſente ; Onde di quel,ch'è in sè , ſempre più immenfo Or che ſtupor, fe'l crede ver la Mente ? Rapprefentan l'Obbietto al Comun Senfo . 82. 88 . Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però clie indebite miſture Spirto le klee ne'Corpi ſuoi Striati ? Di eſtrani effluvj in lor glaſtan le forme Del Cerebel non già , che non fluiſce Appajono d'infolite figure Spirito in lui, chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di feinbianza informe : Si parla Adaino : E Raffacl fupplilce Tenebroſe le lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti privati, Non terbano à gli Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar Protuberaliza , Quindi de i Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor inancanza . Piena la Fantalia d'incongrue Idee. 83 . 89 . De le vitali ſu Vilcere à l'uſo Inino il M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte ; Solo in penſier fantaſtici ſi aggira : Il Cercbro non già , che benchè chiuſo, Pregna hila Fantatia , colmo l'ingegno , Ne reſts pieno, e altrui non ne fi partc. D'incoerenti Idee ; ma non deli. a : Reſtande elauſto quel, da queſto infuſo Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno , Hà lo Spirto animal per quella parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo , ove diſcende, Pur ben fi avvede, e noto há ben , che ſia A gli Striati , ivi le Idee diſtende. Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è una Pazizia, Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato , Ma la Pazzia poi Sogro è permanente , Per i Nervi , Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui Malinconia Morbofo effuvio , al Cervelletto alzato , Riduce PUomo à delirar fovente . Per il di dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la Follia , Ogni incongruo Fantafina, ivi formato, Ch'è cir :Je !, furioia, audace, ardente , Che ne la Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e imbelle, e'l penſier volto Nel Senforio Comun con feco tira : Hà follecito al Plen, itupido al Molto . L'Alma allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO UMANO , Del nobile cosi Diſcorſo Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E de'ſuoi varj organici difetti Che al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità gli alti ſplendori Con ſottili penfieri, e chiari detti . Oſcurano à la Mente i Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj, ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori , Reſo , à cagion de gli Organi imperfetti, Con norme, i falli in lei , regolatrici; Poffi à i retti tornar ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo glieſpone , Con medicarne i gu'aſti ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua Ragionc. Tommaso Campailla. Keywords: oposcolo, ecstasi, discorso disordinato, discorso ordinato, discorso umano, uomo, vita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campailla” – The Swimming-Pool Library.

 

Campanella (Stilo). Filosofo. Grice: “One has to take Campanella seriously; admittedly, an Oxonian will focus on More, but Campanella is closer to Plato! I especially like that the walls of the city of “Sol” – it’s a proper name for the prince, not the sun! – have all the semiotic elements of the semiotic systems by which the ‘solari’ communicate – Campanella designs a very Griceian model based on ‘efficiency’ and LOVE! There’s ibenevolence everywhere – indeed, it is Campanella’s Sol’s City that I was thinking when inventing the principle of conversational benevolence to be spoken in the City of Eternal Truth!” -- one of the most important of the Italian philosophers.  H. P. Grice enjoyed his philosophical poems. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico Campanella, noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla (Stilo, 5 settembre 1568Parigi, 21 maggio 1639), filosofo, teologo, poeta e frate domenicano italiano. Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo, un piccolo borgo della Calabria Ulteriore, al tempo parte del Regno di Napoli (attualmente in provincia di Reggio Calabria), il 5 settembre del 1568, come egli stesso più volte afferma nei suoi scritti e come dichiarò il 23 novembre del 1599 nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra chiamata Stilo in Calabria Ultra, mio padre si domanda Geronimo Campanella e mia madre Caterina Basile». Fino al 1806 si conservava anche l'atto di battesimo nella parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «A dì 12 settembre 1568, battezzato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo e Catarinella Martello, nato il giorno 5, da me D. Terentio Romano, parroco di S. Biaggio [sic] nel Borgo». Il padre era un ciabattino povero e analfabeta che non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e Giovan Domenico ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese, segno precoce di quella voglia di conoscenza che non l'abbandonò per tutta la vita.  Nel 1581 la famiglia si trasferì nella vicina Stignano e nella primavera del 1582 il padre pensò di mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma il giovane Campanella, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa, decise di entrare nell'Ordine domenicano. Novizio nel convento della vicina Placanica, vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso (in onore di san Tommaso d'Aquino), continuando gli studi superiori a Nicastro dal 1585 al 1587 e poi, a vent'anni, a Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia.  L'istruzione ricevuta dai domenicani non lo soddisfaceva e non gli era sufficiente: «essendo inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto falsità in luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i commentatori d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a dubitare ancor più dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi dicevano fossero nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei sapienti essere il vero codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano rispondere alle miei obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da me tutti i libri di Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, dei seguaci di Democrito e principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo codice del mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le copie contenessero di vero o di falso».  Fu in particolare il De rerum natura iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere indagata con i mezzi concreti posseduti dall'uomo, con i sensi e con la ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni era tornato a vivere nella nativa Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di ringraziamento devoto. Quelle che dai suoi superiori furono considerate intemperanze gli costarono il trasferimento nel piccolo convento di Altomonte, dove tuttavia il Campanella non rimase inattivo: la segnalazione di alcuni amici, che gli mostrarono il libro di un certo Jacopo Antonio Marta, napoletano, scritto contro l'amato Telesio, lo spinse a replicare e nell'agosto del 1589 concluse quella che è la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata, pubblicata a Napoli due anni dopo.  In essa Campanella ribadì la sua adesione al naturalismo di Telesio, inquadrato però in una cornice neoplatonica, di derivazione ficiniana, per la quale le leggi della natura non mantengono più la loro autonomia, come in Telesio, ma sono spiegate dall'azione creatrice di Dio, dal quale deriva anche l'ordine provvidenziale che governa l'universo: «chi regola la natura è quel glorioso Iddio, sapientissimo artefice, che ha provveduto in modo da non reprimere le forze della natura, nella quale tuttavia agisce con misura».  Campanella non poteva rimanere a lungo ad Altomonte: alla fine del 1589 abbandonò il convento calabrese e se ne andò a Napoli, ospite dei marchesi del Tufo. Nella capitale del viceregno, pur non abbandonando l'abito di frate, fu tutto inteso ad approfondire i suoi interessi neoplatonici e scientifici, che allora erano connessi strettamente con gli studi alchemici e magici: «scrissi due opere, l'una del senso, l'altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato con Giovanni Battista Della Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della simpatia e dell'antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della verità». Il De sensu rerum et magia, iniziato a scrivere in latino nel 1590, fu completato e dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici nel 1592; sequestratogli il manoscritto a Bologna dal Sant'Uffizio, fu riscritto in italiano nel 1604, tradotto in latino nel 1609 e pubblicato finalmente nel 1620 a Francoforte. Campanella vi persegue una sintesi di naturalismo telesiano e di platonismo: a Democrito e ai materialisti rimprovera di voler far derivare l'ordine del mondo all'azione degli atomi, che non hanno sensibilità, e agli aristotelici la mancata iniziativa di Dio nella costituzione della natura. D'altra parte egli non intende nemmeno sacrificare l'autonomia delle forze che agiscono nella natura, pur se la spiegazione ultima delle cose va ricercata nella primitiva azione divina.  Secondo Campanella, i tre principi, materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto della creazione divina: «Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza, Sapienza e Amore [...] e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea [...] Nella materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo, perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi, da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra, che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il Fato e l'Armonia, che portano l'Idea».  Le tre primalità (primalitates)che corrispondono alle tre nature divinecostituiscono il triplice carattere di ogni essere: Dio «ha dato a tutte le cose potenza di vivere, sapienza e amore quanto basti alla loro conservazione [...] Dunque il calore può, sente e ama essere, e così ogni cosa, e desidera eternarsi come Dio e attraverso Dio nessuna cosa muore ma si muta soltanto, anche se ogni cosa pare morta all'altra e in verità è morta, così come il fuoco pare cattivo al freddo ed è veramente cattivo per lui, ma per Dio ogni cosa è viva e buona». Se si considera ogni cosa nel tutto ci si rende conto che nulla muore veramente: «muore il pane e si fa chilo, questo muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa, spirito, seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri».  Dalla Potenza le cose sono solo perché possono essere e hanno una determinata natura; Dio attraverso questa potenza dona la Necessità alle cose, la Sapienza permette alle cose di conoscere il Fato, ossia il saper vedere la successione di causa-effetto nei processi naturali e infine l'Amore permette l'Armonia fra gli esseri, perché questi amano essere così e non diversamente: «tutti gli enti si compongono di Potenza, Sapienza e Amore e ognuno è perché può essere, sa essere e ama essere, combatte contro il non essere e, quando gli manca il potere o il sapere o l'amore dell'essere, muore e si trasmuta in chi ne ha di più».  Tutte le cose hanno sensibilità: «Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose perché non hanno occhi, né bocca, né orecchie, quanto è negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha denti, e il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre da cui affacciarsi e all'aquila perché non ha occhiali. La medesima sciocchezza indusse altri a credere che Dio abbia certo corpo e occhi e mani».  Inoltre Campanella ci parla anche delle primalità del non-essere, presenti inevitabilmente nel mondo finito, che sono l’Impotenza, l’Insipienza e l’Odio: solo in Dio, che è infinito, le primalità dell'essere non sono contrastate dalle primalità del non-essere. A queste tre primalità si contrappongono le potenze negative, che possono variamente combinarsi alle primalità nell'ambito delle varie forme della magia, che è l'insieme delle regole che vanno osservate per intervenire nella natura. Il mago è il sapiente che scopre le relazioni esistenti tra le cose: «beato chi legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non dal proprio capriccio, e impara così l'arte e il governo divino, facendosi di conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio».  La magia si manifesta attraverso le sensazioni, che possono essere negative o positive: sensazioni che l'uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può opporsi a tale ordine, e se si oppone all'ordine universale la magia è negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l'ordine universale, allora la magia è positiva.  La pubblicazione della Philosophia sensibus demonstrata provocò scandalo nel convento di San Domenico: un domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione eretica è contenuta nel libro, in un giorno imprecisato del 1591 Campanella fu arrestato dalle guardie del nunzio apostolico con l'accusa di pratiche demoniache. Non si conoscono gli atti del processo ma è conservato il testo della sentenza, emessa in San Domenico il 28 agosto 1592, contro «frater Thomas Campanella de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di Napoli, fra Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L'accusa di praticare con il demonio e di aver pronunciato una frase irriverente contro l'uso delle scomuniche vengono a cadere, ma resta quella di essere un telesiano, di non tener conto dell'ortodossia filosofica di Tommaso d'Aquino e di essere stato per mesi «in domibus saecolarium extra religionem»: dopo quasi un anno di carcere già scontato, è allora sufficiente che reciti dei salmi e torni, entro otto giorni, nel suo convento di Altomonte.  Campanella si guardò bene dall'ubbidire all'ordine del tribunale, che lo avrebbe costretto a rinunciare, a soli 24 anni, a un mondo di cultura nel quale egli era convinto di poter offrire un contributo fondamentale. Così, munito di una lusinghiera lettera di presentazione al granduca di Toscana, rilasciatagli dall'amico ed estimatore, il padre provinciale di Calabria fra Giovanni Battista da Polistena, il 5 settembre 1592 fra Tommaso partì da Napoli alla volta di Firenze, con il suo carico di libri e manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a Siena.  La prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere informazioni sul suo conto al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta negativa, spinse il 16 ottobre Campanella a lasciare Firenze per Bologna, dove l'Inquisizione, che lo sorvegliava, per mezzo di due falsi frati gli rubò gli scritti che si portava appresso, per poterli esaminare in cerca di prove a suo danno. Ai primi del 1593 Campanella fu a Padova, ospite del convento di Sant'Agostino. Qui, tre giorni dopo il suo arrivo, il Padre generale del convento venne nottetempo sodomizzato da alcuni frati, senza che egli potesse identificarli, e perciò, fra i tanti sospettati del grave abuso, anche il Campanella fu messo sotto inchiesta. Non si sa se dall'inchiesta si passò a un processo che abbia visto imputato, tra gli altri frati, anche Campanella: in ogni caso egli ne uscì innocente.  Rimase a Padova, probabilmente con la speranza di trovarvi lavoro; vi incontrò Galileo e conobbe il medico e filosofo veneziano Andrea Chiocco. Ma il Sant'Uffizio lo teneva ormai sotto osservazione: alla fine del 1593 o all'inizio del 1594 fu nuovamente arrestato. Fu accusato di:  aver scritto l'opuscolo De tribus impostoribusMosè, Gesù e Maomettodiretto contro le tre religioni monoteiste, un libro della cui esistenza allora si favoleggiava, ma che nessuno aveva mai letto; sostenere le opinioni atee di Democrito, evidentemente un'accusa tratta dall'esame del suo scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a Bologna; essere oppositore della dottrina e dell'istituzione della Chiesa; essere eretico; aver disputato su questioni di fede con un giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di non averlo comunque denunciato; aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui autore sarebbe stato però, secondo Campanella, Pietro Aretino; possedere un libro di geomanzia, che in effetti gli fu sequestrato al momento dell'arresto. A Padova, in un primo tempo gli furono contestate solo le ultime tre accuse: per estorcere le confessioni, Campanella e due imputati presunti «giudaizzanti», Ottavio Longo, originario di Barletta, e Giovanni Battista Clario, di Udine, medico dell'arciduca Carlo d'Asburgo, furono sottoposti a tortura. Nel frattempo, dall'esame del suo De sensu rerum, fatto a Roma, dovettero trarsi nuove imputazioni, che richiesero lo spostamento del processo da Padova a Roma, dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere dell'Inquisizione l'11 ottobre 1594.  Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore della Chiesa, Campanella scrisse già nel carcere padovano un De monarchia Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae, ai quali fece seguito, nel 1595, per contestare l'accusa di intelligenza con i protestanti, il Dialogum contra haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa dell'ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la Defensio Telesianorum ad Sanctum Officium. La tortura cui fu sottoposto nell'aprile del 1595 segnò la pratica conclusione del processo: il 16 maggio Campanella abiurava nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva e veniva confinato nel convento domenicano di Santa Sabina, sul colle Aventino. Le disavventure giudiziarie di Campanella non finirono però qui. Il 31 dicembre 1596 era stato liberato dal confino di Santa Sabina e assegnato al convento di Santa Maria sopra Minerva; intanto, a Napoli, un concittadino di Campanella, condannato a morte per reati comuni, Scipione Prestinace, prima di essere giustiziato il 17 febbraio 1597, forse per ritardare l'esecuzione, denunciava diversi suoi conterranei e il Campanella in particolare, accusandolo di essere eretico: così, il 5 marzo, Campanella fu nuovamente arrestato.[25]  Non si conoscono i precisi contenuti della deposizione del Prestinace né i dettagli del nuovo processo, che si concluse il 17 dicembre 1597: nella sentenza, Campanella fu assolto dalle imputazioni e, diffidato dallo scrivere, liberato «sub cautione iuratoria de se representando toties quoties», finché, consegnato ai suoi superiori, questi lo confinino in qualche convento «senza pericolo e scandalo».  In tutto questo periodo di tempo, il Campanella non era certamente rimasto inoperoso nemmeno sotto l'aspetto della produzione speculativa e letteraria: oltre agli scritti difensivi del De monarchia, del Dialogo contro i Luterani e del De regimine, e ai Discorsi ai prìncipi d'Italia, che è un tentativo di captatio benevolentiae all'indirizzo della Spagna, giustificato dalla difficile situazione giudiziaria, scrisse l'Epilogo magno, destinato a essere integrato nella successiva Philosophia realis, con il Prodromus philosophiae instaurandae, pubblicato nel 1617, l'Arte metrica, dedicata al compagno di sventura Giovan Battista Clario, la Poetica, dedicata al cardinale Cinzio Aldobrandini, e i perduti Consultazione della repubblica Veneta, Syntagma de rei equestris praestantia, De modo sciendi e Physiologia.  Ai primi del 1598 Campanella prese la via di Napoli, dove si fermò diversi mesi, dando lezioni di geografia, scrivendo le perdute Cosmographia e Encyclopaedia facilis e terminando l'Epilogo Magno. In luglio s'imbarcò per la Calabria: sbarcato a Piana di Sant'Eufemia, raggiunse Nicastro e di qui, il 15 agosto, Stilo, ospite del convento domenicano di Santa Maria di Gesù.  Per poco tempo il Campanella rimase tranquillo in convento, dove scrisse il piccolo trattato De predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale affermò la dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli prophetales, appare già l'attesa del nuovo secolo che gli sembra annunciato da fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche. Un nuovo mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che in Calabria, ma non solo, vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione del clero, le violenze d'ogni specie [...] la Santa Sede [...] sanciva i soprusi e proteggeva i prepotenti. Il clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più delle immunità ecclesiastiche, e profanava in ogni modo il suo ufficio. Fazioni avverse contendevano talvolta aspramente tra loro, e non poche lotte erano coronate da omicidi e delitti d'ogni specie. Gruppi di frati si davano alla campagna, e, forniti di comitive armate, agivano come banditi, senza che il governo riuscisse a colpirli [...] I nobili e le famiglie private, dilaniate da inimicizie ereditarie, tenevano agitato il paese con combattimenti incessanti tra fazioni [...] l'estrema severità delle leggi, che comminavano la pena di morte per moltissimi delitti anche minimi [...] la frequenza delle liti e delle contese, aumentavano in maniera preoccupante il numero dei banditi».[26]  In tale situazione di degrado e nell'illusione di un rivolgimento già scritto nelle stelle, Campanella progettò, senza preoccuparsi di valutare realisticamente le possibilità di realizzazione, la costituzione in Calabria di una repubblica ideale, comunistica e insieme teocratica. Era necessario per questo cacciare gli Spagnoli, ricorrendo anche all'aiuto dei Turchi: cominciò a predicare dai primi mesi del 1599 l'imminente ed epocale rivolgimento, intessendo nell'estate una fitta trama di contatti con le poche decine di congiurati che aderirono a quella fantastica impresa. Le autorità ebbero ben presto sentore del tentativo di insurrezione e in agosto truppe spagnole intervennero a rafforzare i presidi. Il 17 agosto Campanella fuggì dal convento di Stilo, nascondendosi prima a Stignano, poi nel convento di Santa Maria di Titi; infine, nascosto in casa di un amico, progettò di imbarcarsi da Roccella, ma venne tradito e consegnato il 6 settembre agli spagnoli. Incarcerato a Castelvetere, il 10 settembre firmò una confessione nella quale faceva i nomi dei principali congiurati, negando ogni sua partecipazione all'impresa. Ma le testimonianze dei suoi complici erano concordi nell'indicarlo come capo della cospirazione.  Trasferito a Napoli insieme ai suoi compagni di avventura, Campanella fu rinchiuso in Castel Nuovo. Il 23 novembre 1599 avvenne il riconoscimento formale dell'accusato, descritto come «giovane con barba nera, vestito di abiti civili, con cappello nero, casacca nera, calzoni di cuoio e mantello di lana». Il Santo Uffizio non ottenne dall'autorità spagnola che i religiosi imputatiCampanella e altri sette frati domenicanifossero trasferiti a Roma e papa Clemente VIII, l'11 gennaio 1600, nominò il nunzio a Napoli, Jacopo Aldobrandini e don Pedro de Vera, che fu fatto ecclesiastico per l'occasione, giudici nel processo che si sarebbe tenuto a Napoli. Ad essi venne aggiunto il 19 aprile il domenicano Alberto Tragagliolo, vescovo di Termoli, già consultore nel primo processo, scelto dal papa per trattare in modo favorevole Campanella, poiché Clemente VIII era, anche se prudentemente, antispagnolo.  Campanella era passato sotto la giurisdizione del Sant'Uffizio, che nessun tribunale statale poteva violare, nemmeno nei casi di lesa maestà. Ciò permise di ritardare la prevedibile condanna a morte del frate. Durante il processo presieduto dal vescovo Benedetto Mandina, Campanella, sotto tortura, riconobbe le proprie eresie e, in quanto relapso, diventò passibile della pena capitale. La sua strategia di difesa, disperata e rischiosissima, fu quella di fingersi pazzo, poiché un eretico insano di mente non poteva essere messo a morte dal Sant'Uffizio.  I giudici, dubbiosi, lo sottoposero il 18 luglio, per un'ora, al supplizio della corda per fargli confessare la simulazione, ma egli resistette, rispondendo alle domande cantando o dicendo cose senza senso. L'accettazione da parte dei giudici della pazzia avvenne il 4 e 5 giugno 1601, durante una terribile seduta di tortura denominata "la veglia", che consistette in 40 ore di corda alternata al cavalletto, con tre brevi interruzioni. La resistenza morale e fisica di Campanella gli permise di superare la prova, anche se rimase poi tra la vita e la morte per sei mesi.   Frontespizio della Metaphysica Trascorse 27 anni in prigione a Napoli. Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia di Spagna (1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus (1605-1607), Quod reminiscetur (1606?), Metaphysica (1609-1623), Theologia (1613-1624), e la sua opera più famosa, La città del Sole (1602), in cui vagheggiava l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne sul cosiddetto “primo processo a Galileo Galilei” con la sua coraggiosa Apologia di Galileo (scritta nele pubblicata nel 1622).  Fu infine scarcerato nel 1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazareth a Barletta, poi papa col nome di Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il Sant'Uffizio; fu liberato definitivamente nel 1629. Visse per cinque anni a Roma, dove fu il consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche, avendo con successo, secondo il Papa, impedito il verificarsi di profezie che preannunciavano la sua morte imminente in occasione di due eclissi del 1628 e 1630.  Nel 1634, però, una nuova cospirazione in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi problemi. Con l'aiuto del cardinale Barberini e dell'ambasciatore francese de Noailles, fuggì in Francia, dove fu benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII. Protetto dal cardinale Richelieu e finanziato dal re, passò il resto dei suoi giorni al convento parigino di Saint-Honoré. Il suo ultimo lavoro fu un poema che celebrava la nascita del futuro Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem).  Gli è stato dedicato un asteroide, 4653 Tommaso.  Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all'esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea (materia).  Il problema della conoscenza (e la rivalutazione dell'uomo) Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l'America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l'uomo e pertanto afferma l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di coscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus', che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus' che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all'uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus' sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito': io penso quindi esisto (cogito ergo sum).  La religione e la politica In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l'ordine universale dell'universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il cristianesimo è l'unica religione positiva, poiché è imposto dallo stato, ma al contempo coincide con l'ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.  La città del Sole Magnifying glass icon mgx2.svg La città del Sole.  Civitas Solis Campanella fu autore anche di un'importante opera di carattere utopico, ovvero La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell'utopismo campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Francesco Bacone. L'utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l'uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere.  Interpretazioni storiografiche del pensiero politico L'incertezza è già evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che, nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.  Per Silvio Spaventa, Campanella è il "filosofo della restaurazione cattolica", in quanto la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato. Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: "Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo. Opere Aforismi politici, A. Cesaro, Guida, Napoli 1997 An monarchia Hispanorum sit in augmento, vel in statu, vel in decremento, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Antiveneti, L. Firpo, Olschki, Firenze 1944 Apologeticum ad Bellarminum, G. Ernst, in «Rivista di storia della filosofia», XLVII, 1992 Apologeticus ad libellum ‘De siderali fato vitando’, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Apologeticus in controversia de concepitone beatae Virginis, A. Langella, L'Epos, Palermo 2004 Apologia pro Galileo, Michel-Pierre Lerner. Pisa, Scuola Normale Superiore, 2006 Apologia pro Scholis Piis, L. Volpicelli, Giuntine-Sansoni, Firenze 1960 Articoli prophetales, G. Ernst, La Nuova Italia, Firenze 1977 Astrologicorum libri VII, Francofurti 1630 L'ateismo trionfato, ovvero riconoscimento filosofico della religione universale contra l'antichristianesimo macchiavellesco, G. Ernst, Edizioni della Normale, Pisa 2004  88-7642-125-4 De aulichorum technis, G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», II, 1996 Avvertimento al re di Francia, al re di Spagna e al sommo pontefice, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Calculus nativitatis domini Philiberti Vernati, L. Firpo, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, 74, 1938-1939 Censure sopra il libro del Padre Mostro [Niccolò Riccardi]. Proemio e Tavola delle censure, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Censure sopra il libro del Padre Mostro: «Ragionamenti sopra le litanie di nostra Signora», A. Terminelli, Edizioni Monfortane, Roma 1998 Chiroscopia, G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», I, 1995 La città del Sole, L. Firpo, Laterza, Roma-Bari 2008  88-420-5330-9 Commentaria super poematibus Urbani VIII, codd. Barb. Lat. 1918, 2037, 2048, Biblioteca Vaticana Compendiolum physiologiae tyronibus recitandum, cod. Barb. Lat. 217, Biblioteca Vaticana Compendium de rerum natura o Prodromus philosophiae instaurandae, FrancofurtiCompendium veritatis catholicae de praedestinatione, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Consultationes aphoristicae gerendae rei praesentis temporis cum Austriacis ac Italis, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Defensio libri sui 'De sensu rerum', apud L. Boullanget, Parisiis 1636 Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, D. Ciampoli, Carabba, Lanciano 1911 Dialogo politico tra un Veneziano, Spagnolo e Francese, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Discorsi ai principi d'Italia, L. Firpo, Chiantore, Torino 1945 Discorsi della libertà e della felice soggezione allo Stato ecclesiastico, L. Firpo, s.e., Torino 1960 Discorsi universali del governo ecclesiastico, L. Firpo, UTET, Torino 1949 Disputatio contra murmurantes in bullas ss. Pontificum adversus iudiciarios, apud T. Dubray, Parisiis 1636 Disputatio in prologum instauratarum scientiarum, R. Amerio, SEI, Torino 1953 Documenta ad Gallorum nationem, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Epilogo Magno, C. Ottaviano, R. Accademia d'Italia, Roma 1939 Expositio super cap. IX epistulae sancti Pauli ad Romanos, apud T. Dubray, Parisiis 1636 Index commentariorum Fr. T. Campanellae, L. Firpo, in «Rivista di storia della filosofia», II, 1947 Lettere 1595-1638, G. Ernst, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2000 Lista dell'opere di fra T. Campanella distinte in tomi nove, L. Firpo, in «Rivista di storia della filosofia», II, 1947 Medicinalium libri VII, ex officina I. Phillehotte, sumptibus I. Caffinet F. Plaignard, Lugduni 1635 Metafisica, Giovanni Di Napoli, (brani scelti del testo latino e traduzione italiana, 3 volumi), Bologna, Zanichelli 1967 Metafisica. Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber 1ºPonzio, Levante, Bari 1994 Metafisica. Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber 14º, T. Rinaldi, Levante, Bari 2000 Monarchia Messiae, L. Firpo, Bottega d'Erasmo, Torino 1960 Philosophia rationalis, apud I. Dubray, Parisiis 1638 (comprende Logicorum libri tres) Philosophia realis, ex typographia D. Houssaye, Parisiis 1637 Philosophia sensibus demonstrata, L. De Franco, Vivarium, Napoli 1992 Le poesie, F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998 Poetica, L. Firpo, Mondatori, Milano 1954 De praecedentia, presertim religiosorum, M. Miele, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», LII, 1982 De praedestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae cento Thomisticus, apud I. Dubray, Parisiis 1636 Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, R. Amerio, CEDAM, Padova 1939 (L. I-II), Olschki, Firenze 1955-1960 (L. III-IV) Del senso delle cose e della magia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 De libris propriis et recta ratione. Studendi syntagma, A. Brissoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Theologia, L. I-XXX, Libro Primo, Edizione Romano Amerio, Vita e Pensiero, Milano, 1936. Scelta di alcune poesie filosoficheChoix de quelques poésies philosophiques, Edizione Marco Albertazzi, Traduzione francese di Franc Ducros, La Finestra editrice, Lavis   978-88-95925-70-7. Campanella nel cinema La città del sole, regia di Gianni Amelio (1973) Note  A. Casadei, M. Santagati, Manuale di letteratura italiana medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari 249.  Luigi Firpo, Campanella Tommaso, «Dizionario biografico degli Italiani», Roma 1974: «Non hanno fondamento le asserzioni ricorrenti, attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel vicino comune di Stignano». Nel Novecento nacque una disputa campanilistica tra il comune di Stilo e quello di Stignano, che rivendica di aver dato i natali al filosofo calabrese e indica nel proprio territorio la presunta casa natale di Campanella  In Luigi Firpo, I processi di Tommaso Campanella, Roma 1998117  In Opere di Tommaso Campanella, Alessandro d'Ancona, Torino 185412. Un decreto del 16 maggio 1968 ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione Caleffi fissa la casa natale di Tommaso Campanella nell'attuale Comune di Stignano, al tempo casale del vastissimo territorio di Stilo, adducendo a prova del fatto l'archivio provinciale di Napoli. La differente indicazione del cognome della madre, Basile e Martello, fa ritenere che quest'ultimo sia un soprannome  Massimo Baldini,Nota biobibliografica, in T. Campanella, La Città del Sole, Newton Compton, Roma 1995, p.16  T. Campanella, Syntagma de libris propriis et recta ratione studendi, I  Germana Ernst, Tommaso Campanella: The Book and the Body of Nature [1 ed.], 9048131251, 9789048131259, Springer Netherlands, .  Gli amici Giovanni Francesco Branca, medico di Castrovillari, e Rogliano da Rogiano, entrambi telesiani, gli segnalarono il libro dell'aristotelico Marta, il Propugnaculum Arìstotelis adversus principia B. Telesii, Roma 1587  Philosophia sensibus demonstrata, impressum Neapoli per Horativm Salvianum 1591  Il libro è andato perduto  T. Campanella, Syntagma de libris propris14  John M. Headley, Tommaso Campanella and the Transformation of the World, 0691026793, 9780691026794, Princeton University Press, 1997.  T. Campanella, De sensu rerum et magia, II, 26  Pubblicata da Vincenzo Spampanato in Vita di Giordano Bruno, Messina 1921572  Il cardinale rispose che l'inquisitore fra Vincenzo da Montesanto gli aveva riferito che del Campanella «si rivedono molti libri pieni [...] di leggerezza e vanitade, e [...] ancora non sono chiari se vi sia cosa che appartenghi alla religione»; cfr: lettera del Del Monte a Ferdinando I del 25 settembre 1592 in Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, f. 3759  La vicenda di questo sequestro, simulato con il furto, è esaminata da Luigi Firpo, Appunti campanelliani, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXI, 1940  Non vi sono documenti relativi a quell'episodio, essendone unica fonte lo stesso Campanella in due sue tarde lettere, a papa Paolo V il 12 aprile 1607 e a Kaspar Schoppe il 1º giugno dello stesso anno, nelle quali Campanella sottolinea la sua innocenza senza entrare in dettagli.  Campanella, lettera a Kaspar Schoppe del 1º giugno 1607: «accusarunt me quod composuerim librum de tribus impostoribus, qui tamen invenitur typis excusis annos triginta ante ortum meum ex utero matri».  Due libri di simile contenuto furono scritti soltanto alla fine del Seicento e ai primi del Settecento.  Campanella, ivi: «quod sentirem cum Democrito, quando ego iam contra Democritum libros edideram».  Ibidem: «quod de ecclesiae republica et doctrina male sentirem».  Ibidem: «quod sim haereticus».  Campanella, lettera al papa del 12 aprile 1607: «Primo ex dicto unius judaizantis molestatus». Il giudaizzante dovrebbe essere un certo Ottavio Longo da Barletta, anch'egli arrestato a Padova e processato a Roma.  Ibidem: «secundo ob rythmum impium Aretini non meum».  «Lecta depositione Scipionis Prestinacis de Stylo, Squillacensis Diocesis, facta in Curia archiepiscopali Neapolitana, Illustrissimi et Reverendissimi Domini Cardinales generales Inquisitionis praefatae mandaverunt dictum fratrem Thomam reduci ad carceres dictae Sanctae Inquisitionis», in L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella88  C. Dentice di Accadia, Tommaso Campanella, 1921,  43-44  Opere Tommaso Campanella, Apologia pro Galileo, Frankfurt am Main, Gottfried Tampach, 1622. Tommaso Campanella, Metaphysica,  1, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Metaphysica,  2, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Metaphysica,  3, Paris, 1638. Tommaso Campanella, Poesie, Bari, Laterza, 1915.  Tommaso Campanella, Medicinalium libri, Lugduni, ex officina Ioannis Pillehotte : sumptibus Ioannis Caffin, & Francisci Plaignard, 1635. Delle virtù e dei vizi in particolare, testo critico e traduzione Romano Amerio, Ed. Centro internazionale di studi umanistici, Roma, 1978 Studi Luigi Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, 3 voll., Morano, Napoli 1882 (ristampa anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., L'andata di Fra Tommaso Campanella a Roma dopo la lunga prigionia di Napoli, Memoria letta all'Accademia Reale di Scienze Morali e Politiche, Tipografia della Regia Università, Napoli 1886 (ristampa anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., Fra Tommaso Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, 2 voll., Morano, Napoli 1887. Giuliano F. Commito, IUXTA PROPRIA PRINCIPIALibertà e giustizia nell'assolutismo moderno. Tra realismo e utopia, Aracne, Roma, 2009,  978-88-548-2831-5. Luigi Cunsolo, Tommaso Campanella nella storia e nel pensiero moderno: la sua congiura giudicata dagli storici Pietro Giannone e Carlo Botta, Officina F.lli Passerini e C., Prato 1906. Rodolfo De Mattei, La politica di Campanella, ARE, Roma 1928. ID., Studi campanelliani, Sansoni, Firenze 1934. Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola,  IV, cap. II, Tommaso Campanella astrologo e filosofo, Controcorrente, Napoli . Luigi Firpo, Ricerche campanelliane, Sansoni, Firenze 1947. ID., I processi di Tommaso Campanella, Salerno, Roma 1998. Antonio Corsano, Tommaso Campanella, Laterza, Bari 1961. Mario Squillace, Vita eroica di Tommaso Campanella, Roma, 1967. Pietro Pizzarelli, Tommaso Campanella (1568-1639), Nuove Edizioni Barbaro, Delianuova 1981. Donato Sperduto, L'imitazione dell'eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell'eternità da Platone a Campanella, Schena, Fasano 1998. 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Ylenia Fiorenza, Quel folle d'un saggio, Tommaso Campanella, l'impeto di un filosofo poeta, Napoli, Città del Sole, 2009. Paola Gatti, Il gran libro del mondo nella filosofia di Tommaso Campanella, Roma, Gregoriana & Biblical Press, . Sharo Gambino, Vita di Tommaso Campanella, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2008,  978-88-7351-241-7. Saverio Ricci, Campanella (Apocalisse e governo universale), Roma, Salerno Editrice, . Luca Addante, Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato, interpretato, falsato, Roma-Bari, Laterza, .  Metafisica (Tommaso Campanella) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Tommaso Campanella Collabora a Wikiquote Citazionio su Tommaso Campanella Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso Campanella  Tommaso Campanella, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Tommaso Campanella, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tommaso Campanella, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Tommaso Campanella, su The Encyclopedia of Science Fiction.  Tommaso Campanella, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Tommaso Campanella, su Liber Liber.  Opere di Tommaso Campanella, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Tommaso Campanella, . Opere di Tommaso Campanella, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Tommaso Campanella, su LibriVox.  di Tommaso Campanella, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.   italiana di Tommaso Campanella, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Tommaso Campanella, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Archivio Tommaso Campanella, su iliesi.cnr. Le opere di Campanella, su bivio.filosofia.sns. Historiographiae liber unus iuxta propria principia, su imagohistoriae.filosofia.sns. testo tratto da Tutte le opere di Tommaso Campanella, Milano, 1954.Germana Ernst, Tommaso Campanella, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XVII secoloTeologi italianiPoeti italiani Professore1568 1639 5 settembre 21 maggio Stilo ParigiDomenicani italianiLetteratura utopicaAccademia cosentinaVallata dello StilaroErmetisti italianiAforisti italianiItaliani emigrati in Francia. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico Campanella, noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla. Tommaso Campanella. Settimoontano Squilla. Giovan Domenico Campanella. Campanella. Keywords: lingua artificiale, lingua perfetta, la lingua d’utopia, lingua utopica, l’utopia di Campanella, il problema del linguaggio nella utopia di Campanella. Italia. Campanelliana. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Campanella," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Cantoni (Gropello Cairoli). Filosofo. “Kant”.

 

Cantoni (Milano). Filosofo. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian Hampshire! Cantoni philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least interest in past philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the good use of ‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on pleasure and com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most interesting that he reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with anthropology, as he considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and also the ‘desagio dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of the ‘tragic’ alla Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s bestimmung as ‘la missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they joke at trouser words and he has philosophised on ‘what Socrates actually said’! My favourite is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia culturale in Italia. Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti della "Scuola di Milano".  Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le riviste Studi filosofici e Il pensiero critico.  Fu allievo di Banfi, amico di Sereni e Formaggio. Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia Pozzi che di lui si innamorò di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni ella scrisse:  «[…] Non riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che abbiamo vissuto insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po' d'acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi strappa con così violente braccia via dalla realtà. […] Sempre così smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua data di morte […] Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di tutte le possibili vite […]»  Cantoni define come "primitivo" quel pensiero sincretico che non distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In questo senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che antropologica. Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi, preludio ad un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso di una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive. Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa  occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan, Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.  Altre opere: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di Dostoevskij, Milano: Mondadori, 1948, n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta: Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, 1949; n. ed. Milano: Il Saggiatore, 1976 Mito e storia, Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano: Mondadori, 1955 (articoli apparsi su "Epoca" 1950-54); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano: Universitarie, 1957 (lezioni dell'anno accademico 1956-57) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano: La goliardica, 1959 Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo, Milano: La goliardica); Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica, 1963 Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti, 1963 Società e cultura, Milano: La goliardica, 1964 Filosofie della storia e senso della vita, Milano: La goliardica, 1965 Scienze umane e antropologia filosofica, Milano: La goliardica, 1966 Illusione e pregiudizio: l'uomo etnocentrico, Milano: Il Saggiatore, 1967, 1970 Storicismo e scienze dell'uomo, Milano: La goliardica, 1967 Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: La goliardica); Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico, Milano: La goliardica, 1970 Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica); Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini, 1972 Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo, Milano: La goliardica, 1972; n. ed. Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano: Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di Nicola Abbagnano, Milano: Editoriale nuova, 1978 Franz Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Carlo Montaleone , Milano: Unicopli).  Attiva tra 1950 ed il 1962 e edita dall'Istituto Editoriale Italiano  Lettere d'amore di Antonia Pozzi Archiviato il 12 dicembre 2008 in . il 17 dicembre 2008  Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati Boringhieri, 1996  8833909689 Caterina Genna, «Il pensiero critico» di Remo Cantoni, Firenze: Le Lettere, 2008  8860871603 Massimiliano Cappuccio e Alessandro Sardi , Remo Cantoni, Milano: Cuem, 2007  9788860011381 Clementina Gily Reda, L'antropologia filosofica di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo Spirito, 2008  8886225091  Antonia Pozzi Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Cantoni Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo Cantoni  sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia Letteratura  Letteratura Università  Università Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1914 1978 14 ottobre 3 febbraio Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di CagliariProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoFondatori di riviste italianeDirettori di periodici italiani. Remo Cantoni. Keywords: Carlo Cantoni, filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e storia, implicatura mitica, la morte di Remo, prejudices and predilections, umano, preludio a un’antropologia, il primitivo. Il mito di Remo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool Library.

 

Capitini (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano.   Nato in una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto lavoro di approfondimento interiore e filosofico.  In questi anni legge autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard (profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico indiano.  Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione».  Nel 1930 viene nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, Capitini matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista.  Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a Capitini l'iscrizione al partito fascista. Capitini rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà:  «Gentile e Capitini si separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e Capitini rispose che non poteva fare altro che "contraccambiare l'augurio". Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo".»   Benedetto Croce; in riferimento a lui Capitini scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto Capitini torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Nel periodo di tempo tra il 1933 e il 1934 compie frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.  Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di Luigi Russo, ha modo di conoscere Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista.   Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del direttorato alla Normale In seguito alla larga diffusione del suo libro, Capitini promuove assieme a Guido Calogero un movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio Gramsci e da una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao.  Nel febbraio 1942 la polizia fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi Capitini viene rilasciato, grazie alla sua fama di "religioso". «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi.  Nel giugno 1942 nasce il Partito d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio «... il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia». Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, Capitini rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al fascismo.  Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente arrestato e rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato col 25 luglio.   Capitini tra gli anni '30 e '40 Il Centro di Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno «...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo la definizione data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi.   Aldo Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere sperimentati con successo nelle riunioni dei COS.  Nel secondo dopoguerra Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario, dal 1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università degli Studi.  Parallelamente all'attività didattica, politica e pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale, che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma 13/15 ottobre 1948).  Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver ascoltato Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30 agosto 1949 e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi degli anni 60 si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di Capitini.  Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma nel 1950 il primo convegno italiano sul tema.  Il Centro di Orientamento Religioso (COR)  Un primo piano di Aldo Capitini (ca. 1960) Nel 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, Capitini promuove un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. Sempre nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose.  La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini pubblica Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, Capitini stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Don Lorenzo Milani e Don Primo Mazzolari.  Capitini organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana italiana".  La polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio. A partire dal 1956 Capitini insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e nel 1965 ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra i fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. Capitini arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le idee.   La prima Bandiera della pace  Bandiera della pace portata da Capitini nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di Capitini per la pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Norberto Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie della pace.  Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni Capitini promuove anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona.  Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, Capitini non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla sua attività.  Il 19 ottobre 1968 Aldo Capitini muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il 21 ottobre il leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (...) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma Thomas.  Il pensiero Religione e laicità  Il Mahatma Gandhi Aldo Capitini aveva l'abitudine di definirsi un "religioso laico". Egli accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di Capitini dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato del 1929 la Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. Capitini è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per Capitini: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. Capitini si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo Capitini non è altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.  Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter e da Gandhi, Capitini indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli altri della bontà del proprio ideale.   Il professor Aldo Capitini negli anni '60 L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio.  Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori.  Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica.  La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e autoritario.  Il liberalsocialismo di Capitini e di Guido Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione socialista. Capitini per liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (M. Delle Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta dalla guerra.  L'educazione e la civiltà L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione, alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa, Milano, ecc  Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2 ed. riveduta e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere;  "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di M. Martini). Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con Danilo Dolci, G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere 1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 3"con Guido Calogero, Th. Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma.  L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.  Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.  Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari.  Lettere 1937-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci, Roma.  Lettere familiari, "Epistolario di Aldo Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma.  Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tuttiL. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  La mia nascita è quando dico un tu, quaderno per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  La compresenza dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Educazione aperta collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note  Incontro con il "Gandhi" italiano, La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli  Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo)  Sergio Romano, Aldo Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio 2006.  l'8 febbraio  18 giugno ).  Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, 1966131.  Da Le lettere di religione Archiviato il 26 novembre  in . su aldocapitini  Edmondo Marcucci, Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953.  Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna, Cagliari, Edes, 1990, 3049  Dal sito del COS fondato da Capitini[collegamento interrotto]  Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini  Antonio Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini.  Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia : 608, 2262, 2, , Firenze (FI): Le Monnier, .  Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia.  Per un approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi , I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A. Capitini, Liberalsocialismo, e/o, Roma, 1996 (che raccoglie una serie di scritti apparsi fra il '37 e il '49).  Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci. 9 agosto .  Piero Craveri, CAPITINI, Aldo, in Dizionario biografico degli italiani,  18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio .  Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988,  4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna, Speranze, Rizzoli,  Mario Martini, L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17, 1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi , Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, 2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini: considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze, University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini, Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. 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Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink. PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica  Politica Filosofo del XX secoloPolitici italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori italianiNonviolenzaPacifistiPersone legate alla Resistenza italianaPoeti italiani del XX secoloPolitici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali. Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library.

 

Capizzi (Genova). Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.” Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento.  Coltiva due interessi paralleli.  Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici, occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu.  L'altro interesse, preminentemente teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e "tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto, non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto.  Altre opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo: il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma, Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale” )Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari, Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci,  III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide",  "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in  Il Sublime: contributi per la storia di un'idea (Napoli);  "Trasposizione del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche", "Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia. Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact, Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This ...  I Romani , nel cui alfabeto figurava la V , non ebbero problemi di trascrizione : influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24 , modificarono in tal senso il Vele ... Dichtersprache und geistige Tradition des 44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI ELEATICHE 1 . Elea : nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini ( a partire da Cicerone ) , Eléa da quelli.. Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . Due saggi per una nuova lettura del poema ( = Filologia e Critica 14 ) . Edizioni dell ' Ateneo , Rom 1975 . 125 S . Diese Arbeit hat zwei Kapitel , die mit „ Il proemio di P . e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia , Alcmeone fu ... 132 ; V. Catalano , ' L'Asklepeion di Velia ' , estratto dagli Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara » , Napoli 1965-66 , pagg . 289-301 , a pag la homoiòtes e l'atrékeia , proponendosi di trasformare Velia ( prima aggregato di corn , di villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile . L'uomo ... IL CARTESIO DI GIANNONE *Un grande storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi , La porta di Parmenide . ... une interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménide , en particulier des fragments 1 et 6 , à la lumière des fouilles de Velia - ' Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in città , e il ... 183 E - 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI , Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a . C. , « La parola del passato » 25,1970 , pp .... e ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche in una metafora ( p . ... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una costituzione aristocratica , omogenea e 402 ANTONIO CAPIZZI. proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi ... del corpo sociale , doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche , come la scuola medico - astronomica di Velia . 1 tra le vie e le porte di Velia , recentemente dissepolte ; e i " mortali ignoranti ” del fr . 6 tra i nemici non metafisici , ma politici , che insidiavano la libertà della polis velina . Antonio Capizzi , incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di ... un superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio : di recente Antonio Capizzi ( La porta di ... ( RODOLFO MACCHIONI Velia , e Renzo Vitali ( Una ricostruzione del Jodi ) . poema , Faenza 1978 ) una allegorica e ... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al 1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7] del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura).  Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13), un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π. ... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura .... E certo in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1 , sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto)2 . Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως, il termine generico φυσιόλογος3 . Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi "dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele) intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5 . In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate6 . L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7 , che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma attiva-transitiva φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza», incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8 . In questa accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato, invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso "tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe: la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10 . Il modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12 : l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op. cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13 . Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: 13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344. 13 οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14 Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002). La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203 , pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18 (i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii) individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης [...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista 242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20 Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22 . Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti elementari26 . Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12). Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27 . In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30 . 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle - «ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi diversi33 . Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν), Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας). Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104. 38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op. cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42 a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49 . In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op. cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51 . La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54 . Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti pitagorici 55 , e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone 57 . Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58 Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62 . Le fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro lettura66 . Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68 . La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni70 . 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71 . È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73 . Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3. 59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica77 . In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81 . Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87 , esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon, op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 20012 , pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima89 . Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91 , a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi, p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99 . Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p. 145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100 . Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103 . È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C. 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Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet Libreria, Torino 2007 Die Vorsokratiker, Band I (Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit), Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2007 [indicheremo questa edizione come Gemelli Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier: Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker, Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique. Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1 , ἣ κατὰ † ... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. 77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23 . 19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4 , 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5 , dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta † ... †11 l’uomo sapiente12 . Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»). 12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27 . prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35 . Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39 . [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46 , anche la scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa ( p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26: «spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p. 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54 , rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini57), ma Temi58 e Dike 59 . Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι. Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68 , serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62 La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibilità70 . connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78 . 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει ... (anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non si può raggiungere». 106 Orsù1 , io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide, , Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9 : τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10 L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν - ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι: «che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio 5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva: «che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der da lautet) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être». 15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5] l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19 . Proprio20 questa ti dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta :«è e non è possibile non essere». 16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale» e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da lautet) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26 . transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3 ... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3 . 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5 presenti6 ; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7 , infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζον ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11 , né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος † ... † 5 , 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6 , δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1 : «ciò che è è2 », è necessario3 ; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5 , invece, non è6 . Queste cose7 io ti esorto a considerare8 . riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10 , e poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5] , uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente errante17. Essi sono trascinati18 , 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico, l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini, ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della «mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20 , per i quali esso21 è considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24 . 18 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei «mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali. Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα. [vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131 Mai, infatti1 , questo2 sarà forzato3 : che siano cose che non sono4 . Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero6 ; 1 Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero (Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: «Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán (p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia violenza9 , 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo - «risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77), il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità». 13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce «entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale (emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero (By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata, e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente, argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος. Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano (pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo - rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me enunciata17 . Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν 6 , ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri (Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον. 6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio, Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον. A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9 Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13 , οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. [25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23 , ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30 . [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι ... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10 , fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α : στοιχεῖα. παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12 Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221), collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia 426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον, sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19 , Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri (pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto», riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai». Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della “atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo, Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui – qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές, ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30 , [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per nulla37 . 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45 , Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41 Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος. Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è: nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità49 , di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale52 . equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60 . aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere continuo65 , conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69 . [25] È perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72 . del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76 , lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio «torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84 , 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91 . temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882 , pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101 , come un richiamo di B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien («C’est une même chose que penser, et la pensee : “est”»), Conche («C’est le même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109 , has been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113 . natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115 estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a massa120 di ben rotonda121 palla122 , sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170 suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν – e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125 , da una parte o dall’altra126 . Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132 . di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128 Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi] limiti rimane135 . ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4 , μέγ΄ ἐλαφρόν5 , ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8 . 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2 ; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6 , l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11 . 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17 , ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21 . 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero ... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29 , che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31 , coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33 , le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36 . proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche «absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42 , 223) preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p. 143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii) teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5), l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di «segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183), riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44 . suo. Un aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1 , e queste2 , secondo le rispettive3 proprietà4 , [sono state attribuite] a queste cose e a quelle5 , tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8 , 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9 , perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10 . 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. [Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8 , 1 La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio rotondo10 , [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge12 , donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2 . [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6 . 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2 , αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p. 86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2 , infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9 . 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12 , [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1 , vagando intorno alla Terra2 , luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος, ... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole, ... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4 , τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5 · τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4 , così il pensiero5 si presenta agli uomini6 : poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua 215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9 , condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che prevale10 , infatti, è il pensiero11 . 10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3 , che [deriva] da sangue4 opposto5 , conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6 . 1 Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1 , secondo opinione2 , queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6 , 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8 . A queste cose, invece9 , un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225 IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς ... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας ... ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1 : (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità (assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale2 . 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3 , il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4 . A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5 : ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6 . Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di «ragione») 7 , della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso9 . È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12 ; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13 . Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16 . 14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22 . In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26 . Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει· καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς ... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει. Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci […] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso […] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ αί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31 . La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34 . 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35 . È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr. 58)36 . A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta – di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio oggetto (εἶναι) 38 . La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme: avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità religiosa ma filosofica39 . 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45 . Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49 . Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49 Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità»52 . Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani, op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57 , diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59 . Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60 . Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema»61 . Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Utet, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade64 , dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso65 . Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66 : la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67 . Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68 . Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75 , proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83 . Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici88 . Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90 , privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93 . A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99 , si prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105 . D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022 . 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117 . La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118 . In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121 . Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta † ... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ † ... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta † ... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138 . Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140 . 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!») l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike (vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La «via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ «la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32). Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146 , secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151 . 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155 . Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156 . Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss.. 296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162 . La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163 . 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto ( p. 37). 300 LE VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1 , a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72 , un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3 , altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4 . Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953 . 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301 della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5 . La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6 . Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7 . 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8 , negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9 : il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10 , ovvero l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15 . La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28 : (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31 . In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da lautet) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da lautet) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42 . Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una novità46 . D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50 . La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52 , una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59 , οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772 , pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61 . [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65 . Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea (B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è», il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63 Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato, l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che «non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero «indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso» (κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν, preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito (e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν) e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali, possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν) «è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che «essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν, appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è (necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66 . L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69 . 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos, op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7). Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76. 329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72 . Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73 . B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando (a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è [possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5). La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere»76 . Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op. cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…, l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op. cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν («non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1 : esito paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che, oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3 , che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν, καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸνο ε ῖ ν ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4 . La collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6 ; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7 , con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9 . Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con esso12 . È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13 , «Erkennen» 14 , «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità di penetrazione intellettuale17 . B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19; e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a) pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16 Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19 Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non troverai il pensare22 . Cordero osserva come nei due versi successivi si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere» (B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né, infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3). In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime qualcosa su ciò che è24 . Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225 . In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27 , comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco, cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici; un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che – pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30 . Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare33 . Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op. cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35 . Ancora su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36 , invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento (intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37 . D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2 , al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3 , quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4 . Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere presenti enti assenti e 347 lontani 5 . La prospettiva appare certamente gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6 . Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7 . Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti8 . Elementi che puntano in direzione della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza dell’essere9 . Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere (τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte, illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di fiducia18 . Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione, concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op. cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21 . Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica di Parmenide33 . Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34 . 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche lettura particolarmente convincente1 . Anche nel caso di B5, la questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2 . Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3 , secondo cui B5 esporrebbe la forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una (improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra, ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo, non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del frammento5 , rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8 . 4 Op. cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9 : nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio (quindi, come osserva Cordero1 , ricomparso a un millennio dalla stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22 , per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4 ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι (letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza. È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) «ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν. Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere» (B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op. cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7 : formula che manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8 , è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν, integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι, tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι) alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla9 . A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa, rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13, infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν < εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia16 . Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17 , per cui, attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2 in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op. cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste: 18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 24 , ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti», l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως ... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι), attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…, cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι), e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30 L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31 . L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione: αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea, ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica, veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος· οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33 . La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35 . Li connota come δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK 22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ ο ν ε ἶ ν α ι , τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo) che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore, stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze collettive41 . Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei «mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129). L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella generazione di tutti gli enti46 . 42 A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito52 . Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55 . Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56 . Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57 . Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58 . Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri, op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60 . Mansfeld61 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica, all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22 B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65 . In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto «concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv) al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano – consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70 . A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1 , nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6 . Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7 , non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8 . Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9 . Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13 . Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p. 77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere (vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici, effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op. cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22 . Che siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali24 . Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit., p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere»26 . Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29 . Da questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla ragione31 . È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano33 . L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6): l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37 . Sempre in relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41 . 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45 . Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48 . Logos e elenchos Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu49 , anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51 . 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1 , ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3 , abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso, invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426 prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio4 . La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5 , come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due terzi finali del discorso della dea6 . La via che è L’attacco del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7 . Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8 , molti gli argomenti che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9 . Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno , […] schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione stessa delle parole11 . L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana” della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà, evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e, apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I «segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν (τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo: (i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436 e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei «segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico – con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος, confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti, concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109. 14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente, culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via» consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op. cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e «responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato. Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata: non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso. Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali. In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse (le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie») introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8 è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον (indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον (non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma, nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii) «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22 Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero) τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν (uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443 L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444 L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito28 , appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle «uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33 . D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36 . 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν («cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine», da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il «come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di Anassimandro: ἀρχὴn ... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον ... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è l’infinito ... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον . . καὶ ἀνώλεθρον (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν = τὸ θεῖον) immortale .... e indistruttibile ( Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ... τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943 , in particolare alla prima parte, dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν) le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa «nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di informazioni» B2.6)46 . D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47 . Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46 Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων) sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3), «l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua generazione54 . Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op. cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p. 185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti, «qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ > όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω ... οὐδὲ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄ ... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58, per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op. cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo] come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68 : in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72 . In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74 . Giudizio ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» - che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77 Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80 . 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84 . Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85 . I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus, , almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87 . Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90 . 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92 . C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93 . Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94 . A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96 . Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99 , e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100 . Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103 . Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108 . 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema1 . Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2 , che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina3 . In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p. 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4 , mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ [...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6 . Ma di recente Kahn7 , pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832 , p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8 . In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia)9 . Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10 , αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas12 , essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13 . La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che ...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19 . 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538 LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2 . Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse la diretta prosecuzione3 . Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4 . Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5 . La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6 . È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η ι . . . ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai ... degli astri». Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1 , unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92 . A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3 . B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4 , in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e ; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema 6 . Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p. 259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7 : in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8 . Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9 . Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18 , per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19 . Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22 . In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ . . . θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς . καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν , τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν . καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν , περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν , τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p. 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ «perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento26 . D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27 . Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης . La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28 , e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν , ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς , sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae ... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ . . . κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ . . . θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν . . . π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν , φ η σ ί ν Ἔρωτα … πάντων’ [ B 1 3 ] Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m , qui Discordiam , qui C u p i d i t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37 . 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1 : οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide. ...sempre rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ. ... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide ...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3 . 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl), Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3 , Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε , φησίν, ἔ χ ε ι . . . ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale4 : né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5 , riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7 . Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8 : in tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10 . L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11 . Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13 . A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno , uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15 . Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17 Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso Parmenide18 . È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale1 . A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a . . . s e x u m ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2 , sebbene, come ha osservato Coxon3 , la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai genitori6 : entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7 : lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante» (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p. 252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10 . Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale11 . 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema1 . Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento – naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ Περὶ φύσεως . Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa realtà4 : secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6 . Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7 . Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Uno sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op. cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Capocasale (Montemurro). Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto.  Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal 1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli.  Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio Garin.  Alcuni suoi discepoli divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei giovanetti”.  Dizionario biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat , in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii , nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis , at que indubiis dirigant , disciplina aliqua in veniatur , oportet , quae regulas ac prae cepta tradat , quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur , et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi , iudicandi , ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur , quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat , non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans , confusam tantummodo co gnitionem , non vero scientiam producere pol est . Ex quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam , qua regulae traduntur , quibus, humana mens in cognoscenda , et diiu ; dicanda veritate dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA ; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest , ut essentialiter a Naturali differat , ut sit potius distincta eiusdem explicatio , adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae . Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum , sed ei colen dam esse artificialem . 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1 . ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione , atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam , deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus : in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu , quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit , vel de iis iudicium pro fert , vel denique rationes conficit : * de tribus his mentis operationibus priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant , vel per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur : inventae vero cum aliis communicentur : de omnibus his parte se cunda nonnulla haud proletaria monebi mus . } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis expertes in mundum prodire ( quidquid pro ideis innatis Platonici , et Cartesiani cla mitent ) , atque primo res simpliciter perei pere , earumque ideas adquirere , deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere . Mentis actio , qua res aliquas sensibus obvias percipit , aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO , sive idea dicitur : quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM : dum vero eas cum aliis comparat , atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt . Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit : nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti , id omne huic disciplinae se debere , aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI , sive notio, quam de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam . praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum , quae sunt exlra ens , in eodem *** . ** Dici quoque solet idea , conceptus , vel sim ** Per rea plex apprehensio , ut Scholis placuit. Sunt , qui perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt , mentis actio nem in obiecto percipiendo ; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam , Sunt , qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est , nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm . Buddeus Phil. instrum . cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante. Hollmannus Log. Sed hae , aliaeqne definitiones eodem redeunt. *** Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat , quum sit cuique nota : sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus , sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio : in omni autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi , et obiectum , sive res ipsa quae repracscntatur : liquet , in qualibet idea itidem duo animadverti posse , scilicet percipiendi modum , et ob iecta nempe res perceptas ; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur . Si ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur , Et quia utroque re spectu ideae inter se differunt : de forma li , ac materiali earum differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere , ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam vero non ita . Repraesentatio illa , quae sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam , idea di citur CLARA; OBSCURA contra , quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram , et obscuram E. Rosae ideam claram habes , ei eam a lilio , hiacynto , aliisque floribus distinguere scias , et quotiescumque tibi occurrit , eam dem agnoscas ; contra si arborem peregrinam videas , eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum , hominum bene potorum , eorumqne , qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebra rum eftectus : nam quun tenebrae in lucis privatione consistant , haec vero obiecta exter pa distinguere faciat ; deficiente luce , deficit distinctionis facilitas : adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est . Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis involutae observentur , ut infra dicemus ; hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti , innotescere non possint , ut experientia patet : recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam , quo plu . ra possunt in obiecta distingui ; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos , qua des ficiente , ideas fieri deteriores ** Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus , qnem qui vilet , primo dubius hae ret , utrum corp is quidlibet sit , an vivens ; deinde in obiectum illud oculorun aciem at tente convertens , a motu animal esse compe rit , sed cuiusnam speciei , nescit ; propius ve ro'accedenten , ho nisen distinguit ; tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun ideae meliores funt , si ex obscuris clarae evadant , ex confusis distin ctae , ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet cla ritas idearum , eaque gralus ha bet , nec semper , aut in omnibus eadem est : liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse , ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus , raro in re percepta quaeren dam esse ; ac proinde praecipitanter iu dicare illos , qui absolute obscura esse di cunt , quae eorum superant captum : quo ut quae ignorant ( ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est , vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem , quando rem qampiam aliqui subobscure , quidam clar re , clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit , illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas relativa. fit , 21. Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam attentio , qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones , si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant , ut cxperientia docet : infertur 9. menten adfectibus agitatam * ad ideas cla ras vel numquam , vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate , et confusione orti , de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus nullae , nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset , nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo est , ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans , qui donec ea agitatur , nec res clare percipere , nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid . Seneca de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor , iraque mentem prae cipitant.Vides hinc , obscuritatis caussas easdem esse , quae attentionem turbant vel minuunt : nem pe 1. distractionem , 2. obiectorum multipli citatem , 3. praeproperam festinationem , 4 . denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant , et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il . in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se ; · Clarae namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem , ut mox adparebit , res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium : nihil ergo Philosophus age Tet ; nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem experientia docet , nos re rum quas clare percipimus , vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur , distincte nobis sistere posse , eo rum scilicet ideam claram nabere ; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti , quod percipimus , idea dicitur DISTINCTA : repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam , et con fusan . seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem , illius characteres sibi clare sistit , adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat , licet eum ab aliis coloribus discer nat , ejusdem ideam habet confusam : uti sunt omnes ideae colorum , saporum , sonorum , odo rum , etc. , quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio , et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit : alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum ; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione , qua deficiente , etiamsi distinctae sint , confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur : infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse , si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus ; oppositum autem ess : indicium ideae confusae . Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes , objecta , quae confuse percepimus , ipsis ostendere, vel cum alia re , de qua ideam habent claram , comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam , is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur , si notas , quib :is a :lfectuš iste ab aliis distinguitur , eau neret. Contra ei , quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet , ut cum aliis eius notionenı corninunicet ? Pro cul dubio , ut ab illo intelligatur , colorem illum , aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit , sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est , ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus , isque visu carens nullam , nequi dem obscuram , umquam huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei , cuius distinctam habe mus ideam , vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA ; vel quosdam tantum · eosque insufficientes , eaqne INCOMPLETA dicetur . * Idea ergo distincta dispescitur in completam , et incompletam . * Sic invidiae idea iam tradita completa est : adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume , notionem haberes incom pletam : * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum , ut ostendit Diogenes Cynicus , dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli , addito latorum unguium charactere : nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm . 40 . ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius , et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint : in hoc tamen hic ab illo discessit . Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit : Wolffins contra eam in completam , et incompletam dividi debere , docuit et demonstravit. a * 26. Denique eadem experientia edocti scimus , nos quaedam ita percipere , ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus , sed et novas characte rum notas enumerare queamus ; . quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere . Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta ; idea totalis erit ADAEQUATA ; quum antem notas neb ; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA . Quo fit , ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam , et inadaequatam . * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum imperfectionis , et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii : is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail juie scat : nec ulterius in iis evolvendis progredia tur , tunc ideam habebit inadaequitam . Ob servandum tamen , quod quo novas notas , donec fieri possit , invenire liceat , eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus , qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit , eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i . f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum . Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat : patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem , quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere : infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi non posse : ideoque 18. quum ad notas vel simplices , vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt , donec ad exilissima tandem filamenta perveniant , om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes : ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes , minima quacque adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis , quum ad indivisihiles particulas pervenerint , eas in novas rursus se care non licet : Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum , si vel ad simplicia et indivisibilia , vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum , vel finis obtentus sit , ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II . De obiectiva , sive materiali idearum differentia . 28. Haecaec de divisione idearum formali . Ad , materialem , sive obiectivam quod at tinet , primo res , quas nobis repraesen {are possumus , vel sunt exsistentes , vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM , sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id , quod est omnimode determina tum . Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius , haec dumus , haec mensa , hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores , ut Socrates sit Socrates , et non Plato , Caius sit praecise Caius , et non alius : ita ut si aliqua earum desit , desinant esse quae prius erant . Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co , quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum . Iu re igitur individuum res singularis ; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta ( S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant : 11 bent tamen aliquas determinaliones , in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit , quae SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio . ribus definitur per similitudinem indivi duorum . Determinationis vocabulum , licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur , et quia civitate donatum , et oh termini pu rioris deficientiam . Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum ; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia , ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates , Plato , Caius , Titius , li cet aetate , ingenio , roribus , conditione , habitu , ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus organicum , et animain ratione praeditam . Duae hae de terminationes speciem constituunt , qnae ho m, dicitur. Hinc vides , haec omnia individua in eo siunilia esse , quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto , ut aiunt , coelo differre ; in aliquibus vero perpetuo similes esse . Atque hae determinaciones , in quibus spe. cies , licet diversissimae , perpetuo conve . niunt , novam ideam , eamque supremam , constituunt , quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem specierum . E. g . “homo”, “equus”, leo , canis , quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant , habent tamen in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum . Observes ita que , omnes illas species in hoc esse per petuo similes , quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum ( S. 30. ) , idque constituatur a com plexu circumstantiarum , in quibus species perpetuo conveniunt ; in speciebns autem aliae determinationes exsistant , quibus il lae inter se differunt: sequitur 1 , ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune , quod sint taedium . En genus. In eo ve ro differuut , quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem ; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio , quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes , di citur idea VNIVERSALIS . Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes ( SS. 29. 30. ) : infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes . Rursus quoniam hae ideau couficiun tur , si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE ; liquido patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est , ut vulgo dicatur , ideas esse vel concretas , in quibus omnes simul adsunt de terminationes ; vel abstractas , quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est , ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse , vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere , nisi in singula ribus , nempe speciem ac genus nusquam inveniri , nisi in individuis ; adeoque 5. plus esse in individuis , quam in specie ; plus quoque in speciebus, quam in genere.  Ex quo patet 6. quam scite Logici pro puntiaverint : Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur , sci licet : Ono maiorem habet idea comprehensio nein , eo minorem habet extensionem , ct con tra. Comprehensio dicitur complexus determi dationum , quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum , qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid . la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur ( 9. 28. ) , ad unum tantum subiectum extenditur ; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias ( 5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7 . nec ab individuo ad speciem , neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem ; ac proinde 8. non licere generi tribui , quod speciei convenit , aut ab illo removeri , quod huic repugnat ; contra vero 9. a genere ad speciem , atque ab hac ad individuum bene concludi , ideoque 10 . individuo dandum , quod speciei convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est , extensio minor , quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur , eius proprietates differentiales ; si ita loqui fas sit, respicit , quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit . Eodem modo , quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant : genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet ; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum , in quo omnimoda invenitur determinatio ; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis , quod fuerit philoso phus , quia attributum hoc ei convenit ob scientiam , qua praeditus erat ( S. 3. 4. ) , quaeque inter Socratis proprielátes individua • les enumeratur. Possesne id de specie , idest de homine pronuntiare ? Minime quidem : in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae capacitas , nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam , qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei , coelui , vel clas si imputare non erubescunt. ** Quum enim genus in specie , species pariter in individuo , contineatur ( §. 23. ) : quidquid generi conyepit , cum specie coniungi ; et quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat .E. g. Animal sentit , ergo homo sentit : homo est intelligens , quia libet igitur homo intelligens est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes animae actiones ; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer santia , vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes . SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE , hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10 , ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus , et cogilationes vo strae, quae interno sensu , conscientia refle xione ( haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g . si quis tristitiam , vel metum sentiat , ciusque idcam sibi formet , hanc sensu intern :) , sive conscientia , nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà , adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia . Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi , nemo ignorat : superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est , exter sensus quinque numerari , visum nein pe, auditum , olfactnm , gustum , et tactum , nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata ; visui scilicet cculum , auditui aurem , olfactui na res , gustui linguam , tactui denique specia tim manus , generaliter vero totam corporis humani superficiem . 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur ; ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur ; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione formentur ( S. 32. ) : liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est , quod a multis docelur , omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE , partim CONSCIENTIA , vel REFLEXIONE adquiri. Vid . Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere , docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM , veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit , novamque Centauri notionem conficit : cuius census sunt etiam notiones montis aurei , intellectus perfectissimi etc. , quae nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu , vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam : Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint , impossibiles sunt , adeoque fal sae ( quae alio nomine CHIMERICAE , a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ) ; si vero inter se non repugnent , pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse , 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis , i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS . * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent Plato , Cartesius eorumque asseclae , quorum tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas ( $. 36. ) : per fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam , ac leges frtales edixit : sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa fuissent eo rum omnium , aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas , non nisi longo sensuum usu , àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse , ac reminisci . Cicero Tuscul. quaest. 1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant , vocavit innatas . Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium , nequaquam erimus de eo refutando solliciti . Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm . ann . Sed pèr hanc rectam rationem intelligi , quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia , quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti : totum csse maius qualibet sui parte ; non posse idem simul csse , et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat , haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione , ac ab ideis totius et partis , exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius adquisitis immediate pendent ? Quae quum ita sini , ideas invatas nullo modo dari posse , merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES , a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE , bus per mentis abstractionem plura divi dere , atque invicem separare licet . ** in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse , at confu sas ; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum , sonorum saporum , voluptatis , taedii , quas ideo aliis explicare non possumus , nec illarum chara cteres invicem discernere , ut ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum matericm , formam , figuram , colorem , magnitudincm , et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS , si ve coniunctas , eas scilicet , quae ita simul a nobis adquisitae sunt , ut quum una nobis occurrit , altera quoque menti obversetur : veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi , quotiescumque odorem illum sentio , rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel substantias , vel modos , vel relationes pobis repraesentare queamus , ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto , : veluti inhaerere conci piuntur . . *. , MODI sunt adfectiones , et attributa substantiis inhaerentia , a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt , quarum unius consideratio alterius considerationem includit ita , ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura , * Veluti diximus , ut nostram imbecillitatem adivemus : id enim in substantiis creatis lo cum habet , non autem in increata , in qua nulla inter essentiam et attributa , nec inter ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant , ut dimensio , color etc. in corpore ; vel EXTERNI, si in hominis mente sint , et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam , quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes quantitatum , item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. § . 2. seqq. , et in Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re ; idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles ; . quinisomo ló . rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus , ne vel earum fundamentum non recte considerantes , vel absolute de relativis ideis enunciantes , praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus , dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet , quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus egentem : declamare de sinet , quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad . v. 1016. Est mi ser nemo , nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin accedamus, quem paucis , iisque perutilibus , include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus , sequentes animo infigito. CANONES. i . Curato , ut rerum , quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras : attentionem proinde , quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam , in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit : hinc est , ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur , exemplo Platonis ., qui neminem erudiendum suscipie bat , nisi Geometria instructum . 2. In studendo praeproperam vitato festinationem ; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto , nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito .* * Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in . 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio , et praeci pitantia caute est obtundenda , ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit : Ius venum ingeniis , non plumas vel alas , sed plumbum el punderą auditinus. Caveio , ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes . - Panca discito , eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia : proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est , qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9 . praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit : Non multa 7, sed multum . to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt :: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem , animique tran quillitaiem amato ; ne affectibus attentionem iurbes , iran , tristitiam , an liaque pathemata ; adeoque sodalitates , compotationes ., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v . 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus enim corporis inertia aus getur , mens obstupescit et habetatur , ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur , quo fit , ut aut nullae ad quirantur ideae , vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti , audivisti > ditatus es , ita familiaria tibi reddito , ut eorum notas aliis indicare queas . Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo , idcarum tuarum distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum , et praest an tissimum dicendi effectorem , et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud ; docendo disci mus . Rationem huius canonis invenies supra.  nes , utpote rei immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng  ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent  utpote ad rem impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii , qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit . mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla , habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ , vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora , et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV ; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem . si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus , Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ).  Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide , voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria . At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum . а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe , ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla , nisi benedigestum , emitiere posse verbum . Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas ; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines , quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt , in quibus solam ideam $ 9 . ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam probavit ? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4.  eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam . Stil. cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs , ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero , a quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio , qnod singulis verbis latinas interse runt phrases ac textos : ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem , vel ob nimium tem poribus inserviendi studium , nullum , nisi pe regrino sale conditum , queunt formare ser monem . 5. Si aliis displicere non vis , quoties cumque loqui oportuerit , modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius , quam veruin dicere , videaris. 7Est et haec paedagogorum nota , qui pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant , seque invisos au dientibus , maximo veritalis detrimento , red dunt. Vid . Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá , sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta , et qua ratione ad quiratur , dixiinus supra . seq. De idea completa cousule , quae breviter do cuimus g. 25 ; diffusius enim hic , quae de illa dici merentur , enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus , isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain , sive ' emuinerando ; il dias characteres , non uno , sed pluribus claris opus est termiuis : ita complexus ille yocum , * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est idea distincta completa sermone expli cata , definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum . 2. eas ** ne 49. Ex qua definitione consequitur 1 . in definitione notas et characteres enume rari oportere , qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin ; notas tales esse debere , ut nulli , nisi so li definito in tota eius extensione , conve niant ; quare 3. merito a Logicis ad firmari , definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito , sed ipsi aco, qualem esse debere , ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem , per quod res ab aliis rebus distin guitur , eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit : inde ergojest , ut definitionem Lo gici esse dicant orationem , qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum , cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est , ac si dicas , definitionis notas tales esse debere , ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe , et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae , et specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae , quae integram definili essentiam expo. nunt , et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet , definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit , ut possit definito substitui , vel ( ut aliis placet ) cam eo reciprocari , vel illo latior , vel angustior erit , adeoque deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto , defini tum pro attributo , et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita : contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse , nisi ea , quae Jei perpetuo et constanter insunt , idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA , seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia , et attributa , pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet , tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse : nam attributa sunt eiusmodi characteres , quorum ratio suf ficiens cur rei insint , in eiusdem essentia et natüra continctur : ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no  nec tio clara notarum ( 5. 23. ) : sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda , obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis ( $ . 43. ) , nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est , si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur . Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur , prius adcurate definiantur , ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit , nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit : ut si dicas , invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam , adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un , quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus , quarum una recte definita , altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret , substantia , quae non exsistit in alio , tamquam in subie *** Definitio identica est , quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta . Quid , quaeso , haec verba significant , nisi quod quantitas sit quantitas ? Cui vero usui definitiones istae esse possint , tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata : in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus , eorumque novis definitionibus formandis , in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id , per quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam , quae in vi to posita est . Illa notas et characteres e numerat sufficientes , quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit ; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem , qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur : vel multiplex eiusdem significatio , eoque casu Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est , realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus , si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam : realis autem , si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem : in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc , nominales definitiones esse arbitrarias : reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta : tunc non definitio , sed DESCRIPTIO nominatur ; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt , qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint . Descriptio itaque , licet plures enumeret no tas ; quam definitio , eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt , nisi in rebus singularibus ;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis . 76 Logic . pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares , et si ab his definitiones proferri videmus , eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas , ubi accidentia attributis , caussas effectibus permixta observamus , quas tamen Philosopho imitari nefas erit , quippe cui idearum analysis , essentiae rerum investiga. tio , verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest , ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit , sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones , utpote rei naturam et essentiam explicantés , ciim cura disci to , ' ạtque teneto . ' Iudicium porro cum m moria coniungito : ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito ; sed ope rum dato , ut eas intelligas , et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes , quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt , ac turpe putant ab eo discedere . Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam , maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti , iudicii vero prorsus ex pertes , libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti , innumeris snnt expcsiti er roribus ; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes , qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt , eamdem premant viam , sibique pessime cou sulant : visum est , cautionem hanc eo neces sariam , quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur , ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis , et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris , prum phrasiumque lenociniis ne conti eto : sed ut sententiam ipsis subiectam lare , ac distincte intelligas , pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo , quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes , quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi , iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis , definitiones proprio marte con ficito , ut ex iteratis' actibus , continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum , pauco forsan aut irrito eventu . Animo tamen non deficiant a : dolescentes : ab exiguis enim initiis maxima procedunt , atque experientia tandem , qui sit huius canonis fructus , addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere , experiundo prosequi , ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas ; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma , verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis , adeo que re unum idemque significare poterunt ? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis , definitiones pro definitis adhibeto : tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium . Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus , amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones : Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est . Nam si eorum omnium , quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur ; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud , a quo ductus et propagatus est , exemplar ac cedit : dubitari profecto non potest , quia ea sit omnium praestantissima facultas , quae , quoad eius fieri potest , cum humanis divi na copulando , mortalitatem nostram , quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem , oratorio licet more pro latam , multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam , si ab aliis di stingui exoptas , efformare curato ; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris , nomenque tuum in tenebris , ob scurumque manebit ila , ut vel patrio , vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere , snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes , sive notas dividi , hasque rursus in alias disper tiri , quisque novit qui earum naturam habet exploratam . Tunc igitur idea illa ut totum consideratur , characteres autem ut eius partes : adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur , * quae recte definitur , quod sit to tius in partes resolutio . * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari potest : variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2. totum integra le , compositum nempe ex corporibus , quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit , 4. subiectum , quod plura accidentia sustinet , 5. accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa , quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest , quot sunt objecta . Inde ergo est , ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis , sive in tegralis , in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas , SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE , ACCIDENTIS in sua snb 7 , D 5 82 Logic. pars 1. iecta , rei in suas caussas , denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec : Homo dividitur in animam et corpus ; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae : Animal dividitur in hominem , et brutum. Tertiae : Homo est , vel doctus vel indoctus. Quartae : Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae : Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae : Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique : Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud , quod in divisionem cadit , DIVISUM ; partes vero , in quas dispertitur , MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus ; hoc autem in caput , truncum o et artus reliquos. En subdivisionem , 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS ; si tres ? trichotomia seu TRIMEMBRIS ; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur . SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam , et curvam , trimembris trianguli in aequila terum , isosceles, et scalenum ; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum , rc ctanguluin , rhombum , et rhomboidem ., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio ; totum autem ae quale partibus simul sumtis esse debet : consequens est 1 . ut membra dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant ; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones , easque oppositas , distincta ; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur , scili cet in tot membra totum dividatur , capax est ; 4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur , posteaque divisio insti tuatur . i quot *** * Contra hanc regulam peccant , qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum , vel qui lineam esse aiunt , vel rectam , vel curvam & derari potest: vel mixtam . In primo enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora ; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii , qui bo. num dividunt in honestum , utile , et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit : adeoque non sunt repugnantia . Peccant etiam ii , qui licet totum in membra opposita distribuant , ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat : illud contra definiunt per id , in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo .eruditorum merito incurrunt Ramistae , qui tam superstitiose di .chotomiis adhaerent , ut in plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis , qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores . Idem enim vitii, inquit Seneca , habet nimia , quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata : sequitur 5. ut divisionibus aeque , ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis , omnia vi tentur , quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur , ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur , Schol. Haec de divisione . Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis . Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque , ac necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata , sed naturam tantum consulito . * Confusionem aeque , ac tae dium vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio , nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum , quae ordi... nem non scrval , et in qua ea , quae in sub divisione cxprirai deberent , comprehendun tur : e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam , divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis , et propositionibus , 6o. Hactenus de ideis , earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum . Eas vero si comparemus , scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio , quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g . Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas , videasque unam alteri conve nire , tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas : contra , si indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud . et prop . 87 separas: haec poris notioni non convenire observes ,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas coniungis ; in altero mentis operatio , qua earum relationem ex pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur ; posterius vero , si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat , et si verbis exprimatur , propositio di citar ( $ . 60. ) ; idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis , quorum ille , cui aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM ; is vero , qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur , ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur , qui duo simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur : merito vox illa ex hoc verbo desumta , quae propositionis extrema coniungit , COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum , quia ipsi tribuitur aeternitas ; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur ; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat , copula , hoc est coniunctio , adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere , ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat , CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur , quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit : idem enim esset ac dicere : Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species , iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda : ut in illis : veni , vidi , vici : hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae , nempe: “Ego fui-ve nens , ego fui videns , ego fui vinccns.”  QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia , sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa ; qualitas comparationis; eiusdem quantitas ; objectum, 6. denique evidentia relationis : ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus ; videlicet, ratione MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et  EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem divisionis natura suppeditet : liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante omnia perpendere , utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque postposita , nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus , scilicet prae vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est aeternus”, extrema seiung , idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius partem negatio afficia , non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam . Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed unuin habet subiectum , et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura > Cap. V. De iud . et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS , si compositionem habeat latentem , et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt , quoties terminus ali . quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam , quae , licet ad essentiam proposi tionis non pertineat , ad eam tamen intelli gendam plurimum confert , exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato , qui divinus fuit dictus , ideas innatas admisit. Propositio illa , qui divinus fuit dictus , in , çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi , aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio : Deus est ae. ternus , iten que : aer est gravis. *** In quo vero consistat palens , vel latens compositio , ex sequentibus abande patebit , ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum , in compositis non unam , sed plures contineri enunciationes , id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic , est, quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e . g. “Si mundus est ens contingens , non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem , altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur : visi enim veritatem adquirat , enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit , centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit , nisi navis ex Asia redux fuerit ; 2 . conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte : nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit ; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere : si digito Coelun tetigeris , centum ti bi dabo , ac si diceres : numquam tibi dabo centum : conditio namque impossibilis est. Coniuncta , sive copulativa dicitur , in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”.  Disiuncta, vel disiunctiva est , in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis , ut plu ribus unum , vel uni plura conveniant , licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris , aut in doctus. Quae de hac observari merentur , con fer in S. 58. cur ( 1 ) Caussalis est , in qua ratio additur , praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra , quia amamus , defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit , sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur , quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa : ut illud Horatii. Coelum , nou animum mutant , qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2 . Davus sum , non Oedipus. Relata , seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur  ut il lud Virgilii Georg. II. v . 291. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA;  EXCEPTIV;  COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas , desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc. , estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, praeter Deum , est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior.  Restrictiva denique est, quae multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus , in quantum , quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo , quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi ; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique , in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est , a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita , contingentia , possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE dicentur ; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”.  Possibilem vocamus, in qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens , cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura , hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula NON.  E. g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem : subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v . ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus , vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part , ubi de experientia sermo erit , huius modi commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere , veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I , negat O , sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur, vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis . contra haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.  E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione immediate deductam ; Euclides au tem illam , quae primo intuitu ab unoquoque perspici potest. Res eo redit , ut axioma vo cemus enunciationem per se claram , adeoque demonstratione non indigentem , sive a defini tione , sive aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur sententiam , ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione , postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex definitionibus Dei , et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus , nempe enunciatione, qua veritas șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur : ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D. , hoc est , “quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est , illud tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se concludit , addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est haec enunciatio : Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc : Nihil est sire ratione sufficiente , per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est , nec esse potest.  SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum , et Philosophorum recentium scriptis.  LEMMA est proposititio ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina , quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa : Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop . 103 S E C T10 lll . De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest , ut de earum adfectionibus pau ca dicamus , de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO,  SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio : estque vel CONTRARIA , si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae , sed non ambae verae ; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant , *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet , altera falsa ; vel deni que SVBCONTRARIA , si ambae sint par ticulares , **** in eaque propositiones am bae verae , at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones : Omnis E 4 spiritus cogitat ; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se , quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus : nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est , altera falsa. Possunt tamen da ri casus , in quibus ambae falsae sint , veluti huum unirersaliter enunciatur , quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres : nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit , est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones : Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat , sunt contradi ctoriae , earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera includitur , et contra : nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con renit , vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites : quidam homines non sunt divites : Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas : quidam homo est liber : quidam homo non est liber, quum haec falsa sit , altera vera esse debet. Rationem eius re gulae , ne longius provehamur , coram dabi una , mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen tium , sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS ; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt : 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi tur , non contra ** . 2 : Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit , non autem con tra. E. g. Duarum propositionum : , Omnis homo est eruditionis capax ; quidam, homo est eruz ditionis capax , illa subalternans , haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit , omnes homines doctrinae esse capaces , verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt ( S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta , et in contradictoriis necessario una sit , altera falsa ( C. eod. *** ) , liquet subal ternatan necessario verum esse debere ; alias , enim in contradictione falsitas ex utraque par te daretur , quod est absurdu :n. Contra ea si verum est , quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse . *** Si namque subalternata est falsa , eius con tradictoria vera erit; sit contraria subalternans , haec non poterit non esse falsa , adeoque subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem : falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem . At şubalternantis fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante , utpote univer sali , subiectum in tota sua extensione suma tur ( $. 68. ) , poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem , adeoque aliquibus tantum spe ciebus , aut individuis conveniens propositio piem efficere particularem ( f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns , non vero subalternata. Hinc si falsuin est , omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit , quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis veritate , substitutio Ea fit tribus modis , scilicet 1. SIMPLICITER , quum eadem qualitas et quantitas manet ; 2. per ACCIDENS , quin quan titas sola mutatur ; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM , quum salva pro, positionis quantitate , terminis additur ne galio , qua fit , ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop : 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um , qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt ; sed non caret sua uti litate ; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio : Omnis spiritus est substantia cogitans : omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis doctus est homo , copyertitur per accidens hoc modo : ergo quidam homo est doctus. *** Sic : Quidam homo non est. pius , per con trapositionem convertitur : ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec ? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes , quae verbis licet di versae , cumdem tamen sensum habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio : nihil tam ani manti proprium est , quam vita et sensie. Quae de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur , tempus terendum potius , quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis , ac propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur , ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES , 1 , Q Voniam iudicia sunt sapientiae , vel stultitiae fidelia indicia , par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re , nisi cuius adaequa tam , aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum . Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum , de quibus iudicare volu mus , distinctatu vel adaequatam habemus ide am : tunc eas undequaque cognoscimus , re lationesque perpendimus ; adeoque termino rum nexibus optime coguitis , recte iudiça þimus, Cap. V. De ind . et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito , cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur , nec alio . * * Etenim infra abunde patebit , verae prope, sitionis criterium esse , si ratio sufficiens ad. sit , cur praedicatum subiecto tribuatur , vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta , non poterit iudicium non esse verum ; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito : ideoque in iudicando tardus , in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud : ver IA BIS AD LIMAM , SEMEL AD LINGUAM , Ne cit enim , monente Horatio , vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto , ac pro sapiente seinper habi. to , datum , postquam semel toqui voluit : Si tacuisses , Philosophus mansisses. 51. De moribus , et viia hominum num uam iudicato . Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare , ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit , ostendemus in Iure Naturae . Quoniam duarum idearum convenien tia , aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest , adeoque dan tur veritates demonstrabites( s 71. ) ; de monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat , ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM , actio mentis , qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur ; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio . Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa , eius extrema , sive ideas confert cum idea aliqua tertia , et ab earum convenientia vel discrepantia , tertium elicit Cap. IV . De rat. et Syll. III iudicinm : tunc ratiocinatur , hoc est rationes conficit , ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis ; cum tertia idea corporis , ob servatque , num inter eas adsit convenientia : qua comperta , duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo : Omne corpus est grave : Aer est corpus ; Ergo aer est gravis. En ratiocivium . Quod si verbis exprimatur , erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus , duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se : vel enim cum illa conveniunt , vel u na convenit , altera discrepat , vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens , in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur : nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se : 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat , illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato ; alterum negantis : e g . Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi , alteram vero ab ea di screpare : unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini ; guain tres , syllogisuum es se falsum . ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant ( per exper. ) : sequitur 4 : ratiocinium tria quoque iudicia continere ; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures , enunciationes admittere) Advertendum hic , tam terminos , quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus , praedicatum tertiae propositionis ,, quae principalis dici potest , MATOR adpellatur , subiectum eiusdeni , MINOR ; {erminus vero , qui tertiam ideanı ex . primit , quique rationem continet suffizientem couvenientiae , vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa , in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter ; illa , in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur , propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto , a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior , aer minor , cor pus est terminus medius , adeoque prima pro positio est maior , altera minor , tertia con clusio . * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus , et syllogismum corrumpere , idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo , vel compositione latet. Fieri hoc potest 1 . per aequivocationem , ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso : eg: Vilpes habet qualuorpedes , Herodes est vulpes ; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie ; secundo vero metaphorice suintam ; 3. per supposi tionis mutationem , ut si idem terminus ma terialiter in una , formaliter in premissarum altera sumatır . E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius , in quo nocens in miori gran . matice ; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum con creto . E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus : Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici possunt : forma namque legibus absolvi tur , quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur : difficilis tamen admodum est termini me dii , qui communis idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus , mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi viam : vel enim notionum alteram ad pro prium genus , vel speciem revocat , et quid quid his convenit , illi quoque tribuit , vel definitionis characteres evolvit , eosque al . teri convenire observans definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus : altera sub iectum ad genus , vel speciem , sub qua continetur , reducendi, eique tribuendi , vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit , vel ab ea discrepat ; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi , et ab eorum convenientia vel discrepantia , praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV . De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis , aer sit gravis ? Reduc subiectum sub genere corporis , et vide , utrum huic conveniat gravitas , eam de aere quoque enunciabis , ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave , aer est corpus : ergo aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve , eiusque characteres , nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant , attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo : Quidquid corpora inferiora premit , est grave: Aer premit corpora inferiora : Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum . Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes : quod si adcurate ser ves , numquam tua te fallet ratiocinatio . 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei , conve nit etiam omnibus speciebus , et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus , et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit  definitio , convenit pariter definitum : ac proinde 4. a quo discrepat definitto , di screpat etiam definitum . * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere , quia ideam universalem , ge . mus nempe vel speciem , exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur , ratiocininm vi tio laboraret , ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat , quam subiectum cui tribuitur , ut cuique manifestum est : li quet , propositionem , in qua medius vicem praedicati sustinet , particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione , cuius subiectum constituit Et quoniam propositio , in qua subiectum in tota sua extensione sumitur , est universalis: liquido infertur , saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis , quas barbaris ali quot vocabulis , versibusque distinguere consueverunt. Nos , missis futilibus tracla tionibus , regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras , quibus syllogismi leges breviter exponuntur , hic subiiciinus , quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto , quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda , quo omnia sophismata , si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis , amphboliae , dictionis composi tionis , divisionis , caussae , dicti simpliciter, con e juentis , accidentis , cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati , in quibus quarins cryptice latet ? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet . Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set , caussam in effectus constitutionem immisceri. : * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit , nec , nisi in comparatione , mensuram adhibet : ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit , in quod medium comparatio nis ingredi , valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati : Omnis bonus Phi losophus est homo : Titius est bonus Philo sophur : ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato , scilicet mersura : iudicium ex comparatione ipsa procedens , perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis , idem esset , ac si dice res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio , si ita diceres: Qui alium l'aesit , puniendus est : Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra , si sic ratiocinaris : Qui furium commi sit , restitutioni et poenac subiacet : Titius fur tum commisit : tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus , vel ne gantibus ( praemissis ) nihil sequi , ius estc . Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f . 86. * , praemissarum unam saltem esse debere universalem : unde si am hae essent particulares , impingeretur in regulam 1.1 . S. cit.; si vero ambae negantes , tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret , adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere : Quidam bo mines suni doeti : quidam homines sunt in docti : ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur : nullus impius est pius : ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem , probe curato , ne in superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis , vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit particularis , conclusio quoque particnlaris , conclusio quoque particularis esse debet , alias plus esset in conclusione , quam in praemissis ; quod est contra regulam 3. : si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit , alterum ab eo discre pat ; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est ; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur , eae ad rem non faciunt ; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM . De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae , quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM , vel 2., COMPOSITVM , vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est , in quo forma ordinaria ( * . 71 * ) quo modolibet périurbatur , aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i . per ordinis perturbationem , * . 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem , quo casu dicitur ENTHYMEMA , 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur , ai quando propositiones transponuntnr : ut si prino conclusionen vel minorem , de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ) , debei omnino compesci (conclusio) ; omnis namque adfectus est compesccn dus ( maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E : 8. Adfectus est attentionem turbare . Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur , in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans propositionibus , quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur , speciatim vero illa , quae cuique patet , ut : omnis adfectus tur bat attentionem : ergo ira turbat attentionem. Minor deest , utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri , minor contra exprimi solet : e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10 , ergo sum : ubi eogito est medius , est terminus maior ; adeoque minor , scilicet ego , cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio : ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est , in quo adest aliqua' propositio composiía , estoque vel HYPOTHETICVS ; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS , vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom . I. F . Sun : Hypotheticus , sive conditionalis est , eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis , sequi tnr , ut sit libertatis capax : atqui est ratio nalis ; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula : Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum ; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis , adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus , sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem , et negantein , quarum unam minor adfirmat , alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere , et cum corpore perire , atqni aelernum vivit : ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum : sed non est cns compositum , ergo est simplex. Notanda crgo regula : Ad firmato uno disi!ınctionis membro , reliqua negantur ; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur , DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur : Syllogismus hypotheticus , cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva , quae in minore negatur , et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici , aut e composito oriri debet : sed neque ex alio ente simplici , neque c composito oriri potest : ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann , quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM , licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA , in quo alterutri , vel utrique prae missarum probatio additur ; * 2 PROSYLLOGISMVS , in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS , qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones , ut prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum . EPICHEREMA ergo rsl syllogisms . cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus , is sce lestissimus ét audacissimus sit , oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN . Sex Roscius non est talis PROB. Non est audax , non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti , quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione contentam : quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens simplex , MIN . Anima humana est spiritus : CONCL. Ergo anima humana estens simplex. MIN . SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat , aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr , dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta . Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin . Lib II. cap. 4. acervalis dictus , est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum , ut unius praedicatum sit alterius subiectum , adeoque tot syllogismos continet , quot sunt propo sitiones , demptis duabus , eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula resolvi potest , quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1 . Nulla praemissarum diibia sit , aut falsa : > 1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens , quem vitio laborare supra observavimus ( F. 87. can. 4. ) . En Soritis exemplum . Quodlibet corpus est ali quo loco : quod est in uno loco , potest etiam esse in alio : quod potest esse in alio loco , potest rnutare locum : quod potest mutare lo cum , est mobile : ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo , eiusque speciebus . e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori , quippe quae a singularibus ad particularia , alquc ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est : nam quum ope experientiae praemis sas conficiat , indeque conclusiones eliciat universales , hac vero syllogismi praemissas constituant , utpote qui ab universalibus ad particularia , vel ab his ad singularia gra dum facit : hunc sine illa construi non posse , quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio , in qua quiquid de singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur , generatim quoque de toto genere vel speeie enunciatur ; adeoque in ea tot minores adsunt , quot species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum , argentuan orichalcum , cuprum , stannum , plumbun , ferrum , igni inieclun liquefiunt : ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur , 1. plena partium enumeratio , 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur , inductio dicelur com pleta , sin aliquae tantum , incompleta erit : si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos pertinet , quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim , quae diximus Cap. 1. , liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus , indicia universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est , quod Inductionem constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet , In ductionem syllogismo principia praestruere : adeoque illo priorem esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt , qui sequuntur , exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi . innotescit , principia prius con siderato num solida sint et indubia . Propositiones deinde ad trutinam revo cato , ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo , ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “ . Quum enim syllogismus materia et forma con siet : illan vero propositiones , hanc propo sitionum connexio , lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur : patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere , ut ratioci . nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum , id agito , ut huius leges nocturna diurnaque manu verses : alioquin loqui scies , non ratio cinari. Exploratum namque est , quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum , vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus , nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos , et de Philosophia optime atque abunde meritos , syllogismo fuisse adeo in fensos , ut eum inutilem , immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit , scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi : unde evidenter proseguisque deducet , syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ . S. III. seq. , ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse , experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit , omnia eius argumenta in syllogismos resolvito : tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error , an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti , qui tamen si ad sillogismum eiusque leges , tamquam ail ly, dium lapidem , exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus , si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas : 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio , adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse , observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset , ac in. ventis frugibus , glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum . Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere , atque intel lectum in veritatis investigatione dirigere: doceamus , oportet , qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici pos sit , pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera , hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam ; vel ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi , F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae , respondet ; ** vel denique LOGICA , si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii , de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus , quae ad con stituendam eius essentiam sunt necessariae : adeoque huic falsum opponi nequit , qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus , ac proin de nequit ens exsistere , et sua simul essen . tia carere. Ita aurum est verum aurum , qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies , falsum aurum ? Minime. Tunc enim non aurum , sed cuprum , orichalcum , aliudve , aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re , est nubem po lunone amplecti , atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui dicimur , quum secundum cong scientiam loquimur , idest dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica , cui opponitur falsilo suium , quod est sermo contra concientiam prolatus , de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no . De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat , vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis ( S. 15. ) : liquet , logicam veritatem vel in ideis , vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con sideramus : concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo consentaneam . Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM . Illa est , cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur : quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro , cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara , distin cta , et indeficiens , quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat , haec vero ob scura, dubia , et fallibilis : non enim per eam, scire possumus , utrum cogitatioues nostrae obiectis suis extra nos positis conveniant necne ? adeoque quum veritatem habemus in ternam , de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus ; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur , si quando nca bis rem , uti in seu est , repraesentemus : *verum est lyDICIVM , siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus , separanda seinngamus ; 've rum itidem RATIOCINIVŇ , si ' neque in materia , neque in forma peccaverit, * Idea ergo singularis ( $. 28. ) vera est , si quando eius obiectum extra nos realiter exsi stat , eoque modo , quo nobis illud reprae sentamus : vera pariter dici debet idea uni versalis , dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit , ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc , ideas deceptrices , chimae ricas , aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen , absolutam obiecti deficientiam , vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens , nec ideae characteres eum eo conferre queamus ; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus : notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare , est contra Logicae regulas , ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes , aliquam credentibus notam inu rere conantur , quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret : veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus ? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis , sive syllogismi materiam es se tres illas propositiones , e quibus confla tur ; formam vero leges . ( S. 87. ) expositas, supra docuimus ( 6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae : leges autem adcuras te servatae , ratiocinium non poterit non es se verum : quia , quum qualis est caussa , ta lis esse debeat effectus , non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest , eum , qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem . Cave tas men , ne ex conclusione , licet evidenter ex praemissis deducta , de hárum veritate audeas áudicare : potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus : Omnis virtus est fugienda : Avaritią est virtus ; Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam . Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur ( § . 60. ) : evi dens est. propositionem dici veram , quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat , servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas , nec ab omnibus distincte perspicitur : criterium aliquod inveniatur , oportet , ad quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem , propositio nem quamcuinque exigentes , eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam ; vel uni versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem . Vid. supra Part. I. Cap. 5. Sect. 1. . 68 . ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras a falsis , a phanta smatis , realitates ab insomniis discernere pos simus : alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur , id quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium . Quia de te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quaedam sufficiens , per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur , vel ab eo removeatur . * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent , quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt mens adquiescat , nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, *** Cap. I. De ver . eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis omni aetate fuere Philosophorum opiniones , exceptis Academi cis , üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi , atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti , nihil a nobis vere sciri posse , temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset , quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit , evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus participatarum ; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter tenens , utramque evi dentiam veri criterium posuit : illam nempe in intelligibilibus ; hanc in iis , quae sensi bus percipiuntur. STOICI , secundum Laer , tium , veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est , evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus , elaram, et distin ctam perceptionem : in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam , quam inter na animi coactio sequitur , ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib .I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia , intellectus , sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur , in ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione : Aer est gravis , qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur : in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora inferiora premat ; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis notionem requira tur : clare patescit, aerem esse gravem , adeo que propositionem esse veram . Et hoc est, quod Wolffius , criterium verae proposi, tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac propositione : Caius est invia dus , requisita ad veritatem sunt invidiae cha racterés alibi enumerati , qni in Caio deprehenduntur , quique rationem con tinent sufficientem , cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat , et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt , ut a mente, quamvis invita , adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem nostram non convinci , nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus , auctoritatis deuique pondere in iis , quae neque sensu , nec ratione percipi possunt : liquet 2 . criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse , intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM. nempe , Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis , sed et ipsas animae actiones , quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur :Naturae sa pientissimus Auctor hominem conscientia , sen suque cum omnibns organis instruxerit , ut : omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret , eorumque conscius esset : non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanae principio , nempe non posee idem simul esse et non esse , ori ginem suam repetit ; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit. Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant , id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur ,et mens adquie scit : evidens ergo est , veritates tam demon strabiles , quam indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere , ab homini bus certo cognosci posse , earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait , iu ea 'eviden ' tia , qnae internam producit coactionem , at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes , nobisque ideo imperviae , quae quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint , revelatae tandem addiscun tur , fidemque mereatur : quum entis illius perfectiones sint infinitae , nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta , sive propositiones singulares , quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec. sensibus , nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm . ; sed sensibus olim ab adstantibus coaevis que percepta , ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad . nos pervenerunt : ct quia narrantium auctoritas suspecta non est , certitudinem , aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc , sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam , in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve ; adec que eamdem asse cuin Cartesiana , Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec certitudinem potius , mentis scilicet nostrae statum , quam rei veritatem respicit , de ea, quam producit , evidentia plura infra , ubi de veritate certa sermo erit , haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint adfectiones , patet , falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii ; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum . Cap. I. De ver . eiusq. Falsa ergo est idea , quum aliter se habet a re repraesentata ; falsum iudicium aiens . , si quando subiecto non conveniat attributum , negans vero quoties boc illi conveniat ; adeo que falsa propositio , quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat , vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari debe . bat ; falsum denique ratiocinium , quod in materia vel forma peccat : i illa , quando propositiones sunt falsae ; in bac vero , quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est , si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur , vel non ; verum adsit rl tio , cur contrariuin enuncietur : tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens , vel latens . Si vitinn sit manifestum , dicuntur PARALOGISMI ; si vero crypsi aliqua tegatur , vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum , nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can . 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii , si sie ratiocinabea ris : Populus ex terra crescit : mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus : ergo multitudo hominum ex terra crescit : quatuor namque termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem , in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis tradita invenientur , qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem , vitium plerumque latet in quarto termino cryptice tecto : Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus : attamen, si sapient , syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus , aut numquam , neque de cipi ratiocinando , nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst , ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis . Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit , hos probe teneat. Cap . 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea , quae characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est : imaginaria vero , qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt , quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati , ligni ferrei , creaturae infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium , quia earum vices gerunt , ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi : licet enim nulla adsit analogia inter spiritum el corpus , atque adeo inter eorum proprie lates : ob similitudinem tamen , quod , sicut in receptaculo plura servamus , quae inde , quum opus fuerit , depromiinus , ila memoria plures ideas , quae tamdiu latuere nobis sug gerit , memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo , cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem , tuto adfir mato : negalo vero , quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc nosti : licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit , ne temere iudicato , donec veri tatis eius , falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia , quae incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod exigunt ; quo fit , ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti , ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in veritate invenienda fru . stra taboraveris , examen reintegrato. Si ne id qutdem profuerit , ne rem pro falsa , aut impossibili venditato , nitam ridiculus sis , qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster , quae dici non potest , quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa , eiusque caussa in - bo mirum n.entibus , raro in re percepta , sit quaerenda ( S. 20. ) : nullum est huiusmo di iudicium , quod non ex praecipitantia fluat . Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt , perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore , aliasve doctrinas , quas intellectu adsequi nequeunt , proimpossibi libus venditant , ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit , nemo non videt. De ignorantia et errore , eorumque caussis. A Ctio mentis , qua verum ( S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit , COGNITIO adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione desti tulae . * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit , eaque mente tenet , illius cognitione gaudet : contra vero , si ea cogni lione sit 'destitutus , disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest , hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere ; plurima quoque nesciri ab iis , qui acriori se praeditos ingenio jactant : cos vero , qui doctissimorum virorum nomine gaudent , quo longius sua sese exserit co gnitio , eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum , quae sciri possunt , puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi , neglectis iis , quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari , quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est , homines , postquam ad sublimiorem , ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint , quamplurima adhuc habere , quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari , ac ne minem un quani reperiri posse , qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet : quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari , ut primo necessaria * deinde ütilia , postremo iu cunda discantur ; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos , qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant , param curantes ea , quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur , quae Dei suique cogni tionem spectant , item quae facultatem quam quisque profitetur , postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus , si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est , operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus , si pro legum codici bus , medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM , non solum in iis rebus , quae nostrum si perant captum , sed etiam in iis , quae iu jus limites von excedunt , 2. MENTIS IMBECILLITATE , sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem , LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE , MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet : quo fit , ut communi illa defi ciente mensura , nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. ( ones T. 1.  ** Confusio studiorum habetur , vel quia fine attentione aut ordine fiunt , vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur : ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba , solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum , nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit ; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei , qui unam al teramve propositionein memoria retinere non valet ? ( + ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint , sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test , quot sublimia vilescant ingenia , quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema , quo ingenia ista iuveni euidam com parat , cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur , dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est , quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt , societatis perturbatores , bilingues , susurrones , ad pessima demum et turpissima quaeque , ( si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim , falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest , quod sit confusio iudiciorun . Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur , quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium , vel quia sanae mentis praevenit iudicium , vel quia praema ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia , veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas : et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum ; error vero confusio iudiciorun: evidens est s . praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam . Equidem sunt plerique , qui praeiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt ; ii tamen io to aberrant coelo : voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis liberandi , pro praeiudia ciis venditant . Si vero rem probe per penderint videbunt, ea , quae voluntatis vitia asserunt , ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere : et si qui méntem obun brant ad feclus , appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus , non aliunde , quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p : 5 . 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera , AVCTORITATIS scilicet , et NIMIAE CONFIDENTIAE . * Illa sunt , quae nostris viribus parum confisi , nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum , quorum apud nos plurimum valet ancio ritas , scriptis vel sententiis kausta adopta mus , eaque pro sanctis habenda puta mus ; hec vero , quae nostris viribus niinium fidentes , quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata . , tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus , et proeiis , veluti pro aris et fo . cis , pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus , atque magistris a teneris , ut aiunt , unguiculis haustae : ea ad auctoritatis praeiudicia referri , nemo non ri det . Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia , , quae iilola vocat , in quatuor dividit classes , quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt ; altera idola specus , hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes ; tertia i: lola fori , idest prae concept as opiniones , quae ab hominum com mercio mabant ; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri , videlicet erronea iudicia , quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas , quas retulimus , classes com mode referri possunt , ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea , quae a nu tricibus , magistris ( vivis illis mortuisve ) , aut populo haurimus : eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus , familiis , vel.: sectis familiares , quarum cultores illis , tam quam glebae , adscripli , nulloque utentes iu dicio , eas, tamquam oracula , pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico , de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto , qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset , in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem , per cervicem transire , per spiralem distendi , ac postea per totum corpus divaricari observasset , nec, nisi tenue filamentum , funiculi instar , ad cor pertingere , a Medico rogatus , adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit : Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus . Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret , in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis , quaeso , haec au diens a risu ' temperaret ? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos , novitatis , similia : ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE , stemata omnia ab eruditis inventa , quibus tam acriter inhaerent , ut uullum sit rationis pondus , quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI. , quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem impellunt , erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur , et speciales . Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS , quos attentionem turbare , idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS , quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LI BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est , idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci , quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet , adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit ( * 105. ) : cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit , ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit , opportunisque prae • diis vacuus ea investiget , quibus par non est , ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit ; nimis autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget , sel saltem crassam parit ignorantiam . 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam singularia attingamus , id sedulo notandum : praeiu dicia , quae ab ca procedunt , tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE , cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint , propositio non in ter praeiudicia , sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est referenda . Quot mala hominibus adferat educatio , vix dici potet. Parentes enim tantum abest , ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent , ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis , erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus , ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia , quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent , ac de illis veluti de Religione , dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis , consuetudo cum po pulo quot foveant errores , quum res sit me ridiana luce clarior , in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1 . Qui nimium suo indulget ingenio , fieri non potest , quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat , quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit , ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum ; nou sunt ubique earlem , sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur ; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita , ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent , hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae , quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt ; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA . Quae quum ita sint , optimum , idqne uni cum , ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE : est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas , ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum , vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem , quo hodiernos incredulitatis fauto . res uii , non sine dolore videmus. Stolidi tas enim , nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam , ut suspendatur iu licium , donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus , nullaque evidentia suffultis est intelligendum . Etenim quae Divina auctorita te nituntur , aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare , impium ; de his ve ro , foret adprime stullum . Schol. Espositis mentis humanae imbe . cillitate et vitiis , reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri , inter quos Nicolaus Malebranchius , et Antonius Genuensis , quamplurima ad id remedia . proposuerint , quibus vel minimum quidem addere , non opis est nostrae ; licebit ta men , ad Auditorum nostrorum instructio nem , si plura n quimus , eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis , hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne , meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in . tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia . * Ut id consequantur adolescentes , prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte observavimus , ea praecipue , quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis , uti modo in lucem editis infans, accedito . Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io , nihil verens ab eius , qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum , quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est : abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum , de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio , quam ignorantiae caus sam haud postremam esse , experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil , nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus ; sensus vero communi ne glectus audacem efficit , omniaque sibi permittentem. 5. De iis , quae vel Divina auctori tate , vel maxima evidentia destituta sunt , prudenter dubitato , donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito . Quae captum vero tuum superant ne perqui rito , nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent , ca non investigare omnino , recta ratio docet. 6. Laboris patiens , memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto . Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc , quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria , quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato . Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito  Non nostrum est praeceptum , sed Senecae , qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret , librorum paucitatem diserte com mendat his verbis : Cum legere non possis quantum habueris , sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito , ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum , utpo te pessimi argumentum , ut anguem fu gito . Senecam audito dicentem : SANA TIMUR , SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er . cor. caus. 157 Ad poetas quod attinet , eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan , vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas : id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait : Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria , melliisque ad cam perveniendi. $ 12 . sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium , vel PROBABILIS , si propius ad certitudinem acce dat , nempe quum non omnia insunt re quisita . De illa nunc , de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i , ut si quam minima adsit suspicio non certitudo , sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status , sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse , al teri incertam . Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit , consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne , quod verum est , vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem , quae non semper terminorum nexum distincte percipit : ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM , il lamque esse , aiebant , nexum propositionis in trinsecum , hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM , hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma ; Totum est maius sua parte , si absolute et in se spectetur , VERUM dicitur , si vero ad men tem referatur, CERTUM est , quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt , sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus , vel denique sccundum huinanae prudentiae leges : evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM , quae illis ; PHY. Cap. 111. De veritate certa etc. 159 SICAM , quae istis ; MORALEM tandem , quae his fulcitur indiciis , quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus ;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt : pos fremi vero haec : Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat , men tem nostram non statim , nec semper , quod verum est , certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi monstranda est , qua tuto ad certitudinem perveniat : eaque , pro certitudinis varietate , diversa est ; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO , et AUCTORITAS , de quibus singillatim , et quantum res ipsa furet , breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest , vel singulare est vel universale ( S. 26. seqq. ) ; itemque vel effectus, vel caussa . Singulares porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura , praecedit , ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur , altera , quae a singulari bus ad universalia ; itemque ab effectibus ad caussas ascendit , nemp: a sensibus , si ve experientia incipit ; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera , quae ab uni versalibus ad particularia , a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit ,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc ; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque , quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere , ceram igni admo tam liquefieri , ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento addisci , * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum , adeoque 3. eam in abstractiş 2 2 . Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult , is casum singu larein , allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia ; 5. denique , ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam . * Quoniam vero est vel internus , vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus : e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus ; toties taedio nos adfici animadvertimus ; haec ve ro , si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM , quae mnibus aeque patet , ut calor ignis, et ERVDITAM , quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur , arleoque so lis innotescit eruditis , ut ' aeris gravitas , elasticitas ctc. 118. Habitus , sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere , aut aliquot instrumenta s ertractan . 162 Logica Pars II. di peritiam habere , ut experiundi arte prae ditus quis dici possit , sed opus est habitn longa exercitatione adquisito , non solum res experimento subiiciendi , sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas , sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur , scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta , et repraesentatio in anima huic obie cto conformis ( ut in Psychologia ostende mus ) : consequens est 6. ut sensus , po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant ; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio , quod ani ma praccipitanter fert super experientia , persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt , orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio , 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur , et quartum requisitum adesse debet , nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes reflectantur , et in acre prius , deinde in oculi humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat , u Cap. 111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico , quod sensationis caput est , producunt : si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur , non eadem erit lucis refra ctio , adeoque non idem locus obiecti parti ' bus adsignabitur : unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus , non sensuum , sed judicii defectú id provenire , fatendum est. Cautiones , quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur instrumentis , 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus , ad quot redi gi possunt , redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit error : si vero quae dicta sunt probe attendantur , non in surgent amplius difficultates , nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti , turris que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes , sensuum fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii , qui ea , quae minime ex perti sunt , vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur , pro experientia obtrudunt. * Tales sunt , qui pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns , experien. tia compertum esse diçat , ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia , vitium subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares , ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa . * Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur : evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia , sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA , quia in his , quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur , eidem tribuimus : ut ignis est rulidus : aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva : ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus : vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur . 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22 . Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit , vel ab ca removendo quod in aliis , non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens , in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas . Sume ergo ignem . pro subiecto , calorem pro attributo , et ha bebis iudicium aiens : ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere , id vero in igne non intueris : ab igne hoc attributum , eritque indiciun negans : ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio . nes particulares in universales comunitari possunt: ita , quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt , si regulae sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ( $ . 18. , et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun : 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda , atque inde notae characteristicae depro mendae sunt , quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant . Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat , 17. ac cidentia omittere , 18. attributa , quae non seinper eadem sunt , determinationis bus particularibus liberare , ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant , aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio , ob serva casum aliquem , in quo videas te , aut alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem , aut plu res etiam , si id res exigat , videtoque cir cumstantias , quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis , cuius notae definitionem suppe ditabunt realem , commiserationem nempe es . se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori coulcianlur , observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum , num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale : quo casu enunciatio erit uni versalis ( $. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur , utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur , investiganda est ratio , cur in ea aliquando deprehendatur , eamque biecto addendo , indiciuin enascetur uni versale ( 5. 69. ): * Ita e . g. esperientia novimus , igni semper calorem inesse , ceram autem non seinper es se liquidam . Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale : at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam ;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat , quae quun sit in igne , cui tunc admovetur , hac subiecto addita , universalis orietur ennnciatio : cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet , ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt : 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur , qun ties obiecto alteri iungitur , idquc con 168 Logica Pars I. stanter : tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura , licet perpetuo , coexsistere wel se mutuo sequi observeniur , sta tim inferre licet , unum esse alterius ca ussam , nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis igni , aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat , vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare , hunc esse caussam illius. 21 . 128 Ex quibus omn : bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras ; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit , pro certo haberi , adeo . que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas , et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere.  Rationem definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem , de cuius veritate iudicium ferre volumus , ita cuin aliis connectimus , ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur : id ve . ro est , quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO , cuius est veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere ( š. cod. ) . SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur , si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo requiri , nempe principia demonstrandi certa it in : dubia , eorumqne cum conclusione coone xionem . Et quia experientiae rite institu definitiones , axiomata et postulata T. 1. tae , 2 > H 170 Logic . Pars II. certitudine gaudent ( s. 128. ) : infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da , proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare , qui ea ex incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur , a priori scilicet , sive per rationem ; et a posteriori , seu per expe rientiam: sequitur hiec 4 . duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO. STERIORI : illam haberi , quando veri tatem aliquam a principiis legitime connexis deducimus , vel effectum per suas caussas probamus ; si quando eam ex experientia reete institu ta , vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus , principia statuamus necesse est , antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem : Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est , qui omnia * hanc vero , sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap . II!. De Veritate certa etc. 1 . ) : sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem . THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO . 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo ( ax. Deus cst ens perfectissimum ( def. 1 . ) ; go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu perfectissimo ( num. 1. ) : onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat , ideis caret confusis ( ax. 2. ) : at Deus om niasibi distinctissime repraesentat. ( num . 2 ) : ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus ( def. ? . ) : quuin ergo Deuts careat idcis confusis ( num .' 3. ) ; liquet , eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo , is caret adfe clibus ( def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo ( num . 4. ) : ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio nem . ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus , obserica biinus , aliquid in nobis esse , cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis , inter eas vero alias ab aliis distinguiinus , boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO . Id. ipsum , quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium , dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat , aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium : id ipsiin autem est quod dicitur anima ( per defin. ) : e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est , vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo ; haec autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes , conclusionem falsam inde deduci mus , ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio , si ordinem sequatur hactenus explicatum ( $. 131. , si ve a priori sil , sive a posteriori : ut videre est in superadductis exemplis ( $: 131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum , quia oppositam propositionem ut veram alla sumens , ex ea absurdum aliquod , sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo , cur id sit aut fiat , erit in nihilo : adeoque nihilum ex sistet simul , et non exsistet. Essistet , quia aliter non posset esse caussa alterius : non exsistet , quia aliter non esset nihilum . Quod quum contradictionem involvat , sitque ideo impossibile : ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica , proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam . Quumque ex perientiae et demonstraționis excellentiam ostenderimus : ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici . dubia ' sensione , vel evidenti principio ni titur , dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii , qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam : quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa , quae a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII , nempe quum principium de monstrandi vel nullum est , vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum , Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum , Stoicorum , aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo , sive methodus requiritur : ne longius hic pro grediamur , de ea sequenti capite , prout res exegerit , breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns . Ea non scientiam , ut experientia et rutio ; sed FIDEM parit. Est autem FIDES : ad sensus propositioni datus , alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet , rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit , vel humana : fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo consistere , ut narrans taliasit , qui nec falli nec tallere possit ; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et infinite verax , quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio ( per princip ; Theo. nat. ) : evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni exceptione maiorem ; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum , omnibusque numeris absolutum ; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere , nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere , utpote vel falsam prorsus , vel indigestam . * Non potest enim certitudo certitudini adver : sari , quia si id esset , tunc contrariarum propositionum utraqua vera esset , adeoque idem simul esset et non esset : quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum ( num . 4. f. huius. ) : patet , quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem : de ea pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem , quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides , quo certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus ( S. eod. ) : liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam , si non adsit ra tio , cur in narrante aut imperitiain , aut malitiam supponere possimus : veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti ex iis , quae narrat , perceperit , si ' parratio rectae ra tioni non repugnet ; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit , vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt scientia et probitate , nec de his semper certo iudicare possumus , quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat , liu modo priores adfint circumstantiae , certilu do vim suam non amittit .. Schol. Nunc in eo sumus , ut explica tae doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos , qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in strumentis me accedito . Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito , dummo do eorum integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat , aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras , caussasque facilius investigare possis . * Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet , sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint , observationes nul lae erunt : ac proinde aliorum experimenta consulenda , praemissis cautionibus , quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus , ut phaea nomena observari possint , a quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur ; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt , su bripiendo a dsensum extorquere conantur : et tunc evenit , ut cum ratione experientia pu gnare videatue , de quo infra sermo erit . Quod sem el expertus es , ne teme ? depromito , sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint , observato; nec , nisi certior omnino factus, de iis enunciato . Saepe enim accidit , ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus , vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta , ut diiudicari possit, utrum principali , an accessorüs caussis , effectus il le tribuendus sit , adeoque non mirum , si facta semel observatione , effectus productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito ; sed sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est , ut supra diximus. Ne ciedito , quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse : qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris accedere . * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate , legitimaque connexione procedit , adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur , vel minuitur. sarumriat , 6. Demonstratio , ut certitudinem ра talis esto , quae neque per mate riam , neque per formam ulla possit ra tione convelli . Iunc enim adsensum etiam ab invito , extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur , haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere , quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes , alteram singularem , quae quidpiam exsistere pronuntiat , univers salem alteram , quae idem existere posse ne gat ; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit ( per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem , quippe non experientia , sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig :bili evidentiae physica adversetur , FALLAX HABETVR PHYSICA , est enim haecminor , cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re , quae summa est , acmathematicam parit certitudinem , par est. Cui deinde subiungit : Fingamus ( quaquam id falsum keputo , ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret , non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1 , Sed quid , in quies , alienam auctoritatem in re tam evi , denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam , apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas , nigro lapillo notatus est : ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam , sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam . cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal , cuncta silento . Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator : sed si per rationem liceat , demonstrationes ad calculum revocato ; * vel si Dei vera bum explicatione egeat , Ecclesiam in , fallibilem eius interpretem con sulit o . * Referentes nồs ad ea , quae diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est , dummodo intra rationis fines quaer stip sit rationes ,iterum conficiautur , e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad calculum revocentur , ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis, , an a defectu legitimae connexionis ? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore , eius que Administris est petenda , non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere , patet ex ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult , ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum , venerit ille Spiritus veritatis ( Pa . raclitus ) , docebit vos omnem veritatem . Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat , assistente su premo animarum Pastore Christo , et docente Spiritu Sancto pronuntiat ; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo . 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test , enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse , scilicet vel eam dividendo , et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo , vel componendo idest , principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo . Vnde clare patet , methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis , vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia , synthetica a principiis ad princi piata ( uti Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi ( S. 131, ) allatam ? Deus earet adfectibus : analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo , caret @ap. IV . De Methodo, 183 etiam affectibus ( per defin. aff. ) : atqui Deus caret appetitu sensitivo ; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis , caret quoque appetitu sensi tivo ( per defin. app. ) : Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo . 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat , repraesentationibus caret confusis ( est axioma ) : sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat : caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min . prob . intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat ( per defin . intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo : omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo ( est axioma ) : Deus autem est ens perfectissimum ( per defin. Dei ) : ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ( $ . 131. * ) . At in gratiam Tironum , quos ad Philosophiam manuducere instituimus , aliam adhuc dabimus demonstrationem , bre vem illam , at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus . DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ) , cuius est intcllectu gaudere perfectissimo ( ex 1. ) , qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare ( defin . 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit ( ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus ( defin. 3. ) ' , cuius vehementiores motus dicuntur affectus ( defin . 3. ) : iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic , quam bene monuerimus in fine primae partis , maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus : atque hinc patet , quam inepti ad demonstrandum sint ii , qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia , a compositis ad sim. plicia progreditur ( s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones ( S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda , haec in alios docendo adhibeatur ; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est , haec sterilior ** : novit quisque 3. docendi ordinem id exigere , ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit explanata , iisdem "analytice modus . indi cetur , quo fuit ab auctore inventa . Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset , aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV . De Methodo. 185 rones ducere via , eosque ad veritatem vel numquam , vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen revocat , minuta quae que considerat , atque possibiles omnes fin git casus , inde ab hac quasi sylva conserta , enodatis extricatisque ambagibus , ad rem ipsam perveniat ; synthetica vero sterilior , & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior , haec facilior est : adeoqne illa viatori tramitis inscio , qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit : haec eidem perito similis , qui brevi apertaque via iter conficit , et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges , tum utri que communes cum alterotri peculiares , tradendas accedamus. Eas aliquot complc clemur regulis ; quarni quinque genera les , ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram : methodum in veritatis investigatione cailere cupit , hos rigides servet . 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis , cur ato , ut a facilibus notisque incipias , indeque ad ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida , ideasque selig ito medias , atque ea semper cordi habelo * Est haec lex , quam inculcavimus ( $. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam , ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur paedantismus , hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum , et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam , de quo vide supra Part. I. Cap . 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili , ac naturali , non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum , quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto : nec , nisi in ideis claris , quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est : quae namque ignoramus vel confuse scimus , ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate , si quafuerit , liberato prius ; deinde in tot membra dividito , quot ca pax est : singula attente examinato ac definito : * omnia clarissimis explica to verbis , ac quaestione quam simplicis sime exprimito . * Prae oeulis tamen habeantur , quae de de finitionibus diximus Verba : quce obscuritatis aliquid habent , adcurata definitione dctermina to , in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto : 6. Ad veritatem inveniendam , quae stionemve solvendam , ne nudus princi. piorumque inscius accedito : num sorida cognitione ad id paratus advenias , se dulo perpendito. * Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis , fieri non poterit , quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae stione aliquam habent connexionem di 88 Logica Pars II. ligenter exquirito : omnes possibiles ti bifingito hypotheses : quaecumque ei lu men adferre possunt , ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator , eaque , superflua de mendo in parvum referto numerum . Omnia deinde corrigito diuque considera to , ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent , ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra , ubi de modo alios docendi sormo erit , enodabuntur . Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica , universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia , su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa . teant ita , ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est , cur in praesenti capite de probabilitate , quantum satis erit , dicere instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis , cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens , cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat , Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim : Clodium dixisse , Milo nem esse occidendum ; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse , 3. idque itinere effecisse maxime expedito , et praeter consueludiuem ; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem , sed probabiliter , insufficientibus quippe indiciis , adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem , quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM , si ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima inveniuntur ; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr ; 4. omne probabile , esse quoque possibile , quamvis 5. non omne possibile dici pro babile possit . * Probabilitas enim supponit possibilitatem : quum enim probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet , exsistere vero nequeat , cui deest possibilitas , liquet, tunc de pro . babilitate qnaestionem institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit , uihil aliud oneris habeat , omnemquede probabilitate contro versiai tollat . Possibilitas autem non infert probabilitatem : nam quum possibile sit , quod non involvit contradictionein ( per princ. Onol. ) , non ideo probabile dici potest , nisi quaedam adsint circumstantiae , quae id revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem . Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis , prae certa : consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit . Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s . 82. seqq . ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis , conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum , quibus illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis , quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem , in qua vel una probabi lis propositio irrepsit , non esse , nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet , ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus , ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit , altera duobus gradibus ab ea recedat , habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem : tunc enim ma ior erit Ei , minor - , quibus addie tis , babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate , sive certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse , ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat , altera ve ro tribus ; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit , quot deerant in am babus praemissis. Dem . 146. His generatim expositis , ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM . De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO , quae est propositio insnfficienter probata , scilicet a principiis nondum certis , et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis , ac proinde po test ut plurimum esse falsa : unde opinio di viditer in PROBABILEM , et IMPROBA, BILEM , prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia , vel precaria , omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et . Eius au ctores sunt homines : fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans , HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia , nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem , nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur , non certitudinem , sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus : evidens est , historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam . * Ut autem narratio historia dicatur , dcbet non modo esse fidelis , hoc est res clare , eoque , quo contigerunt, ordine narrare , sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta , circumstantias , relationes , caussas ; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve , aut fal li aut fallere possunt , ut experientia testa tur : consequens est , ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint , quibus testium an ctoritas , factorum genuinitas , natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA , sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi , recte adhibendi , factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium , vulgarem sequuti opinionem , infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus ; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus ; sed quidquid de usi auctoritatis , rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt , ea ad artem criticam : pertinere , qnisque sciat : id quod semel pro sem per observandum . 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt ; narrans nempe , bar ratiun , et ipsa narratio : hinc est , ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat , scilicet i . ad homines narrantes, ad res narratas , 3. ad modima parran di . * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his , quae sequuntur , regulis tam historicam , quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus , nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus , gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet , qui philosophi nomen tue ri cupit , quo frequentius in evolvendis li bris , factisque diiudicandis erit ei , re exi gente , versandum, Quoniam hominibus , licet eadem natura , non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas , nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ) ; hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ) : patet in quolibet teste tria concia derari posse , scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur , testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES , yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS ,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes , itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt , vel AVRITI , qui illud ab aliis audiverunt ; et hi denno vel Co AEVI sunt , qui eodem facti tempore vi xerunt , vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt.  Sic Livius inter testes prudentes est referen dus : multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat , quippe Romanus et ipse. Tandem factorum , quae sua aetate evenerunt , testis coaevus , eorum autem , quae ante conditam condendanıve urbem , ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur , recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione , quod attentionem iudiciumque requirit , homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos ; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus , non etiam iu dicio , indigentibus , dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur : tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit ; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri , nec non 4. oculatos auritis , 5. coaevos recentiori . bus ,  inter auritos autem prudentes ru dioribus , eos tamen , ad quos ex oculato Cap. IV . De Veritate Probalili. 197 nullam esse , fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit , ceteris incerto alio . quin rumore ductis esse anteferendos , ac denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri , cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit , 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta ; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes ;nihil enim impossibi le potest esse probabile ( S. 144. ) ; 10 . nullam quoque esse probabilitatem , si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret : licet 11. probabilius id ha bendum sit , si a pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur ; 12. nulla itidem probabilitate gaudere , narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat ; 13. non idem tamen dicendum de ea , quae moribus opinionibusque nostris ad versatur , *** nec 14. si caussa modusque ignoretur , aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem , utpote omni proba bilitate destituta : veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis , Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam , I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse ; vel quando , Tarquinio Prisco regnante , Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25. : id enim mirabile quidem et insolitum , sed a Livio tantum relatum . Qua de re iure idem Historicus de his , fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam servat , non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur , ut potc poeticis magis decora fabulis , quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata . nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae , quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum , a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam ; palmae eiulatus in eius absentia , et id genus alia. > *** Sunt enim , mores pro regionum ac tem porum varietate , varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est , fortasse apud alias Gentes honestum erit , et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio : tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur , non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse ? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem , id sedulo advertendum , facta stilo simplici non oratorio aut poetico , narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur , maiorem meretur lidem , quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica , politica , et practica. 153.TJAEc de fide humana , quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet . Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac cedamus , nempe PHYSICAM ; quae ha betur , quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est , fluxum maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie . bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse , compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories : 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea , aut clara saltem , habeatur , ne chimaeram pro re , aut nu bem pro Iunone amplectamur ; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem , exigatur : 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur , et.cum phaenomeno conferantur ; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant . * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat : sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse : commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est , qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus : evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius , quam ad Logicam pertinere : adeoque non mirum , si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos sit , sumamus e. g. aliquem , in quo vultus hilaritas, iocandi studium , corporis mobi litas , laboris impatientia , prodigalitas' , in constantia , garrulitas etc. observentur : non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap . V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio : Dein cessu animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur , ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8. , et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat , qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum . Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat , eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA ; id quod maximo apud Politicos usui esse solet . * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem , propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint : adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem . CA habetur , quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus . Saepe enim accidit , ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant , quae multiplicem sensum ad mittunt : tunc ex auctoris fine , verborum significatione , locorumque collatione pro babiliter colligitur , quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca interpretan , di , sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus , quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur , qumun ex legitimis principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter pretandi; consequens est 1 ., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te ; adeoque 2. regnlae tradantur , opor tet, quarum ope sensus ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v . De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint : non mirum , si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus , quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem potius , quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam , qua scriptor conceptus suos expressit , eiusque idiotis, mos probe calleat : adeoque patet 4. falli eos , qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt ; 5. ut ad scriptoris sectam , finem , affectus,mu nus, aetatem , gentis suae mores ' attendat : unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat , ac de eo secu dnm dome sticas notiones , non ex propriis opinioni bus , iudicium ferat ., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct , inquit Vir eruditissimus , nostrarum opi nionum veluti oblivisci , el quaerere , veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur , ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus , praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere ; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare , sed antecedentia et con sequentia attente conferre : multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare , ut quod obscuritatis ir , repserat , statim evanescat . Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat attentio ( m. 19. ) : sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari vult , eum attente atque ordi ne legat , et codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio , ratio in promptu est. Videmus enim , quam multis scateant erroribus edi tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis , ut Delio saepe notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris , qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno Hermeneuticae adiumento est Ars Critica : non abs re fuerit , pauca de hac illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus , communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote rit , libros genuinos a nothis , integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa , si Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus , quo'nemo elaboratius eam pertra ctare , operaeque pretium facere posset. Nos autem tironibus scribentes , notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus ; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium , et matura aetas , omnia, quae hoc super argu mento scienda forent , in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis , et in tegritatis librorum in legentium animis excitare . * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus suppeditari : latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem , quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta , yeluti per lancem saluram , ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur , qui ab eo , cuius nomen prae se fert ,-. fuit exaratus ; SUPPOSITUS autem , qui ab alio , quam cuius nomine insignitúr , scripius est. * Liber dicitur INTEGER , si tantum contineat , quantum Auctor in eo descripsit , CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit , vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS ; sin den tuni , MVTILVS appel . latur . si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios ( dictantes perin de , ac scribentes ) , Criticos , impostores , tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis , quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo . CANONES t . " S " ppositum habeto librum , qui in vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori ; interpolatum , si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint , ea vero nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur : aut alius esto , aili muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant , genuinus esto et inte ger , nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber , cuius nulla fit inentio in veteribus catalogis , aut a scriptoribus proxime sequentibus , plerumque fictus esto , cut saltem suspectus, . 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata , nequit recentio, rum auctoritas , nisi gravissimis rationi. bus, , pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária , quae scriptor cuius nomen praefert , alibi constanter defendit , ut plurimum aut spurius esto , aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo , in quo personae , facta , uut nomina com memorantur Auctore , cui tribuitur , recentiora . 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae , vel adest scriporis imitatio . 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens , aut ineptus , viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi , in quo ille vixit, spurius esto , eiusque censendus , ius stilo est conformis. In . Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem , aut libri interpo Talioncm : in translatione vero , si ni hil est quod sapiet linguam , in qua scripsisse constat Auctorem , cui tribyi: utr , translatio non esto , cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis : sed res est maximi momenti, et nimis implicata , nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica , ubi plurima inveniet suo gustui . adcommodata. Id interim notasse sufficiet , in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam , adeoque in errores prono cursu la bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus , nempe PRAXIS , qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam ; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi , nec bonae lectioni par est , qui hasce lautitias nondum degus tavit : Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari , et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere : de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque , quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g . 138. seqq. ) ita dirigimus , ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1 . ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione , tantum optima methodus a medi tatione distet , . meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur ( S. 141. ), callere debeat ; adeome 3. eo felicius meditetur , quo exactius leges illas esequitur ; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus , ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit ( S. 167. ) . 5. Tirones ergo , aliique bonae methodi , veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti . * Cui enim serei principium deest , nullo mo do seriem ipsam , hoc est veritatum catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat , quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat , nec illas recte disponere , nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur idearum claritas ( 5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio ( S. 19. ) ;consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult , attenitonem praecipue colat ; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis ( S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur praecipue de finitiones ( f. eod . ) : recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi . tatio , edcurate definiatur , f . 141. cap. 5. ) , ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen , quae de definitionibus ( Par. I. Cap. 3. ) , et divisionihu:s ( Cap. 4. ) docuimus , et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur ( S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi , * ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden dum . Tribus quidem modis id effici posse certum est : scilicet PARTIS OMISSIONE , nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne : Invidia est taedium ob alterius felicita tem , omitte genus , et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius : omitte differentiam , eritque aliud axioma : Invidia est taedium 2. INVERSIONE , si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE , si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium , -non esi invidus ; vel eum , qui non est in vidus , alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur , si nempe modus exprimatur , quo quid fieri potest : sed ea melius ex realibus , quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum : Invidia excitatur , si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis , opor tet il . ut ex eorum collatione THEO REMATA , vel PROBLEMATA compo nantur , j 12. et unde consequentiae im mediatae sese offerunt , COROLLARIA deducantur , vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3 . Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis ( §. 171. * confectis erui poterit theorema : Invidia oritur ab odio , et similia . Pari mo do quia Problema est propositio practica , eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema : Juvidiam in altero excitare ; cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis , ala terum odio prosequatur , cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per cipiet , adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria , veluti ergo qui tae dii non est capax , invidus esse non potest : item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat , ei non invidet ; atque ita porro . 173. Haec omnia vero praecepta , ut aemoriae infingantur , brevissimis ample temur regulis , quas , qui sequuntur , shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert , exa cte dividito . 2. Ex definitionibus axiomata , item postulata deducito , atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito . 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto , et sic theoremata vel problemata efformabis , ex quibus , quae haberi poterunt , erues consectaria . 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato , et id agito , ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates , novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est , qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur , modo regulae alias ( $. 141. ) propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione , ei usque legibus , quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere , ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen da foret , eaque in syccuin et sanguinem vertenda . Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus , quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum . Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus , absque librornm auxilio , sequentem instituens meditationen , haec habibit. § . I. Ex casuum sin vularium observa tione g . 124. seq . ) critor Amici DEFI TIO : Amicus est persona , quae nos amat, f . II . Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt , notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic . amare alierum nihil aliud significat , quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo , quo diximus , artificio axiomata de dacantur . Et quidem ex prima definitione ( 1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum , ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor , ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor , tamdiu durat amicitia . 6. Qui efficit , ut ab alio ametur , eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit , amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori untur sequentia . 1. Qui alinm amat , ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan , obligatur ad alte rum amandum . 3. Qui iubet , ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus , alterum , iubet , ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem , ex alterius felicitate capiendain , promovet amo rem . 5. Qui illum impedit , hunc sis tit . V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus , nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat , alterius felicitate delectatur ( s. 1. ) : amicus alteruu amat ( §. III. cud 1. ) ; ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI . Ex quo inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV . De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus , quum taedii facta sit mentio , perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus , qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero , quem alterius infelici. tatis taedet. $ . VIII . Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est , qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur ( S. VII. ) : Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR . Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $ . II. or. 2 : ) : quod quum dicatur coinmise atio ( 5. VII. ) : amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm . § . IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom . 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices , eumque ab infelicitate , dum potest , non vult eri pere , non se dicat amicum . 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis , maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo . DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii . . XI . Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem , earumque repraesentationem . 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum , obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum , praecipit secun dum . § . XII . Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur , ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet , eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet , hoc quoque iubet . 4 Quicumque obligatur ad primum , obligatur ad secundum. 1. XIII . Conferantur definitiones cum antecedentibus , indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi , tamquam bonum , reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ( $ . V. ) : quod quum fie ri nequeat , nisi illam sibi , iamquam bonum , repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum , repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii . DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii ( S. X. def. 2. ) : ex hoc patet , amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi , tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur ( per theor. 2. ) , quod fieri non potest , nisi id , tamquam bonum , sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi , tamquambonum , repraesentat. § . XIV . SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus , qua anima id , quod sibi , tamquam bonum repraesen tal , adpetit , et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem , idest gaudium durabile , adpe tit , et promovere studet. DEMONSTR. Omne , quod nobis , tamqnam bonum , repraesentamus , ad petimus et promovere studemus ( XIV . ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii , tamquam bonum , repraeseníat: er go ea omnia adpeiit ; et promovere stil det . *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet , quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit . S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta . 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet , eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ( $. XV . ) , quod idem est ac promovere eius perfections.  F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum : Tuas aliorumque promove to perfectiones . S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA . 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam colendam , 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est , ut aliis simils amici . etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur , dici non potest , quot novae propositiones exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint , aut nostra nos fallit opivio , aut sine multa lectione , brevi tempore , minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent. K 3 2 ? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus , atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax :facile est and intelligendnm , cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate scri pta , plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant , ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris , ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere , quibns in jis ad examen revocandis , dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur : id quod in praesenti se ctione docendum . 175. LIBER est aut HISTORICVS , aut ŚCIENTIFICVS .Ille , in quo facta, seu enunciationes singulares ; hic , in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam , Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil , nisi duorum , quae enunciavimus , ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio , cur libros omnes in histo ricos , et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA , quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio ( S. 147. ) , facta vero vel Naturae opera , vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam , vel deniqne litterariam Rempublicain spectent , esse potest NATVRALIS , ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA . * Rursus quoniam omnium , aut quo rumdam , vel alicuius ex quatuor illis , fa cta refert , dividitnr in UNIVERSALEM , PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat , altera hominum vices et facta commemorat , iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat , po strema vel disciplinarum et librorum , vel eru ditorum vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS , si omnia in ea Naturae opera eno dentur ; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno vegetabili , fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae , lapidis, metalli , aut viventis inventio , usus , incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili , ecclesiastica , et litteraria , de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo . legun tur ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur ( 5. 274. ) ; ea vero verbis referta sunt , ut auctoris sensus intelliga. tur ( §. 160. ) , idest eaedem ideae ver bis adsignentur , quas Auctor cum iis con iunxit ( S. eod . ) : per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis , aliorum scriptis curato , uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i . in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad definitiones , quibus sin gularum significatio determinatur , vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s , quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus ( 9. 19. ) : se quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio , crebriorque repetitio , in libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur , nempe veritas , ordo ac finis , facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem , ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae sunt( $ .152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum , tuna in temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA , circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde patebit , adeoque , an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere , phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna , partiunqne nexum di stincte exponere ; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare ; Ecclesiasticae scopus est , statum Ecciesiae , incrementin , in file costantiain , in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis , in ea conservanda au gondaque Providentiam , 2 gelis , ostendere ; Litteraria ? tandeſ , inveniendi arlena , quam EVRISTICAM vocant , aptis aliaque id K 5 226 Logica Pars II : subsidiis , et veritatum a veteribus invenla rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo , restat ut attente legatur ( S. 178. ) statimque innotescet , utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum scientificorum lectio ne sat erit , si pauca degustemus. Quo niam in scriptis didacticis methodus reqni rit , ut nullus adsumatur terminus , nisi notionem habeat sibi adiunctam , atque ut ea praemittantur , per quae sequentia in telliguntur: consequens est 4 . ut in iis legendis singulae veritates prius in classes dispescantur , ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu de deductis pertincant ; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore ad fixas attendatur ; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi reddat familiares , nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat , in quibus vi. deat , si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum , de quibus sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem , Cap. VII. De l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem : * quae omnia si desint , le ctio dicetur SUPERFICIARIA . * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati , qui in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus , aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt ; vel adolescentuli vo culis tantum , phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti , qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem laboris patientia , attentio , mens methodo ac meditationi adsuefacta , non vero in expen ex . dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare , non est no bis solum nati sumus , adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus : veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit , is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium . Vid. Cic. de Fin . Lib . II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum , qu am a Cicerone de Offic. Prooem . usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono , ut aiunt , alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus : vulgari namque ser mone tritum est , Magistrorum alios esse vi VOS , alios mortuos , qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur , ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur , vel scripto exaranțur ( S. 42. ) : patet , duplicem esse docendi modum , vo ce scilicet , atque scriptis ; adeoque MA GISTRUM dici debere , tam eum qui li þros in lucem edit , quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum , qui scripta didactica ( de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM ; eum vero , qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM , DOCTOREM , MAGISTRVM dicemus : idque ad evitan dam confusionem , atque inutilem verborum repetitionem . Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones , nt de utri Cap. VII. De Verit. commun . 229 se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse mus : nunc , quae utrique communia sunt , dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est , alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint , adeoque 2 , indiciis sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ( $ . 1 : 4 . ) . quod ut fiat , 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur , ideoque 4. sit perspicuus , ad quod requiritur 5. ut artein , in qua versatur , distincte intelligat * ( $ . 24 ) 6. bonam methodum rigide servet ( . 138. seqq . ) , 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat , distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae est , si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat , fieri non potest , ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio , qua al terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope ( . 133. ) quisque videt , convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios de veritate , quam docet , debere convincere , ** ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei non licere : *** nisi res talis sit , ut sola probabilita te cognosci possit . * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta , ( 132. ) , vel a priori vel a poste riori ( $. 131. ) : non abs re convictioni ea dem nomina , prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum sese insinuet , oportet , ut iHe sit atten tus , in demonstrationibus versatus , et talis ; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis demonstrationibus , non conviciis , irrisionibus , dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO , quae quum sit rationibus insufficientibus innixa , convi ctio dici nequit , quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides , convictio sit Philosophcrum propria , perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero Oratorum , qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur , quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam , de quo conferendus est Cicero de In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur , methodique cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse soliditatem , adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque , ac docendum ineptos . * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De Librorum dotibus. IBER , in quo veritates continen tur , SCIENTIFICVS dicitur , alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM . Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS, et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate , ac deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate . Solidus ergo dicitur liber 1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ( $ . 150. ) , 3. si propositiones singulae rig de sini demonstratae , si bona me thodus in demonstrando adbibita  pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle ctae , tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam , foret maguopere optandum . 189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate , iustaque eorum cum ideis pro portione sita est . Verborum PROPRIETAS es'git , ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit , ut liber non sit prolixior , nec brevior , quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit : ita et nimia brevi tas Auctoris sensum occultat , adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam . Stili culiior. Part. S. cap. 2 § . 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex veritatibus et principiata , ut aiunt , ex principiis legitimo et continuo sint deducta , nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur ; denique si ea praecesserint , per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes : qui namque finem non ahso lvit , INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret , si sufficientiae particu lares characteres , hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse : id enim ex attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se connexurum , et a prin cipiis suis legitime deductarum . Et quia id quatuor , quas recensuimus, dotibus absolvitur : hinc est , ut Logici dicant , librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt ; sed ii tantum qui veritates a se detectas , et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem , qui alienis laboribus insudant , alii sunt COMPILATORES , qui aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt , mulla ordinis habita ratione ; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem numquam , quandoque vero laudem ( illi praecipue ) ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam , qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant , impudentique fronte suo nomine inscrie bunt , iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum , sit , omnes no runt. SECTIO II . De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur , qui alios voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus , qnas tradit , certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu , par tim a natura , partim a voluntate penden tes , sunt quatuor : ab intellectu SOLIDITAS , et in doendo PRUDENTIA ; a na tura DOCENDI DONUM ; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is , qui doctoris munere fungi vult ; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret , at que propositionum omnium sive a se , si ve ab aliis enunciataruin analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur, aegre ab auditoribus au dietur , quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est , vel laboriosa : adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores suos de veritate cerlos reddere debet ( S. 184. ) ; ad certitudinem autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat . Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere , idest dicendi promti tudine et suavitate , quo deficiente , ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus , cavere debet qui eum docet , ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit , si verborum inopia , dicendi infelici tate , animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum , ei auctores fuerimus , ut cendi munere se abstineat , si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia , que non tam voce , quam exemplo erudiuntur : liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi . ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem : praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic , animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent , nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit , et adolescentes exemplum potius malum , quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil , praeter praeceptoris imitationem , prae se ferent : quum bene monuerit Iuvenalis : Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos .Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine , patientia patientia , et labore haec auien omma nisi ab iis , qui nos amant , sperare non possumus : recte infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11 . et studio ; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus , ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat , et studium deerit disceniium utilitati inserviendi : ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati , vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur , et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia ponantor , habebimns magistrum , vel leo poribus inservientem , in muneris exercitio ne gligentem , timidum , sui dumtaxat studio abreptum , et ad vilissima quaeqne facilem ; vel inaccessibilem , clatum , ' omnia sibi per mitientem , quandoque etiam garrulum , ét e cathedra , tamquam e suggestu , aliorum no mina lacerantem , quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur , illico doctorum vi tia ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio . Huius effectus sunt 1. obscuritas , qua fit , ut talis doctor terminis inanibus , vagis obscuris , nec recte definitis sit con tentus , resque difficiles exemplis illustrare nequeat : 2. confusio quae methodi negli gentiam , analyseos ignorantiam , ac con vincendi impoientiam parit : 3. docendi ineptitudo ; quum enim ars ignoratur et methodus , deficit prompitudo et suavitas , quibus ducendi donum absolvitur * ( S. 95.) : 4. molesta prolixilas , aut obscurabre vitas ; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit , ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio , quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea ( S. 103. * ) : 6. ser monis barbarics , cui proxima est obscuri. tas et taediuin , adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit. commun. 239 * Non desunt equidem , qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio , nec captui auditorum se accommodare sciunt , li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit : me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet , quam impe ritia , scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est IMPRVDENTIA in do cendo , quae in caussa est , ut auditorum Caplui genioque se adcommodare , atque media ad finem ducentia excogitare , ac proinde animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito ? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas , qua inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes , vel aliis invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant : quo fit , ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra pessimos , audaces , ridiculosque mo res induant. 240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia , quae amorem excludunt, referuntur : AMBITIO , si ve nimia gloriae laudisque cupiditas , qua fit , ut vana eruditionis, autº eloquentiae ostentatione , nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non explicentur , sed implicentur , propriaeque existimationi potius , quam discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA , quae omnia trabit commodum efficitque , ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO , quae ignaviam , laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit , atque soliditatis defecium arguit , quum bene monterit Genuensis .noster : difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem , ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos , et ef fraenis alios lacerandi consuetndo , quae in caussa fuit , ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint : videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium praesumtio , qui , ne discipulus supra magistrum esse vie deatur , vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun . 241 bi solis reservant , vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit , eosque opinionum singularium et ab surdarum , saepe etiam impietatis studiosos efficit : id quod maximo adolescentihus detri mento est , praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet , non aliorum , sed sua tantum commoda promovet , idque per fas an nefas , nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes , vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt , ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur , ut se aliorum odio , invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro . ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi , desides , et laboris impatientes ; atque inde fit , ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis , ut Servator ait , os loquitur , bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi , adeoque veritatem , quam alias intrepido vultu , si ri te munere suo fungi vellent , dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom . I. L neque illi reni , ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant , aut tegunt, aut ( quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio , scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam , nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum , que risui se exponunt. 201 • Superest , ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus , ut si qui munus hoc inire cupiunt , bene incipere , feliciusque prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis , hos diligenter observato : CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius , ac vitia , quibus eos laborare per cipis , prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus , nisi solida artis methodique cognitione imbutus , ne te mere suscipito : idque summa fidelitate, prucuttia , ac sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm . 243 busque disciplinis non tam voce , quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que , teste Augustino , docendi genus est subiectio exemplorum . 4. Religionis amorem , morumque in tegritatem in discentibus foveto , neque te illis familiarem nimis reddito , ne , excusso subiectionis fraeno , doctores parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. " , SECTIO III . De Discentium dotibus ac naevisn's 202 , Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi ; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a praeiudiciis : Quidquid ergo attentionem tur bat , vel praeiudicia fovet , ab iis abesse debet . 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR,  LABORIS PATIENTIA et otii fuga , + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO . It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam , cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem , verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem : quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini.  Hoc est libertas a praeiudiciis ,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda , et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia amemus , his sedulam navamus operam , illosque atter te auscultamus : si vero amor hinc absit , taedium supervenit . , attentio minuitur , que aut parum aut nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est , ut dixiinus ; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt , ut ex superioribus abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit : adeoque solum oportet esse , qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia , qualia sunt 1. Religionis spretus , quem conse quitur voluntaria praeiudiciis adhaesio , 2. mentis hebetudo , 3. attentionis distra ctio , 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima , 4. aversio a studiis vel doctoribus , 6. denique spe ctaculorum , multitudinis , et sodalita tum amor , quo fit , ut attentio distraha tur ( $ . 40. Schol. Can. 5. ) , et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis , vel vo. ce liont : et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus , vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur , et ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur , actio haec dicilnr CONFITATIO ; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis . Vid . Weienfelsium de logomachiis eruditorum . Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con L'utilis , sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici , ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio , id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit , ut con vincendus sit attentus , nec adfectus in eo attentionem turbantes exciteptur : liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero per turbant , atque adfectus excitant , vitare debere ; consequenter 6. a conviciis , ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt , abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE , quae non quidem ex genui no Auctoris sensi , sed ex confutantis opi nione eruuntur , quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur , sed ut adver sarii fama in discrimen vocetur , isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ( $. 207. * , ) eique invidiam creent : non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum ; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari . * Logic. Lat. pag. 752. Idque iure merito . Nam confutator vere dicitur , qui veritatem ab al terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem , sed adversarii famam perse quitur , nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id non rationis auxilio , sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur : ut in con futatione nihil vel minimum peccetur , hos qui sequuntur , servare curato . CAN ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more , non odio adversus alte rum ductus accedito . Adversarium soli dis rationibus non conviciis , dictisve famae nocentibus de errore et falsitate convincito . 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius scripsit , ut dictionem corriagat , seque intelligendum praestet , ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum , sive principia falsa sint, sive connexio illegitima , cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator esto , ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI , QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio . Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit , ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide demonstrare , aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit , eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus , vel Cap . ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus . Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA ; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin , * Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur , nec ratio perfici tur , sed contentiones animique perturbatio nes aluntur , nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis , ac iuventutis studiosae malo. ? 211. Defendenti ergo , ne a recto. aber ret , Sequentes proponimus. , C ANONES. 1 . PhoRopositionem a te légitime demon Stratam , aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito ? ? 2. Eius , qui te maledictis conviciis que laesit , scriptis modesto respondeto silentio . * la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo , respondeas , nullum operae pretium facies , adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis , inque idem vitium incides , quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis , in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris , sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius , quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit , eum te explicasse sufficiet : si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet : si in demonstrationibus te ar guere velit , earuin legitimam connexiouem prae oculis ponere ; si vero aliqua consequen tia absurda tibi imputetur , aut ipsius conse quentiae veritatem , aut eam ab adversario non recte deductam , demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit , te tacente veritas ipsa loqietur , tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. SECTIO III . 7 212. , 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem accedamus , quae non scripto , sed voce fit , quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur , quarum una propositionem'impugnat , altera eamdem defendit , tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat , OPPONENS ; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat , DEFENDENS, vel RESPONDENS ; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert , PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua definitione liquet 1. di- , sputationem esse impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem ; ideo que 2. , utramque demonstratione absol vi , ut disputantium alteruter de veri tate convincatur ; quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur , prae cipue vero 4. status quaestionis formandus  et 5. oportet , ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant , odio , praesertim et invidia, Non enim ad rixandum , sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt , quibus attentio turbatur ( S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse , ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant , ut potius .a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto . riis versari , hoc est ut idein ab uno a d. firmetur , ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat , eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est , vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere , haeć syllo gistico more conficitur . In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit , ihesiique defendit ; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat , ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit , falsas negat , dubiasque distinguit, eoque progre diuntur , donec ad principia perveniant.Addi potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus , et Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu recesserit : ab eius explicatione merito ab stinemus : in ipsis tamen praelectionibus , quae de ill a dicenda forent , paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem , quum homini pede stanti in uno ñec eruditio , nec verborum copia praesto esse possit , Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére : id quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum , dein de opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus . Quisquis ergo ad dis putandum accedis , hos religiose castodito : Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ) . Nihil porro , nisi terminis claris fixisque expressum , in e am incidito . Obscura quaeque explica to . 2. Dispu'ans adfectibus vacuus , veria tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto . Cuncta modeste, suaviter , amice proferto . Convicia et dicta mor dacia , velut angiem , fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto . 3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris , syllogisticam artem cuidi ha beto . Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito . Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo nitur explicandum , explicato : si vero probandum , tamdiu syllogismorum , au xilio probato , donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones attendito . Si illa obscura sint, illi explicanda dato ; si vero clara , Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones , prout res tulerit , contra formato. Praecipue videto , si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque , ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est , quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum . IV . 17. , qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis , quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito , deinde sedulo perpendito , num de bila gaudeat soliditate . Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur , probatio nem postulato . 7. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato , veras concedito, dubias vero distinguito : sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas . 258 Logic. Pars. ii. Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega , numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis , vel ut ne gationis caussam adferas , vel ut lucem quo que neges meridianam : utrumque homini sen sibili acerbissimum . . 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem demostrare possis ; nihil ultra oneris habebis . Si vero in auctoritate probatio ' versetur : sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re fellere . 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit insidias : ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio , quam praeceptis , ad discuntur ' . Si tamen dicendum quod res est , in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo , immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius , quam invenitur : Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru . in Plit. instrum . Pur: III. Cup . 3. g. 11. Giuseppe Capocasale. Keyword, assoc: ‘tears’ are a sign of sadness, but the kind of sign that ideas are related with are arbitrary, not necessarily natural signs. The correlation can be iconic, arbitrary, associative, etc. A sign is not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire). Grice is into ‘communication,’ not signs as such – a theory of communication, not a semeiotic.  Capocasale does not expand on the intricacies of the cocodrile’s tears, because he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrimae’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The Swimming-Pool Library.

 

Capocci (Viterbo). Filosofo. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, cod. 743, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris , Fratrum Eremitarum Sancti Augustini , Archiepiscopi Neapolitani.  D. AMBRASI , La Summa de peccatorum distinctione del b . Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101 ... D. GUTIERREZ , De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo , “ Analecta Augstiniana ” , XVI , 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p. 20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37) and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions: can God add an infinite number of created species to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form (Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an infinite number of created species ad superius, in the ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot, however, add even one additional species of reality ad inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question James considers is whether God can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we will see in section 3.3 below, are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension and color, a view for which he attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material could generate something endowed with per se existence, it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct from the essences of the things God creates (De veritate, q. 2, a. 3). One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani­—assuming one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta, however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch James' position in the Quodlibeta as it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”  But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid) through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without there being any objective basis for the application of the common name; such is the case of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance between the many things to which a particular concept applies, in which case the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia attributionis). James believes that it is according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only being through something added to it. From this first difference follows a second, namely, that created being is being by virtue of being related to an agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be summarized by saying that divine being is being through itself (per se), whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of God and creature, but according to a different ratio: it is said of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction between being and essence occurs in the context of a question that asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult to see how one could account for creation if being and essence were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is only intentionally different from essence, a distinction that is less than a real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of Rome, for whom esse is one thing (res), and essence another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey, that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that the substantive lux (light), the infinitive lucere (to emit light), and the present participle lucens (emitting light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to be), and ens (being). The relation of lucere to lux, he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one. To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel 1981). Esse and essence thus signify the same thing principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence: what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and existence are primarily and absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely through the operation of the intellect, like second intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support of the view that relations are not real, one may point out that the intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is also determined by the relations those things have to each other; hence, those relations must be real.The correct solution to the question of whether relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his own. However, showing that they are not things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they are modes of being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not, however, two things; they are two in the sense that one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making relations modes of being of the foundation, James was clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry and James, relations are real in the sense that they are distinct from their foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being, James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to that question and James provides a short account of each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to James, each of these answers is part of the correct explanation though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that form and matter taken together are the principal causes of numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II, q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II, q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine.  Although James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural causation. However, what is particularly interesting about James is the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II, q. 5.   The question he raises there is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the potency of matter is something distinct from matter itself. One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter. However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II, q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.  Generation thus requires two things (besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e., attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James' distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the image or representation of that thing. The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles, not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required not only in the present life but also in the afterlife. But of course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De anima itself, though, as he would mischievously point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could account for its having these contrary properties without resorting to the two intellect model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which was a function of the number of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much that there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of the apprehension and judgment of the intellect. Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an “incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul], and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state, sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92, 419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of an obstacle, the will requires the presence of an object; it requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct it to a particular object. However, once again, the intellect's action is viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of something it shares with another. And given that the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill, 2009. 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Capodilista (Battaglia Terme). Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.  L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970)  L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970)  Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. (Q. 336, 1970)  L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. (Q. 340, 1971)  Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. (Q. 244, 1971)  Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972)  Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q. 347, 1972)  La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. (Q. 355, 1973)  …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359, 1973)  L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975)  Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975)  La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q. 372, 1975)  … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975)  L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977)  Parola  L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921)  Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929)  La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library.

 

Capograssi (Sulmona). Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli.  La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua speculazione la "persona".  Il suo pensiero si ricollega al personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio.  Fede e scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè).  “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo.  Il positivismo giurdico in Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo.  I sentieri dell'uomo comune. Dizionario biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8 pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere, cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI, KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere.  Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure  Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato. E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale, fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano. Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo dovere  non ha nulla del dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». 2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente , perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36]. In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39]. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” ( più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”, come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13] V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [38] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M. BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss. [48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57] V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N. ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione». [67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura, op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseepe Capograssi. Keywords: positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – in concetto di stato come medimen – kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, soggeto, individuo, interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library.

 

Caporali: Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” --   Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano 1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi 1916. Note  L'Enciclopedia Italiana, vedi , indica il 1841 come anno di nascita.  V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino 1965240.  In tal senso B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella.  G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997,  125–136. R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali  M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX secoloPersonalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione ;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) — L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) — La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico (22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914  La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys. Vili. - 8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata Partenide. Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto : « Avrai un figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò in un modo originale. Egli arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6 — questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, fu condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggiava ; e volle subito fuggirne. Venne in Grecia e quindi nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di Taranto, che era, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che aveva attinto a sì pure fonti di sa- pere e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a diffondersi, ebbe vi- sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini. Onde stabilì di fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso della parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor- rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso ; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che, non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore. Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci, poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e discussioni ; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso, strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione. Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve completamente nel pensiero del suo maestro e marito ; e divenne abilissima nell' insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e diceva che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che gì' insegnò la dottrina del Numerante : ma Platone la guastò nell' intrecciarla alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo: fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof. Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco, troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni ; indovinò per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento ; scoprì il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo ; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato ; in- trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia. Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem, magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia, sui capacitatem atiingit » . La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro- mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno ? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 — fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali.  CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino (Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito ; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente : e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi » . Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti , a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze ; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione ; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima ; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno : o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia » , 1714, (Def. Vili) Newton scrive : «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli » . Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi , moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva : « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi » . Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum » . La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua ; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi ( « Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale : e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra : ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza : le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi » . Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ , 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè ? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi) : e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti : mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia ; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo ; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico : ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge : « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne» . Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono : G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa » . E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva : « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica ; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto : « dunque l'Atomo è Energia psichica » . Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema : così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà ; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann : La costituzione dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici ; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di , una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. — 43 — piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie : la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono : Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati ; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto : risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio : ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore : bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti : così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui : ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio : ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro : anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare » . Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1 . — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4. — Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione ; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi : ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire : « Sic volo, sic jubeo : sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4 . Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. — 52 — I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani : mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe : ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso : prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra ; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono : quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi ; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa : « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica cristallina Il materiale dei cristalli è chimico : ossia fatto da molecole ; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti ; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature : le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente ; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile : però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori ; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. — 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali : in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli : sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi ? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore : meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque : e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata » ; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, - 73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle — 74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule : è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi ; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano ; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane : p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la .Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore — 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose : oppure 6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire » , ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste ; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante : l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli : ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi : il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale : sono relativamente caldi e respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine : una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale ; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare ; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto : mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito ; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole ; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4 , nella erba medica G 42 H63 A2 O 4 . Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0 . Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti ; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi : la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906, .New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni : e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene : e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102 — La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono : e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso : e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso : i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli ; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico : la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni : base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare : la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo : senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi : gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. — 110 — Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore, .Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler : «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima ( Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo ; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori ; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe ; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo ; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna ; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi ; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi : Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai ; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato » . Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma » . «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura » , p. 247. « Tutto risulta da urti : lavoro meccanico : ma in fondo vi è una razionalità sapientissima » , p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine » , p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine : ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto » , p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249 : « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto » . I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro : Marchesini ( « Vita e pensiero di Ardigò » , 1907, p. 338), scrive : «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre » . E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli : « La specie della Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente » . Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto ? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto » . È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto : nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254 : la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296 : A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331 : Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione » . Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). (1) Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti : la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero : perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito : ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 — l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie — 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo ? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo ? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina ; nelle mammelle butirina e margarina ; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando .sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute ; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie ; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose : I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo ; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso ; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism » , ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli : ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello ; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere ; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo : essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne : due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente ; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai : è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano : ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli ? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso ; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati ; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono ; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa ; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- — 156 — tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine : alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato : cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente ; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici : camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie ; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio : in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera : ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula ; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando : il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento ; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo ; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue ; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza : Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare ; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. — 172 — nosciute e già provate : e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così ; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria) , i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima : ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente : chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero ; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio) ; nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille ? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali : e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio ; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito : Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, (1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta ; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero : Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo » . Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse : no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio : « Non ci ritiriamo : qui si fa l' Italia o si muore » . E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo : risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere : tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi ? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction » . Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo ; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères » , 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso ; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche : sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente) ; quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate : assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto ,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso : ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile ; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili : giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità. INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola . . Pag. 5 Introduzione » 17 Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) » 21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. - Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82 Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id. XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche generatrice ... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV. - La Unità Numerante nella Volontà . » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici . . . . L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente : Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library.

 

Cappelletti: Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza.  Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali.  Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari".  Dal 1970 al , è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al , dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal 2006 al , promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI dal 1996 al .  Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane.  Pubblicazioni principali Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo , Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von Helmholtz , Torino, UTET, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo vitalismo , Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni della vita , Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura , Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica (), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini , Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica del marxismo , Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro, 1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne , Edizioni Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo , Roma, Edizioni Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore, . L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium, . Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice, . Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992 Note  Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma, , Introduzione di G. Cimino ( 9-48), Appendice ( 247-252).  Cfr. V. Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,  315-329.  La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e "").  Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di CulturaHome page  Guido Cimino, CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo Cappelletti  Vincenzo Cappelletti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Vincenzo Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della scienza italiani 1930  2 agosto 21 maggio Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi.   La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1]  È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II, 412, a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.Vincenzo Cappelletti. Keywords: entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library.

 

Capra (Nicosia). Filosofo. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio ; che noi non vogliamo , ne dobbiam difendere l'Immortalità dell ? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi , l'immortalità dell'animo è vita futura ? rispondiamo , esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo , mostravano , che questa immortalità intendeano , come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque , come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo , e la bestia , cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli , cioè l'immortalità dello spirito , e in alcune cose comunica con le beftie , cioè la . mortalità della carne insino , che la carne ... Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum , quando de Sede Animæ rationalis disputamus , per Sedem strictè nos non intelligere firum , qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco , folisque competit corporibus , sed , ut Scholastici nuncupant ... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae : ex typographia Fausti Bufalini, Marcelli Caprae , ... de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot . adversus Epicurum , Lucretium et Pithagoricos quaesitum . — Panormi , apud J. F. ... De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  il Capra, nicosioto , il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta , adversus Galenum , l'altro De Immortalitate A nimae rationalis , justa principia Aristotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis , De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta , adversus Galenum , Quaesitum. Panormi 1580 in 4 . De immortalitate animae rationalis , iuxta principia Ari stotelis, adversus Epicurum , Lucretium , et Pythagoricos, Quae situm. Ibi 1589 in 4 . Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in quel torno di tempo , come : De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta , adversum Galenum . Quaesitum ( Panor . , 1859 ) ; — De immortalitate. Capra, filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra, si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO --. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. Capra distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da Capra. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gli anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo Capra, infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. 3. Conclusio. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Conclusio. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes mentis. Conclusio. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il De sede animae et mentis Capra si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum. Marcello Capra. Keywords: animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library.

 

Capua (Bagnoli Irpino). Filosofo. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti".  Pubblicò il "Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea  e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli.  Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.  La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio, William Harvey, Thomas Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis, Boyle.  Tra Cornelio e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.  L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua, ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.  Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a Di Capua una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia.  L’ammirazione che provava nei confronti del Di Capua era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”.  Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di Vico, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di Di Capua, che affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa Di Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua, Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.  L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di Capua, tanto che, il viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua da lui scelta.  La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari.  Di questa produzione non abbiamo testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime, considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale , un bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis, che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo. La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo", il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al "Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel "Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25 colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova libraria, Padova); .  Mario Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, UTET, Torino). “Parere del signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico , Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua, scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano). Lionardo Di Capoa's Parere is just that: an opinion in response to a specific request by the Viceroy and the Consiglio Collaterale in 1678 put to a group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Di Capoa's attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. Di Capoa maintains a theoretical investment in the anima: this is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Di Capoa's part. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of logical techniques, but also from premature, reductionist applications of beast/machine metaphors. Di Capoa wishes then, to protect medicine not only from mechanical applications of logical techniques, but also from premature, reductionist applications of beast/machine metaphors. Aristotle offers a 'biological concept of the soul' as the 'first actuality of life', the principle of life.  IL PARERE DEL SIGNOR LIONARDO DI CAPOA divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progrello della filosofia, chiaramente l'incertezza della medefima ſi fa manifefta . SOMA I N N POLI Å Per Antonio Bulifon MDCLXXXI. Columa de Superiori. 1” All'Illuſtriſſimo, ed Eccellentiſſimo Sig. LCTEA IL SIGNOR D. FRANCESCO CARRAFA Principe di Belvedere, Marcheſe d'Anzi , &c. On avendo io coſa , Eccellentiſsimo Signor mio , che m'abbia in più pre gio di quel che fo la padronanza voſtra , cerco per quanto poſso , di farla paleſe a ciaſcuno : ficome altri fa il poſſedimento delle coſe più care, e prezioſe, ch' egli s’abbia , o per ſua induſtria , o per fortuna ac quiſtate . Ho penſato dunque , che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di queſta , che mi porge il preſente libro , che per mia gran vençura eſſendomi capitato alle mani, ho preſo a far iſtampa re, s'io il mettesli fuori ſotto ilnomevoſtro, La ſcrit tura veramente a giudicio di Voi medeſimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale , che agevolmente poſ ſo da lei promettertii il fine , che m'ho propoſto ;im perciocchè ben toſto n'andrà ella per le mani delle perſone di miglior giudicio nelle buone letiere , sì per per ta cognizione , che s'ha dell'autore dilei , doa vunque ha di quelli , che ſe ne dilectano , sì perch' ella il vale , per l'eloquenza , e doctrina, di che ſi ve de ripiena : oltre all'autorità , e fama, che le ſi accre fcerà dall'iſteſso nome voſtro ch'ella porta ſeco . Poichè posſiam dire, che poche ſono quelle parti d' Europa, ove non s'abbia conrezza diVoi, e delle voſtre egregie qualità , o per la fama, o per la pre ſenza di Voi; ma che quaſi tuttele havete cerche colle lunghe , e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guiſa , che da Voi ſono ſtate fatte,ſidebbono riporre fra quegli ſtudj , con che vi ſiete ſempre in gegnato , e v'è venuto fatto d'aprirvi la ſtrada allº intera cognizione delle umane cofe , e d'accreſcere con le doti dell'animo , e dell'ingegno lo fplendore ch'avete ereditato da'voſtri maggiori . Oltre a ciò non doveva queſta ſcrittura venirne fuori ſotto al. tro nome , che'l voſtro : mentre , e la ſtima, che Voi fate dell'autore di eſsa , e l'affezione , che gli porta te , ficome fare ancora a ogn'altro huomo lettera to , e l'antica dimeſtichezza, ch'egli ha con eſſo Voi il richiedeano . Ricevete dunque ilpreſente dono , ch'io vifo di queſto libro , o per più vero dire , della picciola parte , ch'io ho in quello , per l'opera da me polta in farlo ſtampare , con l'uſata voſtra uma nità in ſegno dell'oſſervanza,ch'io viporto . E pre go Iddio , ch'avanzi in bene ogni voſtro deſiderio; e alla buona Voſtra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E , Vmiliſs. Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna ; a'Lettori. E Gli sono già alcuni meſi paſati,che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto conſiglio da alcuni Medici di metter qualche compenſo agli abuſi , ed errori , che tutta via ſi commettono nel medicare . Edopo qualche ragio namenti intorno a cotal biſogna avuti , diviſarono eglino , che per potere con piis loro acconcio eſaminar le ragioni , eipareri propoſti , e da proporſi , ciaſcuno doveſſe mettere in iſcritto il fuo. Perchèconvenne al Sig. Lionardo di Capocs, che fu uno de’chiamati a queſta adunanza ſcrivere il parer ſuo intorno a cotal materia ; e parendo a lui, che ciò non fi poteffe fare acconciamente, senza conſiderare innanzi tratto , e riandar con diligenza la natura della coſa , che s'aveva a trattare , cioè della medicinz : sì il fece egli con tanta dottrina , elo quenza , ed erudizione, che , ejfendo il ſuoſcritto venuto al le mani d'alcuni huomini letterati , e altri amici di lui, par ve loro dettato più toſto per l'univerfalità di coloro , che fi dilettano delle bettere piie eſquiſite , che per haverfi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola , e privata compagnia: comechè l'autore di quello non s'aveffe nello ſcrivere propoſto altro fine , che di ſoddisfare al carico da quella impoſtogli.Sti marono dunque coſtoro , che foſſe una tale ſcrittura dameia ter in luce per mezzo delle ſtampe : e tanto fecero ,che alla per fine perſuaſero il Signor Lionardo a farne loro copia , e a con tentarſi, che ſi stampaſealmen queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure eb bero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura di queſto fcritto , ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone , e Spezial mente agli avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe . Poichè , vedendo eglino la varietà delle opinioni, edelle Seite, e le diverſe , eSpelle volte contrarie guiſe di medicare , che fra i medici ditempo in tempofonvenute sì , anche ſenza entrar coʻfiloſofanti in più ſottili Speculazioni , potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë , o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiofa , e incerta , habbia in ſe dottrina , o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro , che così fi dannoad intendere, espezialmente dove ne va la ſanità , e la vita . Oltre a queſto , chi non vede di quanto frutto può rium Scire queſto ſcritto a'giovani, che danno opera alla medicina ? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò , che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e folennimaeſtri di quella : e accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del medicare ſi vuol tener da colui , che laſciate andarele giunterie, e le ciance , intende Secondochè la condizined'untal meſtiere comporta , faronore a fe , e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi . Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti , e nella medicina, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli , che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va ; e, come dile il noſtro Dante, Trattando l'ombre , come coſa falda . Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale , e quanto profittevole , e dotta fi fia queſta ſcrittura , a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare , non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa , e all'opinione , che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof . Sta ſano . EMINENTISSIMO SIGNORE A I Ntonio Bulifon eſpone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un libro intitolato Parere del Signor Lionardo di Capoa , intorno alle coſe della medicina , per ciò ſupplica V. Em .commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum , quod R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat , & in ſcriptis referat eidem Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO SIGNORE O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di Capoa : intitolato Parere intor noalla medicina , ne vi ho ritrovato coſa alcuna con traria alla dottrina della Fede , overo a' buoni coſtumi . Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità , e per ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita , e fruttuoſa filoſofia . 13. di Aprile 1680. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi . N Eminentiſs. Dom . Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum , quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris , imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa , intorno alle coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, & c . Magnificus Michael Biancardi videat , &inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina , e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita . In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione , iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: RAGIONAMENTO PRI M O, 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa , o Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroſo Prin cipe , quanto l'adoperar sì col ſenno , e colla mano , che i Popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole , e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer ſogliono ,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte ,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no . E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo , e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom , che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe ? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi , e più dure , e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari , giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe . Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo , e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè ; il quale auendo con maraviglioſa , e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto ; e reſi vani gl'in tendimenti , e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari , e le terre , ad ogn'or di ſangue , e di fuoco ne minacciavano ; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio , e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della Medicina. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza , e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune : così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino , affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano . Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo : e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere , certe , ſicure , e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te , e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare , tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto , e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti . Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare , tacendo di non darmene briga , ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui , icui senni ,non che le richicke debbo di preſente , ſenza replica alcu Del Sig.Lionardodi Capoa. 3 alcuna , e con ſomma venerazione ſeguire ; da' quali ſol moſſo , ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare . Ed acciocchè ogni diliberazione , o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano , ed inutil fine affatto non rie ſca , tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi ; diviſando in prima le malagevolezze , in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati ; ma Medici ancora , comechè faggi , e intendentiſſimi in dare ſtabili , e certe leggi alla Medicina ; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta , e dubbitoſa, ed incoſtan te . Indi poi pian piano , e con diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo , col quale quanto law natura della coſa comporti, un buon Medico , ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole , ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue , e quaſi fatali calamità della Medicina. E per cominciare dalle memorie più antiche , laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia , edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là , dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in prima , e fiorirono , ſolamente a’Rè , ed a' Sacerdoti , ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto ; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia : e Tofortro Rè della terza dinaſtia , la qual’era de'Menfitani . Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò , eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe , che ben per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito , che ad altro malo re non dovea por mano , come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre , con queſte parole : ; dè intpoxaj A κατα : 1 2 I Strab. lib . 3.8 . 16. Ragionamento Primo κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής , οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν , οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico : Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro ,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo , altri i denti , altri le parti del ventre , e altri i mali interni , e na Scofi . Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri , quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento , che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia , allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire , ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero . Perchè ſicome ſenza fallo è da credere , fù a’Medici , come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri , a' quali ſe alcun contrave gnendo interveniva , che piggiorato ne foſſe lo infermo , n'era perciò acerbamente punito ,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα ,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον , αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα , και ταλόγω. ciοε , πότερον αληθές εςιν , ή fèuda ö yayçá Daci , Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto ;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia ;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era , per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor Del Sig.Lionardo di Capoa. 3 . i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati , finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina , che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo , i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano , ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero . E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio : fatta la legge , penſata lamalizia . E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza , che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni , e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri Ariſtotele con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω , eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno , che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo .La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto , ch'io mi creda , ricevitori , ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a ? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico , che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti , c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro : non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio , che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata : και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns , la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice : Μόνω. 2 Ippocrate , 6 Ragionamento Primo 1 111 Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν , αποθνήσκαν δε μη . Cioè a dire , al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti . Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino Platone , laſciando egli così nella ſua Republica ordinato : Aniuna pena fia ,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov . Dal cui divilo non punto ſi di lungo Luciano , ove diſſe : L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna , e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà' ; e convene volcoſa è , che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta , o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa , e al timore , e alle pene acTribunali . π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις , και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως , αναγκάζεσθαι δε μηδεν , μήδε ποσάττεσθαι , πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw . E cõciofoſſecoſa , che frà Greci gli Ate nieli ſolamente vietaſſero alle donne , e a'ſervi lo ſtudio del la medicina ; non è però gran fatto da lodare , per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto ; perciocchè,co me più avanti diraſli , lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo , e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio : perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato : rapportando Igino : Obſtetricibus neceffitatis , honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Athenienſibus con ceffus fuit . E molto meno dovrem noi credere , che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco , che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare , colla quale non altrimen te , che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne ayer 1 DelSig. Lionardo di Capoa. aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. 3 Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG ,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. La Romana Republica , che non pur nel governo militare , ma nel politico ancora avanzò di gran lunga le greche tutte, e lebarbare nazioni, giudicò convenevol com fa il non commetter ſenza freno alla balia deMedici la cu sa della vita de gli uomini ; e perciò preſe per partito, che Aquilio Tribuno della plebe, non so ſe Gallo , o altro e' ſi fofíe,con un plebiſcito , il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma,qualche penaa'loro fallimenti iinponeffe , per la qual’accorti divenuti foſſero , e cauti nell'operare . Non per tanto dimcno è da credere che legge tale, o ple biſcito , che ſi foſſe , non mai ſi metteſſe in ufo , ch'altrimen te avrebbe avuto il torto Plinio di ſclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. + Nulla præterea lex punit inſcitiam capitalem , nullum exemplum vindiétæ : indi ſoggiugnere : difcunt periculis noſtris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere : Medicoque tantum hominem occidiſe fumma impunitas eft. Ma vi ha di vantaggio ſecondo il me delimo Autore tranfit convitium , &intemperantia culpa tur , ultroque qui periere argauntur . E perciò immagino , ch'in compilando i Digeſti per commandamento di Giuſti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila fentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo ſopra la legge Cornelia de Sicariis . S Si ex eo medicamine, quodad falutem homini , vel ad remedium datum erat homoperierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur . La quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione GiacomoCujacio, alla già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il Medico ſanandi,non nocendi animodedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta , e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo della legge Aquilia , ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano , SicutiMedico imputari eventusmortalitatis non debet , itad quod * Elannt. lib 2.9.cap.z. lib.recept.lent. 6 Cuias.in Ang Corn de Sioar. 8' Ragionamento Primo tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero ; infra’quali il dottiſſimo Agnolo Poliziano in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem , quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur ,e'l Vives co sì grida : Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battiſta da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune necandi. E un Satirico Italiano ſcherzando col titolo del Dottor dice a queſto propoſito medeſimo del Medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo , hoc tamen ipfo -ſecuri , dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem : immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur . E un'altro Autore: Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula pænas ? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos demittitis orco . ? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu , laudemque parare. Edavvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici , perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore , nondimeno l'eſfemplo d'un tal DelSig.Lionardo di Capoa. 9 tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna ; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo , ſicome anche Aleſsádromeritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia Medico , per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i Medici già alla morte dannati , perchèlui aveſſer malamente cnrato , volentier permiſe , che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone . Ma non però creda alcuno , aver iMedici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata ; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta , e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della Medicina, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo , e le fatiche dietro ad un'arte ( ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina , non avendo quella niuna certa , e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire , e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento , che quel di colui , che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre , & udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli ? Ed è anche malagevole ad imprendere , e incerta ſempre negli avve. nimenti : imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato . Ed o quanto aſſai ſoyente avviene , che contro ad ogni avviſo umano , ficome ſcriſſe Celſo , etiam Spes fruſtratur : & moritur aliquis , de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed : Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico , & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a ? ! . 10 Ragionamento Primo giudicato , purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano , o da natura delmale , o da altra interna cagione , in cuiſenno alcuno , ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono ,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate ; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis ,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente , iveleni per ſubitana, o precipitazione , o coagulazione ; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Eſculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori , che quando egli men ſi crede ſian , valevoli ad irreparabil morte condurlo ; e ciò anche nel tempo ſteſſo , che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano , tal curbamento dentro cagionare , che l'ammalato le new muoja avanti , che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi : 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt ( comene fà teſtimonianza Celſo ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur , neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft . Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare . Ma su concedaſi , pure , che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto : come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero ? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto , acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle ? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6. DelSig. Lionardo di Capoa. IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti ? Perche oda paleſe nimiſtà , o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro , che di giuſtizia dovrebbero ,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio ; ſenza che il timor della pena , in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare ; ed egli timido , econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo , comechè falſo , e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe . Coſa , chepiù ch'altrui a'Medici de Principi , come avvisò il Cardano , avvenir ſuole ; i quali per tema non pur dell'infamia , ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano . Compativano anzi che nò i Romani Maeſtrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò lo im perio di Roma, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario . E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza , e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto . E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni , onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12 Ragionamento Primo 1 ! de’Romani da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici , o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare , ma quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi ;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere . E certamente in coſtoro ſolamente da credere , ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte ; per ca gion della quale furono in Romacontro a' Medici ordina te le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione , quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa , venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto ; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo . E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo deRoberticiocchè degliStrolaghi diſſe in pri maTacito : Genus hominumpotentibus infidum , Sperantibus fallax : quod in Civitate noſtra vetabitur femper ; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti ; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti , e con lor ciarle , o rattengono gli ammalati , che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati , c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia , ch’in vece diguarireil Rè Carlo Seſto , preſſo a morte coʻlor medicamenti , e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero . Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori , e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori , così do 1 veali Del Sig.Lionardo di Capod. 13 veali toſto e ſenza niuna pruova fare , o aſpettar di lor pro meſſe :del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza , edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli , o i Maeſtrati , i quali po co , o nulla per la più parte di quella s'intendevano ; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano ? Inventore per quel che fi creda , o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſcula pio , e come ne da teſtimonianza Ippocrate , o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe : ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs , dice e' parlando d’Eſculapio , è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico , che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui , che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto , e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri , e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra : pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ ; e'l nostro Seneca : Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum ; anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3 . 14 Ragionamento Primo Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca : Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem , voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato , eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo , o da bruti animali , o dalla propia induſtria venian manifeſti . 10 Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore , e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace Chironio : πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11 Euſtazio , ch'eſſendo egli nella mano ferito , oco me vuole Plinio, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio ,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro , che colle fole piante Ercole, onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e Apollo, e Arabo , e Cadmo, e Bacco per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in pregio il vino , medicamen to poderoſo , e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera , la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni , che provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato , ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά . σθαι διδάξαι τα βακχένοντας , ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο , τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad Del Sig . Lionardo di Capoa. Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio , col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare . δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo , il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay , e Podalirio, e Macaone non d'altro , che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca , e prima della guerra Trojana Medea , come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone,di Laerte,d’Atalanta, e di Te fpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou . E Trifone appo Plutarco in nalza , e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte , e riprovati poi i lor medicamenti , dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio : Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam . Macome pochi , e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò ,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia ,cam biandoſi tuttavia , è migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza . Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette , che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da 16 Ragionamento Primo da ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me ? dicamenti tratti vi cifoſſero ; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando , comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina ; comeche Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore , ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire : onuéte? Quiséger G Astana's ( ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην . ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς πλησμο νην και κένωσιν , και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον έρω το , 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι : και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι , και εν όντα εξελεϊν , αγαθός αν είη δημιουργός : δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι , φίλα οΐόντ είναι ποιείν , και έραν αλήλων , έξι δε έχθισα , τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί , ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν . Ma non per tanto non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze : e come varj erano , e diſcordanti quei , chela cſercitayano, così varia ella ne divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta ; intanto che da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe , come Celſo avviſa, parte di quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico . Or coſtui come rio traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginna fio , di cui egli era Mactro, cpriino miniſtro , cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno, che gliene faceva , a coltivarla medicina con tutto l'aniino , e conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnaſtica congiugnendo, e preſcrivendole alquante regole da lui per via della ra gione, e della ſperienza daprima ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe. E illo DelSig.Lionardo di Capoa . 17 E allora venne ella pian piano a perderdella filoſofia l'an tica uſata dimeſtichezza : comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto . E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare , ed Eurifonte , e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dallafiloſofia le coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero . Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina ; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui , ch'alla verità delle core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina , e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando , per poco di razional non le rimare , altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava no : e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti . E Galieno pure osò dir d'Ippocrate , aver lui certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone , inveſtigar la natura , e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa , ela malli ... turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente , e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente , compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento , o dalla meſcolanza del caldo , e del freddo , e dell'umido , e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole , c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici , che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando , più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con C trila 18 Ragionamento Primo traſtar ſolevano , allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire , e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina , era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to , rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone , e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità , e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio ,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito ,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello ,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe , è di poca fermezza in mcdicando ;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro , ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermoPrincipe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato ,ed arſo daGiove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio , e così abbominevole eſemplo . E ol tre a ciò dicono ,ch'egli in far l'indovino, el malioſo , ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille modi , e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre , che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe . Ma per recarvi le molte parole in una , e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa : 19 la di medicina s'intendeſſe : e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio ; perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio , e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo , che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava , fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito ? E'l ſuo gran Maeſtro Chirone non che altri , ma ſe medeſimo cu far non valſe , allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita , e dell'immortalità 2 Prometeo , e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio . 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere , re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo , e tanto impareg giabili pruove , che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando . Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano : c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia , non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo'Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora , quando colletà in cia lcuno ſtudio , carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome , e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci ; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici ; perciocchè ogni lor grave fallimento , ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra ; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro . RagionamentoPrimo agevolmente acquiſtar loda , e pregio immortale . Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene ; le quali ſicome aſute , e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli , e parteggianti ; e dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda , 0 giunte ria , onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro , di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori , e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che , e dalle moderne memorie ; ſolamente non laſcerò di rapportarc ,effer'antica fama,che Acrone d’Agrigéto aveſ ſe una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'A . tene colle grandi luminarie , e fuochi , cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa , non che da altro ,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate . E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini; perciocchè, come narra Luciano, in tempo che Atene era più che mai dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata , e ſgombra , diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago ,e averle ſicuramente det to , che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza ; e ciò facendo co loro , dilubito , conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti , δπι της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον ( 8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in Luciano , il quale ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando , ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino , i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata , e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano .Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio ,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male ; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti , e non più toſto per isfogamento , c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro , che alla natura del male attribuita . Artificio ,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius : primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante , e si diverſe guiſe nar rate , ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe , wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati . E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto , e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri .Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων , όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά . ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς , εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο .Παρράσιο- δε , δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων , όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες . ΦύλαρχG- δε , εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως . Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero ? Egli volle ( liçome narra Cclio Rodigino , c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to , e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero . Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche ,e giunte rie , ch'egliuſava ; ficcando carote alla ſciocca gentane , c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche , oltre alla fama grande , che gliene ſeguì, di povero conta dino , ch'egli era , inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi , e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto , e mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino , o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea , e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc , la qual prima di eſser medicata ſe ne morì : delle quali narra Virgilio nella Bu. colica: Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus ; quamvis collo timuiffe: aratrum , Et 1 Del Sig. Lionardo di Capoa. 23 Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte. E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioſcoride ; avvegnachè Galien giudichi , e con più falda ragione ,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse . Il qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto , o più toſto dalle capre, ch'e'guardava ,come ſcrive Plinio; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano . Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro , ma con latte di capre paſciute in prima di quello ; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo , che loro il ſenno ricoverato aveſse ; ma un'altro Melampo detto l'indovino : E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce , ſicome narra Seſto Empirico , ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo : Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici ,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio ; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον , Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα , και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον . Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης . Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura : e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare , ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio: . Clito 24 Ragionamento Primo Clitorio quicumquefitim de fontelevarit ; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis , Seavis eft in aqua calido contraria vine : Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen , &herbas Eripuit furijs ;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte , E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo , e da le membra folte Lava la brutta ruggine , e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni , e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare , e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών ,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε . ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω : ma's exca's Txis gaca sesi exclougor . o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία . και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe , per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne , e colle frodi , e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3 . di van Del Sig.Lionardo di Capod. 25 di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce ? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno ; perciocchè dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse dal verto contrario : e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te : e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive , come racconta Teofraſto con quette parole . Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ - χεΐσθαι , και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ . Le Quali poida Plinio nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate . Cavent, dice egli, effofuri contrariun ventum , & tribus circulis ante gladio circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan ſopra del ſangue metruo , o dell'urina delles donne , quindi cavandole intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane ; il qual poi chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra , e di preſente ne moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε , περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile , che il tralaſciar da parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar gomento ſia ? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno ? ecco le ſue parole : coloro tutti da giudicar fono , anzi forſennati, che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere , ed apparar da' ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni . Ealtrove il medeſimo autore: è dottrina da tiranno , e piena di confu fioni , e di contefe quella di coloro , che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna ; e ſe non altro , va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi , Giovanni Scoto 54 Ragionamento Primo Scoto , ove dice , che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede , degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſap piano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione , diqualunquc Serta egli ſi ſia , debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire : non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre , alienis auribus audire , alienis naribus odorare , aliena ſapere intelligentia : ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus , nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus . E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galic no ( 1) oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato lun , go tempo , ed invecchiato in ſu'libri d'Ariſtotile , abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia , e veggendo manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila , ora dici , chę ſon nel fegato la ſua originç trarre , tutto ingom, bro , e pien di maraviglia , Come chi mai avf4 incredibil vide, confeſsò , che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato ; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile , il quale tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere , i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande , e fourano Ariſtotile in errore alcuno giammai eſſere caduto . E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna , la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo Ariſtotile, negante law medeſima coſa , osù pur dire , che quel dalui veduto non era miga graſcio . Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò , che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30 , ( 1 ) Santoro. DelSig. Lionardo di Capoa mac ro in iſcriteura peripatetica , perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle , ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato , ricusò l'ajuto dell'oc chiale ; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle picciole rane , che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano , per non eller altresì coſtretto a confeſſare , ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico Proſpero Mar ziano in Roma s'accrebbero ? il quale di non volgare dot trina , e di faggio avvedimento fornito , quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re , che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio . E ciò anche Pier Caſtelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti : Galenus , vel non intel . kexit, vel intelligere noluit Hippocratem , & Platonem , ut ſua extarent. Quindida'rimproveri , e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio , ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando , non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro , ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse : il che già prima di lui piena mente Girolamo Cardano avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl , che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono . E queſte , ed altre buone dottrine il valent:huomo del Marziano faggiamente manifcftando , ravvivò con eſle la caduta , c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate . Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na , la qual comechè tale , pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata . Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Co Ragionamento Primo 1 Coſtei gl'ingegnifemminili , egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade acerba : A’ lavori d'Aracne , a l'ago , a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita , animoſamente fi iniſe col cere vello , e con l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile , e prò la mente rivolgendo , acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo , ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè maraviglioſamente principio . Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo Secondo d'e terna ,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente losſabios y ChriſtianosMedicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto juyzio de otras facultades , y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di poco appreffo : y el que no la entendiere ni cumprehendie re , dexela para los orros y para los venideros , o crea a law eſperiencia, y no a ella , pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina de Hip pocrates y Galeno dos mil años , y enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos , comoſe vee claro cada dia , y so vido enelgran catarrotavardete , viruelas, y en peftes paf Sadas , y otras muchas enfermedades dondeno tieneeffetto al guno , pues de mil no viven tres todoel curſo de la vidabaſta la muerte natural : y todos los de mas mueren muerte violen ta de enfermedad , fin aprovechar nadaſu medicina anti gua . E nel dialogo della vera medicina : Nomepodreys negar (Señor Doctor ) que la medicina eſcrita que ufays eſta incier. ta , varia y falta y que ju fin , y efeto fale incierto , falfu y dudoſo,como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines Del Sig.Lionardo di Capo a. 57 20$ fines y efetosciertos , y verdaderos fin variacion , ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas , que a quel fin , y bien que prometen , lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina ,pues eſta tanengañoſa , incierta; yva ria :luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes , y fundamentos ,pues no echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas :lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae , razon , que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar ,Señor Doctor , la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina , y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma , y que muchos ſabios mo le han dado credito , ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia . Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos , j' ay mas gente que en Eſpaña . Y eſosmiſmos autores antiguos , graves le ponen gran dificultad , diziendo , que la vida esbreve, y el arte es largo , el juyzio difficultoſo , la eſperiencia engañoſa , & c. I dixo Hippocrates : que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca , y no me podeys negar , Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos , no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian , que ella ſe quedo en lo queera , y ſu dicho no la mudo , y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada , como lo podeys veren Plinio , donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante ,y mudable, que la medicina : y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva , i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre , ed annoverare , che troppo a lungo ne verrei . E baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite , inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle , come intorno all'ordimento , che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 Ragionamento Primo ellämolto avanti ravvitate appieno , e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea . Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante , e maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella . Non miſe egli già le mani all' opere della medicina : ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani ; e comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare , che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi , così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina , e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete , o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania , Giovan Battiſta Elmonte , che con più alti apparecchi , e colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa , onde vie più s'accrebboro i contraſti , e le miſchie . Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica , intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo , e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare . E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis ; ne di leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò , ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro : e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per fomigliante impreſa , e’l Silvio , celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio ,e l'El vezio , e'l Meſfonieri; e'l Travaginis , ed altri illuſtri l'ette rati Del Sig.Lionardodi Capoa . 59 rati dell'età noftra , a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera , e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia , e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina , ma dall'an tica gran fatto varia , ediſcordante , Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra , ed avviluppar la medicina tutta , non fa meſtierial preſente narrare , ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo Plinio vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur , non già di que’della Grecia ora Icioperata , e incodardita ſotto'l giogo della barbarie ; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie , da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate , Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere , e tazioni partita , e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco , o di Latino, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone , modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta ,ed a gli altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto , e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do ; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori con quell'armi , ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono ,nonpreſe , o tolte da gli arſenali altrui , ed alla cic ca adoperate , fanno con glorioſe impreſe render eterni , e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo , ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato , tutcoyogliono ſpiare , a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio curioſo eſaminare ;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi . Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate , e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare . E perciocchèlo giudico , che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà , debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA 81 RAGIONAMENTO SECONDO, 322 ) EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti , che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando , voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura . Ma conciosſiecofachè el le fien molte , e molte , e tutte di gran lieva ,io non ſo qual prima mi debba dire , quafdopo ; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare , perchè con purgato ſtile ſpianandole ( e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe ) la for ſaldezza , e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio , che rôzzamente accennatc poffano, e pregio , e commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere . E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen , tando potrebbe imprenderne il filo . Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte ; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi , e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo , perchè egli poi qual paluſtre mergo , raden do lempre maiil ſuolo , non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze , onde bello ſi rende , ed ammirabile l’Vniverlo ; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli , il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda , non già nelle copie incerte , e ragionevolmente d'error ſo ſpette , manel primo , c vero loro originale . Così quell' Aquila deGreci filoſofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente ,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe , e de gli altri Segnò le mete , e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano , facendo sì , che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero , ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe , e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare . Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia , quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene : quando di nuovo libro , di nuoyo ſtile , ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe ; e ciò , perchè egli compré deſfe , che le coſe ,che per lui , da regiſtrar foſfero , eſfer quelle non doveano , che già da altrui ſcritte in prima , diviſate ſi erano .. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio , che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva , non doverſi da loro nella , popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare . Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri , e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe : c da più illufri medici, e per valor d'ingegno , e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbrac ciata. Del Sig. Lionardo di Capoa. 69 ciata . La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico , e filoſofo Claudio Galieno , ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella , e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato ,i quali a' detti di lui , come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità , ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto , ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze , cd a'giudicj altrui , non volendo coſa alcuna bilancia re , ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega , e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia , e'l furore , e la ſtolta follia delle ſette : 0 quin do adiratamente grida effer dura , e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità , i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno . Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò , che altri di neceſſità rimira . O quando altrove proteſta , eſſer egli un male da non potere in verű modo guarire,la folle , e ſciocchiffima caponeria di cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre : e che cotali uccellacci non che fappian , giammai nulla di buono , anzi ne men d'appararlo ſi ſtudj no : o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro, cfer della patria , che della propriafetta traditori , e rubelli. Et o piaceſſe pure al Cielo , che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo : più toſto manifeſtamente uccidere i miſeri infermi , che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri . Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado , ch'a noi ſpiace voli ora ſono , ed affatto nojofes Cosi 64 Ragionamento Secondo 1 Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda , e dolce cibo L'acqua , e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo , e bevanda d'animali , Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva , O forſe alcuna coſa , ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta ? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo ,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati ,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono , cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina . O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo , e colpa , certamente commiſerla in prima coloro , i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando , e nuove ſchiere di filoſofia , c di me, dicina anmutinando , ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo , e temerario ardiinento . Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno ; perchè figgiamente il Princi pe Claudio Ceſare apppreſſo Tacito ebbe a dire : quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere : inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur , inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que' , che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo , in ſomigliante guiſa conchiude , Qui nova damnatis , veteres damnetis oportet ; Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar Platone , Antiſte nc , Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole , che allora nella Grecia fioriva . no , a quella di Socrate , che nuova era , per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono ? anzi ne furon perciò foin ( 1 ) Etienne Paſquier . 1 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure Ariſtotile,e Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli . E dalla novella ſcuola d'Ariſtotile in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo , che uguale , e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone , funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la ſcuola di Zenga ne , e nuova quella d'Ariſtippo , e quella di Fedcne, equel. la di Euclide daMogara . Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide , d'Epicuro , di Menedemo , d’Arcuila , e d'al tri molti maeſtri di filoſofia , e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie , e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte , riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi . E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe , ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi ? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura , ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle,nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla : e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re ? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante , odi Parrafio , o di Polignoto , o di Zeuſi, o d'Ag laufone , o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre , onde poi vive , e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero ,e gli augelli , e i deſtrieri, ei cani , ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare ? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi di Dante Ali ghicri, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino Petrarca, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to , ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di Rafaello , e di Tiziano , e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte , di Teocrito , e di tant'altri illuſtri , c nobili Poeti ; o Roma de' ſuoiLucrezj , de’ Virgilj , de’ Catulli , de' Properzj, de' Tibulli , degli Orazj . Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo . Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo , e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più ,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo ,di Giovani della Caſa , o la maraviglioſa evidenza dell'Arioſto , e dell'Ali ghicri,o la dolciſſima muſa del Petrarca,del Bébo,dell’Ala māni, del Triſlino, delMolza,del Guidiccione ,del Taffo Pa dre,del Guarini,di Galeazzo di Tarſia ,edi altri,ed altri no bili ſpiriti,che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano ,o pur la vincono , ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate , e creſciute non già per coloro , che le comunali, e uſitate ritennero , ma per coloro , che d'ammendarle , e torne via glierrori , e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών , και των άλλων απάντων , και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν , αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων . Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare , che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare , e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia , ed alla medicina permettere ? malli mamcn DelSig.Lionardo di Capoa . 67 mamente , che il campo di eſſe è queſto si vafto , e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore , ed a moinenti apparir tutto dinuove , e nuove coſe fi veggiono , da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati . Multa dies , variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è , che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando ,dinuovi , ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce . Co sì noi veramente ſiam da dirci vecchi , e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati , e non que’tali , che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro . Anzi coloro , che per innanzi naſceranno , più di noi ſaran vecchj , ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati , e diquant'altri per l'addietro mai furono , auran cagione . Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da Vero lánio: de antiquitate autě(dice egliopinio ,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua : Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major ; reſpectu mundi ipfius,nova , minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam , á maturius judicium , ab homine fene expectamus , quam à juvene-propter experientiam , & rerü , quas vidit , & audivit, & cogitavit, varietatem , copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet , & expe riri , &intendere vellet)majora multo , quam à prifcis tem puribus expectari par eft ; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata . E in verità , chi ha mai tante , e si diverſe maraviglie in Cielo , e in terra , e nell'acqua, e negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto , dove turto di attenti , ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filo 88 Ragionamento Seconda filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età , cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto , che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo Auderet , folvenda dies en attulit ultro . Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare , così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero , e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari , c d'altre perſone idiote , e volgari , dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie . E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò , che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace : iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori : τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ , την σύeακα θυμιών της . E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ , όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα , Qurárrs01 , Trnýber mondo, me ei sér d por exasov . E del Laudano ,affer: mò eſſer quello odorifero , e dilettevole a fiutare , e pur na ſcere in luoghi puzzolenti , e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον , οιται γλοιός από και o'rins . Ma Rufo da Efeſo dice , alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω . E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare , che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto : Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tena DelSig.Lionardo di Capoa. 69 tenace graffezza , onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono . Sonyi alcri, che tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza , chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις , και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio , ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe : Sunt qui herbam in Cypro , ex qua id fiat,ledam appellent : etenim illi ledanum vocant : hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno , quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες , εν τοίς πώγωσι , και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον , και οπώδες πόας αφαιρούνι . Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών , και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e Plinio , pur troppo groſſi nell'informarſi , e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre ; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande , co ſpazioſo albore , non già paludoſo , ma ſalvatico , emon tano . Io non farò menzione delle tante , e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata ( piganardi inventarono . Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe , che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere , cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rap 7ο RagionamentoSecondo rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie , e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe , onde poi Fluunt lacryme : ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis : qua lucidus amnis Excipit , du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono , que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli , che la callia naſca in una palude non guari profonda ,per entro , e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza , e vigore ; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto , e'l corpo tutto ,da gli occhi in fuora ,di cuoja ,e d'altre pelligec colefue parole : επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον , πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη , σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ . λίζεται κού θηeία ερωτι , της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί . SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów . E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò , che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano ſcortecciarſi , ma tagliinſi in pic cioli pezzetti , i quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati , perchè i vermicelli , che nel corromperſi del legno s'ingenerano ,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la corteccia intera , mercè l'amarezza , e l'acrimonia del fuo odore , την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα , και ουκ είναι τριφλοίσα , χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι , από μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι , δια την πικρότητας και δριμύτητα 7ης οσμής , 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò Plinio con l'uláta eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum , mox præſuunt recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum ,ut ijs pu trefcentibus vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine . Ma che direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto . Il Cinnamomo , dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove , e'n qual modo naſca , ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato , e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo : cglino tagliano in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono ; gli uccelli intanto calan giù , e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi , i quali non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra , e gli Arabi allora ne fan race colta :όκα με γας γίνει αι , και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ , έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι , εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς , απο Φοινίκων μαθόνης , κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι , ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι : πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο . μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε . « θαι έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo , quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto ,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo Plinio chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi , onde pofcia gli Secondo Regionamento ܐܶܡ gli Arabi con faette di piombo lo ſcroſtano , e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το . πων εκείνων , ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των τας , τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν , έκ του φουτου το κινναμωμον : elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι , και αρώμα & φί. ραν , και τους νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων , 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν , και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας . E non molto diffimile e cio , che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν , εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας : πεος ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας , καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in animod'annoverare gli errori tut ti , ne'quali caddero gli antichi per eſſer eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia , ed indi aſſai più vaneggiãdo ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni d'affermare , ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe , e pericoloſe navigazioni, ove non giova governo de nocchieri , ne vela , o remi,inafol l'umano ardire, e la for tuna gli regga . Direi come in alcuni antichi Greci comentarj leggaſi , che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto ,l'acque bogliéti rin freſchi , e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti ;e che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν , και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio , co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri , naſcer quel lo in India da un coral arbuſcello , che produce un frutto 1Ο Del Sig.Lionardo di Capoa. 73" lungo , ſicome baccello , il qual chiam ali pepelungo : den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella , ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco , e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero ,e dilettevole al guſto più che'l bianco ; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto , non è cotanto perfetto . Πέπερ , δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι , κα . &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι . όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε . περι , epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου , φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ . ng IWY , Ma troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti annoverare . Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza , ſenulla ſeppero , over nulla curarono del muſchio , dell'ambra grigia ,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna , il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana , della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè , del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa , della China , e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti , che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno . Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole , che peravventura cader potrebbono in penſamento umano : 0 pure avendole da altrui udito , co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute , sì le abbinn per vere , e le rapportino . Laſciam , che creda Anafſagora appo Ariſtotile , che i Corvi uſin per bocca colle lor fem . K 74 Ragionamento Secondo 1 minc , e dea cagione dicantare a colui :. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della Catapleba , di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo , la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato , ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja ; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave , e queta tanto , Che nulla più . Mapianto E doglia , e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene , Daimaco , Nearco , Ariſtea , Onoficrito, Te fia , ed altri appo Erodoto , Strabone , Diodoro , Plinio , e Gellio degli huomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore : degli huo mini , che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo : de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo , e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla :d'altri , che han faccia di cane, e latrano , e di tant'altri di fimil figura , a quei , che la ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva . Non fu veduta mai piùſtrana torma , Più moſtruoſi volti , e peggio fatti . Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma , Col viſo altri diſcimie , altri di gatti . Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone , che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti , che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento , che prendono del preſto ritorno , cli’al lo ro Apollo a far hanno . E con queſto diPlatone,laſciamo impunito anche il fallo d'Ariſtotile, qualor prende licenza di dir , che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente , e doloroſamente cantavano ; eſſendo in veri tà Del Sig.Lionardodi Capoa. 75 tà il lor căto un'imporcuno gridare ,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo , da Solino , e da altri, perchè po co , o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti , che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome Ovidio , Id quoquequod ventis Animal nutritur , & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon . O di caffar quegli, che vollero ,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo , ſe pure non fu queſto , crrore di Plinio ;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte , dice d'averlo tolto di peſo a Democrito , che un libro in tiero ne fcrife , ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto , che nel Ionico linguaggio , nel qual Democrito favellava ,la parola xpowodeina , val quel la Lucertola , che appo gli Atenieſi , e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio . Elaſciamo ſtare ciò , che gli antichi, a'quali ſi parve , che deffer credenza Varrone , Plinio , Solino , Columel la , Marziano Capella , e Servio follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento , e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo . Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte , o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo , e ben degna , che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare . E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille , Εάνθαν και Βαλίον ,τωάμα ποιηση πελέσθην , Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη . E ſimilmente Virgilio Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis , ventogravide, mirabile dicru ! E Silio Italico delo lociſfimo Peloro no , fa K 2 Nu 76 Ragionamento Secondo Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato , Queſti ſu'lTago nacque , ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion , che n'innamora , Nel cor le inftiga il naturaltalento , Volta l'aperta bocca incontra l'ora , Raccoglie i ſemidel fecondo vento , E de'tepidi fiati( o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe , e figlia . E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei , della Fenice , del Centauro , dell'Aquila, del I.eone , del Coccodrillo , della Salamandra , della Pirau ſta , della Remola , del Cavallo marino , del Baſiliſco ,del l'Elefante , de'Satiri, degli Ipogrifi , de'Ciclopi , delle Si rene ; e tant'altri errori , ne' quali non pur degli animali , ma de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria , ſol che a noi ſi conceda picciola ,e ben dovuta rin chieſta , il poter da’lor falli ritrarci , uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze , e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in no cale ; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto , e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi , i portamenti, i coſtumi degli abitatori : ma di che animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito , quali piante germogli , quai minerali produca . E non v'ha ge te nel vero sì barbara , e feroce , la quale , o per avventu ra , o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato , il quale ad al tre più umane , e ben coſtumare nazioninon è occorſo . E ben ciò a pruova ſappiamo ; imperocchè ne per lunghe vi gilie , ne per iſparti ſudori di'ſavj greci , o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri , quanto è quella maravigliofa corteccia ,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quan . DelSig. Lionardo di Capoa 77 quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta fortunata , e prodigioſa fecondità , e con qual leggiadria , ed altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe,il ſublime poeta filoſofante Lucrezio , ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a cantare : quædam nunc artes expoliuntur : Nunc etiam augeſcunt : nunc addita navigiis funt Multa : modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper , & hanc primus cumprimis ipſe repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito , con tutte l'antiche , e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti , tanti altri ſecoli paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi bilancino . Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni ? baſta ſolo un ſol filoſofo , l'ingegnoſiſſimo Galileo , per tacer di Re nato , del Gaſſendo , dell’Obbes , del lungio , e di tant’al tri , ad oſcurare , cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità . Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar tanti belliſſi mi , e nuovi trovati dell'età noſtra ? ſe de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili , ed infecondi, così ebbe a di re : Sum ex illis fateor , qui mirer antiquos ; non tamen , ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa , & effeta natura elt , ut nihil jam laudabile riat . Ma ſu concedaſı pure ciò , che a niun modo conce der mai certamente ſi dee , cioè a dire , che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene ; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra ? Che farà il filoſofo , e'l medico ſenza il microſcopio ? Quanto ri pa mar 78 Ragionamento Secondo 1 2 2 ! 1 1 . 1 1 marrà a ſuper della Terra al Geografo , ſenza le novelle ; tavole dell'America ? in quaiviluppi , cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto ? Non s'addofferebbero le ſghignazzate , e le riſa anche del popolo minuto , e de più ſemplicifanciulli , s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della via lattea ? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno ,ch'alcuniorecchj, altri anella , ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee , o lo ſcambiar della faccia di Venere , o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece , o le montuoſità della Luna ; o l'aggirarſi di Venere , di Mercurio , di Giove, e di Marte intorno al So le ? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli , la sfera del fuoco , e tanti , e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli ? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati della notomia morta , e della notomia vitale ad impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati ? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico , il cui meſtiere, comechè manchevole , tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede , che la falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira , e biaſimata , che ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe , cavarc . Ma laſciando ciò al preſente , che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno , o antico , o moderno autorch'egli diafi , appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli , ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato , e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo . 1 logi Del Sig. Lionardo di Capoa. 79 logi comunemente leguito , e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici Poeti Latini,checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea , c della Stoica filoſofia addolcendo , così ne canta Quod verü ,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să . Condo , &compono,quod mox deprumere poffim . Ac ne forte roges quo me duce , quo lare tuter : Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas , deferor hofpes ; Nunc agilis fio , & verfor civilibusundis ; Virtutis vere cuſtos , rigiduſque ſatelles : Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res , non me rebus ſubmittcre conur. Equel , ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando. .., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis , quid nunc effet vetus ? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus ? Odafi Quintiliano : neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia , quæmagni autoresdixerunt , utique efleperfecta ; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam , & labun tur aliquando , & oneri cedunt , & indulgent ingeniorum , fuorum voluptati : nec intendunt animum : Odali il Roma no Oratore : non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt ,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt , plerumque eorum autoritas , quife docere profitentur : definunt enim fuum judicium adhibere , atque id habent ra tum quod ab eo , quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pitta gorici , a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava : conchiude : tantum opinio præjudicata poterat , ut etiam fine ratione va leret authoritas . Odali oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone , ove diffe : 10 ſon di sì fatta natura , che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione , che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata , e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima : as iywa õ jóvov vũ , anc ' wy de Tolos 1G- , οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω , δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou , Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale , avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων , όστον πτοπμαν την αλήθειαν , e pri ma auea egli detro a pro della verità , far meſtiere , maffi mamente al filoſofo , diſtrugger le ſue proprie credenze ; ma odaſi quella maraviglioſa , e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro , che Ariſtotelici, o Ippocratici , o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno , vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata : Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità ; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante , foven temente dir ſogliono : eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con Ariſtotile , Ippocrate , e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere . E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor Ariſtotile, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete , Pittagora , Parmenide , Anafſiman dro , Anaſlimene , Meliſſo , Democrito , Anaffagora , cd altri molti , che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia ; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne , chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate , e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima , e riprende ; e forſe ſe ſua malavoglienza , ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere , che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe , chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri , e farnetici , e ſciocconi, e ſtolti , e ſcimuniti , e non farebbe per avven tura gran ſenno , che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia , e danon così gravemente mordere . Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol DelSig. Lionardo di Capoa 80 volmente e'ſi puote , in Teofraſto , in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno , in Ipparco , ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la verità , ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta , almedeſimolor maeſtro , e duce Ariſtote le , non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia , a’quali tanto , e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad Ariſtotele , che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile , e veramente filoſofica coſtanza , nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre , e proverbiati , e deriſi,il ripreſero ſoventemente , e lo dimentirono di non , pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου , Non già chi abbia detta la coſa , ma s’eidica , o non dica il vero ,doverſi conſiderare . Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il quale al ſuo Lucilio in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis , dixit : quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant , nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia . Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur , nihil inve nit , immonequequerit; e ciò , che altrove ancora : Non ergo fequor priores ? faciofed ; permitto mihi, bu invenire ali quid , mutare, nec fervio illis fed , aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta : Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri , fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. caya 82 Ragionamento Secondo 1 cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci . Poft Deum ,veritatem colendam , quæ fola bomines Deo proximos facit . E ſe tanto può far la verità , dove più riporrem noi l'a nimo , a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche , ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità ? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità , e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti , che in tanto pregio ,e tanta fama glorioſamente falirono ; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe , e Talete , e Anaffimenc, e Senofane , e Anafſimandro , e Pittagora , ed Empedocle, e Leucippo , e Democrito , ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate , e Platone, ed Ariſtotele , ed Epi curo , e Zenone , e tanti , e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente , e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cuſano , e' Co pernico , el Patrici , e'l Teleſio , el Ramo , e'l Do nio , e Ticone, e'l Cheplero, e'l Bruni, e'l Gilberti, e'l Montagna , e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l Galilei , e lo Sti gliola , e'lCampanella , e'l Verulamio, e Renato , e'l Gaf fendi , e'l lungio , e'lConte Digbi , e'l Oggelandio , e'l Boile , e’l Borrelli , e'l Maignano, e'l Robervallio , e'l Mal pighi, e'l Redi , e lo Stenone , e'l Ricci ,e l'Vliva , e'l Por zio , e ' Bellini, e'l Marchetti , e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci , e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi ,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno , ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono . E viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama , e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro , che toglier non vogliono una sì 1 com .-s 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 83 commendevole, e neceflaria libertà ; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio , e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei , e di sì fatti errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia ; c fie baſtante il ri duryi amemoria , ſol ciò, che d'un ' oſtinato , e duriſſimo Peripatetico narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia . Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia , dove alcuni p loro ſtudio ,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno , non men dotto , che diligen te , e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno , chę ſi andava ritrovando l'origine , e naſcimento de'ner » vi , ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici ; c moſtrando il notomiſta , co » me partendoſi dal cervello , e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi , s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc , diramandoſi per tutto il corpo : eche ſolo un fil ſottiliflimo , come di refe n'arrivava alcuore : voltofi 5 ad un gentil'huomo , ch'egli conoſceva per filoſofo Pee ripatetico , e per la preſenza del quale egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò , s'egli reſtava ben pago , e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello , e non dal cuore : al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc , riſpoſe : voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta , e ſenſata , the quando il teſto d'Ariſtotele non foſſe in chiaro , ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera . Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros , famaqueverendos , Errare , & labi contingit , plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores , uticonnivent , deducere eajdım , 1. Ta . 2 84 Ragionamento Secondo Tantum exemplavalent , adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere . Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà , che noi commendiamo, eglino altresì , ed approvino , e lodino . E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando ? Egli con chiare , ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare ( il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario , e così folle farà ,the più toſto a’Pagani , e perfidi gentili fede preftar vorrà , che a’ facri , e piiſcrittori , e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già , ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza : ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini , & abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito , e rigetti ;indi le parole medeſime di Agoſtino recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori , che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro , eſclama egli , è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa ? fe non che un chiudere il varco a color ,che vanno in traccia della verità ?Se non che un far argine a quei , che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza : ſe non cheun'ammorzar violen temente , non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione . Così quel gran Dottor della Chieſa , non men d'ammira bil ſantità , che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al Gran Girolamo, lume maggiore della Criſtiana Religio ne , dopo avergli detto , ch'egli dava intera , e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura , ed agli autori di quella , degli altri in sì fatta guiſa egli favella : Alios autem omnes ita lego , ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant , non ideo verum putem , quia ipfi itas Jenſe is DelSig:Lionardo di Capoa . 85 fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores ,vel probabili ratione , quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt . Ma prima di S. Agoſtino quel criſtiano Tullio, Lattan zio Firiniano,avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro ,che ſenza diſcreto giudicio ,i trovati degliantichiapprovano , e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre ; per ciocchè : ficome egli ſoggiugne : Hoc eos fallit , quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje , utaut ipſi plus fa piant , quia minores vocantur , aut illi deſipuerint , quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de : Quid ergo impedit , quin ab ipfis fumamus exemplum , at quomodo illi , quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos , qui verum invenimus poſteris meliora tradamus . Or dunque , fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi , che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri , ed a’Dottorimedelimidi Chieſa Santa , ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe ; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici . Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone ; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno , altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno , che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario , con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare , non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali ,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano , ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo . E pure i mediciduri , e oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui , nõ già la verità ,vā ricercă do ; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am, . 1 mae 86 Ragionamento Secondo maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono ; e mi ricorda a tal propoſito , che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui aperto ; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato , c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra : ne era inai egli per rifi pare , ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente , e in vo ce piena di carità , e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato , ſe non valere ſtar su le difeſe , mu eſſer pienamente pagodi ciò , che gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere . O ſtrana , o incredi bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi , e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura , e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità , e'lnatural conoſcimento , e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo , Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una , a due, a tre : e l'altrefanno Timidetteatterrandol'occhio , e'l muſo ; E ciò che fa la prima , e l'altre fanno , Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete , e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo , che per la più parte ciò fanno coſto ro , non peraltro , ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa , e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa , ed a’lor m.cítri non cono ſciuta verità ; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio, quella , che certamentealtro non è , che dapocaggined'intelletto groſſo , e tondo ; e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio , c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per lo DelSig.Lionardo diCapoa. 87 loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio , forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta : Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono , ed Ippocrate , e Diocle, e Pliſtonico , e Praſlagora , ed Erofilo , e Filotimo , e Cri fippo , ed Eraſiſtrato , ed Aſclepiade, per tacer d'altri , es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino , c'l Paracelſo, e'l Quercetano ,e l'Elmonte, e'l Villis , e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni . Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno ; (gannatevi pure una volta , e ſe non altrui , credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel , che n’abbiam di ſopra rapportato , egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra , che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro , i qualidaIppocrate, e da Praffagora , o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore : ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες , η όλως από πνος άνδρας , εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο , ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che ? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti , che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa ? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ . λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα , τα δε κακώς κρίναντα , τα δε αμελί segov ypay ar to ,cioè : egli è malagevol molto , o pure impoſſi bile, 88 Ragionamento Secondo bile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando , e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno , il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi , o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più , che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti , i quali lodovrebbon prontamente ſeguire , ſe non mai per altro , almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in quel pregio , ed in quella ſtima , che tutto dì millan tano , il lormaeſtro , il lor principe Galieno ; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole , Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt , atque contemnunt . Tanto dice o Signoriilſaggio , e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia , e medicina , e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre proce derebbe , s'egli non avviſaffe , che il rimanente ben pote te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo Teleſio ſotto l'effigie della Verità giuſtamente ( culſe Móva pod pina , cioè a dire Sola coſtei a me amica ; e con quelle parole , che replicar così ſovente il Paracelſo folea : Alterius non fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio , coſa , che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e pur ella è certa : ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani , cioè , che poco men , che tutti i più celebri , e più ſtimati parteggianti di Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi miſentimenti , e quaſi tutti tanto nel filoſofare , quanto al fatto del medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa , e'l contrario tutto con Del Sig. Lionardo di Capoa. 89 con fatti adoperando, di ciò ,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono . E percominciar dalle Spagne , acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda , Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire : Eſſer egli da credere , che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri ; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo , perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne ; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine , il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude : quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem . Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento , che troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo ; ma non laſcerò lo già di dire , come forte per lui ſi ripigli , l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione , unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò , come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male , contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret ? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare ? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti , non pure il ſuo maeſtro Galieno , e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona , fi come nelpurgare , e nel cavar ſangue , quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi ; ma in un particolar luo libbri M cino 90 RagionamentoSecondo 1 cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj , e diſcordi , ch’in niun modo , ſecondo lui , difender mai , o riconciar baſtantemente fi poſſono ; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati , e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato , ilMena , il Segarra , il Peramati , il Pereira , e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe ; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do , dice , che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe , ch'e' rapporta , alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm( ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes ,sed rationum momenta conſtet preponderare , indeque , vetus verbum : Amicus Plato , fed magis amica veritas,oy tum babuiſe . E per far motto intorno a sì fatta maniera , ancor de Medici di Valenza , i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente confederati , che anzi a ſommo fallo li recherebbon , che no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine . Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così dicendo ; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc , ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da , non ne torce ancor'egli , e non una , o due , ma più, e più fiate ? certo , che sì ; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio , fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14 , ut 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 91 na , ut multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth . vo. lunt . Or ecco , come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione , e lotto le bandiere del barbaro , e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta , e cerca , di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce , cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala ,soy eli cw , ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς , αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς , όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας , ή τα τ δυνά pescos pead montées : Egli è coſa falutevoliſſima , ficome io hogià detto , ilcavarſangue , non folo nelle finoche , ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate , fol, che l'età , o be forzeno'l vietino . E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia , con dir , che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando : queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Cruſca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo , in modotale , Che non l'avria Demoſtene difeſo ; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno , il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra ,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequutiGalenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium , d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto ,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum , quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda , favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato ; quem locūzignofcant mihi ejus manes , Galenusnon recte explicuit . Stefano Roderi go da Caſtello , Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuo 92 Ragionamento Secondo ma ſcuola di Piſa , nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia d'effer medico , e filoſofante libe ro , dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile , che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare , forte ſgridando co loro , che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno , e farti ſervi d'altrui , così favella : fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit ? Proh dolor , ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove : ego vero quid antiquiores fenferint parü ſollicitus , &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente , duro , oſtinato , caparbio , protcryo , e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume , che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina . Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce , quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi , o non bada , o non cura , o talora lc fpregia ? Noil dic'egli una volta : mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina ; ed al tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate , come colui , che non intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie : eccone le ſue parole : Hippocrates elio modo , & forfan clariori caufas debilitatis nobis propo fuit , quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere aggrediatur . Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della Regal caſa Gaſpar Bravo , valoroſo , e forte cam pione della doctrina diGalieno : e fono le ſeguenti : liens Non eft conformatum à natura , ut fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore , quod Galenus , & reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina Del Sig.Lionardodi Capoa. 93 in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis , cu motum percipere. E in priina , di Galieno medeſimo avea già detto :fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine . Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza , fi come all'aggirarli del ſangue , ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni ; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice : quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat , quod nova , ab illo noviter dicta , quia in naturali busnon tam quis dixit , quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo , degna d'un vero medico , degna d'uns vero , ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola , eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto ? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre , cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri ; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi , non ſi può egli bastantemente narrare . Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce , il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di , o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue , avvegnachè grave , e di riſchio ſia la malattia ,e l'infermo freſco , e giovine , c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi : certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem ? quid mira quod multi interierint , ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi , ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia ? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu ., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati , e banditi , non fù ella poi così fal dase coſtante , che non abbandonate talvolta , ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate , e di Galie no ; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro , quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare , e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto , e si fattamen te fi dipartono , e s'allontanano , che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi , o vaghi mcdicanti ; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà , con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore , e difenſor della verità ,le cuilo di di celebrare , ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna ; oltremodo commendan do altresì Galieno , perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate ; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte . E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate , Ariſtotile , e Galieno faccia contraſto ; palesí do ſenza riſpetto , quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli , ſpezialmente colà , ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan , do dell'amaro ſapore , e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio , il quale , comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole : fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit , Ferneliime dicina ; namque fi totam illius inftitutionem , omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria , ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila , 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 98 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi ; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria , il vennes anzi a commendare , che nò ; imperciocchè , fe ad altro , ch’a ricercar nuove coſe , e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto , e'l penſier rivolto , per certo , che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore , anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle parole , le qualiil Fernelio ,antiveggendo ,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato ,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte ; la dove egli con sì efficaci , e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia , la fua cauſa difende , che più non farebber per avventura , o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime ſue parole , colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua , così al tamente favella :nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere . Dicendi ratio , fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur :m :ufici , geometra, fabri, pictores , architecti ,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt , ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio , fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium , vel induſtria penetraverat . Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe , delle bof fole da navigare , e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro ; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età , fe vedeſſe a' dì noftri di nuove , e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni , o le carrette a vela , o le trombe parlanti , o le lanterne magiche , o i teleſcopj, oimicro ſcopi , o le tante , e tante , e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo 96 Ragionamento Secondo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc : o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle , ultimo rifugio de’vinti , & ultimo ſtento de’vincitori : e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze , traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare . E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti , ed altre fille non mai più vedute Itelle , ed altri , ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre , e degli ſtrumenti del vuoto , in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria ? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita ? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove , che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra . Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe , e con onta pur degli inutili e pecoroni parreggianti : fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent , ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent , qua rum fundamenta priores jecerant , nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent . Ma e'l Fernclio , e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui , quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri ; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj , che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti , haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati , e {tra yolri , che s'eglino pur ci ritornaſſero , non più , comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. Del Sig.Lionardo di Capoa 97 sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit , ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent ,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens , quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero , e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta : avve . gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice . Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere , de pleriſque dubitare : ut diligentiore facta inquifitione veritastandem ( abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà , dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità , che ol tremodo ſe ne ritragge , e per l'autorità de'letterati più prodi , ed in iſcienze più valoroſi , che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita ; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj , e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża , anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi . Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione , che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa , la gran forza ſpiegando della verità , dice , quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza : e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta , e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato Ariſtotele; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato Cice rone . E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro , e opporſi Agoſtino a Cipriano ; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, 1 1 98 Ragionamento Secondo gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida , che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova , e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne . Et paganorum quorundam ( cioè a dire d'Ippocrate , e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis ? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis , ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis ? Ma non comporta il tempo , che più avanti lo ne rapporti , comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno : ed a cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà . Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri , cioè del Rondelezine del Giuberti , che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri , da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata . Ne con più ardente , e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano , quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri : da cui ſon ſempre uſci ti , ed eſcon tuttavia valorofi germogli . Che più ? egli è táto non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri , macoloro , i quali la liber tà in altrui ſommamente riprendono , come il Silvio , l'Ol Jerio , il Doreto , eiduo Riolani , lor fa meſtieri , ch'a ' giurati maeſtri , o di naſcoſto ſi ſottraggano , o manifeſta mente ribellino . Anzi (chi il crederebbe !) anche colui , ch’a difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi , voi m’intendete o Signori , io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo , udite come pur ebbe a dire : Ego enim hactenus is fui ,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus ſeculisincognita , & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam lucem profero . Mala Lamagna , quantunque foſſe ſtata il Teatro ,ovej con Paracelſo da prima , e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri : es quan Del Sig .Lionardodi Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero , ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio , il Platero , il Cratone , ed altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti : nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la , come colui , che in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi maeſtri , e Taddeo Duni , il quale , tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo ſuo maeſtro Galieno , un libro partitamente compo ſe , ove nel procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, & illuftris., vene randus : veritas tamen , & antiquior , & illuftrior , dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio ,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro , di Martin Rollando , e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro ,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia : e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata , ut ( per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras , quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam , ipfis è mente eripias . Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo , eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri , Tomaſo Era fto ,Giovan Cratone,GaſparreOfmanno ,nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò , che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo : l'un de'quali , che fù Daniello Orſtio , così pro verbiando il motteggia : ad Hoffmanni modum , qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro , che è Riollano il figlio , ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo Ragionamento Secondo ferive : Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos , utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo , e medico digran pregio, il quale coll' armi , dal medeſimo Galieno un tempo adoperate , coraggioſaméte diféde la ſua ragione ; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui , e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na . Si in his medicina partibus , in quibus plus externi ſon Jus , experientia valet , quam judicium , & ratio , tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus , quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft ? E che direbbe ora il Solenan dri , ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo , quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto , ſecon do , ch'io mi creda , quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto ;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona . Semper novum ( dice egli) Suſpectum fuit , antiquum vero lauda tum ; fed an jure ſemper , dubito; nam , quod nobis antiqui, olim novum fuit : ideoque non tempore , fed rationibus opi niones affirmandæ funt , eæque veriſimehabende , quæ cum natura , qua antiquiſſima eft', confentiunt . E poco avă ti : multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura ſunt , ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint . Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile , e generoſo del Sennerti , il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente , e fecondo ragione,la verità delle coſe , ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri , e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno , e avviſando in quante beſtemmie , cd empiezze foffe DelSig.Lionardo di Capoa. ΤΟΥ foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto così eſclama : Quid eft abnegare Deum , fi hoc non eft ? fi enim iſta non poteſt , ne quidem Deus eſt ? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo ,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft ? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft ? E altra volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando : Galenus ( diſſe ) magnus eſt, & fuit , &erit ; non tantus tamen , quem patiar libertati med fibulam imponere in iis , qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo , e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio ; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare ,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro , ritroſo , e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra ;e tra viando dagli antichi ſentieri , per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta , comechè poco felicemente , d'ag giugnere alla verità . Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo : Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa , fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur . Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona , non è la medicina , o la filoſofia così ſtretta , così anguſta , e di sì poca ſpazioſità , che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui ; ne così manifeſta , e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano ; veri tas , fù ſentenza di lui , in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis . Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico , fi loſofante di Ollanda ; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze , ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio ; il qual veggens е doſi 102 Ragionamento Secondo doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo ,anzicoſtret to , e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette , e intanto l'abbracciò , che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi , e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina , e in mi glior filo certamente ſi metterebbe . Sic contingit , oſſer vò egli , concefo , ftatutoque ſanguinis circulatorio motu ,in numera veteris doctrina fiatuta inverti ; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere , & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur , addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus , &certo ordine inſtructis ſia biliri decer . Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale , da queldella Francia poco certamente s'allontana ? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no ; e intanto l'abborriſcono , e ne ſon ritrofi , che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli , e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti , raccorciarne miſerabilmente la vita . No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi , emedicidabbene , e amatori della verità , no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna ; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno , non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito , e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno . Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno , o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze , e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo , o di Giubetto , o di quelGiovanni, che ſopra tutti 1 inani DelSig.Lionardo di Capoa 103 ز manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui , ſotto nome di Roſa Anglicana ; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali , comeduchi,e maeſtri del filoſofare , e dell'opere di medicina , piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare . E più allor crebbe , e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche , elatine lettere ; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno , e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio , dell'Igmoro , e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina , che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole ,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue , la qual sì forte , e valo . roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio , e folle Pariſano , che vergognato , e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto . Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo ? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette , e di nimiſtà , intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe , che nelle ſue glorioſe . opere così par , che ſaggiamente ragioni : Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro , anzi tal volta hogli preſo a gabbo , i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'Ariſtotile , o di Galieno , o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione , e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio . Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla . Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò , che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna , altrove poi reſa . ne fedeliſſima interpetre , più diſtintamente , e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo , o alme ftier delle parti del corpo umano , chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male , e'l ſito diligentemente , e la fabbrica , eicongiunti vaſi , e altri accidenti di quelli , e delle lor parti conoſciu to , e l'uſo loro per pruova ſaputo . Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie parole , nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere ; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe ? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt . Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti , o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra , o nel proemio del libro della generazion deglianimali ? Pudeat, udite , come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi , e ne ſpro ni il magnanimo amator della verità : pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam .admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere ; incerta indè problemata videre ; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere . Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum . Ma dalle nazioni ſtraniere , paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia , pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze ; la qual certamente , intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili , e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi , e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado , e gli Arduini , e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli , e cento , c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine : hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio , eGio van Manardi , e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo , c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali DelSig. Lionardo di Capoa: 105 a' quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire . E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente , trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri , e in mol te , emolte coſe , che a grado lor non furono , avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare . Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia ,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri , e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai . Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio , e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci , e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina , ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate , o a Galicno ,comechè Ippo cratici , e Galieniſti eglino li foſſero . Ma cometutt'altri , e in dottrina , cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo , ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano , così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno , ſolamente s'affa . tica , e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere , ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno , prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela , e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare , e del ſuo ſcrivere , e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere ; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri , di lui narra , dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo , e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re . E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re , ſcnza diſcender giammai all'operare , e ſenza far prìo O va del 106 Ragionamentosecondo 1 va delle ſue mal credute dottrine : Caufa errorum in medi cina eft , quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus , & c Princeps , & hodie omnes medicine profeſores; ideo ( avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum , &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti , e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro ; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità , e la caſtro naggine de' teſtereccj , émalandati parteggianti de' ſuci tempi ,infra l'altre , cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge , egli beffeggia . Demiror , dice egli , credulitatem , de mentiam , & impietatem medicorum noftræ ætatis , quorum aliqui eo deveniunt , ut cbliti omnis humanitatis , maline perdere homines , utferviant pertinaciæ , quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero , anzi l'anime loro medeſimc non curando , foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis , grida egli pictoſamente piagnendo , addicti ſunt , at nec immor talitatis aninorum ,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat . Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia , dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando : Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto , che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si , e tanto operano colle loro trappole , che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati , che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano , e laſciata affatto la pietà, cla ! Del Sig.Lionardodi Capod. 101 e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto ,tuttiaya: ri , e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare , e i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o affatto non curare , o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli . Del quale graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno , da cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano , au tor fuitnofter Galenus, qui nil ubique jactat, niſi proceres , atque Imperatores ; quum tam juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri , i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni , alle millanterie , alle beffe , all'aſtuzie , aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano . E di tanti misfatti , e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili , e d'alto affare , i quali per ciocche delle coſe del mondo , e della natura poco, o nulla ſi conoſcono , non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono ; anzi intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina , buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande , ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli , conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente , amor di glo ria , che naſca dal ben operare , diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli , e ardente diſiderio d'apparare ; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta , aſpetto grazioſo , viſo piacevole, adulazion di parole , abbondanza d'ammalati illuſtri , e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve , che meritevolment , coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza , omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c triſtınzuoli , e cagionevoli aſſai dell i per 0 2 108 Ragionamento Secondo perſona : diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum : per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum , debilitatum ,quæ poft fanationem illis relinquuntur ; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li , e amici . Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò , che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra , i quali baldanzoſi , e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto , e abborrando, e malmenando la medicina, co ( trignevano alla fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano , a pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte ; facendo eglino ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi . Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano , e s'argomentaſſe a ſpada tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto , che ne pur la loro oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei , ch'il tutto ſolve . Atque ut etiam nunc poſt cineres , dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ chara te ; non però di meno , ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia , e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere , allorcertamente poſto giù lo ſdegno , e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di parteggiare , e far capo oſtinatamente alle ſette . Errata majorum , diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala , diſi mulanda non funt , ne eo ipfo pofteritati imponamus .E benſi valſe egli del ſuo avviſo , quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano : Tueris , atque profiteris nefandum illud Hippocratis deliramentum , à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà , e ſtizzoſamé 1 te bia . Del Sig. Lionardo di Capoa. 109 te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato il reverendo Ariſtotele;come ſe graviſſimo fallo , c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus ,dice egli , carpendi longe de meliorem ; in quella guiſa appunto , che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva , che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori ; della qual coſa , non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri , così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus , qui funt ingenio , em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere , quæ ma lè funtdieta , &meliora tradere : foli Argenteriohanc li centiam adimis . Ma prima delCardano , e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide , e nelfiloſofare , e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche , e nella filoſofia , e nella medicina aſlai bene fcorto , ed cſercitato ; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato , e onorato da quel generoſo favoreggiatore , e intendente delle buone lette re Lione il Decimo , Sommo Pontefice . E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito , no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia : volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna , più manifcftamente proteſarlo , portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole , e di gran lie va . Quoniam noſtri antiqui progenitores , dice egli ,fcien tiarum inventores , rationibus , experimentis, comperie runt ſcientias ; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo , e pocta de Verona Girolamo Fracaſtoro , avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno , e molto a capitale il teneſſe ; non però dime 110 Ragionamento Secondo di meno , reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo . E oltre a ciò nelmedicare ,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione , eins altri luoghi ; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide , per cui huom certamente crede , lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto , e che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro . Nel qual poemacontro l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando , l'aria ſola di tutte coſe eller principio , così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato : Principio quæque in terris, quæque æthere in alto : Atque mari in magno natura educit in auras , Cuncta quidem nec forte una , nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur : Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve , locifve , quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris , &opaco carcere noctis , Milletrahuntannos ,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum . Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio , facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet , &primordia praſto. Rarius emergunt alii , poft tempore longo Difficiles cauſas , & inextricabile fatum , Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galie DelSig.Lionardo di Capod. ilt * Galieno, e iſeguaci di lui , prendendola oſtinatamente a favor d'Ariſtotele , e de'Peripateticiin ciò , che da coloro dipartonſ i Galieniſti ; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto , che parer poſla ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα , το τών ινών γένος , εκ της εαυτών διαφορή τάξεως . αι διεσπάρησαν εις αίμα , να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους , και μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι , μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua : E maf. fimamente quando ( la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre ,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo ,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo , e difficile a ſcorrere , sì, che appena poipoteſſe andare , eritor nare per le vene . Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere , non avendo ri guardo a ſetta niuna , per aver eglicol Sarpi , e col Gali Jei un tempo ufato ; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re , e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina , comcchè il più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole , fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando , non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti medici , e filoſofi ; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca , rapportão do in ſuo pro varie, e molte autorità d'Ariſtotele, e di Ga lieno ; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani : e molti, e molti errori ne'moder ni, e 112 Ragionamento Secondo - { ni , e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice , di pa recchj ſcuole dell'Europa , dice , che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi all’orrevole autorità d'Ariſtotele, d'Ippocrate, o di Galieno , che a' ſentimenti noſtri medefimi; e pur dice cgli Ariſtotele medeſimo, Galieno di comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza , e a' ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta , così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus , aut majorum meorum avunculus , quod ſciã , neque in Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus , non video cur omnes non poffint honorificè , fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli , il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno , purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto , dice manifeſtamente , eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato ,e ſovente non averne parola inteſo ; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare : videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis fententia ,ac hiſtoria aberraſſe , fedetiam à ra tione ipfa , acveritatelongè fane abeffe . E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno ,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti , c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente , che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo . Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina , avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno , e d'altri R.2 zionali medici ; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze Attalo famoſif troppo affezio fimo DelSig.Lionardo di Capoa 113 Timomedico metodico , dicendo , che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico . Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il nar rato Attalo , ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno ;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse , volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate . E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento , che egli ne racconta . Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo ? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte ? Quante ,e quante fiate grave mente il proverbia , e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza ? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci , ch'Io per brevità tralaſcio , recheronne al preſente uno , che val per cutti , lagnandoſi egli forte del tempo , ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'Ariſtotele , e diGalieno , como ſchiuma de libri , e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine ; eſſendo coloro in molte , e molte coſe ſempre mai fallati ; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta . E intanto è vero ciò , che noi raccontiamo , eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno ribellati , che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria,cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno , pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria , comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno ; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo , pure l'aveſſe fronteggiato , e ripigliato , 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj ; ed ove dice , che l'acque de'pozzi non fiano ,me appajano fredde l'eſtate più , che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde , perocchè ſi toccano colle mani food P dc. . 114 Ragionamento Secondo 1 1 1 de. Ma quel , ch'è più da conſiderare ſi è ,ch'egli in un'in ? tero libro riprova l'antico , e praticato uſo di medicar le ferite , appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto , non che adoperato . Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei , ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino . Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato , così proruppe : An omnia novit folus Galenus ? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum ? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam , perfectam , &integram medici nafcientiam ,nihil nobis reliquens ? e dopò molte graviſſime parole , che egli apporta a queſto propoſito , così alla fine conclude : Patet boc , quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio , ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte , e molte fcritture publicate in iftampa , apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie , ond'è sì abbondevole , ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte , e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti , ragio nerò ſolamente della nobili : lima noftra Città , delle Sirene , e delle Muſe amenillima ſtanza , che non pur nella gloria delle lettere , ma in ogni altra a niuna delle più celebri , cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda . E laſciā do di favellar del Belli , del Bozzayotra , del Tucca , e d' altri , e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna : come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio ; al cui ſottile in gegno , ed avveduto giudicio ,non miga, come altri per av vétura coftumano ,baltādo il copiare , e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine ; ma volendo egli diſaminare , e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e av Del Sig. Lionardo di Capoa 115 e avveduto , e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare ; il qual non a tutti pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda , altri manifeſtamente rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore . Su mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus , fed ut prudentes Senatores viderequid conveniat ; at que ita ingenue proferrede rebus , quod rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo , ed eccellente giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole di lui ravviſarſi . Non tam Servili, dice eglifimus , animo , ut omnia veterumplacita , oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur , vel tam ab jecto , ut pofteris omnem , meliora excogitandi occafionem prareptam , ac præciſam effe arbitremur ; quafi vero non idő nuncſit , quod olim Cælum, eadem terra , idēgenerandimo dus : eadem denique, & facilior etiam , quam aliis fueritdin cendi , inveniendique ratio . Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti d'Ippocrate , o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della ribaldaglia del volgo , con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero , facendo ſempremai veduta di abbracciar , e di ri tener tenacemente tutto ciò , che inſegnato viene per Ip pocrate , c per Galieno . Infra'quali Filippo Ingrafiagavi do oltremodo , e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da alcun degli antichi medici ravviſate ; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc d'Ippocrate , ne di Galieno punto curando , di purgare cziandio nelvigor delle malattie . Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti Bernardi no Longo , Paolo Monaco , e Giovanni Antonio Piſani : un diſcepolo de'quali ( 1) in una apologia in difeſa diſe , e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non folum con P 2 ( 1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra recentiores medicos , & Philofophos ,ſed etiam contra Gao lenum ipfum , &Platonem , alioſque illuſtresfcriptores dice re , fi quando ratio dictaverit . Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni , e Latino Tancredi,huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte lettere , e di molto giudicio , e gran difenſore della dottrina del Telefio . S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani , e Mario Zuccari, il qual co sì forte , e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte : ed altrove sì ardicamente , che nulla più , e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani , intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli , Antonio Santorelli , e Girolamo Fortunato , il qual tutto ciò , che nell'opere d'Ippocrate , e di Galien fi riſer ba , sì fattamente per le maniavci , che non v'era forſe parola , di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a memoria ; e nondimeno tanto , e sì fovente ove gli pareva , cheragione il richiedeſſe , coſtumava egli a rim beccar l'antiche , e comuni opinioni , che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia , e crepacuiore: e ſofina , e cavil Joſo ſempre chiamavanlo . Ma ben comprendelí l'animo fuo libero , dal libro , ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali , ed in quello ancora de ſenſi ,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora . E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio , huomo veramente per vivezza d'ingegno , e per dabbenagginc d'animo , tenuto fommamente caro dalla Città tutta . Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo Emilio Ferrilli della nuova , e della vecchia medicina parimente inteſo , e di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc ?il qual da' fuoi lunghi viaggi , e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla patria riportò , che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli ſpeziali 1 1 * cor Del Sig. Lionardo di Capoa. 117 corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio , che aveſſer mai le noſtre ſcuole , il dottiſſimo Marco Aurelio Severino , il qual non ſolo , ſe miglior Chimico , o medico, e ſe più va lorofo in fiſica , o in cirugia, e ' li foſſe . Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro : anzi oltre affai più gittandoſi , in favellando , ed in iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno , e gli altri anti chi , e nelle noſtre ſcuole tante fiare , e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci , egli Arabi , ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli , non avendo huom , che non ſappia , che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre , e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare , colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav . volgendo , ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora , che ſaldi , & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno , in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate , cdiGalieno s'allontani , avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi , agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi . Ed Io ,per chè di più non mipermette il tempo , daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio . E percominciar con qualche ordinato diviſamento , manifeſta coſa è , che gli argome ti maggiori , de'quali fornir ſi vuole la medicina , s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp pocratici , e Galieniſti ,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano , nella Dieta , nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης . Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti , dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala , (1 ) fuerunt , dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia , aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant , pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant ,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno ; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo , Paolo Tucca avviſato ,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum , quod longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna , ab eo quem obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum : in ftatu vero , aut nihil offerendum , aut tenuiſine dietandum . Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive , in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate , e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa , che ancora va per le mani de’letterati , fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Cleméte VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità , e nel tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano , anzi nel modo ancora , e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono , di tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi , che diquelle , che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate , e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli , e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment.in problemat. Ariftot. Del Sig.Lionardodi Capoa. 119 ye Città ſi coſtumano.L'orzata , dice una volta Ippocrate ( 1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro , i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas . Ed altra volta dice , eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare , e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno ( 2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi , anzigli ammaeſtramenti di Petronas , che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire . Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate , e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere , dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa , e mezzanamente umoroſa ,ne punto riſtri gnente , perchèqueſta , c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole . Ma che direi noi del vino , che da’Napoletanimedici , non altrimente , che ſe toſſico foffe ,a ' febbricitanti ſi victa ? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta , e come egli ne narra, di cal do , e ſecco temperamento ; anziegli manifeſtamentene conſiglia , e ne conforta , che inzuppandovi il pane ſi dia , mangiare a'febbricitanti , anche talvolta nel comincia mento delribrezzo . Ne è già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre , ch'io qui rap porti ; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen , e piano il coſtumedel cibar Napoletano ; e che null'altro , che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr . nel lib.i.della dieta (2) nel com . 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s . della dieta. (4) nel 1.lib . della facoltà de'med.Jemplo I20 Ragionamento Secondo in prima a'neghittoti Cittadiniportato , traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate , e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè , licome il primo de'Greci maeſtri dice , ( 1 ) e l'altro il conferma ( 2 ) eragione il richiede , dee il ſaggio ,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia ,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere , ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato , ciaſcun da per se baſtantemente , ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare . E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato , e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico , onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole , e ſpoſato , e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando , poco , o nulla concedergliene . Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere , quanto da ſentimenti d'Ippocrite , e di Galieno , il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te , anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo , o più antichi , i quali , ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem ,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli , ma eziandio a'bambini di latte , e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate : Τα δ' οξέα πάθεα , φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw . Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male , e l'infermo giovane fia ,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti , e molti luoghi Ga ( 1 ) ippocrate nit lib . 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10 . ( 2 ) Gal.nel Com . * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno ( 1) in un fra glialtri dicendo : si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν , ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια .. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già ,o pure in ſu'l cominciar fia ,avědo ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena :So lamente da queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano , dicendo (2 ) , che non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli , intin , che giungano all anno quattordiceſimo . E altrove ( 3 ) anche dice , che ſe le forze di colui , che ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno , toito come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue : ſolo , che non abbia crudità nello ſtomaco , e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte ; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno : che ſe l'infermo farà bambino , o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno ; le quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò , ch’al falaffo richiedefi cosi dice : ( 4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν , ει ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς , ούτε γέ έων , φέρει την φλεβοτομίαν , ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia , che loro dea noja : E tralaſciando di rapportare al triluoghi , ove ſempre il medeſimo, e'grida , e ripete, di rem ſolamente de'tempi , ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli , ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere , cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo .crcduli , e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer ( 1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. ( 2 ) aelmed.luogo ( 3 ) nel mes. ( 4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per . 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno , e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro , e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole , che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria ,ch'ella non ſia eſtremaméte calda , e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo ;e ravviſa egli , che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue , irreparabilmente morirono . Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa , che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano . E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione , dopo tan to , e tanto manifeſtarlaci , di nuovo con queſte parole la ci perfuade:( 2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν , τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών , όταν η θερμος ικανώς και ξηρος , ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα , και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi , aggiugnerò quell'altra coſa , alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria , che ne circonda : e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca , intanto , che molto ne venga a ſvaporare , ed sfalare il corpo ; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia , e l'huom per tofa , e robuſto . Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole , o vizzi , graffa , o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno , avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente , o molto poco fangue è da trarre ; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate . Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno , al ſalaſ ſo richieſte , alle quali o poco , o nulla mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam ( 1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. ( 2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo mani DelSig.Lionardo di Capoa. 123 manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate , cda Galieno allontanarſi . Eglino in priina molti , e molti medicamenti coſtumano , che da Ippocrate , e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono ; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia , i Tamarindi, il Riobarbaro , la Siena , la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma , la China , la Salſa,ed altri aſſai , che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio . Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più ,o dagli Arabi tratte , o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è , che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte , ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do , ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo , in ogni diſpoſizione di ſtagione , in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice , e credula gente , che cosìvoglia Ippocrate , e che così co mandi Galieno ; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare . La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate , quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò , che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo , cosi parimétedice : jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι , και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει , τα δε λήγα , τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due i ' 124 Ragionamento Secondo 1 1 due iSolſtizi ; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio ; ma quel maggiormente dell' Autunno . E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella Canicola ; quindi altramon . sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do , ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio . E Galieno in altro luogovuole , che anche a ' tempi troppo caldi , o troppo freddipormente ſi debb.2 ; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è , purgheremo sì bene , ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un , ne l'altro il ci vietaffe . E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate , che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole , e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti . E parimente in un' altro luogo ( 2 ) egli dice , che coloro , i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore , oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre , e'l corpo tutto ingroſſato , non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno , che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi , che moleſtan loro lo ſtomaco , non ſi debban ne ſegnare ne purgare : A niun di coſtoro , ſono le ſue propie parole , e' fi fuole trar ſangue giammai , chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono : (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν , έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε , και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi , e diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia : ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole . Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib . del metod. (2 )nelmetod,allib.9 .(3) nel met, al lib.12. 1 nife Del Sig.Lionardodi Capod. 125 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano , non è di giovamento alcuno alla gente ; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia , voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una , o due volte il meſe , oltre al manifeſto nocimento , che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole , e peſſima uſanza . Ma ſopratutto , quanto al purgar gli umori nelle malattie , i quali abbian dicocimi to biſogno , da’ſentimenti d'Ippocrate , e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici ; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino . Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe , e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate , edi Galicno rapportare , acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa , quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte , e nel principio di quellemalattie , che có enfiamento cominciano . Ilmaeſtro di Galieno , e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare , che ne ſuoi Aforiſmi , ne’qualibrievemente , quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa , una cotal co ? a con una general pro poſizionenediffiniſce ; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi , anzi quindicome conſeguenza ſi cava ; la qual coſa è sì chiara , e manifefta , che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto , oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque ( 1) così dice ; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes , qui huc fpe ctant , tanquam corollaria deducti ſunt : ed oltre a ciò ſog giugne : ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe expreffit : quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi ( 2) Le materie cotte purgare , e muover fi debbono; mas, non ( 1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib . 1. - 126 Ragionamento Secondo 1 . non già le crude ; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor , che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono : Témava Pago μακεύειν, και κινέαν , μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν , ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy : Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô . fiderare , che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti , che diſiderar ferventisſimamente , e con impazien za ; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia , tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene , ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da Ariſtorile ( 1 ) appreſo l'avea . E diceſi di quegli animali ,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio , e come diſſe Virgilio In furias , ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no , i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente , e con impeto , diparte in parte ſi muovono , non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato . Ma noi , avve. gnachè diſcorrimento , o foga più ſaggiamente da dir ſia , o enfiamento , o pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza , o Turgidezza: dal gonfiare , o ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate , e di Galieno traportando,preſero la voce turgere : onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia , ad orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita : gonfie , e turgide parimente chiamiamo, quelle materic , che a si fatto movimento ſoggiacciono ;ed in verità gli umori , che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano , ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer mafi per quell'altro ( 2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono : e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare : iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι , και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato , che folamente quegli ammalati da purgar fieno , ne' quali liu mate ( 1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali : ( 2 ) nel 1.degl' Aforiſmi. ( Del Sig . Lionardodi Capoa. 127 materia , onde il mal s'ingenera , ben cotta , e digerita ſia , fe pur quella non turge , è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate , ſcar ſo altrove di parole , enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo , e riſtretto , oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba , ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare . Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno ,oltremodo ciò ne impone , e ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire , toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me , che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano . Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto ; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento ; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai( 1) Papuaxetes , év toñosning οξέσιν , ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν , κακον Galieno però vuole , ed eſpreſſamente n'impone , che an che in queſto caſo dell'enfiamento , il che molto di rado 'avvenir fuole , vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare , cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare , che nulla più : ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento ; perchè aj tal propofito Galieno dife ( 1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων , τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας ,μήτε , ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG- , αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado , nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine ; concioffiecoſachè gli afflittivi umori , nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno , (1 ) nel lib.di que'che convien purgare . 128 Ragionamento Secondo fieno , e potrebbe intervenire altresì , che ove eglino fienosi fattamente ſtuzzicati , allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto . E più addietro , de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες , τε τέσι τους εν κινήσει , και φορά, και ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν , πζίν εφθή . ναι : τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν . Αdunque con venevol coſa è , che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento , e fluffo, fi vuotino ; ma que' , che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no , ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti ; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale , ficome ne inſegna Galieno , prendeſitalora per lo primo aſfalimento , o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato ; altre volte anche inſino a’tre primi giorni ; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo ,nel quale niuno affatto , o troppo debi le , e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare . E'l gravamento , o accreſcimento del male liè , quando manifeſtamente il cociinento , o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono ; e dura finattanto , che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi ; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie , e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono . Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia , o non molto indiappreſſo , cioè nel primo, o nel ſeco do giorno , ſicomc par , che in più d'un luogo avviſi Ga licno . Ma ritornando al tempo delle purgagioni : ſo ben’In , non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni : ma ſi ben dopo il quarto , a coloro , che patiſcono ſcorrimento di ventre ; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo : Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti , ma ficomediceapertamente l'aforiſmo( 1) Negli acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio , o non iſtabilirà alcuna delle parti , rimarràſenza fallo ingan κato . πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις , και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε , και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη , και πότετην πέψιν αναμείναν . τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς , και μη διορισάμε . ν ©· , εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento d'Ippocrate , c di Galieno , di rado nel cominciamento delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai , ma ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male . E ben ſaggiamente troppo , ſecondo che ad huom paja , in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più , e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc ; imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire . Perchè altrove favellando egli di que' , che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol , ciic s'intenda anche , di que' tutt'altri mali , chedagli umori procedono :dice , che per coſtoro nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota , non mai cedé do alla forza del medicamento , ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe , che ſane eſſendo , al inal contraſtano , per chè infievolitone il corpo , agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto : ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου , και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG- , τα δε αντί . χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene 139 Ragionamento Secondo 3 gliene liegue , non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro , certamente gliene andrà alla lunga il male , e ſconvolgeraſli il giudi cio , che ſopra quello da dar era ; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate ,e Galieno ( 1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì , chi non iſcorge allai chiaro , che minorar ſecon do Ippocrate , e Galieno non mai li puote la cruda mate ria , come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti , che lor dicono,medici. ne . Ma comechè in ciò grandiſſima arte , emalizia ado perar ſogliano coloro , che ſon di contrario ſentimento , p coprire , e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri ; pur non fanno sì fare , che da ciaſcun non li conoſca , e non ſi ſcopra la ragia , onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti , e convinti; così ſciocche ſon le chioſe , eicomenti , co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare , e travolgere gli apportati Aforiſ mi , e con lor ciance far calandrini , non ſolo la volgare , e cieca gente , Cheficrede ogni coſa, che l'è detto : ma col volgo ancora que'letterati , che poco , o nulla a sì filtre coſe ,avvegnachè digrandiſſima conliderazione , ſo glion badare . E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor tracotanza : ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri , ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano . Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande , nella malizia , e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male , o della grandezza delle cagio ni , o del pericolo imminente , o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato , tutto che la materia cruda lia , e non pur nel principio , ma nell'aumento , e nel vigore delma le : o ciechi affatto , e diflennati ; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto , ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44 . di mal Del Sig.Lionardodi Capoa 131 di malvagità, di traſcuraggine almeno , i lor maeſtri ; poi chè in materia di tanta conſiderazione , ne Ippocrate , nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna , comes certamente doveano; ma anco , perchè, o non avviſano , o fingono dinon avvederſi , che poco men , che ſempre ; o una , o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no . Laonde , ſe tale veramente , qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate , e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te , o poco men , che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare , e che nell'aumento , e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire . Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de , che qucl, ch'elli intendono . Ne dovea in buona veri tà Ippocrate , ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era , in que'luoghi , ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione , non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni , per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta . Che ſe non è da dire , lui quivi averle per balordaggine dimenticate , masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò , perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe , biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui , cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe , a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire , che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re , ch'egli così traſcurato ſi foſſe , che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria , fe ftato foſſe meſtieri , diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage 4 132 Ragionamento Secondo ga , e quanto ſtrabocchevoldanno , e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al malato . Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento , ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti , cosìdel paſſa to , come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino,avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo ,dicédo : Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu . E di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella , e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo ,così delle purgagioni nel principio delle malattie , ebbe a dire . Et licet Hippocrates dicat buc raro faciendum , nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus , debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò , che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe . Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus, &alii ,ſidiis placet , Heroes , qui audent affeverare, illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata , che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera , che piacevoli, e deboli , ne più , che una , o pur due volte : ora a gran dovizia grandi ,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte ,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta , o per tema , che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione , alquan to più lievi , e deboli loro le impongono , nondimeno , o con accreſcerne la quantità , o con meſcolarvi per entro alero in ggior medicamento , o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio degli ammala ti ; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo ; il qual fico Del Sig.Lionardo di Capoa 133 ficome di ſopra è detto , tante , e tante fiate manifeſtol loci : e Galicno medeſimamente , il quale oltre a ciò av vifa , che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως , αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν , διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις , απεψία δ ' ες των χυμών , εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν , 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia , ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura , ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella; imperocchè ,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie , ma fon crudi gli umori , allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva cuazionefelicemente rieſca ,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il cucimento , quindi lo fceveramento , e finalmente l'evacuazion ſi faccia , perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru . dità , ſemprealtresi nocevol ſarà , e darnofa l'evacnazione di si fatti umori : ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε . ψίας εσιν αι σημάα , μοχθηρα δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos : E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge quan to vadano errati , così coloro , che follemente immagina no non aver vietate altrimenti quelle purgative medicine , cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate , ne Galieno nella crudezza degli umori : comequegli altri ancora , che ofano affermare , che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni , che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine , che violenti ſono nell'operare ; il che però eſſer molto , e molto dal veroló tano chiaramente ogn’huom vede ; imperocchè per tacer del latte rappreſo , dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è , che gli antichi ebbero contezza della Mercorella ( la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino , della Fumaria , dello Goico , del Polipodio , dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice , comeche fungo egli veramente ſia , e d'al tre , e 134 Ragionamento Secondo 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento . Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina , ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno , come la ſperienza , ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo , ed alPolipodio , Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano ( 1) E quanto è a me , Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate , e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo ; e perciò eſſer'avvenuto , che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato ; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia , e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate ; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori , che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai . Ma che Pittagora , foſse di tal ſentimento , egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo , che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir , ma non però ſempre giovevole ad huom , che da grave neceſſità vi ſia tratto ; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi , non ſono da ſtuzzicar con purgagioni ; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali : c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata , che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti , e qualunque animale ci naſce , con fatale , e deter mina ( 1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. DelSig.Lionardo di Capoa 135 minato ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni , che di neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono , che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo , oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita . Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie , e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla , al lora di piccioli,grandi , e di pochi , molti diverranno ; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere , e rintuzzare , per quanto a ciaſcun veriì , ad huopo ; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee : Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον , άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον , το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες , ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων , όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος , του ο γένες ξύμ . παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον , φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών , ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις , άμα εκ μικρών μεγάλα , και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ , όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον , Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia ,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe , che la materia per la ſoccorrenza uſcita , non foſſe ella alla debita purgabaſtá te , o altro vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato ; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone , eſſervi ſtatialcuni , che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi . Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann 0ae 136 'Ragionamento Secondo maeſtramenti di lui affatto traſcurando , a lor talento , e purgano , e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla guardando a’riſchj, che , ſecondo egli avviſa , ſeguir ſovente ne pof ſono . Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta in tutto il falaſſo , e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano . Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole , vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja . Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente , che vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali avvenime ti , che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc ,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole , direbbe Proſpero Marziano per avventura . Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate appena del parto , e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare ? E dove nelle lunghe malattie , nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno , ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate , e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi , o alle ſtagioni dell'anno , e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione , ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono ? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei , s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia , che in tante coſe , e malli mamente nel purgare , c nel trar ſangue dal loro Ippocra te , e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano : e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza , pure travalicando i lor diviſi abbia no in Del Sig.Lionardodi Capoa . 137 no in ciò manifeſtamente fallato ; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati , e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono ; come fe da quelli il lor ſalvamento , e non più toſto la lor morte dependa . Perchè nelle malattie , e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore , e accreſcimento di quelle , ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno , fi va gliono di cotali medicine , e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati ; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è , che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina ,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare : non perchè egli veramente crcda , che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati ; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa , ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò , che detto è compré der ſi puote , che purtroppo grandemente nel medicare , da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no , e s'allontanano ; emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo , e l'Elmonte ſteſſo , e altri moderni ſpargirici, o altri , ch'elli fieno, per avventura ſi facciano . Mafi laſci ad altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co . me ancora da ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò , che con parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima ; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno , ove lor venga in talento : e che tutti igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri , alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti , e di mordere , e di lacerar tutto dìla loro lode vole libertà , ne mai più per innanzicon uggia , e crepa mente > S CUO 138 •Ragionamento Secondo cuore ſi ſtudjno di contradiarla , e di metterla in fondo ; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata , e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic , e Scuole dell'Italia , della Lamagna , della Francia , dell'Inghilterra , della Svezia , della D2 nia , della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati ,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno , pur molte ancora , e quaſi infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza , e già il ſole comincia a gir ſotto , riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea . RA 139 j: Milli RAGIONAMENTO T E R Z O Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento quel tranquillo , e feliciſſimo ſecolo , che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno vien detto : tante a biaſi mar la preſente , e miſerevol noſtra età; quaſi di forza ſon tratto . Non pure , perchè a quella la terra dall'aratro non ancor tocca , tutto ciò , che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente produceva ; ed ora a romper zolle col Vomere , e col Raſtro , a ſveller pru ni c ſtecchi anza , e ſuda , e talora anche in darno il Bi folco ; ne perchè allora , e nuvoli , e nebbie ,e tempefte ', c turbini non intorbidavano , ficome or fanno , i lucidi ſereni dell'aria ; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo : reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro , e regna l'oro ; ne per tant'al tri privilegj , che diquella s'annoverano , de'quali altro che un'intenſo deliderio , ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo ; ma ſi bene perciocchè , e liti , e S 2 pia 2 1:40 Ragionamento Terzo piati , econtefe , ed armi,eguerre non allignarono . No arruotava le zanne a mordere il cinghiale ; non digrigna va i denti il maſtino ;non rabbuffava il doſlo il Lionefra ; l'erbe , e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue . Ma che è ciò ? l'huomo , l'huomo di tutt'altri animali duca , e ſigno re non fabbricò nave , ch'apportaſſe guerra agli altrui li di , non forbì , non arruotòferro periſvenar l'altrui petto : non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe , di corni, o di bellicofi tamburi ; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città . Ed a'dinoftri , che più fi tenta , che più fi machina , ove più fi bada , fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra , perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica , l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città , l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne , ſi combatte nelle Città , s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe , e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero , chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine , ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate . Ma quel, che pür troppo è da maravigliare , è ciò , che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto , e debbo nel preſente ſeguire ; egli cono le tante , e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta , quefte non han inai line ; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate , pur altre aflai a narrar ne rimangono ; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente , e darvia diveder , che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda , quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 141 Non per ſaper , ma per contender chiari . Eper la verità delle loro ſtrane , e ſtravolte opinioni da . to brigando romoreggiano , che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor , dper surbor ( dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni , ne preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia , altri più inviluppati , e nodofi , da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo . Perchè riſtucco , ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives , così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem , ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia ; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus , atque occidentibus . Ea res fecunda , e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus inu tiles , quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara , e di ſquiſita letteratu ra , così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano , e mettono in campo i medici , fe vagamente parole . Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus , ut no ftra etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo , ut corumaliqui vena inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente un faggio , eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe , e confuſisſime opi 142 Ragionamento Terzo opinioni ciaſcun di loro ne porti . Dicono alcuni ritrovar fi veramente , e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti ,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro , ſecondo ilſentimento del lor maeſtro , effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti : co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno , amendue le qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi ; altri una in più alto , e altra in più baſſo grado ne allogano ; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no . Ma ſe le dette qualità ſien tutte , come dicon poſiti ve , e vere : 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle , lungamente affai ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti , formal mente avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti ; altri ſono dicontrario parere . Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi nioni ? ſenzachè non ſon minorile conteſe , s'egli ſia pur vero , che vi ſia temperamento ; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come cmpiamente avviſoſ ſi Galieno , o pure altro , che quella ; ſe ſia da porre il ſo ſtanzial temperamento ; e ſe quel poſto , del qualitativo in nulla differente egli ſia . Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno , e dell'altro teinperamento ſi ſieno ; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle quattro prime qualità riſieda , o pure in altra qualità da quelle riſurtu . Ma troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì fatta materia , le zuffe , e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen , ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra nodati , e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi nella natura ? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi , rifiutando altri ciò, che altri ne dice , e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi ; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte I DelSig.Lionardo di Capou . 143 . molte , e molte ragioni recate ,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis ,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum , veleffe debuifle quatuor elementa , ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni . Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui : ma di qualunque più cattivello ſcolaretto , che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele , c dal ſuo Galicno ſchernito , e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone , le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni , el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove , con ciò manifeſta mente inſegnando , che non miga delle autorità , ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe ,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li , i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio , non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro ,pecorum ritu ,perdirlo colle parole di Seneca , non qua eundum eft , fed qua itur . Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano , che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati così , come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze : Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada , Che tutto errandopoi convien,che vada . Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo , Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes , interrogati incola non patiuntur errare : at hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis : certamente infomiglianti falli ſcimu. niti , 14 Ragionamento Terzo niti , ch'elli ſono , non fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion parlaffe , ed ironia , ' fe poi ſenza al cun rimordimento , e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente delle dottrine d'Ari ftotele , e di Galieno famoſtra di non curare . Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono , ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo , al caldo natio, all'umido , che dicon ra dicale, all'eſiſtenza , alla natura , e al numero degli ſpiriti ; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni della natura , del numero, del luogo , della diſtinzione delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe , onde il chilo , e'l ſangue, e gli altri umori s'ingenerano ; o pure in trattar del polſo , dell'arte rie , e del movimento del cuore : ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre , e faniores conteſa , e di tanta conſiderazione in medicina , ſe la bi le , la flemma , ela malinconia ftian di fatto , o pure in po tenza nella maſſa , come dicono,del ſangue ? Il che in buo ſentimento viene a dire , fe veramente vi lieno , o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere , ac ciocchè ſi dica,che vi ficno ;ficome direbbeſi altresì , che nel ſangue vi ſieno in potenza , e carne , e vermini , e cene to , e mille altre coſe , chequivi ingenerar ſi poſſono . Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe , e ſtrane opinioni , riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar della natura , delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano ; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni maeſtri : e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato , e confufiffimo labi rinto di tanti , e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga , Tralaſcio pure le lunghe , ed inviluf pate 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa 145 pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza ,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie , che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare . E comechè per queſto capo incerta , e confuſa , e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga , e perciò inucile , e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta : i fini, e le condi zioni del trar fangue : la natura , la facoltà , gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti : quando , ed in qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre , ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte , una menomiſſima particella ſi fono , e certamente lo m'avviſo , ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano , s ſdegneranſi , veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare , e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio , che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella , cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora , chenti , e quali elle fiano , e d'onde naſcano , come operino , e muovano il male ; quindi intorno a quel. le d'entro combattono , ſe fien verainente qualità : efe tali, naſcoſc più toſto , o manifeſte , o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano , o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta ; e corrotta ; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino , diverſamente contraſtano . Così mordendoſi l'un l'altro , e piatcndo , niun l'imbrocca , e tutti a malpartito menano gli ammalati ; volendo altri i falaſſi , ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli , chi ſcar ſamente , cchi fino a trar loro tutto il ſangue , chi dalle venc delle braccia , e chi da quello de piedi , e chi anches da quelle parti , delle quali è bello il cacere , con appic T carvi 140 · Ragionamento Terzo carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió , che dalla buccia ſolamente per coppette fi tragga . Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento ;ed altri, o nel principio pur gar logliono , ove turgide lien le materie , il che di rado . avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no . Molti poi nel purgare , de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono ,molti de'mezzani, ç moltide’deboli , e be nigni n'adoperano : e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta , e chi più volte in ogni tempo , e ſtato del mal lo coſtuma . V'ha alcuni , che come il mal comincia , cosi toſto con le purgagioni v'accorrono ; ma dopo i trè dì af fatto le victano ; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj , che chiaman veſcicanti , gli infermi condannano ; altri vuol, che in prima purgati , e ſegnati color fieno ; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli vogliono , togliendo loro così manifeſtamente le forze , e crucciandogli , e dando loro vigilie , e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle reni , e nella veſcica, di malagevolezze d'orina ,e d'altri malori , che ne foguono . Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati , che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno , cd Ippocrate , o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo ; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele , oleremo do vituperino, e danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento , ma ſolamente a fraſtornarlo , ed indugiarlo , con accreſcer le cagioni ad un'ora , e gli effet tidel male , e con piagar , ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni , e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire . E v'ha , eziandio di coloro , che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente piariſcono . E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein DelSig.Lionardo di Capoa 147 tempo le lor conteie ? e le loro incertezze appianate , fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile , e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati , e le conteſe , e ſempre più confuſo , e incerto , e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle ? non le autorità , non le ragioni , non l'eſperienze ; imperciocchè , così gli uni , come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra , e pompa ; morendo vera mcnte , e guarendo così degli uni , come degli altri , i malati . Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci , e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali . Ne v'ha cagionealcuna , per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia , ad Orazio degli Eugenj , che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria ,ed a Fabio Paccio , eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina , ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino . Perchènon ebbero certamente il torto , per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non . polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia ; ciim de ifta re , neque inter ſapientia profeſſores , neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia , diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura , e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione . Alcuni ſciocca . mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire , i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo , e naturalmente ancora riottofi , e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai , e ſimalmenino ; cercando a ſpada tratta ciaſcuno , ove a lui venga in concio, altrui travaglia re , e neinichevolmente affitto atterrare . Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare , non altrimenti , che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Ka? 148 RagionamentoTerzo 1 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα , και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα , και αοιδος αοιδώ . Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro , è'l fabbro in odia : e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno : arde diſdegno Contro un mendico l'altro : el’un cantore Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo , che alcra di ciò ne ſia la cagione : e che non tanto per uggia , e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata ,e dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ' , ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le , in quante la medicina ſi parte , ſe già non foſſe , che la filoſofia , e tutte quelle ſcienze , c'han colla filoſofia qual che attacco , o dependenza , alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono ; nelle quali malagevol molto , e difficile è lo inveſtigar la verità , licome confeſſa no que'filoſofi , e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove , e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano , Nemailetto di ſelva allor , che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante , e quante diverſe , e diſcordevoli fette ha l'anti ca , e la moderna filoſofia ; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente , chi non sa quam to li premano , e li rintuzzino iGreci ,egli Arabi , eiLa tini Maeſtri ? quorum fudium , dice un di loro, perpetuum ,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant . Ed a cui non ſon manifeſte le continue , ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali ? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione , che poco fallò , ch'un dì in Parigi venendo alle mani , nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova , e fanguinofa guerra ci yile . Ed infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti ? ma per noi 3 di DelSig.Lionardo di Capoa 149 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante , e tante diſcordie cagione , ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali . E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile : ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη , το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία .χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής , ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές , ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι . 11 giudicio , dice egli , fi è la ragion medeſima : poichèper quella le coſe , che da far fono , fon giudicate. E certamente egli è difficil molto , e malagevole , a rinvenire, Io dico il giudicio vero , il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità , non ſi ſarebber tanti , e tanti valent'huomi ni , che per imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti . Fin qui l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo , il rinvenir la verità effer certamente molto più malagevole , o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini , e dica Galieno . Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria , che noi non men , che gli altri animali , poveri , e mudi affatto di qualunque , comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo ; verità così chiara , e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere , e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa , avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione , dicendo , che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia , ſe non , che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune , che già noi prima di naſcere ſape vaino ; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene , che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra , alla quale , come a parte più nobile , e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe ; ondefolea ſaggiamente Epicar modi 150 Ragionamento Terzo mo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde , e cieche ; l'anima noſtra lo dico , comechè in corporca forma , ed inviſibile ella fia , in sì fatta guiſa no dimeno unita , ed avviticchiata , per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co , emoflo ad eſſer mai viene , varj , e varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare ; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano ,e muovono le fibre de’ncryi , le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente , e ſottil licore , gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima , ove quella il comprende, o per me dire ſente . E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo , che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì , e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle , che da loro , e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera , o fia de'ſenſi,ncll'animna procede . Quinci ſcorger ſi puore , chei ſenſi ſono quelli , per li quali non altrimenti , che per le fineſtre liz luce , entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre , ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo , tratto tratto ſe ne viene ad arricchire ; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie , e come l'anima l'abbia più , o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole , e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino , è malagevoliſſimo ad inveſtigare ; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo . Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente , e confeſſo , che i ſenſi nc ſe medelimi , ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima rappreſentano , quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità , la quale non ſo lo come de'peripatetici le ſcuole col maeſtro Ariſtotile abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera , la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante , e poeta latino: .. Vt in fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi exparte claudicat hilum : Omniamendose fieri :atque obſtipa neceſ umft: Prava : cubantia : prona : Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una ſol volta , o ſe , o altri ingão Nare , ſi toglierebbe via certamente dal mondo ogni con tezza , ogni giudicio , ogni fede ; e non per altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì erronica , e ſciocca dottrina : Re cita Ioannis teftimonium , dice Tertulliano , quod audivi. mus ; quod vidimus oculis noſtris , quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum , aurium , & manuum fenfusnatura mer titur . Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo ? ad altro forſe ? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto difalſità , e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti : manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità ? o ſia una , o ſieno più le perſone , che ne deano teſtimonianza , nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa , ed incerta la fede . O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade , gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione ? ma come potrà cio mai eſſa fare , fe per avvederti dell'error d'un ſenſo , ad ammendarlo , dineceſſità le fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo , e di notizie , e di regole col me. zo de'ſenfi parimente avvte . A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura Ariſtotele , ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo , il quale abbia però più ben fatto , e ſquiſito l'organo ; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello , il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno , or nell'altro dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno , ma due eſſer gli anelli ; il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito , ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto . Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai , e compiuta ſia , nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato . E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti , ſecondo cheporta opinione il medeſimo Ariſtote. le , ne'colori dell'Iride , e delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere , fi ritroverebbe per tale , che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo della viſta , che tutt'al tri ſentimentiincorrere . Ma lo forte mi maraviglio poi , come non avviſaffe Ariſtotele , che ſoventemente l'errore del ſenſo , che ha più eccellente l'organo , da un'altro fen fo , di cui l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi , e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti , ſieno anch'eglino tali , e ſe tali pur ſono , perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la ragione appiccata allc lor pruove , c certamen te mal può convincer perſona di falſità quel Giudice , al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe Ariſtotele con la ſua uſata poca fermezza in alcun luogo dice , i ſenli non potere in modo alcuno errare, cche ſia debolezza d'intelletto i ſenſi per la ragione laſciare. Ma quantunque non poſſano iſenſi , ne ſe , ne altri in gannare , non però di meno poſſono molto bene allo in telletto , cui propianente il giudicar s'appartiene , effer 1 cagio Del Sig.LionardodiCapod. 153 cagione d'errore , e d'abbagliamento ; ecomechè poffafig avventura l'inganno , o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto ,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti , tanto , e tanto celebrata per Epicuro : tutta fia ta ,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza , e per altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi , e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga permeſſo , ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono , pchè no già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta ; ma la ragion poiè quella chedal le varie , e varie operazioni de'corpi , varie , e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano , varie , e diverſe eſſer poſſono le cagioni , e nel trarne argomento vezzoſa talora , e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza , e larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente ,da tale cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene ; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano : Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere cagion , che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo , e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no , vero per avventura egli direbbe ; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare . Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può , non già dimoſtrativo , ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono , i quali d'una ſola , e certa cagione poſſono avveni re ; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke 154 Ragionamento Terzo ceſſariamente corpo ciò , che gli organi de'ſentimenti ne muove ; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier , che tocchi; e'l toccamento , ſalvo che da corpo ,non ſi può incontrare: perchè ſaggiaméte Lucrezio: Tangere , vel tangi , niſi corpus, nullapoteſt res. Così ancora , che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo . Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo , che nella grandezza , nella figura , nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro ;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti , nelle qualiil corpo ſia diviſo , avvenire . E però è da dire , la diverſità , che così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo , altronde certamente non pro cedere , che dalle coſe già dette , che'l calore , la freddez za , la ſaldezza , il diſcorrimento , icolori, ei ſapori tutti , cd altre ſomigliantiqualità , le quali a noi parc , che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno , ſe non ſe ,o l'accennate coſe : ſe veramente elleno ne'corpi ſono : e ſe ſono in noi, cffetti di quelle , o per me' dire de' corpi per quellemodificati . Maqueiti ,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi , e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire , ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto . E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito , ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de Galilei , che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes : Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam : pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro , che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano , e Iddio ſolamente ſaperla tutta , eche quan Del Sig.Lionardo di Capod. 155. * quanto più in perfezione monterà la filoſofia , tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola , avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta , pur tanta forza ha la verità , che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca , e far apertamente confer fare , eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura , qual'occhio di notturno augello a'rai delSole ; e 'altrove , che diquelle coſe , che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo , quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente , come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo , c poeta fa , che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica , e facciagli a ſapere . dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali . E innanzi parimente avcagli colei detto : Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra . Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano , o pure il naſcoſero , e Dante , ed Ariſtotele, le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate , e che noicolsé ſo non già le coſe , ma ciò , che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj , che diſſero appo Aulo Gellio : (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis , cioè a dire , come egli ſpiega : nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet , ncc quod habeat vim propriam naturam ; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi ,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta , la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 ( 1 ) lib.iLcap.i . ne : 0 m I56 Ragionamento Terzo ! ne : Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum , ut occuparentur in ea . Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole , & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet . Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe ,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no , ove s'intralcia , e s'inviluppa maggiormente la filoſo fia ? Ne in ciò la medicina , dalla filoſofia è differente , re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente , o ſemplice diſcorſo s'acche ta : e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia , la medicina ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi , e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce : intanto , che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta : non vi par’egli , o Signori , che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco , degli inteſtini , del fegato , della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone , del cuore , delle glandule , le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono , ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare , per tacer d'altre , e d'al tre parti ; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia , che nulla più : nientedimeno non ſi è egli potuto , ne men ſi potrà giam mai camminar ſicuro , ne determinare , ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero , licome avvenir noi parimen te veggiamo , in tutt'altre partidella filoſofia , e della me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tan . ti ſparti ! Del Sig.Lionardodi Capoa. 157 ti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel , che s'avviſavano , e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti , eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali , per l'addietro inſuperabili ; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare , le quali ſe non vengono ben ſottilmente avviſa te , e ad unaad una diligentemente conſiderate , Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono . Perchè egli avvien ſovente ,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo , attenendone ſola mente a troppo deboli , e incerte conghietture , e per cal. laje inviluppate andando . La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti ; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta , fia pur detto con pacedel Valentino , del Paracelſo , c dell'Elmonte , quantunque grande , ofere ognicredere egli ſi paja , e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta , fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo , e debole molto riuſcire , e talvolta anche in tutto inutile ; il che da non altro certamente naſce , ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali . Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa , Dio buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre ? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana , facendovi ma la pruova la loro induſtria , e’l loro ſtudio ? Egli ſono le fi bre , che'lcervello compongono , così minute, e ſpeſſe , e ſottili , e sì la for teſſitura , e reticulazione è dilicata , e la lor ſoſtanza molle , che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle , o di perderle , inalagevole anzi impoſſibile : ogni 158 Ragionamento Terzo ) ogni impreſa rieſce . E sì, e tanto egli è ſpinoſa , ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato , e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato . Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute , che farà cgli da dir poi delle picciole , inolte , e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate ? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome , e ſottili , che non ha mano cosìſcaltra , ed avveduta , che poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino , eſottile microſcopio ravvi fare ; E di queſte ancora vi ſono altreminori , e quaſime nomillime linee , nelle quali inutile ſi prova ogni arte , vano ogni ſtrumento per ravviſarle . Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad intendere , le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono ? Chiquelle del ſugo nutritivo , della linfa , del licor pancreatico , dell'orina,del fiele ,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal Paracel . ſo finovia , e d'altre , e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa , ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia . E chi finalmente aggiugnerà a capire , ſe non ſe per in certe , e fallabili conghietture , o la grandezza, o la figu ra , o'l lito, o'l movimento di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde , e delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo ? E ſe ciò all'u mano ingegno è naſcoſo , come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e l'operazioni , e tute'altre biſogne , che di neceſſità all'economia degli animali s'ap. partengono . E come ravviſar mai potrafli , da chi , ed in qual manie ra s'ingencri il Chilo , e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue , e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tan te mae DelSig.Lionardo di Capoa 159 te maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale , e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle ? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici , ſe non ſi fa , ne può ſaperſi giammai coſa , che certa , e ſicura ſia dell'orina , e de polli ,chi può indovinarmai, per Dio , non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni , per le quali eglino , malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno ? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina , onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie , e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina , anzi aſſai più di queſti talora incerti , e fallaci ? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore , e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere , per tacer d'altre ſue opere , in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo , che quelle , che a forec loro ne riuſcirono , certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare . De'cibi , e de’medicainenti, e delle loro facoltà , e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re . E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono ; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco , anzi nulla . E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro , che probabili , e poco ſalde conghietture ; perciocchè , non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an cora , e'l fuoco , e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti , che vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore , e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più diligente , e accorta notomia, ſe me 1 con 160 RagionamentoTerzo ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella , che magagni , emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono ; i quali dalla terra , e anche altronde melli fuora , e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi , agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle particelle , licvi , e ſottili , che rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare ; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia , e maſsimamente le più nobili, ele più operative , che in eſſo dimorano : comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata ; o purcolla ſua forza nel digeſtire , e nel formentare , e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo , del qual li fa notomia , diſponendo altramente quelle , e altramente meſcolandole , e dando lor movimento , per nulla dirdel. la grandezza , e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate . Perchè fe tante , e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente , conoſcerle : Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora , e infruttuoſigli avviſi , e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente , e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà , e dalle incertezze la noſtra Medicina : Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi doveſſi a dichiarirla dalle ſue nubi . Ne è da tralaſciare a queſto propoſito quanto agio s’a veſler preſo i Medici filoſofantidall'incertezze della me, dicina a ragionar ſovente , e piatir nelle ſcuole or d'una , or d'altra parte, più per vaghezza d'ingegno, che per amor della verità , difendendo tutte opinioni, ed ove lor con cio vi ene , giudicando non altrimenti che quel ſottiliſſimo filoſofante Pittagora faceaveder della filoſofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca ) in utramque partem diſpu 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 101 difputaripoleexaquo.Perchè nõ è da maravigliare, ſe Dica nilio Egeo prendendo a difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite , diede a diveder manifeſtamente l'incertezza di cotal arte . Il primo capo delle ſue conte ſe ſiè,che egualméte dal padre,e dalla madre fiinādi fuo ra il ſeme a ingenerar gli animali. Il ſecondo , che non d'ambedue ſi mandi. Il terzo, che ſi mandi da tutto'l cor po . Il quarto , che iteſticoli ſolamente v’abbian parte . Il quinto , che'l cibo nello ſtomaco per opera del calor ſi (maltiſca. Il ſeſto , cheno . Il ſettimo, che ciò ſia per lo ſuo sfacimento , e ſtritolamento . L'ottavo , che no . Il nono ,che ſia dalnativo fpirital calore . Il decimo , che no . L'undecimo , che per lo corrompiincnto del cibo fia . Il duodecimo , che no. Il tredecimo , che avvegna per propietà de' ſughi. Il quartodecino, che no . Il quinde cimo , che il calor natio a qualità s'appartegna. Il ſede cimo , che no . Il diciaſettefiino, che per lo calore avve gna la digeſtion de'cibi. Il diciaotteſimo, che no . Il di ciannoveſimo , che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimé. to di calore . Il venteſimo , che no . Il ventuneſimo , che dagli ſpiriti la digeſtion ſi faccia . Ilventidueſimo, che no . Il ventitreeſimo cheper opera dell'arterie ſi digeſtiſca Il ventiquattreſimo, che no . Il venticinqueſimo, che ciò ſia permancamento a vuoto accompagnato . Il venteſimo feſto , che non per ogni mancamento eglilia . Il venzette. fimo, cheil glauco degli occhi per mancanza d'alimento al condotto viſivo s’ingeneri. Il ventotteſimo, che no. Il ventinoveſimo , che quel naſca per diſcorrimento di fan , gue nelcondotto vilivo . Il trenteſimo , che no . Il tren tuneſimo , che dalla graſſezza degli umori , e dalla eſala zione ſi faccian gli occhi glauchi. Il trentadueſimo, che no , Il trentatreeſimo , che la freneſia dal diſtendimento delle membrane del cerebro , e dal corrompimento del ſangue fi cagioni . Il trentaquattreſimo,cheno . Il trentacinque fimo , che per ſoverchianza di calore ella non avvegna . Il trentelimo fcfto, che no . Il trenzetteſimo, che per infiam magione ella ſia . Il trentottelimo , cheno . Il trentano X volimo, : 162 Ragionamento Tero 1 1 velimo, che da infiammagione ſi cagioniillecargo. Il qua ranteſimo, che no . Il quarantuncfimo, che per diſtendi mento , e per corruzione egli ſia . Il quarantadueſimo che non già per ſoverchianza , ma per la qualità dell'eſa lazione avvegna. Il quarantatreeſimo che la fames e la fere ſia di tutto il corpo . Il quarantaquattreſimo, che, dallo ſtonxaco folamente provenga. Il quarantacinqueſia mo , che ſia ſol nel penſiero , e nell'immaginazione . !! quarantefimo feſto , che la ſete per diſſeccamento s'accen da . Il quaranzetteſimo,cheno . Il quarantotteſino, che nello ſtomaco due diverſe operazioni ſi facciano . Il qua rantanoveſimo , che no . Il cinquanteſimo , chedalla pelli cella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi . Il cinquantunelino , che'l traggan da quella di fuora . Il cinquantadueſimo, che le parganti medicine operino per lo corpo fpargendoſi. Il cinquantatreeſimo, che colloro fcorriincnto folamente , ſenza fpargerſi vuotino . Il cin quantaquattreſimo , che da uſar fieno purganti medica nienti. Ilcinquantaciirquelimo, che no.Il cinquantefimo fefto ,cheda ſegnar fia . Il cinquāzettefimo , cheno . Ilcin quattrotteſimo,che ſia da dare a febbricoli il vino. Il cinquá sanoveſimo,che no . Il ſeſsãtefimo,che adoperar debbano il bagno. Il ſeſsātnneſimo che no.Il feſtancaduelimo,che nell' accreſcimento de’nrali fia da far if crifteo agl'infermi. Il fola sātatreclimo che no.Il feſsátaquattrefimo, che in ſu’l prin cipio delle malattie fan da uſar leunzioni. Il ſeſsátacinque fimo,che no.I)fefsātefimo fefto ,che nella teſta poſſanoado perarſi i cataplaſini. Il fellazettelimo , che no ; ma ſola mente vi li debbano porre coſe odorifere . Il feflantotteli mo,effer giovevoli quelle coſe , che muovono a vomito . Il fefsancanoveſimo , che no . IHfettantcfimo , che dal cuor fi dirami al corpo ilſangue . Il fettantunelimo , che no . Il ſettantadueliino,che gli fpiriti dal cuorfi mandiitos ne dall'arterie ſien tratti . Il fettantatreeſimo , che no . Il fettátaquattreſimo,che da per ſe il cuor ſi muova.Il ſettan tacinquefimo , che no . Il ſettantelimo ſeſto , che l'arterie per lor natura ſieno ſtanza del ſangue . Il ſettanzetteſimo , che 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 163 che no. Il ſettantotteſimo, che tuttii vali che ſopraſtano, e gonfiano , fieno ſemplici. Il ſettancanoveſinio , che i ricettacoli ſieno invoglie inteſſure. L'ottantelimo, che per mezzo de'nervifacciali il ſentimiento , el moto . Lottan tuneſimo , che no . L'ottantadueſimo, che'lcuor fia prin cipio delle vene. L'ottantatreeſimo,che no. L'ottantaquat trelimo, che ſia il fegato . L'ottatacinqueſimo , che no . L'ottanteſimo ſeſto che ſia il ventricolo . L'ottázetteſimo, che no . L'ottantottelimo, che tutti i ricettacoli ſi dirani no dalle pellicelle, che veſtono il cerebro. L'ottantanoveli mo , cheno . Il nonanteſimo , che'l pulmore ſia priucipio dell'arterie . Il nonantunefiino , che no . Il nonantaduefi ſimo , che quell'arteria , la quale ſta preſſo alla ſpina , ſia di tutt'altre arteric capo. Il nonantatreeſimo , che no . I nonantaquattreſimo , chedal cuor naſcano tutte larteric . Il nonantacinqueſimo, cheno . 11 nonanteſimo feſto , che dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore . Il nonanzcttcrimo , che no . Il nonantot tcfimo , che non nel cuore , ma nella teſta la potenza it tellettuale dimori . Il novantanoveſimo , che nelcuore . Il centeſimo , che nel ventricino del cerebro ella ſia . Ma di cotante rivolture , e mutamenti d'opinioni, e di ſentimenti certamente egli non è da maravigliare, ſe tanto forſe avrebbe ancor fatto Galienomedeſimo , ove in con cio gli foſſe venuto . E di ciò egli ſteſſo ne' ſuoi libri ſi vā millantando ſommamente di poter improvviſo cial cuna ſerta dc'medici de' ſuoi tempi a buona ragion difen dere . Perchè ſe dir non vogliamo , eſser egliſtato Galie no un riottofo giuntatore , o berlingatore ſofiſta , che co' ſuoi fiſicoſi aggiramenti per diritto , e a torto il tutto a di fender togliendo , uccellar n'aveſſe voluto, convien di ne ceflità affermare , ciaſcuna ſetta de'ſuoitempi anche ſeco do il ſentimento di lui eſsere Itata igualmente ragionevo le ; e conſeguentemente a niuna certezza eſſer la medi cina appoggiata . EccmechèGalieno ciò dimenticando vanti fovente di poter far pruova de'luoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove diinoſtrazioni ; non però di meno X 2 (il ci ta , 7 164 Ragionamento Terzo il dirò pur con buonapace di lui) le ſue millanterie row vente ſogliono in vaniſimo vento riuſcire. Anzi egli me deſimo dimentendoſi talvolta , e in più luoghi contaſtan doſi, ne fà della fua beſsaggine , e della fua poca fermez za avvedere . Quid enim , dice di lui ſtizzoſamente gridan do il Giuberti , quid enim in Galeni fcriptis frequentiusoc currit , quàm ipſumplerumque videre, quod alibimultis ra tionibus fueraidemolitus,id conſtantiſime afferere ? ERi nieri de'Solenandriznon men delGiubcrti della dottrina di Galieno intendentiſſimo, così parimente avviſollo . Gale nus , quiuberrimo ingenio fuit , ca oratione liberali ferè prodigus , innumeros propè confcripfit libros: in quibus rerü, &dogmatum multitudine plurima ſuntdiſcrepantia , nec fo bi ipfis conſentientia ; quafi quis attentè cum judicio legit ,fi quis diligenter in unum colligit , ingens chaos agnoſcit. Ma lo dirò di vantaggio ( il che non mi ſarebbe per av ventura peralcun creduto, ſe con l'autorità del medeſimo Galicno Io non gliene facelli certa , e ben falda pruova ) che ſe ancor la medicina foffe dattanto , che a ſaper dicer to molte , e molte di quelle coſc aggiugneſſe , le quali per addietro dicemmo eſſer di quelle ,chein quiſtion cadono tutto'l giorno , e più altre affai: ne meno alla ſicura nell’o perar ſarebbe ; abbiſognado a tale effetto, ſecondo Galie no , che molto bene in prima la propria natura , e com plexió di colui ſi conoſceſse, il quale ſarebbe da medicare. il che ſecondo, che cgli medeſimo apertamente confeſſa , non ſi può per partito alcuno baſtevolmente giammairav viſare , Ma ſe sì poco da noi in medicina per la ſua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno , che ſicura nc fia la ſperienza ;anzi per mag giormente incerta, e dubbioſa più avanti per noi ſarà mo Itrata . Perchè ſeguiranne poi ſicuramente , che non purla sagione dalla ſperienza accompagnata,valevol ſia a render certa , elicura la medicina ; concioffiecofachè verifimile a veriſimile accozzádo ; e no certo a non certo, e per lunghi argométise pruove che vi ſi aggiugono, non potrà mai, che I cer DelSig. Lionardo di Capoa 105 .1 } certa , e incontratabil fia , ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte , e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza , e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe ; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare , e la varieră dell'opinioni , che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù , non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire ; egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già proponemmo , ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare ; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme te abbiam fitto , riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente diviſargliene , potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere , ſe giammai un'arte così dubbiola , in coſtante , ed incerta poſſa avere in ſe dottrina , o principi tali , che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to , e ſicuro . Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica , chiamata imperfetta , è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare ; infanto , che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte , Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia . Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui , ſe più coſtoro ſi foſſero , o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus .... hiſtrio , rafor , anns. E ben diſſe il Carlectone : Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi , Seplaſarii , fordidi Balneatores,triobolares Phleboto matores,fpurcidici Lenones,indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghi 166 Ragionamento Terzo ghileſe , de'quali fa parole altresì , e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes , audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes , veteratores Fatidici , lj bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa , ingratifimaque impoſtorum gens , Pharmacopo le ; qui ſuntin Rep. agrorum pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides . Che più , fe toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il motteggevol Gonnella , allor , che nel novero di coloro , oltre allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole ; ed egli era così celebre , e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti , e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne . Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io , che barbagianni funo Ridicoli , ineſperti , ed ignoranti : Che non ftudiar d10 anni , fur a ſuono Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono : Che ne Ariſtotel mailejer,ne Plato, Ne Avicenna , o Galien , ma due ricette, E le regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo , non altronde certamentewviene, che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente abbiamo , e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici , e per tutt'altre perſone del mondo . E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla , qual veramente fi conviene , di grandiflima fiti ca , e di ſudore non ordinarione fa meſtiere , ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola , ed abborrandola , in pochi giorni l'appara , e ſenza troppo diſagio la mette iz opera . E in vero cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere , e ſovente dinon poco pregio , eguadagno Suol eller cagione ; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dic DelSig.Lionardo di Capoa 167 o dietro a feminine diinondo , o nelle follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle , ſtenchi alla fine ,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no . Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato , il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina , e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier , che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri ; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino , ed ari fchio , ed a ventura ; non ſappiendo talora ne men groſsa mente , econfuſamente i ſegnali delle inalacrie , non che la natura di quelle ; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone , con af pettarne , timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica ; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare , nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione ,puofſi in certo inodło covenevolméteRazionale Empirica chiamare ; conciolliecoſachè la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la fperienza , non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata , e a capital tenuta : che apertamente talora, e in ifcritto , e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono ; eſſendo l'altra , fecondo lor ſentimenti la ragio ne . Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica (tra’quali fur Eraclide da Taranto medico , e filoſofo di sì gran fapere, ecosì nell'arte eſercitato , che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le ragioni alla fola ſperiéza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono ;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de'Razionali,pur ma nifc 168 Ragionamento Terzo niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la ſperienza alla ragione ; e dicono , che ove d'una parte la ragione , e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono , che allora il medico laſciar debba affatto la ragione , e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filoſofi di grido Ari ftotele apertamenteconfeffa , all'arti tutte aſſai più di con cio , e d’utile la fperienza recare , che la ragione , e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degli ammalati, checon beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri . E quel ſcrittore , che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo , avvisò , la medicina non eller altro , che ſperienza fatta dagli antichi medici ,fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano,medicina ex obfervasione falubrium ,atq ; his contrariorum reperta eft , & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis ; nondimeno l'Empirica medicina , non che abbia giammai nulla di certo , anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole , laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare ; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa , ſovente è fallace,e vana . E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate , chi oſerà mai certamente affermare , che ciò che più volte av venne , debba poi altre , cd altre volte ſomigliantemente avvenire ? Certamente niuno , ſe non colui ſolamente , che inveſtigatane la cagione , onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni , ſe le medeſime ſaranno , certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti , ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze , che l'accompagnano , non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre , ina diver ſi , ſecondo la diverſità delle perſone , de'luoghi, c d'altre coſe , che vi concorrono , Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare , così non è da traſcurar punto DelSig.Lionardo diCapoa. 169 1 I punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate , noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire : non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie : e finalmente non ſempre que, mali , che i medefimi eſſer ſembrano , effer veramente ta li, quali ſi pajano ; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno , facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male , il qual poi tutt'altro ſarà di quel , che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza , ſe ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo ; imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato , o del male ſuole ava venire ; ed altri pur follemente immaginerà , eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito . E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge ; perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò , che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare , comealtresì è da tacer della credenza , la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare : coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno . Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio , che da parte a parte far fogliono gli Empirici , e dal la ben compoſta analogia di male in male ; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina , e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena . Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo autore , e più , che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta dicendo ,eſſer la ſperienza in man del medico , non altrimenti , che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato . Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo , e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno . Ma volete voi , ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana , e fallace ſia nella medicina la ſperienza ? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate . Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica : e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri : vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono : uno de'quali diſcorrente , e l'altro ſtretto chiamano . Naſce il diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati , e fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano ; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro , e congiunte lì ſo no , perchètalora , o più abbondevolmente , o più di ra do li vuota il corpo . Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò , che far li dee argomentar fogliono : una di ſtrignere , ed una di allargare : e queſte chiaman comu nità curative , e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire il principio , l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia . E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia , cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto : vo gliono allora i metodici , doverſi la cura alla maggiore , e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare . E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato ; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno , e Proſpero Alpini , il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina , e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i DelSig. Lionardodi Capoa 171 ſenza troppa mente ſi ſtudia ; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina ; concioſie coſachè alcune coſe , poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur tentone , ed alla cieca . Ma lo quanto è a me , voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici , e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe , che fatica durare , agevolmente negar loro po trei . Sien pure , com'eglino s'avviſano , le comunità cut te manifeſte , e piane , e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio , ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza ; adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura , e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti , manifeſtamente talora inceſpando traripa no . Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza , come di poftema , o d'altro ſomigliante malore , che di allargamento abbia biſogno : manifeſta coſa è,che la materia ingozzata , e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni ; ed acciocchè poſſa li beramente far punta , ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga , ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni . Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima , di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero , ed acconcio rimedio trovare , ed adato tar viſi poſſa : O forſe ciò , che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici ; ecco , che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Ra 172 Ragionamento Terzo Razionali medici alla fine ricoverare . Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial preſente parola . Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie , che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle , o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente por ſiamo , chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci , cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina , e ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando , non li è potuto ancora così rinvenire , che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà . Ma non è egli però da porre in for ſe , ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine ; e forſe forſe ella è sì antica , che non pur ne convien dire , ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe , ma chel Empirica volgare ſia della Razionale , anzi, che no giove nil parto , e creatura ;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo . Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie , e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità , che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda ( non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente , da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno , le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre ; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere , o a caſo in effi abbattendoſi ; o col diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano ; nc ſembri veriſimil punto , che le tante erbe , e radici, onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite , ma gl'interni malori altresì medicavan ſi , veniſſero a ſorte lor conoſciute ; rimane adunque, che per la più parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti . Ma come que'primi rozzi huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti , non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia pormente a'bruti , e andar mi > che nulla qua nutamen DelSig.Lionardo di Capoa. 173 nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie . I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi , ſi trova no di tutto ciò , che a lor fa meſtiere a comprendere le ; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti ,anziabbondevolmente dalla larga , e prodi ga mano della natura arricchiti . Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre , comedel Dittamo , erba crinita , e di purpureo fiore , avvenir ſuole , eſca oltremnodo gradita , e foave al palato delle capre ; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono ; e ravviſando elleno , che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta ,dalla fe . rita , allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue , e ractamente ſe ne fugge il dolore : ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono ; e per queſta da noi menzionata ſtrada , e non già per quella del ſognato , e favoloſo iſtin > to , . maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon percole , e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata ; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo , allora , che infermi fi ritrovavano , giovevoli aſsai ſperimentarongli : E ſomi gliantemente altresì La teſtuggine allor , che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide , e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute , , e vita Dall'Origano cerca , e non indarno. Opera ſomigliantemente del caſo , e' certamente ſema bra, i 174 Ragionamento Terzo bra ,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi . Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti ; comene'lupi ,ne'gatti , e ne' cani, per tacer d'al tri , manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora , che ſenten doſi eſſi aggravare , e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto , e corrotto cibo , ed avviſando , che alcune erbe , le quali talora forſe loro punſero il muſo , poſſano , ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono . Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza , e ſollecitudinc ricercando , ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato , e perſpicace , valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente regolare ; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole , diritta mente non gliſcorge , elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre , le pecore, le vacche, i cavalli , ed altri ani mali infermar gravemente ; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe ; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere , non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo , ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro , che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare , che nella prima ſola corteccia delle coſe . Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto , che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare , o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina ; come non aurà potuto l'huomo , ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico Del Sig. Lionardo di Capoa 175 : dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi , e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare , e ritrovare ? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta , o d'ani male , o di vegetabile alcuno , prender in duce , e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe , che grande a maraviglia aver- , fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo , o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente , che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi : Popoli ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo ,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici , e inventore della medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte , emolte radici , e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti , e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta , o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò ,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale , e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti , c penetranti. E più chiaro molto rio 170 Ragionamento Terzo ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura , ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina . Ma più certo ſi rende , che que'primi Cineſi medici , da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti ,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono , i quali altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri : non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo ; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca ;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo , dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi . Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato ,o lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia , nõ meno in filoſofia , che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel ,che dica Plinio , il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire ,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia , da qualche ragione moſli furono Chi rone Del Sig.Lionardodi Capoa. 177 rone , Eſculapio , Ercole , Melampo , ed Achille a valerli primieramente della Centaurea , dell'Aſclepio , dell'Era clio , dell’Achillea , piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno , in cibo uſate . E ſe mai eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven . ne sì factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente , che alcune di loro convien che con zappe , o marre dalla terra a viva forza li ſuellano ; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea . Fu dunque l'eſperienza dalla ragion ; preceduta ; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà ove difle :Vulnusdeligavitaliquis , ante quam hèc ars effet , & febrem quiete , eo abftinentia , non quia rationem videbat :fed quia id valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile , che Melampo , il quale parve , che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali ,rinveniſſe a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità . Ma ſe razionali furono avvegnachè roz zi , ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri , ed invento . ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra .' che qualche coſa anche di loro da dir ſia . E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio . Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo , e gli altri primi medici della Cina , Io porto per me ferma opinione , che penetrar non ſi pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine dell'Imperado re Cino , il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe mura , e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle , rendea gli animi ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure Z de 178 Ragionamento Terzo 1 de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono , è tanto , comeſe ſmarriti anch'e glino , ed abbruciati fi foſſero . Ma da qualche veſtigio , che tuttavia ne rimane , ſi ſcorge apertamente , che i Ci neſi nella geometria , nella filoſofia , e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati , e ſi valſero della Chimica , e conobbero ,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo , legno , acqua , fuoco , e terra ; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici . Ma ſi par certamente , che Cinnungo non molto nella filoſofia , e nella medicina avanzaffeli ; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa , c di tanta lievas in un tratto naſcere , e ricevere l'ultimo ſuo compimen to ; masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione , e di eccellenza pervenga . Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe , ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano , che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli , e rift orative , e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata , tante ne provaſse, e ne ripro vaffc ; il che fa chiaramente conoſcere , quanto la medici na , ſe acquiſtar vuole eſtimazione , in tutti i tempi , cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men zogne , ele millanterie . Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi mica , chi potrà mai indovinare fi la ſolo , che eglino s' ingegnarono di trovar medicine , non ſolo acconce agua rir le malattie : ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita ; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce , che vivi anche oggi ſien o , che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! Del Sig.Lionardodi Capox . 179 . sì fingono ,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici , eſser molti , e molti di quegli antichiſapienti, che , fattafi colla gran medicina immortali , dimorino nelle cia me degli altisſiini monti , e quindi vadano , anzi volino dove lor più ſia a grado , ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più , che tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro , di cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi una conca parimente di bronzo , formara a guiſe d'unamano , nella quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi dovea no le perle , ed altre peregrine, e rare coſe , delle quali compor li doveva quel prezioſo , e divino medicamento , che facea l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo . Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia , andar ad ogn'ora vagabon deggiando , in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più ſecoli addietro , vendon altrui la medicina , che fà gli huomini immortali, e tra per le loro trappole , e per lo deſiderio , che è in ciaſcheduno di conſeguir l'immortalità , ritrovano , e più tra’letterati che tra gli altri , chilorpreſta credenza . Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare , ſi ſcorge quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi , dalle maraviglioſe cure , che con eſli tuttavia fanno i moderni medici . Solamente potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da ; imperocchè col ber caldo ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra , alle podagre , e ad altre atrociffime malattie , che così frequenti , ed abbondevoli ſono fra z 2 noi 180 Ragionamento Terzo . 1 1 3 noi . E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei , e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli , ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie , non gli rende degni , non dico di ſcuſa , ma d'altiſſima loda ? eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti , che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi , delle frondi , delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì , e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante , e pietre , e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani . Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete , che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo , che certo ſugo dipere , tre , o quattro fiate il giorno , e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno , che tal dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci , e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti , che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio ; ed eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai , s'interrégono fin’a mez ' ora , fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli , e danno a diveder dapoi , che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia , e più oc culta interna diſpoſizione , e diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura , e la vera cagione . Ma è per mio avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos pen . DelSiy.Lionardo di Capoa ISI penſo alle più gravi malattie . Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen , dalla quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi , eziandio morienti, e però una libra di eſa , non val meno di tre libre d'argento . Nil la io dico dell'erba Te , percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi : comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici effetti , che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali , e con eſſo inſieme poco men , che tutta la ſui virtù , o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione , che di tal erba portavano ,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi ; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova , cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato , che alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia , certamente non vi ha avu to ella parte niuna . Egli è vero però , che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia , e di ſoverchio acetofo : il che adoperar ſuole altresì il Cafè , ela Cicolata ; alla , qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno . Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale , cos lor giovamento non ordinario :e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi . Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio ,c ſtima. E quinci avvien poi , che tutti coloro , i quali ſien d'alto in gegno , e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila , moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no , onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 182 Ragionamento Terzo 1 1 ! doti , gioni , per la quale de'buoni libri dell'antica medicina , e della natural filoſofia pochi rottami ſi trovino , e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo , ſe'n viſſero già lungamente per fama , quegli avveduti , e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente , e ſtabilirono il Egitto : altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza , e della fragiltà della gloria monda na ; perciocchè eziandio di coloro , iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir potuto . Caſtigo ben douuto all'invidia ,cd alla tracotanza di quei Principi , e Sacer , i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare , e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla , e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono . Perchè io giudico , che po co , o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla inacemati ca , e colla filoſofia naturale , e altre buone arti nell'Egit to pellegrinarono ; ed in quel tempo appunto per lor di ( grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta divenuta , comun nemcnte da' medici ſcimuniti , e balordi ſi malmenava ; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano , o ſe pu re qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine , tenevanſi d'inſegnarle altrui , e masſima mente a' foreſtieri ; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano , quan do e' diſſe , che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato . Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav . Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina ,certamente ella non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi , e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di glo Del Sig.Lionardo di Capoa. 183 di gloria , a quanto ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta ;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare , eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re , e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta , da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra , che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena . Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα , Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων . ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη , Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών , ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε , πα ής τε , Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων , όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα . Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς . Onde a la bella , e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove,allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma , che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo , alme Liquur , che toſto ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa , e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce , e graziojo oblio Di tutti i mali ; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto ; o d'attriftarſi ;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre , e padre ; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra , Del frate amato , o del fuo dolce figlio . Cosifatti i liquori erano , e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno ; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polia 184 Ragionamento Terzo Polidanna gli avea di ToneSpoſa . Il qual medicamento , qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare ; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento , che lungamente lo ne favelli, ne che fra sì varie , e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri , mentre altri vogliono , non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino ; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata , chi dice d'uno , echi di più ſemplici compoſtage lavorata . Io giu dico , ne forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana , chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato , al tro cercaméte non ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe . E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima ; pcrciocchè Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò , e diè principio egli altresì all'arti tutte , che del fuoco ſi ſervono ; il cheoltre a Zezze moderno , e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore , il qual dice . Πύρ , και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano ; 'e Vulcano altresì , ſecondo Ariſtotele , e So zione appreffo DiogeneLaerzio , inveſtigò da prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare , aver lui per dover più acconciamé te farc , e rinvenir ne'corpi diſciolti , eminuzzati, i primi lor componenti , adoperato da prima il fuoco , e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio . E quin ci nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato ; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato , e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tut Del Sig.LionardodiCapod. 185 ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare . lo dico , che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran , pro dalla Chimica ; imperocchè ella venne a tale , cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole : gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella , che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra , che potendoſi colla medeſima ſicurtà adoperare , che gli ordinarj cibi d'ogni giorno ; recar ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo : Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν , και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην : αλα τοιέτοις , α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν : τας δε ωφελείας τηλικαύτας , ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza avanti Iſo crate , e nel tempo appunto , che in Egitto fioriva la ve ra medicina , avea detto Omero , dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων . cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più ,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro , quand'e'dice : gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo , fe non fe criſtci folamente , purgative medicine , c digiuni, e vo mitivi : τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα . τα κλυσμοϊς , και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes .e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re , c da' Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita , eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta ; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate , che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun -186 Ragionamento Terzo cun medicamentoprima del quarto giorno , ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico . Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire , la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale . Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato , egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno , il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti , pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo , e rozzo , e che con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne , e domato in guerra , che i ſuoimedicipiù celebri , e più valorofi , quali effer do veano ſenza fallo que" , che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi , enovizi nell'arte . Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro , l'Egi ziaca medicina , ruinà anch'ella , e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino alla cadura del Romano Imperio in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato , edorrevole durarono ; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina , che a Galieno , come egli me delimo ne da teſtimonianza ,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto ,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro ; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza , e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto , che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto . Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro , i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene . Coſtui quarant'anni continui logorò fa cendo DelSig. Lionardo di Capok 187 cendo eſperienze , e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina , ed inſegnandola al figlio , che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco , o nulla di medicina ſappien . do , non con la ſperienza , come doveano , ma congli al trui detti medicavano a ritroſo , anzi ( conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia , oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco ; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta loda , ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi , e idolatri , come par,che dica Fozio , comechè un an rico autore appo Suida affermi , Giacomo eſſere ſtato Criſtiano ; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo , moſſo ſolamente da coloro , che'l credeano mago ,per le maraviglioſe cure , ch'ei facea . Dice di più Damaſcio , che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto , il qual di muſico , ch'egli era in prima,li fè medico , e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli , che in molte coſc , emolte , ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro . Fu coſtui gran matematico , c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi , comeche di coranto intendimento non foſſe , che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro , e degli antichi, Ippocrate , Sorano , Cilice , e Mal leoco . Perchè ſembra , ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici ; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini , che in niun pregio avcano Ga lieno . Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco , già lungo tempo traſandato , e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo , ponendoſi al naſo , e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente , che racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria , onde egli agevolmente reſpirar do veſse ; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò , che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio . Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore . Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò ; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al Romano Imperio per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi , e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire , di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata , e ſtabilita , le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni , cvidenti principi, fondamenta di quella , c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto . Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri , i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali , over princi pe de'medici, deſtinato , ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo , o che ſappia egli , o non ſappia di me dicina,medicano , una o più fortidi malattie , comc più lo ro in concio viene ; c giudicano eglino , due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo , e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto , immaginano qui vi follemnente , che tutte le malattie , o procedan dal cal do , o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate ; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro , ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci , ſecondo la loro opinione , e valevoli a rinfreſcare . Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni , in tutte l'età , in tutte le ſtagioni dell'anno , ed a tutti infermi , e dan be re acqua agghiacciata ; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia , non ha cercamente huomo di sì mezzano inten dimen DelSig. Lionardo di Capoa 189 dimento , che di leggieri avviſar no'l poſsa ; ſenzachè i cauterj , e le ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo gliono adoperare , tolgono affitto loro ogni buon nome ; intanto , che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano , i quali avean piacevoli argomenti folamente il uſo . Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo , come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo , nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto , e così malagevole, cheappe na , che più , e più persone colle lunghe eſperienze , e col le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano . Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia , corrotta , e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio Firmico : Nekepfo egli dice , Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de bonus , per ipfos Decanos omnia vitia , valetudineſques collegit , oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur , quia Deum frequenter alius Deus vincit , ex contrariis ideonaturis , contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit . Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum , ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus , ideft decanurum dividitur . Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza , che nel tempo d'Erodoto , nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer bavali , clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito , e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται : συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg , εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην , και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι . loper me non credo,come si poſſa generalmere favel lan 190 RagionamentoTerzo 1 lando , comeche rieſca calor peravventura giovevole , tal coſtume in tutto lodare ; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito , ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono , e fi ſconvolgono notabilmente , e alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini , che veſtono , e difendono le loro membrane , ed altre , ed altre ſoſtanze non ſolo utili , ma ſommamente ancora all'economia , all' operazioni , ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina , ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato , per quel, che ſe ne ſap pia , di trarre mai ſangue : comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo , o ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora , oco. me Ammian Marcellino , fra'canneci delle rive di quel 1o . Ma Prometeo , o pure Magog , onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera primieramente ritrovata , dinoli, e molti nobili , cgiovevoli medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo , ch'egli medicava me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie , con guarir tutti coloro , che così malamente ſi ritrovavano ridotti , che non ſi cran pocuti per niun riine dio in prima riſanare , e che prima , che a lui veniſse fatto di ritrovarle, e di porle in opera , non vi avea rimedio al cuno per le malattie To pelice régason , & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν , και δε πιςον , αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος , Ma di lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe,nó egli 1 Del Sig.LionardodiCapoa. 191 egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri , quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co : mentre è coſtante fama appo l'ancichità , ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν , σίδηρον , άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού . E conciofoffe coſa , che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco , e in diverſi gradi partirlo , e perciocchèegli peravventura , del calor del Sole ſervisſi : finſero , ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle . Ma tafciam di ciò , a' Chimici il penſie ro , come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to , ed è nel noſtro tale il ſenſo , Gia fiam giunti,o Vulcan , ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore ; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi . Eito fplendore Del foco onnipotente , onde tu altero N'andavigià , furotti, damortali Dono nefeo : dritroi , che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino , che Promeceo , o che'l caſo il por: taile , o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole , e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata . Mache che fia di ciò , li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere , che in fin al ſuo primo cominciamento la f media 192 Ragionamento Terzo 1 medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio : ſe , e vane . Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero , Io non ne ſaprei dir altro , ſalvo , cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni , e della dieta nel cu rare le malattie , come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως , και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia :ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento , e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo , si fattamente , che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari ( fabbricando ad ogni ora nuove Città , e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa , e d’Aſia , e d'Europa , perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo . * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina , e che però ella nella Fenicii , fe condochè la natura d'un talc affare comporta , alcolmo della perfezioneaggiugneſſe . E di vero convennc , cho gni ſua parte arricchita , ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino , come colui , che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute , come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco , edificò cento Città . • ... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα , δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva . Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza , c pe coraggine la grecia , le diedeinſieme con tante , e tante doctrine molti vocaboli , e le lettere ancora , e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano , dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato , d'Ateneo , e di Diogene Laerzio , chei Fenici, che vennero con Cadmo, conmol te al . . DelSig.Lionardo di Capoa 193 te altre dottrine , le lettere , che prima non vi erano , in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι , εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη , και γράμματα ουκ toy a aliv eranos . Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò , che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone ,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice , Leucippo da prima apparò . Ma più che altro , l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo , come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic ; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava , eun'avvedimento non . miga ordinario , e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono , qual veramen te ella lia , ſe l'aria , o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi , e le figure , e la grandezza delle parti celle , che la compongono ; e come la lingua , che forma il canto per via di miſure , e di convenenza , or fortemen te , or pianamente , or velocemente , or tardamente la muova ; e coine sì fatto movimento or s’uniſca , or fi di funiſca , or creſca , or manchi , or fi rifletta , or s’attuti ; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza , o penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto , e della chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico , o pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano , e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria , qual falfamente inn.itu chiamaſi , e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano . Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva , come le fibre de nervi dell'u dito , rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche , e percofie furo no , facciano sì , ch'ella la sì varia , e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere ; e come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja , e da un'altra diletto tragga ; e come da ciò s'ingenerino in eſſa amore , odio , ira , timore , ed Bb altre, 194 Ragionamento Terza 1 altre , ed altre paſſioni ; e come queſte finalinente , o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue , e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo , o allargando , o riſtrignen do , o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li , come d'ingenerare , così anco di menomare , c di eſtin guere parecchie malattie . Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo ; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano , s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono , e ſi ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica , ecol ſuono eſtingucſse . Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole ,come quelle , che ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono . Onde non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro , che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile , ma nocevole anzi che no venille ſtiinata , Tu'vuge σακην νομίζεσιν , ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice : la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini : ettes , ¿ ' atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις . Perché non eeglia mio cre dere affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto , e raffrenar le menti offuſcate , ed alterate dall'ebbrezza . E ciò , che narrafi di Terpandro , e d'A rione , ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano ; e di Pittagora ciò , che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato d'a moroſo foco , l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate , ad un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato ; e di Timoteo , che con furioſo canto Del Sig.Lionardodi Capoa. 195 canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar : me ; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo ; e di Aſclepiade , che le impazzate men ti, e da furor turbate , aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte ; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito . Ma non così di leggieri pe I ) ſembra ,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella , il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca ; ed à ciò , che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore , e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate . Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz , coſa ſembra affatto lontana dalla verità . · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni , e l'armonie framettere ; come quelle , che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado ; e talora incoraggiargli a più pericoloſe impreſe . E sìi Geti uſa rono le Cetere , e le Siringhe : i Creteſi ', le Lire : i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la miſchia , di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria ,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano ; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato ; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni , i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria ; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando ; e ne fa anco parola Atenco .. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati , i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo , e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giam 2 196 Ragionamento Terzo 1 7 1 giammai penetrar potendola, li fecero a credere , che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse ; anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò , non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare , e fin ſopra i Cieli , e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono , che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati , che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te , aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio , ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare ; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo . E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re , e tanto , che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare ; il che vagamen . te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem , nervofque ad verba moventem , Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam : ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas : nec regia conjux Suſtinet oranti , nec qui regit ima , negare : E per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito , Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina , vel Calo poſuntdeducere lunam . Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis : Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa , dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende , S'ago DelSig.Lionardo di Capoa. 197, . S'agghiaccia il foco , e l'aria fifa dura , Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra , ed ho fermato il ſole . Ma cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel canto , manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono , e di quelle in medicando fer vivanſi : onde fi legge in Omero ,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè , Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe , e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue , che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto entro le vene . Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer de’latini , ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero , infra' quali il Taſso padre finge , che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito , cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti , Gli fanò in breve tempo ogni ferita . E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre malattie : infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis tribuens miracula verbis : e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio credit , tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo , attenendoſi a cotali fraiche , e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe , maancora quei , che tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico , per tacer d'altri di minor liéva , con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano , che le parole eziandio ſcritte , e ad doffo portate , non ſolo a guarire i mali , e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti , co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato , Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando : Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato , furrche in una parte : Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte . Duro era il reſto lor ,come diamante ( Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno , e l'altro andòpiùper ornato , Che per biſogno a le battaglie armato . Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo , e l'Arioſto , la novella d'Orillo , il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone , ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo , non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita : imperocchè per virtù diparole ,e d'incanto , egli era sì fattamente ciurmato , che dopo eſſere ſminuzzato , e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi , -ri tornava , ſicomeprima a vivere , e a combattere ; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo , il petto ,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mai DelSig.Lionardo di Capoa. 199 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo , e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico , e filoſofante Orfeo , come colui , che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai ; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia , dell'erbé ſcriſfe : primus, dice Plinio , omnium , quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit . Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre , e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e molti , e molte altri libri di coſe naturali ; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto , e per altre ſue rare dottrine , maſlima mente della politica , di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania , fù egli un gran maeſtro , molte , e molte di di quelle coſe inſegnando , le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto , e tenuto a capitale per le molte , e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo , che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto , e vano fia ciò , che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata : non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori , che Orfeo la riſa naſſe , preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo .Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò , dottar non ſi potrebbe , che egli non foſſe ſtato della Chimica molto , e molto avviſato , mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro , che deſcritto era , come ſi finge nel libro , che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale , come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio ,e Sui da, e 200 Ragionamento Terzo da , e Varino Favorino , altro veramente ei non era , che una pelle , nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti , e ſpezialmente la muſica,e la poeſia ; nelle quali dilettavali aſſai Orteo , e l'eſſer egli ſtato , CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco , e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano , mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo ;ne tāta loda meritar dovel ſe , quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici , enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe , nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare , e diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no , il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora , e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina , e valoria ; percioc chè non è egli vero ciò , che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva , efſer le ſue azioni , ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati ; conciofoſſe coſa , che egli dimoltes malvage uſanze , c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe : Sacra Liberi Patris , dice Lattanzio , pri mus Orpheusinduxit in Greciam , primufque celebravit in monte Bootie Thebis , ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio : Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares : Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio , che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo , e diſcepolo di Pittagora . Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco DelSig. LionardodiCapoa 201 poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta ,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci , a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto , il qua le non iſtando bene , è imposſibile , che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene , o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo , e da quello conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca ; e però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc ; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta , e tutto il corpo .Mal'anima egli volc va , appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni , e indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro , e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli ; e quindi 1.2 ſanità al capo , e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας , τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι ,ής εγγενομένης , και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν , και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων , Ma non facea meſtieri certamente di molto ftudio , e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti , che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone . Nevero egli ſi ritrova , che le malattie tutte del corpo , dall'anima dependano , o ſem - prc , chepatiſce una parte , debba neceſsariamente patir il tutto , o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano , & una , o altra parte ſolamente magagnata . È ciò avvenir tutto dì live de ,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro , quella feli cemente ſi riſana ; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto , dicolui , che portar non potendo il troppo acerbo dolore , che per la podagra pativa in un de Сс diti 1 2 202 RagionamentoTerzo diti del ſuo piè , venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo , ne più mai in altro luogo poi venne gli la podagra . Macon gran prontezza venne abbracciata , e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici razionali ; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora , tra per far pompa di quel ſape. re , ch'effi non hanno , ed ancora per menar la cura alla lunga ; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male ; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono , le quali al la malattia punto non s'appartengono ; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima il tutto , e le parti principali medicate ſieno ; e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo ; e immaginando follemente ancora , che ciò far conaltro argomento non ſi poffa , i lor ſalalli , e le ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza , mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada , fino a far infralir gli ſpiriti , e preffo , che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella , o altro menomo Empirico ' , cui il vero rimedio ſia conoſciuto , di sì fatte lor cianceri mangan beffati , e ricreduti . Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere . Fabbricò egli un belliſſimo palagio ( co me narra Erodoto , comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale convitava a mangiare la gente più principale , e lor perfuadeva , che ne eſſo , ne alcun di co loro , che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita , eterna beatitudine goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni ; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi DelSig. Lionardo diCapoa 203 ciò , in vita ritornato ; e queſto , ed altro egli ebbe agio di fa . re , perch'era in grandiſſima gloria ſalito , tra per la medi cina , e tra per eller qnci popoli groſſi , e materiali ſoprá modo ; intanto , chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya : ma ancora dopo mortc in cotanta , maraviglia fu tenuto , che venne da loro per Dio adora to ; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto , che giunti ad un ſoli tario , ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal , ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce ; il quale fe immantenente ſe ne moriva , eran ſicuri , che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande ; ma ſe per avventura morto non foſſe , n'era accagionato , coine indegno dell'ambaſceria , e reo , e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano , al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli , che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare , avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia , e la Libia , e l'Oriente tutto , e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano , e fin l'ultime regioni della terra penetrate , e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina , che non già monarca , e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato . E nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe , che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote , huom di loro nazione propiamente Сс 2 inve 204 Ragionamento Terzo 1 1 inveſtirle ; ma ſi ben non ſeppero con loro novelle la coſa comporre , che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re ciaſcun , che de'tempi di coloro faceſſe ragione ; per ciocchè egli è coſa manifeſta , che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto , ſecondamente che s'avviſa in Euripide , introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co , fol perchè egli antico fi foſse : Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα , χρόνων Κεκτήμεθ' , έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo ,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino , il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo ; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani , eſſer Bacco , non dalla Grecia , comealtri crede , ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino . E ciò fù per av ventura , che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli , a bello ſtudio poi la colaj provaſse , eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo , e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse . Ma forſe egli , ſecondochè lo immagino , per via della Chimica ritrovollo ; la qual , ficome in Egitto , così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento , e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano . E potrebbe eſser’anche , che Bacco apparato l'aveſse in ciò , che lo frutte , da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono , el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen . do ciò per opera de'movevoli ſommamente , & acuti cor picciuoli , i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajuta Del Sig .Lionardodi Capoa. 205 ajutati da cotali atometti di quelli , onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco ,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza , ch'anima del vino può dirſi , e da' Chimici , che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè ; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato ,per travalicamento di tempo , ſmarrito : cche Bacco poi da capo il rinveniſſe . lo fo , che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere ,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè , e Bacco ; ma ciò trala fcio , per non effer egli in modo alcuno da credere ; per ciocchè per quel , che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te , non guerreggiò giammai Noè , ne altra impreſa fece , che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca . E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre , il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato , giudica , non altri eſſere ſtato Bacco , che'l ſanto Moisè ; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare , non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò , che ſifacefle in inedicando Bacco , e quali altrimedi camienti egli adoperaſle , e come co'l vino guariſse i mala ti , e coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe , non ; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna . E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita chiamato , non però di meno eſſendo egli avido di loda , e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale , vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure , con far veduta , che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse ; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto , e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra . to , nell'Alliria , e ne'paeſi dalui ſoggiogati , in primaj introduſſe. 200 Ragionamento Terzo 1 Ante tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber , & in gelidis berba reperta focis . Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi . Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti , Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi , ſe rozza veramente , e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe ,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò , che da Agatorchide per teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro , che da lui tolfer di peſo ciò , chc ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene . Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro piante , diffolvendoſi , e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni , e malattie . Soggiugne egli poi , che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi , e del bitume davan riparo : da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε , και μη τικής δυνάμεως , και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την .Ρcrche fembra ad alcuni , che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento , che l’un contrario , per l'al tro curarſi debba . Ma che che ſia della verità di ciò ,tan to , e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici : di co , che ſe rimedio pur quellera , certamente era cgli più acconcio a conſervare , e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani , che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica , esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina ; perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati , o ſpalancati i pori degli animali , e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire , che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia , quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie , fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli Del Sig.Lionardodi Capod. 207 dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc , e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi , e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina , Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere ; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel , che comunemente ſi giudi ca , quivi eſſere ſtata quella ritrovata : e ben priina aſſai , che Cadmo le priine lettere vi recaffe ; perciocchè per le gravi , e crudeli malattie , che continuo quella infeltava no , ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri . Il che fu anche cagione , perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo ,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare , nazione alcuna , che cotanto vis'inviluppal ſe , quanto la Greca . Perchè ſembrami egli certamente imposſibile , che nelle tenebre di tanti , e tanti paſsati ſe coli , e da poche, e non ordinate memorie , che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe ; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità , e millantatrici, ccon l'uſate lor favole , e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche , nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe . memorie delle coſe avvenute , oguiſcrittore poteva ,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia . Arro ge , che i Greci , come afferma Dione , erano così avvez zi al piacere , che ſtimavan vere tutte le coſe , che narrate foffero con eleganza di ſtile ; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero , chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere , fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti ; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano , meſco . lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie , di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare ; e altri fi adoperavano in ben comporre , e inviluppar le coſe per coglier 1 1 208 Ragionamento Ter 70 6 1 coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò , che di ma. gnifico , e di pregiato andaſſe attorno . Così il comun der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio , perta cer d'altre ſue impreſe , che non fanno al preſente a noſtro propoſito , al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro , e illuſtre co' fat ri di Bacco Afirio . Così ancora quanto di grande , e di glorioſo in medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi , e confuſioni il pren . derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo , in cui par citamente quegli antichi medici Greci viſſero , de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche contezze,che malagevole , anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene . Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo , faronne una breve , comechè confuſa accolta , eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà , ter rò ragionamento di ciaſcuno . E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte del medicare , che ragionevolmente giudicarono , aver lui meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato , e tenuto a capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero . Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων , e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto , i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone : Tlainavos dirigevédans . Il che ci può far credere , che Peone foſſe Egizio , e non Greco di nazione , ma inſieme con gli altri , che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato ; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone , che ciaſcun medico dopo di lui giudicava , ſe eſser ſommamentelti mato , e commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie ; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et ful 4 - Del Sig.Lionardo di Capoa 209 fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis , cioè a dire , come avviſa Servio , à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito : Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs :ri del medeſimo Apollo : comechè alcuni vanamente giudichi no , la modelima perſona eſſer Peonc , ed Apollo . Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce , che Omero nel ſuo maggior poema , di Peone, e d'Apollo , come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo , ch'Eſculapio ; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro ,quando diſse : Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro , Eſculapio non era ancora deificato ; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice , in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico : Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG- , Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro poſito della medicina , dico , che di Peone non s'hà ine moria , ch'Iomiſappia , niuna , fuor ſolamente della Peo nia : Vetuftifima ,narra Plinio , inventio paoniæ eft , no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca . Perchèè cgli a buona ragion da crede re , che Peone per dovere a cotanta gloria , quanta egli acquiſtonne , condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca , e fem , D d plice 210 Ragionamento Terzo plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic . E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto ,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando , e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle ; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini , ſe digiorno la coglie . Novella ſecondochè giudica Plinio , a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa . Ma non che ciò ſia vero , anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate , e da Peone forſe da prima a quella attribuite , ora in verità tutto vane , e falſe ſperimentate fi ſono : ne ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono . Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare , non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe , che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi , e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella ; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono , che ſia in certi tem pi ſolamente , e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre . Ne è da tacere in queſto propoſito , quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno , il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato , che la radice della Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta , non ſolaine se glidifenda dal mal caduco , ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc , e trapaſſando a dir d' Apollo , creduto comunemente Dio della medicina : egli è da ſapere , che molti Apelli già furono in Grecia , e cctante, e sì diverſe , e dal vero lótane ſono quelle coſe , che per gli ſcrittoridilor ſi narrano , che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo , il venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche , e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti , che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono . E in prima , quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina , quale è quella per 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 211 percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam ,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe ; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina , ficome dal vula go , or follemente ſi giudica ; perciocchè in quel medeſi mo tempo , ch'e'fioriva , molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone ; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore , ch'egli inedefino conoſcendolo tale , volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe , come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai . Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj , non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες : έκ δε νυ Φοίβε , Iyisod dedeany , ardermoor Java Toio : ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare , non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò , comeſi voglia : lo quanto a me immagi gino , che Apollo , o avendo egli col ſuo ſtudio , e colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole , o pur da qualche vegliarda appreſa aven dola , a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire , nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo , e dappoco in medicina , e'l ſaper ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato anch'egli Apol lo , in ciò certamente ravviſar fi potrebbe , ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo , quella parte della medicina a imprender ſi dic de , la quale intorno agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 росо 2 IZ Ragionamento Terzo poco in quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita , cingannevo le del vaticinare . Quindi andato in Delfo , la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi , la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo , ingombrollo di preſente , e cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός , του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών , το μανλείον παραλαμβάνει . E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo , che abbia ſaputo la coſi . Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane , che diede le leggi agli Arcadi , ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo , e terribile huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw ,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe , e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli . Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi , c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri , i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro , vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto , chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire , eller quello verainente ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito . Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo , c con duplicità , delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe . E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò Apollo , che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 213 perare , che di più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante , e poco del meſtier della medicina confa pevole reputato . Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo , riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 ( la qual medica ancor ella , ritrovò , e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja i miſeri malati , ſenza mai guarirfene niuno . Infra’qua li furono i figli della ſventurata Niobe ; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti , ſenza alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò ; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare , ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe . E quinci nac que poi , ch'eziandio dopo che furono Apollo , e Diana nel numero degli Dei allogati ,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi , che capitavan niale delle lor malat tie , ſe femmine follero , perman di Diana , e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro ; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε . E’l medeſimo poeta finge , ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel campo greco ; ne per altro , al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle mani d'Apollo , é ne ven ne giudicato Dio infernale . Qual ſi foſſe egli poi ne'co ftumi , il taccio ; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie , e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto , per fua mano , e a Lino . Tanto mipar , chedebba lo ac cennare ciò , che alnoſtro propofito ſi conviene , cioè, ch ' cgli avvili da prima , e profanò il ſanto meſtier della me dicina , inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità , e l'onore ; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta , Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet ; Id quoqueiaétando : rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas , aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt . IR . L : 214 Ragionamento Terzo ! Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus . Quècunque herba potens ad opem ,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe ,mea ef . Ma trapaſsando a Melampo : grande nel vero , e non ordinario fu il pregio , che guadagnoſli oglicolla me dicina , mentre oltre alle figlie di Preto , egli guarà an cora della ſterilità , per quel , che nc narri Euſtazio , Ifi cle , colla ruggine del ferro ; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici , maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera , facefle egli veduta ,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli , con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua parte , ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe , che la ſpada , colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle , e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano intendimento fornito , e che egli for ſe il primo , che cominciato aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali . Perchè agevolmente porraſſi argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo : comc che per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente diprima lieva , detto fia , che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe . Ma come ciò avvenir poſla , che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la ſterilità dall' huomo , e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare , egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi : alla quale ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro , e maſſimamente la ſua ruggine ; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare , che la limatura diquello talvolta apporta , el la preparata dagli aliti acetoli del nitro , e del fal ma rino , che continuo per l'aria diſcorrono , i qual eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno , più cfficace , e profitcevole ſi rende di quella ruggine , che per ! man Del Sig.Lionardodi Capoa. 215 man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô . ia a meſcolarſi colle ſottiliflime , e acute particelle , che travagliano le viſcere . E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio . Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to , o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle ; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto , egli dell'Egitto alla Grecia , inlieincco'ſacrifici di Bacco , molte , e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν , μαντικήντα έωυτή συσή σαι , και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση , και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά . Tanto , e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone , che non ſolo all'indebolite parti del corpo , come Maſſimo Tirio racconta , con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava . Ne ſolo fu cgli ( per quel , che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia , e in aſtronomia ; ma valſe ancora affai nella mu fica , e in modo , che ſeppe, come il medeſimo Stafilo , e Boezio narrano , parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina , che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve , per poter ivi a più bell'agio la natura , e le complellioni dell'erbe inveſtigare ; nel che s'adoperò egli si bene , che inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto ; e in cotanta fama , e grido crebbe , che non iſdegnarono ( come narran Filo ftrato , e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio ,oye egli ſtanziava, Telamone , Peleo , ed Achille , e Giaſone , ed Ariſteo , ed Ercole , c Teleo , ed altri : huomini di gran pro , eva lore ; i quali , coine laſciò ſcritto Maffino Tirio , egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando , e nelle cacce , e nel corſo , facendo loro giacer nella nuda terra , e per 216 Ragionamento Terzo e per burrari , e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli ; e doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini ; per. ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano . Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze , media car ſoleva anche i bruti animali ; anzi cgli li fu il primo a ciò fare ; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia , comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli , coine narra Apollodoro , relicuita la viſta a Fenice , il qual fu poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana : cù . το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος . Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις , βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora par , che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato ;poichèdeſiderava ,ch'egli tornaiſe in vita , acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone , perciocchè egli pativa del mal della pietra , co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro , o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας , et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες , ζώειν τον απικόμδυον , Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, ( Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo ,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων , και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν , ατήρα του κέν μιν πίθον , και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών , Or Del Sig.Lionardo diCapoa 217 Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato , Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali , ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia , che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic , o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone , come vogliono Euſtazio , e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo , che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno . Ma io , ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre , a cona feſſar il vero , aſſai dappoco , e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia ; perciocchè egli l'uſo del ta ſto , e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva . Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire , perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle ; e sì fattamente , che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio , e ſapere , nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo , che quel le gli cagionavano ; intanto che a morte poi ne divenne ; comeche alcuni dicano , ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille . Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa , enegli antichiſecoli celebrata . Tiene Eſculapio , per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina , che inedico giammai aveſſe ; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe , e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo , alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne .Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za , e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto , el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte , cancellate in tutto , ed annullate Еe avreb 218 RagionamentoTerzio avrebbe , ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo . Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia , ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso .Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo , il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse ; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti , ma i febbricitanti ancora , c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες , και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι , ή χερμάδι τηλεβόλω , À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas , και Xepewo , aurons amor , áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων , τους δε προσανία πί νοντας , ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς . Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali , O traejjero in fen fiftola ,o piaga , O dapietre , odaferro aſpra ferita , O pur nafceffeil duolo , Da'diſcordi fra lor femivitali , Ogni dolor , ogni tormento appaga : Porge con molli incanti a queſti aita , Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia , Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra , e fero duol travia , E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella , Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia , e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò , che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina , la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare ; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli , e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele , e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando ; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli , che ficno il freddo, e'l caldo : l’amaro , e'l dolce : il fecco , e l'umido , e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio , certamente è da dir , che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto ; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento di meno ; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla medicina , come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza , per que , che fi ſappia , certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare , o che queſte nel cor po umano ſi trovino , ſe poi più avanti non ſappia minuta mente , ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo , onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga , in che la lor natura conſiſta , con quali argomenti poſſan porſi d'accordo , come vuotarli , qualo ra lien di foverchio rigoglioſe , e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino ,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora 220 Ragionamento Terzo lora infievoliſcano ; che per altro quel , che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio , ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto . Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina , ne sì grandi , e rag . guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice ; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci , ei bruti molte, e molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto , oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava , o per trar fuora i denti dalla bocca , che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria , co mechè Cicerone ad un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice . Aeſculapiorum primus Apollinis , quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur . SecundusſecundiMercurii frater : is fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe :qui primus purgationem alui , dentiſque evulfio nem , ut ferunt , invenit . Ne ſembra punto vero quel ,che Diodoro dice d'Eſculapio ,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti; imperocchè Strabone , graviſſimo autore , e degno ſenza fallo , che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono , le cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe , cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei , perchè l'arte della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita : quoniam adhuc rudem , a vulgarem , dic'egli, parlando d’Eſculapio , banc fcientiam paulòfubtilius excoluit , in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque certamente , ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse ; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie , ed altri rei artifici an . DelSig. Lionardo di Capoa 22 1 > andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo ( il che mol to ajutar ſuole i medici , ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun , che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie . Così egli vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale , ma celeſtiale Dio eſser diceva , e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti . Le quali arti , e giunterie , acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli , che l'iſpida , e folta barba nudrendo , e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito . E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili , che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso . Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo , ch'egli non operaſse come fanciullo , ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio , il qual così grande , e lunga , e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας , αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα , μη αιδε . σθεις , αγένειο» ών δημηγορήτις , και αυ% βαθυπώγωνα , και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole , ch’Eſculapio a quella guiſa appunto , che a'noſtriciurm.dori veggiam fare , portaſse ſecole ſerpi : e che per riſparmio camminaſse a piedi : e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe , e'l baſtone ; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante , e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori , chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare . Ma vie più dopo inorte crebbe in fama , edono re Eſculapio , tanto era folle , e cieca allor la gentilità : perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe ,e belle ſtatue dimarino , d'avorio, d'argento , e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie ; e sì , e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte ; i quali # di 222 Ragionamento Terzo 2 di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto , dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro : Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano ; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi , fcaltriti , facendo veduta dinulla ſaper dimedicina , o del male , che coloro avevano ; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio ;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio , c per li lunghi ragionamenti , che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti , i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici ,o da’altri . Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento , chea ciò niuna credé za preſtavano , come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio ,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do , egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo , c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato , le medicar avelli voluto un bue ? E ſe mai interveniva , che alcuno ( o che'l rimedio , o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe , oltra’doni , che coluiagli altari offeriva , toſto alle mura un'effigiata tavoletta , a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio ; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj ; c delle dette già tavolette , anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni ; delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra , in cui fu regiſtrato , che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta , che veniffe , e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie al Del Sig.Lionardo di Capoa. 223 alla prefenza di tutto il popolo , αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ , απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ . φας , και εσώθη , και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina , foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte , non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze , ne ſtancate di tanti , e tanti ſcrittori le penne per celebrarle . Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire , o a poco intendimento , ch'egli avuto avef ſe ; perciocchè logorò egli gran tempo , egran fatica ad imprender la medicina ; e fu sì profondo , ed acuto il ſuo intendiinento , ch'ei ſi fu il primiero a comprendere , che per ta fimilitudine , la quale i Chimici chiaman ſegiratu , ra , ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra , ricorſe per guarire alla Dragontea , la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo , o per più ragguardevol renderli appreſso la gente , o per altra cagion , che ſi fofse , infin . geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato : il qua le l'aveſse impoſto , ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole ; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra ,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare , eguarire . Io non ſo , ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato , che foſse giunto a penetrar , che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino , del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità , in che co filte il guarir delle piaghe ; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata , che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire . E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC , per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente divenire , e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone , comechè gli veniſse fatto di guarir lamo 1 224 Ragionamento Terző la moglied'Achille preſso a morte ridotta ; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte , averla lui da morte riſucitata : E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti , iquali così di lui confuſamente ſcrivono , che nulla più ; dicendo Varrone , eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici , altri tre , altri due, e Ci cerone ſei ;ed evvi ancora , chi porta opinione , non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo . Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo , o pur di Giove , come altri giudica , non ne vengono ſcritte , per quanto lo ſappia , ſe non certe poche , e confuſe memorie ; ſolamente ſap piamo da Cicerone , e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio , il miele , e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ . φίον εξεύρεν , ώσπερ , και το μέλλG- . Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio : Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò , che d'Ariſteo dice Giuſtino : Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum , apum , á mellis ufum , &lactis , &coagulihominibus tradidiffe , folftitia . leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio , e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù , e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero , abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo , non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento fornito , che ſeppe con l'uſate giunterie ,e menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere ; e raccontaſi di lui da Teofraſto , da Apollo nio , da Cicerone , da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa , sì che feccavan le biade , e gli huomini mi ſeramenre morivano , eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato , come ſi poteſſe a tanta calamità ri para 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 225. parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime , e ſacrificj l’Ilola , la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario ; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto , ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo ; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito ,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w ?quell'Iſola cagionati ; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço , ed Apollo Agreo chiamato , e frale ſtelle in Cie: { o collocato . Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo , ſappiendo di certo , che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono , cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi , che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe ; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie , ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione , quanto più generoſo , e più magnifico ſenza fallo è il dare , che'l torre altrui la vita . E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe , che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata . Quin etiam ſuccos ,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos , quid hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues , que caderes herbis Edocuit. Ff Fu 1 226 Ragionamento Terzio Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito , volle effer ſolamente da Pa troclo medicato , perchè eglifoſse compagno d'Achille , c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato ; Νίζ υδαπ λιαρώ , επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα , τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι . Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella peſtilenza , che allor travagliava ſommamente il campo greco ; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite , e ad altri parecchj malili ſperimenta ; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva : Eft , rubigo ipfa , ſcrivePlinio , in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles , five id area , fiveferrea cufpide feo cit ; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice : arugi nem inveniſe , utiliſimam emplaftris , ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi ; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito ,ed al tri, con l'Achillea , ccon la ruggine del ferro . Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo , cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare , e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo , non già alla feri ta di lui ; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re , che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te . Il che ſe vero foſſe , non moderno ritrovato , ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura , che chiaman ſimpa tica nclle ferite . Dice Plutarco , che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta , e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano , e li ripoſano , toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono ; e pe 1 rò di Del Sig.Lionardo di Capoa. 227 1 rò dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio , l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo , che gran coſa queſta fi ſia ; ne per eſſa , ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità , che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti , e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando ; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione ; ma , ne queſti, ne quelli avviſano , chele ferite tal volta ,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina . Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante ; coſe , ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto , che ne venne appellato noivoo PG , cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda ; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna , o per invidia , che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà ; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero , eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille . Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato ; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte , faccia meſtierimangiar po co , e affaticarſi molto , e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto , ed in Troja appiccata , aw ni un de’greci noja mai diede ; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 perti 228 Ragionamento Terzo peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver . timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato ; e però di più dirne al preſente mirimarrò . La medicina di Patroclo compagno d'Achillo , e di Po dalirio , e Macaone figliuoli d'Eſculapio , che ſerbaraſſi eterna , ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco , che ſi diè cura di cele brarla : ſembra ad alcuno , che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe ; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza , che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero , che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero : avvegnachè la cura de’ga voccioli , e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare , alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo , allor che facendo men zione di Podalirio , e di Macaone, dice : Homerus non in peftilentia , neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii , fed vulneribus tantummodo ferro , & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo , cui non v'ha rimedio alcuno , e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe ; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio , non ſolamente curò diverſe infermità : ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone , e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente comprendere . Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite ; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα . Sem . ,per DelSig.Lionardo di Capoa. 229 Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano , ed inutile , anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare , ſenzachè è ſtomachevol coſa , e pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io , comeil primo Baron dell'oſte greca , e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile , e vituperevole opera . Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore , edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra , ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza ; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch ? egli fu ferito ciò fece : οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano ,non che a’feritija ? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia . Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude , e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto degl'infermi ; eglino cibavangli di groſse cipolle , e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone ; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di , e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ . E queſte fono le care , e falucevoli vivande, e beverage gj , che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava loro ; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare , ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma 1 230 Ragionamento Terzo Ma ben ſo lo , che di fomiglianticoſe , ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino ſomigliantiguiſe di sì reo , eſconcio medicar praticafsero ; ma che Omero a ſuo talento le finga , poco eſsendo della verità informato ; che ſe ciò vero foſse , lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro ,affai ben conoſciuto; nihil unquam . ceciniſe , dice Pier Laſena , quod nun prudenter excogita tum ,ex induſtria diſpoſitum , &in alicujus rei utile dixeris documentnm . Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole , a ſtagnar il ſangue delle ferite , o pure a ſciorlo , ove egli fia rappreſo , e corrotto ; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag . gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire , che per lo lorotale aguto , oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità , da cui certamente la febbre , e'l dolore , e lamarcia ,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene . E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici , e crude, medicar le ferite , ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli , e vigoroſe , quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle , e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire , eſsere ſtate di tanta virtù , e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano ; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare , o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa ,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco , o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe , mangiando in brigata ; ſenzachè Platon dice, DelSig. Lionardo di Capoa 231 dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re , e pel bere , non avevan poi gl'infermi biſogno , che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe ; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione ; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue , traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità , per cui elleno marci ſcono ; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti , e utile aſsai ; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani : da’quali per avventura Podalirio , e Macaone , oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc ; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare ?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse , deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate , maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago , c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione ; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo , imperoc che , ſe pur è vera la ſtoria , il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite , che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone ; egli è una bevanda in verità sì ſconcia , e mal fatta , che ſenza fallo non può ella altro inai , che nocuinentu agli huomini ſani , non che agl'infer mi apportare , che che ſi credan Plutarco , ed Ateneo , i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne , che'l cacio , il vino , e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere . Vltimamente , le radici , e l'erbe non preparate , maffimamente l'Achillea , e l’Ariſtologia , colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono , che Podali rio , Macaone, e Patroclo medicaſsero , abbondevoli ſo no d'umore acquoſo , e non ben digeſto , il quale oltre che infievoliſce il ſolfo , e l'alcaliloro volatile , in cui law vir 232 Ragionamento Terza virtù conſiſte , per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole . ... In quanto poi al lavar , come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite , non è vero'ciò , che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero , appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni ; ina di ce eglichiaramente , che l'acqua , colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge , che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe . Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis , corpuſque levabat . Nove , aphyſice , dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua , Oratio vera eft ,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare : ma un tal modo di mcdicar le ferite , con l'acqua lavandole , tut to che ricevuto ,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci , onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento ;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino , o col l'acquarzente , ovc,lor huopo ciò lor faccia , vengon lä vate . Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio , e Macaone , venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti , che furonodi ſtatuc, di té pj , e facrificionorati . Quelle coſe poi , che di Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino , elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi ; ciò Zono ,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al perico lo da 0 ! Del Sig.LionardodiCapoa. 233 lo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente accol to ; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta , per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta ; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia , e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa ; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala , data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città , una col nome della moglie Cirene , e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo , avellimo molto addietro fatto parole di Teſco , di Giaſone , di Pe. lco , di Telamone , e del ſuo figliuolo Teucro , e d'Erobo te : ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli ; e perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco , c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea , i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno , e come nar ra Paufania , lolevano gl'infermi corteſemente curare , e maſſimamente le dislogate oſla , o membra in buon concio rimettere ; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati . Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato ,di Dardano , di Cleomitide , di Teo doro , di Criſime , dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi , e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema , del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia medicina;ritrovato ,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero ,che ne il caldo,ne il fred do , ne l'umido , nc'l fecco , ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino , o l'ecceſso , che vogliam dire , il qual per Gg ſover 234 Ragionamento Terzo ſoverchio di vigore , non poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato , ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via ; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire , qualora l'amaro , amariſſimo : il dolce , dolciſſimo : l'acetofo , acetofilimo divenga ;mentre portavano opinione, l'Amaro , il Dolce; il Salſo , l'Acetoſo , il Diſcorrente , l’Acerbo , e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente , che fteano frá eſlo lor meſcolate , e confuſe, e l'una temperata dall'altra ; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi , così ſceveratamente ſe ne ſtca , allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire , e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano :dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe , e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli , onde alcun danno riceve , abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi , che il caldo , e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi ; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano ; ma quantunque volte ſi leparino ,e che o riprezzo , o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi , e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi . Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire , dicevan'eglino , che in sì fatti cali non già dal folo caldo , ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata . Finalmente tutto ciò , ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare , e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido , al ſecco , al freddo , al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo , e forſe di poco momen to, lo Del Sig.Lionardo diCapoa 235 to , lo tralaſcio diriferire . Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo , o Chirone , o Eſculapio , i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad Eſculapio , comechè contuſamente ne faccia parole Platone , e a guiſa d'huom , che di dubbia , coſa favelli, par che dir voglia , ch'egli in tal modo fi loſofaſſe , ed è veriſimil molto , che dal ſuo maeſtro Chi, rone , o dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe : e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico : eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando ,e a quelter mine condotto , ſicome egli il riferiſce ; ma egli è nondi meno per mio avviſo , aſſai manchevole , e ſcempiato , ne Ippocrate interamente , e qualli converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe . Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti , e medici inſie me , o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia , che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge , che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi , che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati , tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle , che prime qualità le ſcuole , appellano forinati, con altre , che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe ,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro ; o per me'dire , e più ſecondo la loro opinione , da tale accozzamento , o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili ; e che , ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate ; ma che ogni coſa , che dinuovo ſimanifeſta , pureravi innázi . Il qual modo di filoſofare , ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora , certamente da quello non è guari di verſo . G g 2 La 236 Ragionamento Terzo La maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema , viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice , ch'eglino davano .opera a tor via dall'huomo tutto ciò , ch'eſſendo della ſua natura via più valevole , e no'l potendoella vincere , offefa ne rim.z. ne ; come l'amariſfimo , il dolciſſimo , e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare , cioè allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute , era ceffato il lor impeto , e mitigato il furore; d'on de fi cava , che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le ; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate , che allor , che nell'huomo ſomınamente creſce la collera , in tutto quel tempo , ch'ella ſi trova ſtemperara ; cruday e ſincera per arte niuna ſi poſsono , ne il dolore, ne la febbre , che da leicagionanſi mitigare , non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere , e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare , per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole , che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi . Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema , oltre al Paralcelſo , al Severino , ed al Quercetano altri , eal. tri doctisſimi ricevitori ; i quali colle tante , e rante cu rioſe , e ſottili dottrine , che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono , e lo fecero altro in verità parere da quel lo , che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi ; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini , per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia , ritrovar argomento giammai , che effi cacemente provar poteſſe , che nell'huomo , ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe ; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa ,fe ne meno eglino non le vennero in quel il a Del Sig.Lionardo di Capoa. 237 li a dimoſtrare ; ed in verità lo per me crcdo , che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai ; imperoc chè ſe ſono , come esſi vogliono , in minutisſime particel le diviſe , e l'une coll'altre meſcolate , e confuſe , necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere , ne effetti poſſono produrre , da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo , ed in altri corpi , e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe , o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia ? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo , e d'altre ſimili coſe , qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic , e della virtù deʼmedicamenti , e del modo d'ufar gli . E forte aggiroffi Ippocrate , ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi , emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato , e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali , e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra . E parvc al buon huono , che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura , che alla medicina s'apparteneſſe ; e ba it are al medico ſol tanto , ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare , e al bere, che gli convicne . Ma quefto medelimo chi non vede , che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima , e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino ,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire eglino , o eſſer mol 238 Ragionamento Terzo altra opera , greca , molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo , o dal freddo ſolo avveniſſero , avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare , o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo , in perdendo le particelle , che fanno il moto , les quali sfumano velocemente , ove non v'abbia coſa , che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole ,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina , ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto ; onde come d'abbondevole , e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono : chenon pur la grecia tuttav , ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione ; il quale dell'u mido , del ſecco , del caldo , del freddo nel filoſofare ſi valſe ; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to , di coloro , i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li ſtudiavano ; ed altri , ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte , e varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità , e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella natura ; ed altri per intendere oltre al filoſofare , anches all'opera della medicina , fino a’tempi d'Erodico , oveda prima ad alcun ſembra che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina ; le pure alai molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne , e ben’ Ippocrate nel libro della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da que'medici ,che volevano , o dal ſangue , o dalla collera, o dalla flemma elfer formato l'huomo , Ma 1 DelSig. Lionardo di Capoa 239 Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro ; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo : ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo , che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta , egli fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All RAGIONAMENTO QV A RT 0. 22 S E quelle gravi , ed acerbe quercle , che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate , perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli , cmenche giuſte doglianze ; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti , fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita , ne da do Ierſene gran fatto , anzi da non mettere in conto ; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano , e più vera , e fotril doctrina contenenti , bcn'a torto , s'io pur non vado erra to , oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni , o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta ; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola , ed ingiuſtaméte uſurpádola , cd oc cuparl Del Sig .Lionardo di Capoa. 241 cupandola inleme colla Città , ſede, e capo dell'Orientale , Imperio , allora preſſo che tuttii libri , che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no . La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina , ma delle più nobili arti , e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi , o delle fiamme nemiche : non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe fiera divoratrice ; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa , e mentemuta cagione.Diec tracollo , chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor primo ſplendore le lettere , non per altro , ſe non ſe per manca mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno , e riſtoro , quindi ſterminio elleno ebbe ro , c ſtruggimento ; conciofoſse coſa ,che , ficome talora in bello , e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene , logli , ed erbe ſterili , e dannoſo , e ſoffocarlo , cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra quell'anime grandi , es valenti , che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua ti huomini di ſtolido , ed ottuſo intendimento , i quali da vaghezza tratti divano onore , e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera ; e tutti intelero a certe vane ombre di dortrine ; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare , e di tramandare a' po fteri que’libri , che con pompa , cd arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco , o niente in lor v'era di pregio ; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte , la troppo credula , anzi cieca , pofterità , come prezioſi teſori gli ha ricevuti , e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità : mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh par 242 Ragionamento Quarto parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico ,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata ,ere ſa immortale, per fatica , che vi ſi duri , Io non ſo vede re , come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare ; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può , rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle , ed ugnerle , e regolatamente prendere il ci bo , chedi giovevoli , ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato ; dicendo , ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie , ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava ; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo ;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata ; imperoc chè della ſua inutil medicina , penofa , e cagionevolvita traſſe continuo , e ad una lunga , e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo , egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla , tutto nello fludio della medicina s’involſe , traſandando tutt'altre biſogne , e ſolo a ciò di forza intendendo , altro non gliene avvenne , ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente , e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare , e più che prima cagionevo le diveniva ; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo , viſſe infino all'ultima vecchiczza ; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone motteggiandolo conchiude , che una ec cellen Del Sig.Lionardo di Capoa 243 cellente , e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc , qual veramente gliſi conveniva , come a colui , il qual non ſapeva , ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta : ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o . pera ſua convcncvole aſſegnata , alla qual fornire doven do intendere , mal potevagli ozio lungo avanzare , du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò , o riſtoro ; coſa , la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata . Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo , il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia , egli toſto inan dando per lo medico, da lui richiede , che diviſandoglial cuna purgativa , o pur vomichevole medicina , o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale , e ogni ſeccagin da doſſo ;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi , certamente , che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja , e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta ; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe ; e ſemai avveniſſe per forte , ch'egli guariffe , ſi viverebbe per innanzi felice ; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato . E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica , come dannoſa , e tale , che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne , ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni , con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo , la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente , che coll’inferinità , ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto ; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità , non può eſſer (anità vera; c ſe tinto , e non più fi mangia , quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 bar 1 244 RagionamentoQuarto batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare , perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere , il che ſarebbe un gran difetto nell huomo . Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata , non è mano , perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to , e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo :perchè queſto è inorir di fame ; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente : ed elegge più coſto lo an negarſi , che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino ,benchè foſſe traditore della Patria . Con chiude egli alla fine , che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe : peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere , il leggere', e ſimili cofe , che impediſcono la dige ſtione : numerare i palli, e le parole , che ajutano la dige ſtione : non dormir ſe non tante ore il dì , e tante la notte . Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro , a cui era in dirizzata la lettera ; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano , e fuor di ragion fia : impe socchè egli colla rigorofa dieta lano , c vigorofo , e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne , e viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai , e col ſenno , e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria ;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza , ca molti, e graviſſimimali ſoggetto ; intanto , che comunemente da'medici dopo varj , e diverſi argomenti indarno adoperativi , diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe . Ma quanto vane ,quanto deboli , e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co ,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio , e de figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni : Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo , potendo ciaſcũ 1 da per Del Sig.Lionardo di Capoa. 245 da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo . Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me dico , il quale aveſse per le mani ſicura ,ed efficacemedici na , che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire , non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio , cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia , ma ſola mente alle ferire ; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti , e radiſsimi coloro , che alcun certamente ne ſappiano ; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte , tem poreggiando , e ſcherinendolo a ſuo potere . Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co , il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe , che ſe non ſono ditroppo vaglia , s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina . Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati , e poca , e niuna fatica . s'imprende a porle in opera . MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti , Galieno mede. fimo il confeſsa ; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce . Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone , e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare , che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi , ed abili a loro eſercizj . E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse , ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi . E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi , s'egli nella ſua Città ordina , che s'edifichiil ginnaſio , e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i 246 Ragionamento Quarto per quello , e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti , così per derivarla in uſo de' caldi bagni , coine per irrigare il terreno , e render vago , eadorno il luogo ; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio , e quegli eſercizi , che ivi fico ftumavano di fare : come ſommamente utilia conſervar la ſanità ; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata ; cioè della muſica , che all'animo , e della gin naſtica , che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da par te ſtare , egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi a'malati , e che ciò eglino faceſse ro , non peraltro , ſe non perchè non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi , i qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna di medico ; concioffiecofachè le tante , e tante förti di malattie , che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano , faccian’aperta , e fedele teſtimonia za del contrario . Ma quantunque vero foſſe ciò ,che Pla tone immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini , pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico , il quale cibaſse l'infermo come fano , e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno , ed all l'altro nocerebbe . Egli poi non ha dubbio alcuno , che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente , che s'ado peraſse in medicina ; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina ; e prima , che foſsero i medici , i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono ; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re , comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant , alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe , alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe , qui abſtinuerant : itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te , alios paulò ante eam , alios poft remiffionem ejus , optime dein Del Sig. Lionardo di Capoa 247 ! deinde his ceflife , quipoft finem febris id fecerint . Eadeque ratione alios inter principia protinus ufos effe cibo ple viore , alios exiguo , graviureſque eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent , diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent ,dein deægrotantibusea præcipere cæpiſſe :fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute ,aliorum interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati, certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima d'Ippocratemol . te coſe , e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere nel libro della vecchia medicina , ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo , onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò far yolle il buo Ippocrate autore. Ma , che che ſia di tali faccende, terri bile allai ſembrami nel vero la cenſura , con la quale Ip pocrate, non avendo veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico , fconciamente il riprende,e vitu pera ; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li febbricitanti , ch'e' medicava colle fatiche , e co' fummi. caldi , che loro imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti , eifomenti oltreinodo contrari .Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate , che Erodico in ciò fa re, ne anche alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe ,non volendo niuna ragion delmondo , che'l male col male, la fatica colla fatica , il ſimile col liinile da medicar ſia ; an zi e'dice , che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri , valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore , che a toglierlo . Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate , e Galieno ,dicendo ,che Erodico, come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava , avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di tempo ; ma poi ſen za fala 248 Ragionamento Quarto za fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne ; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere , il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate , e da Galieno : i quali con fregamenti , e con dare a {piluzzico , e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti . Ne qui deb befi tacere , ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri , come manche voli , e malfatte anchequelle coſe , che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare , che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia ; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano , il quale rintuzza lo , c percuotelo , e con maggior ragione per avventura , con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia , coloro ſe'l veggano , i quali comeche con parole il biaſimino , purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare : ſolamente lo avviſo , che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla ,e che col limile il ſimile ſi cura . Quinci ſcorger ſi puote , chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare , valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera ; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere , ch'erano in uſo nel ginnaſio , di cui egli aveva avuto la cu ra ; così veggiam que' ,che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici , non preſcriver rimedio alcuno , che non ſe ne fian colle ſtelle , eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno , che'l maeſtro , o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare , o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte , al corſo , e agli altri gilochi , che ſi fa cevano nel Gimnaſio ; ma il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio , e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile Del Sig.Lionardo di Capoa. 249 li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe , che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri ; edun taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili , o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente ,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to , infra i titoli , egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto , o maeſtro del Ginnaſio . Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio , e venerazion l’arte ginnaſtica , la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori , che nulla più ; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio ,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari , ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi , chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate ,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte , dicui cgli era affatto ignorante , e digiuno . Ma ritornando ad Erodico , chc che ſi dica di lui Platone , non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina , ma ſi valſe d'altri , e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero : come ſi può vedere in Ce lio Aureliano , il quale in facendo parole della ſciatica , delle medicine d'Erodico così dicc : Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat , ventrisadhibet purgationem , atque pofl cenam vomitus , quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur , vel aqua marina , admifta thalsa herba,atq ; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet , e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido , il quale ,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia , dalle poche memorie , che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera 250 Ragionamento Quarto 1 niera egli medicaffe , ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe ; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate , il qua le fi diè cura di eſaminarle , ch' Io per me non ho che di viſarne . Egli vien rapportato da Ippocrate , che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto , e diviſato tutte quelle coſe , che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia ; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria , come quella, ch'aſſai leggiera , ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura , quantúque niente informato di medicina egli ſia : baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo ,có buona pace d'Ippocrate , ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici , e fieno ſom mamente da commendare , qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici . Ma che è ciò , che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia , ne v'abbiſogni in tendimento di medicina ? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole , ed anfanie , che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo , foffe offeſo il cervello , che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo ? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico , lo giudico , che ſe altri vi ponetle mano , chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe ; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo , ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie , tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 DelSig. Lionardo di Capoa 291 alera cagione,cofa ,che ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai . Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe , delle quali dee aver contezza ilmedi co per propia fua induſtria , oltr'a quelle , che poſſon ſa perſi dalla bocca dello infermo , molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie , che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do , col quale curar fi dee ciaſcuna malattia , non s'app.2 ga affatto di ciò , che color ne dicono ; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi foſſe , e che , ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit to affai bene in medicina : nientedimeno, per quel che Ip pocrate parimenteriferiſca , chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte , come que' della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina ; imperocchè nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a que’mali , a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna . Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici , i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi , travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj , la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario operare ; concioſliecofachè il ma de , il quale qualche ſpazio di tempo dur.2 ,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio ; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote , i quali per ſe ſteſſi , o bene , o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi , che gli furono dal medico preſcritti : non avviſando , che celeres, ! I i 2 & acu 252 Ragionamento Quarto 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur , &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila ; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento , ed appagato li tiene , inmaginando , che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede , perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio , neque natura , neque fortuna folvuntur , ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici , che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte , Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente , come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano , come chioſa Galieno , affatto togliendo , e parte in altro cambiando ; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato ,che provenir ſogliono dall'incertezza della medicina ; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina d’Eurifonte . Si valſe cgli , come Ce Jio Aureliano dice , di qualche medicamento d'Erodico , e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le inedicine ,che ſi poſſono in luogo d'altre , che mancal ſero porre in opera . Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti ; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico ſcrittore , che ne racconta la vita , dar fermo , e ſicu ro giudicio ſe ne poteva . Ma che unque diciò ſia ,manife ſta coſa è , che parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi , ed altre manchcvoli in parte , tronche li riinaſero ; ed in altre ancora molto, e molto co ſe , o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono ; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che , coll'efler perdute l l'ope 1 Del Sig.Lionardo di Capoa. 253 -- Popere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima , e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa ,egli n'ha ripor tato ; ne lo ſo permevedere , come ſi poteſſer mai, nu Platone , ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia naturale , come Galieno , e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare . Ma chi per Dio paſſerà sé . za riſa la beſtaggine di Macrobio , il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto , e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo , gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico diGalieno ,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate , con dire una fiata infra l'altre ,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno , Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana ; anzi tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode , for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo . Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori , quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate : come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte . Ma noi non badando a'cicalecci di niuno , diciamo primicramente , ch'egli ſi pare certamente , che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio , e nell'eſercizio di ella continuamente involto ; e comechè non ben intelo ſcor 254 Ragionamento Quarto I ſcorgeli ſovente delle coſe , ſembra pure , ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto , & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie , e diverſe ſette della medicina, di quel , che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe , d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti ; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare , e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata , ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno , che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà ;e quinci egli poi di varj , e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic ; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina , ed'un altro nel libro della vecchia medicina , e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta , comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi , e ſpezialmente con quello della vecchia medicina ; il quale ultimo ad alcuno ſembra , che intorno a tal materia .e ' compoſto aveſſe ; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate , ma di Democrito ; ma certamente fuor d'ogni ragione ; perciocchè in altra più nobile , e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe . Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze , e tcmpellante : Ippocrate , par che talvolta alla ſperienza , ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga ; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni , come narra Ga ļieno , ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano , preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica , o da parte razionalc veramente tenuto ha Del Sig. Lionardo di Capoa 25.5 ! + haveſſe ; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella . Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento , che a gran filoſofante , emedico , qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto , che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò , che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata , ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto , ne poco vi s'affutico ; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco , che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che , incontra , or per una , or per altra ſtradì errando , ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta , e finceramente paleſata nella piſtola ( ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom :) fuo , pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito ; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte , che diviſato ſi aveva , avvegnachè negli an ni molto , e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe . Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina ; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali , e tante ſono le dippocaggini di lui , e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti , che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono ; il che egli ancor conoſcendo , e reſtandovi alla fine inviluppato , e contuſo , in njun di quelli riſtr fermame te ſi > 256 Ragionamento Quarto te fi volle , dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello , che nel libro della dieta con lungo , e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento , ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente , egli con venga in primain prima aver piena ,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe : e oltre a ciò ſpiar minutamente , e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino . Sentimento quanto ſaldo , evero , e che non ha di pruova alcunabiſogno , altrettanto volgare , e agevole a penſare; perchè eglimoſtra ,che Ippocrate non abbia per quello , ſe pure è ſuo , cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare ; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto ,ne vuol far pruo va , ſo giugnendo , che ciò non fi ſappiendo , mal ſi po trebbe cibo ,che profittevole abbia ad eſſere , ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi , e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta ;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe della natura , in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor facultà , all'uſo nondimeno ſon concordevoli , e acconci; ciò ſono l'acqua , e'l fuoco ; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe , che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano ; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo , ne ad altra coſa del mondo non baſta ; e la virtù , e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia , c in qualunque luogo dimori : e per l'acqua Con DelSig.Lionardo di Capoa 257 convenevolmente ella ſi nutrica , e creſce . Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no , e ſi vincono ; non però sì fattamente , ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto , eſpoſſato ne rimanga , che niente più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto , toſto il debito nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà , ove nutricar ſi poſſa ; e l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento , e nulla vale ; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata . E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro , che affatto l'uccida ; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro , che non iſcorga pienamente quanto vani , e ridevoli ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj . Vn ſol principio , dice egli ,non baſta ; ma baſterà egli , che sì il dica ? anzi vi ſarà chi vi replichi , uno eſſer ſufficientiſfi mo , ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato , e infra loro compoſte, e ſi muovano : perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano ; ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli , che ſieno il fuoco , e l'acqua, perchè egli non ne ſpiega lor natura ? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a dare il movimento ; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco , e ricercarminutamente diche egliſia compoſto , e chedifferente il faccia dall'acqua : e queſte coſe ritrovate riporle poi per principj delle coſe , come quelle , onde tuce'altre vengono ingenerate: e non già il fuoco , e l'acqua , che non ſon primieri nell'ingenerare . Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende , certamente dall'acqua , e dal fuoco in quella guiſa , ch'e' ne favella , nc huomo, ne altro animal K k niu i 258 Ragionamento Quarto 1 niuno coinpiuto , ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai ; econtraſtino pure , e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua , e'l fuoco tra cſſo loro , che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno : licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi , fuor ſolamente , che due fillabe : conie da A , ed L : di cui altro , che LA , ed AL non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto , eammaſlarla le particelle dell'acqua , che formar ſe ne poſſano , ecar ne , e oſſa , e nervi, e cotant'altre fulde , e dure parti d'a nimali , e d'altre coſe del inondo ? Ne ciò può adoperarli punto dal fuoco ; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle diquella col ſuo movimento , che chiaman dilatante , ſempre partire , e ſceverare , licome noicontinuo incontrar veggiamo : perchè l'acqua vie più liquida , c diſcorrente , e rada ne diviene , non che s'am maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde , e dure . E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma , e faccil diventa , che ſe non , d'aria , d'un corpo all'aria ſomigliante , certamente ella prende forma ; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre il fuoco , e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato . Ma che'l fuoco ,come s'avviſa Ippocrate , dall' acqua nutrito fia , e perchè l'un l'altro vincer non poſla , ſciocco troppo lo mi terrei , ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo . Vuole oltre a ciò Ippocrate , che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco : e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità , e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante , e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre : e cotanto diverſe infra loro , che ne quanto all'apparenza , ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante ; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua , e'l fuoco nello ſtato medeſimo : e ſempreinai cam biandoli , e diſcorrendo , forza è , che le coſe , che da lor 1 : fife Del Sig.Lionardodi Capoa. 259 fi ſeparano , eli producono ,diſſimiglianti oltremodo rie ? fciano . E certamente , com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore , nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe : come chè giudichi alcuno , che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii : e altro incontrario ,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno , che fia più toſto da preſtar fede agli occhi , ch’alle opinioni , o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova , dicendo animali ef ſer queſtie, quelli , e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi , non con tutti : conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo ? ne può ingenerarli giammai quel che non è , non avendovicofa alcuna ,che non ſia , onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo , che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia , che'l meſcolamento , e lo ſcevera mento . Ma più avanti facendoſi dice , che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno : e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento , e lo ſceveramento : e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia : el corrom perſi , e'l menomare altro non fit , che lo fceveramento : e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima , che l'altra : e tutte lien uno ; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura ; ma ſpartamente ciaſcuna cofa , o ſia di vina , o umana ,ſufo , e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte , più , o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento ; il Sole l'hà lunghiſſimo , e breviſſimo ; di nuovo queſti , e noi qucfti ; la luce a Giove , le tenebre a Pluto : la lu ce a Pluto , e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle ; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi facciano , comeche faccian veduta di fa . perlo :ne ciò , che veggono,conoſcono , ma in tutto ciò Kk 2 ogni 260 Ragionamento Quarto 1 . ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe , che vogliono , comein quelle , che non voglio no , perciocchè accozzandoſi , e partendofi quelle quà,e queſte là , fra eſſo loro avviluppate , e confuſe , ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato , e imbard.ato , che manifeftamente non ravviſi in ciò , che rapportato nº abbiamo , effer egli una ſtrania cervelliera , e poco men , che ſpiritata colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò ,che meno intende ? e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine , e ignoranza ; ma anche farne cotanti Calan drini :e tenendo lo ſciocco vulgo in parole , il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto , darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia . Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto , o moſtrato di credere , che in queſti riboboli , cd enimmi d'Ippocrate , e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina , edell'alimento , ch'egli tutti i più naſcoſi , e pregiati miſteri della medicina , e della filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co . Ma ritornando a ciò , che diciavamo, lo m'avviſo , che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare :e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati , in quella guiſa,che fileggono ; e tanto più , chemoſtra ,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj ; da che egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano , parla poi non altrimenti , che ſtabilito aveſſe in prima , che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia , nel . Del Sig.Lionardodi Capoa. 201 nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo , ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto , mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno . Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò , ch'aveva egli in prima detto ; perciocchè ſe l'acqua , e'l fuoco i principj ſono dell'huomo , meſcolan doſi queſti , e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere , che l'acqua , e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo , com'e' dice ; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne , offa , nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima , comechè appiattate , e naſcoſe , nel meſcola mento dell'acqua , e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere ; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne ,ne l'ol fo così menoma , e tritolata , che non ſi parrà ; ma tutta la carne , e tutto l'oſſo diverrà acqua , e fuoco : e queſti che in prima non apparivano , manifeitamente nelloro .ſcioglimento poi ſi vedranno . Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle , chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare : le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co , compongano, e guaſtino le coſe . Ma ſe pur queſto cgli volle intendere , comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono , e ſempremai ſcioglie, e parte ? Convenivaadunque , che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe , le quali ciò poteſſer operare . Ma concedaſi ciò pure a lui : non perciò l'acqua,c’lfuoco , ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò ,che poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua , eal fuoco : e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco ,che empio , e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe , eſfer d'acqua , e difuoco compoſta . E tante, e tali ſono 262 Ragionamento Quarto 1 4 ſono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta , che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle . Ma trapaſſando all'altre ſueopere , contende il Vale riola , e con luianche ſi conforma il Cardano , non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär , overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi : peralcuneſciocche , e falſe dottri ne , che in quello s'avviſano , e altre ancora contrarie a quelle , che in altri ſuoi volumi egli divisò , Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo , converrebbe certamente con dannar come non ſue l'opere tutte , che ſotto il fuo nome fi leggono ; perchè è da dire , che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno , comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate , il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento . Sembra certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore ; imperciocchè ha egli ordi ne , e qualche forte di chiarezza : e moſtra fovente , che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica . Vuole egli in eſſo darne a divedere , che tutti mali , che n'avvenge:10 , da una ſola cagione ſi dirivino ; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo , ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino . Tutti corpi , eglidice , così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo ,dello fpirito , edel bere ſi loſten tano . Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo , vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè : a dire , aria . L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe , che accaſcano alcorpo : ed è donna , e lignora del tutto . Indi egli lungamente fopra quella ragionando , dice delle fue gran virtù , ed opere , Itabilendo in prima qualche ſentenza ; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore , c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni . Dice egli , che tutto ciò she fra’l Cielo , ela terra s'interponeſia , da ſpirito ingôn bro : e che lo ſpirito cagioni il verno , e la ſtate : e che'l cor DelSig. Lionardo di Capoa 263 1 corſo della Luna , e delle Stelle per lo īpirito facciali : e che lo ſpirito alimenti ilfuoco , intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere : c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole . E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico ; perciocchè ſe quelnon vi foſſe , dice egli , che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere ; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo . Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella : e quella ſolamente eſſer cagione a noi della vita , e diciaſcuna malattia , che n'avviene ; intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore ; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo , o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito ; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni , comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc . E quinci egli vuol trar conſe guenza , eſſer molto ragionevole, che ficome la morte , così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano , e che quello calor compreſo , e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda . Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando , ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi : e tutti minutamente gli anno vera . Ma un sì fatto liſteina , perchè ingegnoſo fia , e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno , generalmente ragionando , falſo affatto , e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno , chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo la , che ne mantiene , e ne nutrica : ma l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria , e altre molte coſe , così den tro , come fuora del corpo ; le quali , o mancando , oſo verchiando , o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie . Nemeno al preſente è da tacere , come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti , i quali non cheda Ippo 264 Ragionamento Quarto Ippocrate foſſer provati , anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani . E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero ; non però di meno fon da lui con parole non propie , e ambigue a bello ſtu dio inviluppati , e adombrati ; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto , da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani , com poſtida lui per uccellarne maggiormente . Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma , è colui , che ſignoreggia , e governa ciaſcuna coſa del mondo , e che la vita , e la morte ne porge : per chènon iſpiega egli poi , ficome certamente fargli con veniva , come, e con quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi ? e perchènon ragiona della natura di quello , e diquell'altre ſoſtanze , che , come e' dice , imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole , e peſti lenzioſo il rendono ? E per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire , che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura , e la generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re ; e ſeguentemente gli argomenti ancora , come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi , che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona , la quale , com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte : ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti , che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere , colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica ,o altri ſomiglianti mali , come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare : o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio ? Ma 1 Del Sig. Lionardo diCapoa 205 Ma ſe le ſoſtanze , che collo ſpirito -meſcolanſi , ſon ca gion di cotante malattie , come potralli eglia buona ragić dire , che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino ? perchè è da dire , che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco , e vi ſia infe liceinente fdrucciolato , dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie , e non più toſto le varie , e diverſe for ſtanze , che per quella diſcorrono , e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano , così nelſangue , come nell'altre parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel cuore , o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le moleſtano ; ſenzachè ſon nell'aria varie , e varieme nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate : alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono , fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente , es quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta torre ; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte , e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare . Ora in queſte,e in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc che prender vi dovelle convenevol riparo : e non fare il pancacciere con lunghe dicerie , e vane , e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò , che cgli della febbre và diviſando . Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266 :: Ragionamento Quarto noi grandi ventolit , le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo , ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo , maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue , e sì l'infreddano , e'l fanno intriſire . Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere ? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle . vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo . Ma che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria , in che di verno crudo , e rabbruzzata dalle nevi , comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo , che'l ſangue dall'orrore , e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo : ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo . E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa , il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda ; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio , come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana , c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo . Ma, ſicome egli s'avviſa , rimangano pur calde l'altre parti del corpo , nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no ; non mai tanto però faran vive , e affocate , che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre . Ma troppo nojolo lo nc verrei , ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema ; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 Del Sig. Lionardodi Capo a. 287 eenuto in pregio , e commendaco dal luo chiòfator Galie no , che nulla più : di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando , e in iſcrivendo ſi ſon valuti , e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo , e indicibil fallo il mu* farvi contro , non che manifeſtamente abburattarlo . E queſto ſi è il diviſamento , ch'e'fa nel libro della natura umana ; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia , in ciò che , come faggiamente avviſa , e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc ; e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere ,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco , ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti ; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore , e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa ; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina manifeſtamente na ragiona , come di dottrina da altri già prima di lui ricrova ta , einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere , che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento ne ragionin . Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente , darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio , e inagnifico , che nulla più ; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia tutto ciò , ch'e defidera : giudicando , ch'un si valentemedico , e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi , verainente trattata l'aveſic , licomealla propo fta materia ſi conveniva : cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito , il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir , b.ec loquarde univerſis , ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur , così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier 268 Ragionamento Quarto [ chernixo , e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole , e così vaſta matcria ; e ciò , che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli , egli è il libro più ricco aſſai di parole , che dicoſe ; anzi di poco falla , che tutto parole egli non ſia : e quelle pochiſſime coſe , che vi ſono , così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto , opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc , che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa ; ma , che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello , di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando ; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe , che ci ſono eſſer una , e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a quella nome ; perciocchè altri dicevano eſſer aria , altri fuoco , altri acqua , e altri terra . Soggiugne egli poi , che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze , e ſe gni , ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione , e contradiandoſi nel le parole , davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa ; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto facevano , non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore , ſecondamente che ben parlante egliera , edat popolo tenuto in pregio . Conchiude alla fine Ippocrate , chuom , che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role , ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe ; o che ſembra a lui , che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi , che per altro ; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo . Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia , una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Del Sig .Lionardodi Capoa: 269 Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno : non ſembra per Dio , che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare , e quale appunto quella richiede ? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente uccellare , laſciandone affatto digiu ni della mate ria , ne inſegnandone coſa alcuna di lieva . Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate : qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare ; tanto accennerò , che eglino tutti una medeſima coſa dicevano : e cheniun di loro giu dicava , che o l'acqua , o la terra , o l'arir , o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo :ne di ciò mai fu conteſa infra loro , comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno ; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da prima , allor,che fu fatto ilmondo ,ſe d’acqua , o di fuoco , o d'aria , o di terra . Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate recata ; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini , maſſimamente appreſſo il vulgo , non mai vincer foglia colui ' , che ſa ben la coſa, e che dice vero : ma colui, che meglio con vaghe' , e ben ordinate dicerie Ja fa colorare : eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante , e'l ſofiſta ,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma ? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo , il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali , fe eglino , comc Ippocrate racconta , il ditermina vino Ma che che ſia di ciò , Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo , come Ip pocrate dice' ; ma ſe ciò era , a torto certamente da lui fur biaſimati : dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe , con chiamarlo o arias , o acqua ,o fuoco , o terra ; ſe pure non vogliam dire , che -- Ip 270 Ragionamento Quarta Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero , it che fe ben li conſidera , il fue vellare , che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole . Fin qui e' fi pare , cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato : ora ſe'n viene egli a’ medici , e dice , che alcuni diloro affermavano non alira cola , che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera : ed altri ſolamente flemına ; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati , tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra , o diflemma, o di ſangue , e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante , ed in virtù , e di venga, e amaro , e dolce , e bianco e nera , cd ogn'altra.com fa . Soggiugne indiappreſſo Ippocrate , che molti, emol ti così dicevano , e che altri , ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei ,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe ; perchèmoſtra veramente , che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia , ch'un fertiliffi mo campo , che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca . Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato , e celebrato , che nulla più : ſe una coſa fola , dice egli , l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore , per eſſer ogni coſa una ſola coſa ; e fe pure l'huom mai li doleffe , convera rebbe ſenza fallo , che uno ſi forre il rimedio , coʻl quale egli guarir doveſſe ; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento , pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro , a'quali par propiamente indiriz zato , coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo , che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole , ed anfanie , imperciocchè eglino tenevano , che 1 1 1 o '! 10 Del Sig.Lionardo di Capoa. 271 o'l fangue, o la collera , o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio , del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole , chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice , che eſi volevano , che o dal ſangue , o dalla collera , o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce , e tutte altre coſe , che nell'huomo li ravviſano ; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe , ayer cagione di dolore dall'a . maro , dal falſo , dall'acetoſo je da altre , e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate ?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari : e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è , ſalvo che o ſolo ſangue , o ſo la flemma, o ſola collera : potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe , o dal fangue ſolo , o pur dalla flem ma ; o dalla collera . , ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura ,contrarie ; e moleſte all'huomoingenerarfi , che potranno ſenza fallo elfer cagioni di dolori , e di varie ; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono . Egli doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue , o dalla ſola flemma, o dalla collera , fola,nientealtro ,che o ſangue, o flemma , o collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli , e ne men fare veramente il potea : concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici , il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi , che Ip pocrate vuole , che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie , e varie forme cambiarſi; ed in vero fe le varie , e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica , come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo : no di ſangue formate , e d'eſſe nondimeno s'ingenera il să gue r . 272 RagionamentoQuarto gue, convien neceffariamente dire , che varie , e varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue , fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare ; e cosi ſomigliante mente della collcra , e dellaflemma aurebbon potuto co loro filoſofare , Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare , chel'aria ſola col riſtrignerſi , e coll'allargarſi , e con altri , e altri movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare , e ſangue , e carne, e oſſa , e nervi, c altre , e altre parti cosìſalde , come diſcorrenti dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori , e di malattie , alle quali faccian , meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso , e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono , che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe , cioè il corpo : ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore , ne malattia , ne rimedio alcuno giammai , e che a fare diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente ſtritolato , e partito : lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano . Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno , il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo ; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia , ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione , che l'buomo ſia ſolo ſangue , debba mo& rar , che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie , e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno , o qualche età dell' huomo , nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri . Del Sig.Lionardo di Capoa 273 aleri . Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento nel favellare , avendolo egli ſempremai per coſtume : Io l'addimando in prima , perchè ſecondo lui la collera , il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel comporre varie , e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura : e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente ? e s'egli riſpondeſſe , che non già col cambiar natura , macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono , lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta , c tanta varietà dicoſe ; e addurrei per eſemplo , che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare . Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate , come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare ? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe , delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo : Io per me non ſo , co me ſarà egli ciò mai per moſtrare ? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione , che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi . Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio , il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura , per grandezza , e per movimento , con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe . Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate : ſe ne meno il caldo , il freddo ,e l'umi do , e'l ſecco ,fe temperati eglino non ſono ,non baſtano a far la generazione , come aurà mai vigor di farla un ſol principio : Io per me non ſo , che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate ; doveva certamente egli , il che mai no adempie , provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri ; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon 274 Ragionamento Quarto 1 · bon riſpoſto quei filoſofi , che clleno , comeche ten perate ſi fingano , non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere : ficomenes terra ,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza , e tanti , e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re : imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo , il quale in particelle , o ſia già diviſo , o divider ſi poſsa , le quali ricever poſsano parimente varie , e varie grandezze , fito ,figure , eordine, può ogni coſa produrre , ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando , potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare . Ma non altrimenti , che s'egliavuta già aveſse la vitto ria , faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro , determina temerariamente la quiſtione con dire , che eſſendo la natura dell'huomo , e dell'altre coſe chente , e quale egli ha diviſato , non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe , che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato . Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria , e ne riceva l'applauſo da Galieno , il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima , ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni ; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi , delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli , che nulla più ; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria , non ha villania , che ſi diceſſe mai a triſto huomo , che lornon dica . Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo , vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore , la fredezza , la ſiccità , e l'umidità nel corpo per loro ingenerato . Ma cotante altre , che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono ? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi , come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1 . ſiad Del Sig.Lionardo di Capoa. 275 fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro qualità ; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo : e dall'aver ciò traſandato Ippocrate , avvien , ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il leggiero , e diſcorré te caldo quelle coſe operare ,che a ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance , che in diſtruggendo fi l'umancompoſto , tutti e quattro i già detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino ; e ciò vuoľ anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna . Ma le egli ficomea caſo , in fretta , e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole , lo porto opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri , che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non , miga ſemplici, ficomee'vuole , ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue , la Flemma, la Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to , che ſi convenga, l’huom viva in ſanità :mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali . S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar , come poffan que' quattro umori tutte le malattie ingenerare :maciò fa egli troppo groſſamente , e generalmente ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne ; e dopo queſto torna di bel nuovo alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li , di natura , e di nome fra effo lor differenti ; la qual di verſità immagina egli di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e dalla diffomiglian za del tatto , che ſecondo lui vi s'avviſa . Ma s'aveſſc egli mai poſto mente a cotante coſe ; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre , ch'avendo una medeſima natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi , ſicome le Fraghe , le Ciriegie , le Azzaruole , le Corniuole , eľVve , e i Fichi , certamente , del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto . E più avanti dovea fomiglia temente avviſare , che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to , che i vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe . Ne la ragione il con trario ne addita ; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito , o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe , che dalla varietà del toccamento , poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa avviſarfi , ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano , tutti egualmente nelle vene , e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono , e in una maſſa s’uniſcono , nella quale, poco , oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore , dell'umidità , della ſiccità , no aurem di forza a confeffar , ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle prime , e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità , come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi ? e ſe l'umidor del corpo altro non è , ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure , egli dourà concederſi , che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi , dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente , e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi , e fuor di quello tutti fimilmente dalla circon Del Sig. Lionardo di Capoa 277 circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati . Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate , ſicome e vuole veramente ſi foſſero , e alcun di elli , o calorc,o freddo eccitaffe , impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo , o caldo : imperocchè ſe o ſpina , o chiodo , o altra pugnente , o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante , e freddi riprezzi , e ardenti febbri ecci tare ; e pur la ſpina , il chiodonon per tanto , o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano . Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma , dice egli , ad huom da raſli giammai , certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo : veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo , o d'eſtate , o d'inver no, o digiorno , o di notte ; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate , come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti , e più celebri fra gli antichi medici,non avervi medicina , che vaglia a vuotar determinato umore , che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine ; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo , forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche , e novelluzze ; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi umori compoſto : c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini ſanamente a compren dere , come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge . Credettero , dice Ippocrate , coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore ; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo , che quel folo umore; ed altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non ef fer al 278 Ragionamento Quarto 4 fer altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana . Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate , e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni , dicendo non mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere inſiemcmente ſcappati fuora ; e vuol che quantunque volte huom prendendo medicina purgante la collera ſe ne muoja , vomiti primicramente la collera , ap preſſo la flemma, indi la malinconia , e finalmente il ſan gue di forza ancordalla purgazione ſia tratto fuori , e ſo migliante avvenga nell'altre purganti medicine . Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe altrui uccellare , o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero , fenza prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione , cioè , che il medicamento entrato in corpo vada da prima movendo , e cacciando fuora quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra . Aggiugne per iſpianar la materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli ; dalla terra per lor nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli ; c ſomigliantemente po tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma coll'ordinamento , che teſtè accenna vamo : cioè , che la medicina purgante la flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori , e finalmen te il ſangue , e cosìſimilmente tutt'altre ; ma dagli ſcan naci prima il ſangue , poi la flemma , e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia , e ravviluppa ; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere , o mani , e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra , o altro , che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra , macon altro ma giſtero di quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate . Evvi nelle piante una fotcililina , e volantes ſoltan DelSig. Lionardo di Capoa 279 ſoſtanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali , la quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici ; or tra per lo movimento d'eſſa , e per quello , checontinuo dal Sol ri ceve la terra , e damolt'altri minuti corpi , che perla lor focofa, e attiva natura , a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano ,e la commuovono , molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare , e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa cambiar figu ra , e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere , in lei traſmutandofi ;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi ; pongaſi mente alle me lagrane , che a volerle aſſaggiare ritroveralli , che le ſue fibre portano a' granelli un amarisſimoſugo , il quale , o dolce , o alquanto agro divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido , e ſcipito ; e ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta , che colte da propj alberi , e ripo ſte ſoglion venire a inaturezza : alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci , e ſaporofi, ficome ſono le ſorba , le neſpole , e le melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante , acciocchè fi nutrichino ; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura , comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro , cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore ; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato : ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra ; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver fi colori , e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper , eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe , che aprono ledelicate boc 280 Ragionamento Quarto boccuzze de'vaſi facendo , da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto , e corrompendolo ; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali , chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi ; e quinci avvien , che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono , e diſcorrenti. Finalmente lo immagino , che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno ,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari , aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento ,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli , e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc , ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò , che altrove più d'una fiata racconta , altri ſughi aver egli oſſervato recere , c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori , i quali eglinondimeno vuol , che nelle vene non abbian luogo ; sì cheanche ſecondo lui , non è fano diſcorſo , ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene , perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno , ſtillarli sì fattamente il cervello , e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare ? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità . Orlo , direi ad Ip pocrate , e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue , cd aſsaggiſi , chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro ; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo , oveè la malinconia ? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni DelSig.Lionardo di Capoa . 281 tal diſcerniméto al palato ; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga ,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima , novi do vevan eſſere . Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo ,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero ; ma s'egli ciò vero foffe , abbiſognerebbe , che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc ;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa , la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do ; ma non miga egli è vero , ficome per coloro ſi eſtima che quella , ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia , 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa , ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata , la roffa parte in nera , e la nera ſcambieraſli in rof. fa ; il che avvien dall'aria , la qual movendo le particello ; della fuperficie del ſangue , le fa così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe , due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te , e bianca , ne fa chiaro veder , ch'ella fia chilo , in fan gue non ancor traſınutato : l'altra gaglioſa,e tenace , di cui ne fa purmenzione Ippocrate ; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato ; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare . Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare , che in quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non , mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore , nepur quella parte , che vi va a nuoto ; ne in quell'altre , che per Nn avvi 282 Ragionamento Quarto avviſo di lui dalla malinconia provengono , il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo ; ne men quella parte d'ello che , nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate , ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva , in altre opportunità potea farne eſperimento . E più di lui era debito di Galieno tal fatto , nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate . Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate , perchè elle dicano , effer flemma l'huomo ; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere , di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata , di quella il latte , diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando : tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue , dico della parte ſpiritofa ; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto , e ſenza penetrare , o diſaminar tanto che bafti la ſua natura ; e moftra , che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide , licome è l'aere,e non già fra le umide , com'è l'aqua : il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue ;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe , come delle parti ſolide , la natura , gli uficj,e le ope razioni ; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello , la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole , e ſcempio ftabi fire di razional medicina . Ma il buono Ippocratc , come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto , e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile , e fermo , paſſa più avanti nel fuo libro a nar DelSig.Lionardodi Capoa. 283 narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde , che dal toccamento ; ed afferma coſtante mente , cha la fiemma,del ſangue , e della collera ſempre ha'l tocco più freddo ; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli , che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche , per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature , e altri mali dalla flemma cagionati , che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini . Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere , ele interiora ſon riſcaldate , non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici , e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano . Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto , e ſcorgeſi, che l'eſtate , ſe avviene ad huom qualche catarro , qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici , e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po , ne in corpo , ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere , dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle : il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza , che in ſottile alito ,altro tempo ſvaporar ne ſuole , vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol , che ancor ſian copioſe le flemme ; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo . Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim , chefanno in corpo le fléme , e chi loro da luo go ? Ma la ragio , che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 ܐܐ 284 Ragionamento Quarto : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo , ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga , anziche no , ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici , in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui , dic'egli , fogliono avvenir diffenterie , e vacuazion di ſangue per le narici , ed è il ſangue più caldo , e roſſo , che mai ? Certamente come altre fiate abbiam detto ; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole , e dolce anzi che no ; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate , le quali eſsendo aſpre , e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina , e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo , e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare . E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina ; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero , ne mai imbroccato aveſse al legno . Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia : imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele ;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno ; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole , e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito ; ma che chc ſia di ciò , non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori , tutto il ſiſtema deila ſun Del Sig.Lionardo di Capoa. 285 - ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio , e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene , e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida , che loro non già inortal coſa , ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto . E per lo meno cre de altri , che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta ; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo , ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti ; c altri , ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio . E certamente ſe mai vero foſſe , che Ippocrate , come An drea antichillimo autor riferifce , miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre libreria di Gnido , egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì malamente compilare le aveſſe ; e quinci ſia altresì avvenuto , che tante varie , e diſcordan ti dottrine , e opinioni per entro vi ſi ritrovino ; e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro , che di accordarle tanto lungamente ſi ſtudiano ; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco Ottomanno : Vercor ne ple rumque in iis , qui confultò inter fe diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò , lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli , cui caglia di chiarirſene , non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate , quante d’uma cieca, e comun fama ne han ri cevuti ; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro Petrarca ,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel di Coo , che fe vie miglior l'opra , Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra 286 Ragionamento Quarto 1 nfra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea ;i quali non men , che di tutte altre opere d'Ippocrate , tenner pochiſſi mo , o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero ,e ſmar rite tutte loro ſcritture ; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc , dalle reliquie , chene' libri di Galieno , e di Celio Aureliano , a ' dinoſtriſe ne riſerba no ; e per quelle poche memorie , ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo , e medico , quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno . Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe , che ſu d'er ſi fe Lico , il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente , e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro , comechè io non mi dalli briga di favellarne ; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco , o niun pro trar ſe ne poſla ; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica , alla milizia , e ad altre arti , e diſcipline ; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie , che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute ; altri , come avviſa il Santoro , non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno , e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte ;di fetto , ſenza fallo ,gravisſimo ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole , e leggi in qualunque arte , emaſlima mente in medicina ; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove , fur da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione ; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta qualche argomento , ritroveral fi eſſer poco ſaldo , o inefficace ; anzi loventi fiate ridevo le, e frivolo ; altri ſe ne ritrovano ,la cui dottrina, o aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando , falſa , e fal lace ſi ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi , e oſcuri ,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri trar Del Sig.Lionardodi Capod . 287 trarrà coſa , che monti un frullo . Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate , che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto , a non ne lo proverbiaſſe , e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio , ed error grave l'oſcurità in qualunque materia , egli è ſenza fallo graviſſimo , ove ſi tratti dimc. dicina ; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa , e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni , e nocumenti cagione ; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe , che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni , dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere , e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo ; ma quafi ſotto bel velo ricoverti , e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta , ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla ; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a interpretrarla , quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro , e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano . Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello , e fottil modo ben farlo , cioè rimanendoſene in pace , ſenza ſehiccherarle carte , o por tanticervelli a partito per intender la ſua mé te , con si grave riſchio de' poveri ammalati . Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene , equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti ,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare ; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri , e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato , e in quella sì confuſa maniera , que' catti velli l'olio , e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi , e regole di ciò , che fi dce nell'arte eſe guire , è tanto biafimevole , e ſconcia , che nulla più ; e ſe Principe mai , o Repubblica in dettando leggi , e ftatuti ſi valeſ. to , 288 Ragionamento Quarto valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre , in quai garbugli, in quali intrighi, in quantipiati , o conteſe ſe ne viverebbe quella malnata Città , quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant animidociles , teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli , a quel,che poco avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto : Decipimurſpecie recti : brevis effe laboro Obfcurusfio : Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate , per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre , sì chenon aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele , ed' Ippocrate , e de'loro eſpoſitori favellando : ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint . E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis : cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam , & immenfam artem contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta recondere , quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id , quod exprefsè docent, proponere , ut figna , du notas , quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto , o ad accagionarli Ippocrate ; imperoc chè qualbiſogna , o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to , e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti , e sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe , c di niun rilievo ? E qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa , e laſciarnu cento , e mille , cuiabbiſognerebbe , che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo , a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento . Ma ſe pur po telle Del Sig.Lionardo di Capoa 289 teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità , che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta , degli umori, degli alimenti , in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore , Hippocrates anigmaticè , dw obfcurè adeo loquitur , ut divi nandum magis quandoque , quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo . Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare , che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo , e oſcuro conoſcinicnto , ch'ebbe di quelle coſe , che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure , c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene , come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode , e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono , comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano ; e per ciò è avvenuto , che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno : imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono ; eſſendomanifeſto , che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda ,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti , e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia , ch'egli avea oſſervata, non torbido , e confuſo ſtile;ma cõchiaro ,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica , e vieta, e poco inteſa parola : impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda . Egli è adunque oſcuro , ove di ciò che non inten de , imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali , c diſcender omaia qualche particolarità : lo dico , che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina , come poſta lu la vet Oo t2 290 Ragionamento Quarto 1 1 ta d'un erta , e lunga , e ſtraripevol roccia ,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita ,ei molti , e gravi peri coli , che vi s’incontrano per huom pervenire ; e tale,e tan to , che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima , ei, che dovea far altro , fe non ſe a tutto sforzo . agevolarne il ſentiero ? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna , che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate , chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica , al lettore altrettanto ne aggiugne . E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro , che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te ; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto , come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto , e ritornare in ſalvamé to ; quantunque v'há chi non gliele vuol credere , e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri ; e ne ci reca la ragion dicendo , che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate , cotante quiſtioni , e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti , per indovinar , che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate ,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po , che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina , opportunamente impiegato ? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità , a che perder parole per dire,che , acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio , abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo , de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte ? O utiliſſimo , o raro , e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta , e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo ? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più Del Sig.Lionardo di Capoa 2.91 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance , che con faldezze di dottrina , cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti , che incontro gli avventa Giuliano : non contien al tro certamente , ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa , ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina , maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione ; ella è tales : le vacuazioni , che per vomito , o di ſotto ſpotaneamente avvengono , ſe fian tali, quali eſſer denno , giovano , e age volmente ſi collerano ; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee , giova , e ſi tollera . Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza , e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo , cheſe l'arte , o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo , fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro , ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe , e dell'inventore , come Galien lo dice , della razio nal medicina Ippocrate ; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi : A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina , sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie , e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo ,egli abbiſogna , ch'a ſuomal grado ,alla fallace empirica abbia ricorſo . Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo , che molto bene non ſappia , che al lor , chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta , che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente , &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate , che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo , e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora , che l'umor vuotato non ſia tale , quale vacuar ſi dec ;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire , che dopo la vacuazione di qualche materia , la quale niente aveſſe che fare colmale , riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per -- 292 Ragionamento Quarto per qualche vacuazione inſenſibile di ciò , che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia , ſe talora ne’più gravi , e pericolofi malori , quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano ; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento ,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli , e nell'ufcir fuora , e nel mutar faccia , fito, o movi mento que corpicciuoli , onde il mal ſi cagiona : a pruova conoſcendoſi , che huom ſuda , vomita , e manda fuori per altre parti quantità d'umori , e ſi ſgrava immantinente dal male ; che ſe non uſciſſe allora o pietra , o altro , che'l ca gionaſſe , ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci , che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per vomito , e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino , che guariſcono ; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera , il quale in altro non conſiſte , che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza , la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide . Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite , ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire , ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli , e purgagioni , ed Jorinojoſi , cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare ; giudican do così imitar l'opere della natura ; e per aver talvolta av viſto , che qualche febbre , o altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue : comandan poi , che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio , nell'accreſcimento ,e nel vigo re delle malattic , ſe non ſe dall'aver eglino veduto , come chè radillime volte , che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato , e riſanato qualche infer mo ; e queſto è quello , s'io non vado errato , che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quel DelSig. Lionardo di Capoa 293 qnelle materie ſi vuotano , quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo ; concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte , per la quale ſi vuotano , e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi ; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa ; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia , e ripiglia Ippocrate dicendo , ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per lui provata , ne dimoſtrata in prima, cioè , che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente , o dal cambiamento degli umori in altra qualità di quella , che in prima aveano , la qualvien da'medici, corrottela , chiama ta ; ch'egli però giudica ,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione . Coſa , la quale foggiugne Giuliano , in modo veruno in tender noir fi puote , ne è vera : imperocchè fe ciò foſſe , eglinon ha dubbio , che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi : ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia : e una ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe ; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse , effendo ciò in ſua mano , comeilmal l'affale , così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro , falvo che fa ſola vacuazione , la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare , ſe'l male ſarà cagio . nato dal ſangue , e fe dalla flemma , e dalla collera ,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire , che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio ; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale ,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli ; il che certamente non avviene ; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze , coſtantemeure altrove il niega . Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali ,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe , le vacuazioni riefcono nocevoli , non che 1 294 Ragionamento Quarto che infruttuoſe : e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno , elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere , che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde , le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate , e ſconce ne vennero ? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo ; e allor , che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente , che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina ; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione , e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione . Ma per tacer della ſtagione , dell'età , e del paeſe , onde niuna certezza trar ſi puote , con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia , e qualſia quella parte diſcorrente , che cagioni l'infermità ? Credeſi la collera cagionar la ter zana : la malinconia , la quartana : e pure queſte alla va cuazione , che penſan fare i medici di tali umori , non ce dono :'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù , e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione , che egli lo tra sformò sì , che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri , egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien , che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli . Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto , e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta , e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero ., e materiale , e più li ſten de aſſai di ciò , che Ippocrate s'avviſa ; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo , sìfatte perſone dovreb Del Sig.LionardodiCapoa. 295 dovrebbono andaralpeggio ; il che falſo ſi ſperimenta ; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate , s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata , comepofcia fecero i ſuoi chioſatori , dicendo , che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente , nepofare : perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo , e'l fangue , c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo , ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato . Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti , e ſalde del. le loro foſtanze , checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p . la continua formentazione di quello , che in aliti lotciliſi- . mi mai ſempre gli va ſciogliendo ; e quanto più abbonde vole , e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo , e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni ; e quindi ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo : e comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo- , verfi , e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono : 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo , cdivi fermatofi, or una , or un'altra ſorte di mali , e talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na ; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare . Appreffo fålla egli gravemente , ſenza dubbio , in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni , o pur colla dicta ; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta , comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta , e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco ,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu : i avvertimenti . Im 296 Ragionamento Quarto Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi ; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare , confonde quelle materie , che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare ; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina ; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole , alle quali fa meſtieri d ' eccezione , le dovea egli almeno accennare ; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò , che le tant' altre bazzicatu re , in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia , come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è , che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina , che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo , ma un poco più largamente x Chiè , che non conoſca , che nell'acceſſioni della febbre , non ſi debba a niun modo cibare il malato ? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar , ch'alcuna fata anche ciò far colz venga . Nel duodecimo aforiſmo fi da briga , e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie ; ma in materia di sì gran lieva, e onde , com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro , e intral Lito favella , e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine ; tralaſciando non per ſuo mal talento , ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli , egli è molto ſcarſo : recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo , il male abbia poco a durare . Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori , alle fecce , e ſpezial mente all'orina ; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue ;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni ; e ro , come Del Sig. Lionardo di Capoa. 297 comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi , che appena tranghiot titi , di preſente ſi orinano : e agli ſparagi , al Terebinto, e ad altre coſe , che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina . Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate , cheivecchi portano agevolmenteil digiuno ; e quindi paſſa a far paro le dell'altre età . Ma queſto è un'errormaſchio ; imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro , ch'a’vecchi tra per la lor debolczza ,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi . E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo : inediam facillimè fuftinet media etates , minus juvenes , minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici , cioè , che coloro , i quali cre ſcono , abbiano in copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo , alorimenti il cor po ſi conſumi . Ma non avviſano coſtoro , che alcuni peſci creſcono oltremodo , e non che eglino caldi fieno , anzi só freddi si fattamente , che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono : come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani : ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo , e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella , per la cui opera ben ,' digeſtendoſiicibi , e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te , e poi diterminare ; ma eglia ciò non badando , indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino , che di verno , o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime , ei louni lunghiſſini ; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba ;concioliecofachè l'innato calore allor creſca , cui maggior cibo certamente abbiſogna , e che di tal coſa nes fan pruova l'età , egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza : ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile ; ma ab biz Рp 298 Ragionamento Quarto I biaſi pur ciò per niente , egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio , che quantunquevero in tutti huomini , per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno , e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi : la ragione nondimeno , che di ciò e' ne reca è falſa ; concior fiecofachè falfo apertamente ſia , che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle , nemen nulla montcrebbe : non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati , chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele , che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe , e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe , alle più naſco fe interiora ſi rifugga ; e certamentecotal ſciocca filoſofia , che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno , e freddi di ſtate , per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi , comeché tali pajano a noi , che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro . Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi , che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza , che di ſtate eſce fuori , la quale da al ſan gue col movimento il calore : non però di meno , come fiè accennato , manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte , non altrimenti, che quelle di fuora , effer più affai calde di ſtato , che diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo ; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare ; il quale dice altrove , che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore , eche avvengano lunghe , e cagionate da tardi , lenti , e freddi umori le malattie . Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere , immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire , che di ftate ſian calde , maggiormentc che diverno le viſcere , di quel caldo , ch'egli avveniticcio , e foreſtiere chiama ,ma non già miga deicaldo innato . Chiama egli caldo innato una i 1 1 DelSig.Lionardo di Capoa . 299 remo . una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata , e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato ; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni , e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco , anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue ; perclié folea dire l'Arveo , altro non eſſere il caldo innato , che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum , ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium , præfertim pulli in ovo luculenter conftat : utentia , multiplicare fit fupervacuum . Argomento manifeſtiſimo è di ciò , ch'io dico lo ſcorgere , ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale , immantenente ogni calor viene ella a perdere : e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue , ben toſto dal cuore , dalle vene , dall'arterie , da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano , e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le , il cuore effer fonte del calore : ne ſo lo vedere , come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte ; imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo , che l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue ( e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo , convien! inveſtigare , onde il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie , e nelle vene quello mantieneſi . Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi , e caldo continuamente ſi mantenga , perlo movimento , che dal cuore , o dall'arterie egli conti nuo riceve ; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore ; anzi prima che'l cuore , e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo , caldo vi ſi ſperimenta il ſangue ; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro ; ma chiunque P p 2 pon 300 Ragionamento Quarto pon mente alla materia , onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe , e di frutta , e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte , e ingenerate ; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente , che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro più , o meno il calore ; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote ; ma d'altra affai più nobile , e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue , la quale in parte è ſomiglian te a quella , che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali ; onde avviene che lo ſpirito ,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi ſuole . Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia , e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare ; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella , la quale diliberando nel fan , gue i ſemi del fuoco da que'ritegni , per li quali non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco , v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno , o molto pochi, o in sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia agevolınéte ſvi luppare . Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per manevole negli animali il calore , il quale , or naturale , or non naturale porrà dirſi, fecondochè convenevole , o non convencvole e farà alla natura di quelli . Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo, intanto ,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fan DelSig.Lionardo di Capoa. 301 ne fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate , portati per Ga licno . Ma per ritornare al noſtro propoſito : di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante , la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione li bee , e per le ſoſtanze del volante . ſalc , che'n quella , più , che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano , sformatamente la formentazione del ſangue , e in eſſo in prima , e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore ; allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto , e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore ; ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue , e le viſcere , maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente , che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono ; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero : Dicono che agli kuominidi Lucu morie : coſa mirabile , e incredibile , e che ha più della favo la , che del verifimile : fuole intervenire , chequelli per ciaſ cun'anno , cioè a' ventiſette del meſedi Novembre , nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio , muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino . Ma che che faſi di quelli : lo dico , che ſe Ippocrate , e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare , avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione , per la quale di verno , e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco , e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa , e fi dilegua ; cf fendo ella , comechè accender non fi poffa , vie più dello {pirito delvino volante , e ſottile ; e per mancamento d'u pa co 302 Ragionamento Quarto na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene , che gli huomini, co mechèpiù caldi , men gagliardi ſi ſentano , e atanti della perſona . Ma nc .men ſe ſi concedeſſe a Galieno , che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali , ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate ; concioſliecoſachè , o innato , o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi .nell'animale , conſumerà ſenza fallo il corpo diquello ; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel precedente aforiſmo recata , converrà certamente dire , ch'a' giovani più ch'a' fanciulli , e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere ; ma ciò Ippocrate , e Galieno fe'l vedano , che per altro poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati ; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per creſcere , sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro , e dicibo gli animali , nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione , convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi , che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio , è quel che ſovrabbonda ; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore , non ainmalino co sì , come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi , ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato , ſalvo che per gradi . Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc ; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente , ſuppone le due ſorti di caldo ; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire . Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color , che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli( purie , i qua per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco , e l'altres viſcere ripiened'acquoſe , ed unnidiſſime ſoſtanze , lo per me li Del Sig. Lionardodi Capoa 303 me non sò , comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi , fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative ; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe , le quali o figiu dicano , o giudicate interamente già ſono , non ſi debbano muovere, e ne con medicine , ne con altro irritare , ma lila fcin così ſtare ; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate , che ſi leggeſſe nel libro degli umori , ed in altre ſue opere , e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento ;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga , cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa ; e nel vero chi ignorar mai potrebbe , avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina , che ad huom perfettamente guarito della malattia , non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo , ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere ? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri , o poco , o nalla vi badavano ; e ciò per mioavviſo avviene , perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande ; come è il vuotar con ſalafli , e con purgative medicine ; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli no fare ;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle ? ma chi ben riguarda la coſa , apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò ,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate ; e queſta certamente è la cagione , per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò , dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni , per li quali ravviſar poſſa il medico , che'l male interamente lia andato via ; c que'ch'egli altrove , e Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo ,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer puote . Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane do po le A 304 Ragionamento Quarto po lemalattic ; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna , chenon ſia a tutti ben noto . Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee ,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo . Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te , non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume , imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare ; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti , e per le mordacità de’lughi , o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel ,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro , che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto , e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie ; ma da’ſeguaci d'Ippocrate , e diGa licno , come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto . Mów la colpa , s'Io pur non vado errato , in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito , e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze ; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo :nel cominciamento de’mali , ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato . Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne , egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione , che giuſtamente da più avveduri medicanti , comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato ; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento , ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno , che Del Sig.Lionardodi Capoa. 305 che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta , che poco addietro corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male , che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia ; ſe di quel , che per li ſalaſli , come ſpiega Filoteo , o pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò , che in prima egli ha detto ; o diquel che fafli , e per gli uni , e per l'altre ,comevuol Galieno , il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata , dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate , e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì , che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita ;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti , e groſſo calice d'ama riſſimo , e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto ;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate , ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo . Ma poſto , che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate , e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento , l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando ,nel far grandemente vuotare , tutto il ſapere, e'l va lore del medico , e l'eccellenza dellamedicina confiftere ; e RI pure 306 Ragionamento Quarto - pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni , ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello , giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede , che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore , le conſuma poi , ove non fa meſtieri ; ma non una , o due fiate egli in ciò ſi vede fallare ; e ſimigliantemente ciò , che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo ;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano , e ſoverchio da Galieno ,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori :onde non è da farne più motto . Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi , che lo immagino , che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta , ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè , che ne reca alcuniegli ſovente , che colla materia , la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento , e dal non diſaminar lui bene le coſe ; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele , che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano ; e quindi avviene , ch'egli tratto tratto diſguiſato , econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna , a guiſa de’noſtri Romanzatori , i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano , e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante , e non v'increfca V dir , che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo , ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca , Così mipar , che la mia iſtoria quanto Or quà ; or là più variata ſia , Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così Del Sig.Lionardo di Capoa 307 2 L Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo : il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera ; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale . Egli l'ha indovinato certamente alla prima ; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva : e allo incontro rimaner in vita altri , che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie , che gli infermi più moleſtia in ſonno , ch'in veg . ghiando patiſcono ? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano ; oltr’a ciò le terzane , e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am , malati sformatamente annojare : e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque ,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda , di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori , o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate , che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta , vada ben la biſogna . Ma che è ciò per Dio , ch'egli dice ; Io vo conceder , che talor vaglia , ne vi ha chi il nieghi , ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare : eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima ; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no , domine ſe ſarebbe male ? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo : buona coſa è , che i farnetici dal lor farneticare riſanino ; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno , E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate , e quanto Q92 con 308 Ragionamento Quarto 2 $ con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre , e a dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante utilità ,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare : fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim , abfit difto error , an , & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, & repentinumfit auxilium , adeoque corpori , acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum ,placidifſime fomne Deorum , Paxanimi , quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces , reparaſque labori . Canta Ovidio ; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum , requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio , o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi , ond'è la vita aſpra , e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo , e rio , Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore ; ne altro rimedio ritrovò Erminia ( appo il maggiore deno Itri Poeti ) .a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià , che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete ; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son . DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori , e l'ali Diffefe fuura lerplacide , e chete . Ma comechè ciò fia vero , pocomontava a noi certame te il faperlo , fe non fappiamo inſieme chenti , e quali ſiano irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti , onde a’malati ſi può chiamare il ſonno ; e comechèoſtinato ingannarlo : e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato ; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre , e fe , che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi : conciofoffe co fa , che chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo : nova ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis , per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur . Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli poi al poſtro Aforiſmo , dice per fenté za d'Ippocrate : ad praxim revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur . Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo , il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe : Som nifera quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt ; fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum . Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum ,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff . Non igitur folum defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur ,fed oportet ut euminrelligatis , fcut medicum ex pertum , qui ex fpiritu medicina locutus eft , non ut Humori Ba, qui ignorat quid fit fomniferum ,fed ut artifex . Mache mivo Io più nel farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo , i quali di sì picciola levatura ſono , quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo tranquillo , e ripofato , e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro , e'sì gli giudichi cutti , e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia 310 Ragionamento Quarto 1 9 1 glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo :eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe , eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre , il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni , e a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire , e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa . Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa , e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto , gran coſa pur cgli non fa rebbe , come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole . Ma incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto , o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo , ficome quando p ſoftenerche'l , ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate , vuol farne a credere colui aver avu to in animo , che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano ; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero . Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori , eglino ſiſarebbono , fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco , 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano ; intanto , che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno , e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere . Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento , c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice , che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro , ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte , dicendo ; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia , innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che DelSig.Lionardo di Capoa 311 che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo , abbiſogna anche dir , che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione ; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide , che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio ; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono , o gravide , o non , gravide , che ſiano elleno , foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare : il che avviene ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana , della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo , che mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia . L'Aforiſmo , di cui meritevolmente dice il Santoro : ne , mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum : cioè, che co loro , de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica , egli è così apertamente falfo , che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta , e ripiglia fortemente alcuni antichi medici , che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità , e dice eſſer errore d'Ippocrate , o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire , o nella veſcica , o nelle reni ; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno , falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa , ſen za aver avuta mai menoma pietra , o nelle reni , o nella ve fcica . Soggiugne oltre a ciò , che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa , che non abbia l'orine ſabbjo noſe : e pure rari fon coloro , che han pietre nelle reni , e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica . E oltre a ciò egli racconta , che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa , e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra . Ma non menofalſo è quello altro aforiſmo ,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina , qua le è quella de giumenti, o hanno attualmente , o auranno di preſente dolor nel capo . E quell'altro , che a coloro , a ’ qua 312 RagionamentoQuarto quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore , ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro , di cui Giulio Ceſare della Scala , così a Girolamo Cardano ragiona : nequemés ægrotat , ut falfo voluit Hippocrates , cum dolorem , quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione , checolui poi ne recà ſoggiugnendo :fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra . Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo , che i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna , e le fem mine nella ſiniſtra ? E di quell'altro , che ſe la donna aura conceputo maſchio , ſi vedrà ben colorita in volto ; mares avrà conceputa femmina , farà pallida ; e di quell'altro : ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà ,co prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca , e alle nari , ſappi, che per ſe ella non è ſterile . Taccio altri , altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re , che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro , ſe vi pone sì fatte fraſche , che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina ; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano , e degli ufici di quel lc , e del modo , col quale adoperano , come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri , che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola . Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe , ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata , di cendo , che quelle parti , che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca , com'è la veſcica , il capo , e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re , 1 1 1 . te tras 1 i DelSig.Lionardo di Capoa. 31 ; te traggono , e ſon pieni degli attratti umori ; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae , e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra , e adata tandovi una fiſtola ,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole , e che le ventoſe , le quali ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne , ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole : Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG- , πότερον τα κοίλα π , και εκπτ . παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές . συνη μία , δύναιτ' αν μάλιστα , οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε , και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς , υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε , και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς , ρηιδίως αναστάσεις αν ό , τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται , προς το έλκαν από της σαρκος , και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε , και κεφαλή , και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici . Non occorre , che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche , potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori , che parole . Egli vuole , che la veſcica tragga l’o . rina ; il che tanto è , quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po , e della matrice . Ben ſi pare poi , ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe , ch’elleno adoperaffero per traimento , ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto , e inſegnato le ſcuole ; ma qual maraviglia , che ciò Ippocrate aveſſe affermato , s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo , e ſe ne nutrichi : Távce δε , σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι , ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ , και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής , αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quan Ι 314 Ragionamento Quarto 1 quanto gli faceva luogo per la medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa ,che molte, e molte coſe di notomia , che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale ,igno te affatto gli foſſero ; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie , le itrade del chilo, l'aggira mento del ſangue , la fabbrica , e gli ufici delle giandole, e altre , e altre molte coſe , delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai ; nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate , non ſi può negare , cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel , che noi fappiamo , il che da altro certamente non nacque , che dal talento natu Tale , che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli , e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina , molto neceſ faria , qual è ſenza fallo l'offervazione ; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore ; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno , ch'egli affai più coſe colla ſperienza , che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe ; e ſenza ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno agl'infermi da lui medicati ; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate , che, o per poca dili genza , o per alcro , che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel , ch'è peggio, anche talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra , ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado . Ma in quella parte poi della medicina , ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda , ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente conoſcere , ch'egli ſtato foſſe molto manchevole , e difettoſo in quel, che più propio , e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte , ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere Del Sig.Lionardo di Capoa. 315 1 ſere tutto del medico ; cioè nella concezza de'inedicamen ti : maſſimamente di quelli , che tali veramente ſono , e che da’moderni , ſpecifici chiamanſi ; i quali ſenza cagionar ne vacuazione , ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male , e riſtorar l'infermo ; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe , rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori , le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj , ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro fatali , o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu . na fin’al centeſimo giorno eſſer durata . Si ſcorge ancora ciò nelle medicine , le quali egli adopera , come quelle che pericoloſe ſono , e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio , comea tutti conoſciute, le cantarelle , di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia ,e in altri ma li dando cinque di effe , e togliendone ſcioccamente il ca po , i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno ; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate , che con peffimo conſiglio e' vuol , che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori ; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli , è una ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo , cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine ; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata iinitare , riduſſea , pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento ; c quel che ſi è il peg gio , e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore , ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma و 310 Ragionamento Onarto Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate , violcntise veler noſe oltremodo , c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate , elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo . Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele , o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw ,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto , e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto ,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire : και έτι τή αίματη , και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι , ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn . Ma da queſto ,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio , ch'egli da al medico :che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde ; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare ; ma ſe'l male non ne ſcemerà , e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων ,ών μη επί 5ηταί τις , φάρμακον είσαι μη ισχυρό ,. ήν δε ράων γένηται , δίδεικται «δος , εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή , άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila . Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere , che il medico ,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine ; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo , intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic , altro farnon debba , ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta , e intáto ſtar cauto , cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare . Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate , per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci , coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla , perchè diede opera grande agli arr tivedimenti , e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon , che lo gnando færnetichi ; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala , che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento . Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento , in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza , o law fua malizia . Quelle cofe , ch'e' giura Io non le reco ; ma ben può ſcorger ciaſcuno ,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio , e divoro , non altrimenti , che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj , ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome , e che , come egli mede fimo confefſiz , più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo , dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili , e va loroſe medicine, per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe , qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene Ippocratc , ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni , i viluppi , e l'incertezze della ſua arte , e qua to poco ſia il frutto , o'l giovamento , che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre ; perchè egli ſcarſo anzi che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe ; ne coſtumava egli , come ab biam veduto , trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate : ne purgar coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute , le quali giudica vano , comechè grave foffe , e di riſchio il male , eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo , ſolamente per la tra . ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fat 318 Ragionamento Quarto 2 fatto riparo ; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti , e varj medicamenti ,ficome egli narra , adoperavano , non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men , che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato , o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo , per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo ; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi , perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava , ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine , e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo , grave crrore , e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole , 1 1 RA 319 1 1 RAGIONAMENTO QVINTO, des S É ſtanco, c anſante pellegrino , cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta ,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno , e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante , e tante Iſole , acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono ,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più , che vie più ſghembo , e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato , orci ſi fa innanzi ; imperocchè ab } bia 320 Ragionamento Quinto biano , ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro ,ſe'l mio avviſo non m'inganna , a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando ;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri ; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba , e quelle poche, e intralciate memorie , che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine ; imperciocchè quel buon huomo , tra perchè non l'intendeva , e anche , perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare , e porre a fondo ogni lor fama, e gride , cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre , Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando , ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento . E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio ,di Diſippo , e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj , e diverſi ſentieri avviandoſi , a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire , ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato : darem comincia mento dal famoſo Diocle . Dico adunque , ch'e' fi puòbé ammirare , e commendare la ſua grandiflima corteſia , o umanità veramente ſingulare, colla quale , come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi ; ma tion già la ſua dottrina , eſſendo molto rare quelle notizie , che a noiper venute ne ſono ; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità , dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe , al quale ella è fcrit ta ; vi ſi ſcorge tuttavia , che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia , e che ben poco egli gradiva le compoſte medi cine Del Sig. Lionardo di Capoa 321 را cine , e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno , egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo , e'l freddo , e'l fecco , e l'umido ; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol , che fieno . Dottrine , che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone , non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento , e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe , non però di meno , o per manca mento di maeſtro , o di guida , ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto , o per altro , che ciò operato aveſfe ;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica , sì , e tal mente bambo , e ſcempiato ne divenne , ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere , non eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue ragioni , nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante , e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata , e rifill tata . Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle , chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia ipocondria ca , di cui un libro ben'intero e compofe , il quale ſcëpia to , emancheyolc ftimnafi per Galieno ; ma che che nedica colui , degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro ; imperocchè ci fa vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina , da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le cagioni delle maraviglioſe , e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon travagliati da’mali ipocondria ci , non quelle venc , che ricevono l'alimento dal ventrico lo , abbian aſſai più calore del convenevole , e'l ſangue in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto ; concioliecoſachè cerca coſa ſia le menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi dall'alimento , ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce , e nel ventricolo, indigeſto ri Sf inane ; 322 RagionamentoQuinto mane ; quando davanti per li meati ſi ricevea ,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre , come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa , quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece , per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo ; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole , agevolmente fi ravviſi , così dall'in focamento , che a loro avviene , come da quelle coſe ,che anche lor li danno ; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare , e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες , υπολαμ . βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων , τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς , και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων , και μαραίνουν σωθεν . Soggiugnc indi appreſſo Diocle , che affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto . maco , la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar , che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno , e ſtabilito ; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te , che menzionate per lui in prismafi fono : Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν , δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι , και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα , πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά , τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα , Egli vien Diocle ripigliato da Galieno , perchè infra le tante coſe , ch'egli in mezzo produce , del timore , c della triſtezza , che propie ſono delmale ipocondriico , e'punto non favelli , ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa , fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto , imper DelSig.Lionardodi Capok 323 impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò ;maſolamente forte fi maravi glia , dicendo eſſer una quiſtione degna da fare , perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa ,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno , il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina , per tacer d'altro ,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco , o nelle parti vicine , ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro , che pa ciſcono sì fatto male ; perchè convicn certamente giudica re , che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro . Gli argomenti poi , che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno , e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica ; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò , che da cibi, chefreddi egli appella ,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione . Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene , le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando , perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue , s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara , e tenuta in pregio dal vulgo de medici , SI 2 che 324 Ragionamento Quinto le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare . Ma fievolej molto certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate , perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare , che non diſtria buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe , e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire ; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va filoſofando Diocle ; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga . Mavi dovea altresì por mente , e inveſtigar Diocle , onde avve gna , che'l cibo nello ſtomaco degli ipocondriaci,indigeſto rimanendo ,non n’eſca fuori nel tempo uſato ; ma certamé te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione ; e tanto più , che pur egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica , e ſtitica acetoſità , la quale non permettendo , che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa ,e ſtrigne la bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari cibi agl'intcftini . Ma laſcia do di ciò più favellare : non ineno e' ſi ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice : appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala , noi Prey Movad,sy 6x6õves , cioè : le cose , le quali a noi manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe : poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi ; dal che certamente egli vuol cavare Diocle , che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le menzionate coſe , ficno entro al corpo elleno, o altro fimile , che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges ,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG . και παρά το άγονον είναι το σπέρμα , ή καλα παράλυσιν των μορίον , κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel , che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia , d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole ; al che cgli poi aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum morbum , ſono parole di Celſo , Hippocrates ait, fi poft feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis fübftantibus ; Diocles ex toto , fi poft febrem oritur,etiam pro defe , fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta . Coltivò egli poigrandemente la notomia , ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava , poco felicemente nel vero ; non però di meno cgli in ciò è da commendare ;m2 séza fallo poi a ſommo onore attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con un libro partia colare al mondo le coſe , ch'egli avviſate avea nel far no tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to , c in pregio tenuto da Galieno , il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina eccellentiſſimo , e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle coſe naturali . Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo da quel , che di Diocle noi teltè fas ; cemmo ; poichè iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura ; e con queſta credenza camminando avanti , di neceilità dovette , da uno in altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore . Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima , per la grandifinna incertezza di quel la ; onde imaeſtri più accorti , e malizioſi , per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici , che dopo lui furono , e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile , cioè certa , l'incertezza della razional medicina . Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno , ch'aven do egli in prima detto , che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie , cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare , e minutamente additando vada , come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli , che nell' arterie ſi naſcondono ; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11 , come dice Galieno , ma ch'aveſse egliportato opinio che allor , che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie , che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano ; ne potea egli in verità altrimenti di rc , s'egli pur non era affatto di ſenno fuori . Che ſia vero quanto lo dico ,apertamente ſi ſcorge in ciò , che il mede fimo Galieno di lui riferiſce , cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente , e in iſconcia guiſa Praſsagora , in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi ; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele , il Cefalpino , il Reuſnero , e'l Marziano ; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano , e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare , e dopo il vomito gli li tragga il ſangue , emol to forte gli ſi premano collc mani , il ventre , e gliinteſtini, cal nes Del Sig. Lionardo di Capoa 327 e alla per fine poi col ferro ſi taglino ; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano : quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate : Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet , ut Hippocrates . Item libris de caufis , atquepaſſio nibus ,& curationibus vinum dulce dari jubet , d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata . Macon qual eccellenza di dottrina , e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico , chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie , che di lui ne ſon rimaſe ? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli , ne fa apertamente vedere , quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra , che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor , chej porta opinione , che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi ; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui , che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura , fe non vi concorre l'opera d'una pronta , c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti , macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica . Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe , e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio , cii 328 Ragionamento Quinto cia tutta fiorirono . E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente , che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni , delle diftinzio ni ,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo , e riveriya . Ma il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio ; e quinci forſe avvenne , che molti , o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio , comevani, e inutili arzigogoli avendole , ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti , e gravi ſeguaci , e fù aflai commendara ; anzi narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo . Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo , nondimeno fembramifarfallon da Ro . manzo quel del Falloppio : Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio .Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe , a tutti gli antichi , non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora . Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo , come ſe nc debbano imedici valere ; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare , ch'e'non merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute , niuna utilità del mondo abbian potu to recarci . Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee ;ma egli traſcurato , sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo , e l'uſo ; ma di cotal negligenza è fomigliantemente da accagionar Ga lieno , e tutti quegli altri notomiſti , chedopolui anche ſe ne rimarono . Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale , non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion Del Sig. Lionardo di Capoa. +329 fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe grandi , e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta ; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio , e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del le divine , e delle umane leggitraſandando , oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno ; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano : He rophilus ille medicus , aut lanius , quifeptingentos exſecuit , ut naturam ſcrutaretur , qui homines odit , ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto ,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum , atque præcordia incidi , & falutishumanæ præfidem artem , nonfolumpeftem alicui , fed hanc etiam atrociffimam inferre . Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare ; ma tanto , e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re , che meritevolmente forſe perGalieno ,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo , e proverbiato ;mad'altra parte per altriſommamente commendato , come ſi può ve. dere in Plinio . Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates , fta bilis , aut citatus , aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte . E queſto accrebbe in modo la ſua fama , e buon nome , che nulla più ; promettendoſi cgli , e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli , com' ab biamo con Galieno accennato , poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc , colle quali fa Tt cean 330 Ragionamento Quinto 1 cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati , e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia , e altrove ne rimane . Mache / a'tempi noſtri in va rie .guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare ; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato ; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima , chevien fatta della Srologia , e della Gabbala , e d'altre arti vane , e ſu perſtizioſe ; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo , che di baſſo, e rintuzza to intendimento' , e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro , che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola ; perchè diſſe Plinio di lui favellando : nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole : deſerta hac Secta eft , quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo , come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe ; e dir ſolea , non haver così gra ve, e pericoloſa malattia ,che non ſi poteſſe coll’erbe curare ; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto , e alcune di loro gran virtù avere ' , le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano : inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare , nihil non herbarum vi effici poffe , fed plurimarum vires effeincognitas , quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina , à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro ; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano ; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe ,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat ; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca , o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine , le quali ſenza recar moleftia , e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe , e feroci ma lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo , per lo quale la fciandogli intera la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elle Del Sig.Lionardo diCapoa. 331 Elleboro la velenofa ; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e . gli trancaméteafferma , che l'Elleboro fia il primo ad uſci re ; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco , e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo , e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande , quale il ci narra millantan do la fama , Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio , facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato , per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato , niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui , ch'egli ſcriſſe , per quel,che ne narri Galieno , un libro de'medicamenti , de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò , Fu egli Meneçrate così ſuperbo , ambizioſo , e vano, che non volle egli giammai denajo , o altro premio dagſinfer mi di mal caduco , che guarivano per le ſue mani ; folo ri. chicdea , che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare , e come Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro , traveſtiti, chi da Ercole , chi da Apollo , chi da Eſcula pio , chi da altro Dio minore , a guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta , colla veſte di porpora , e collo ſcettro in mano farſi in pubblico vedere , 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare , quando, come rac conra Suetonio , con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij , e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito ; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum , $exque Deus vidit Mallia , exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera : Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos , Tt 2 1 Ma 332 Ragionamento Quinto . ! Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia , comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli riſpoſe : dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ . Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi , e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè , come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere , ch'egli era huono, comegli altri , fi parcì dolendofi , e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè . Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino , i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno , è da dir nondimeno , che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina , c che molto poco altresì valeſſero in notomia ; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc . Maintra le ſette più chiare , e più famoſe , che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina ( ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni , oper girar di luftri) che nelle Città , e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio , glorioſamente fiorirono : o le pur fi mira all'onore , alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente , s'Io pur non vado errato egliſembra , che agguagliar fi poffa , non che antiporre a quella , che da Crilippo in prima ritrovata , indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc , e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te , e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law fpe . d 0 0 1 1 1 DelSig. Lionardo di Capoa. 333 i 1 ſperienza , e l'induſtria d'Erafiltrato , che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire ; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche , e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere , e più che in altre , in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono ; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto , e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure , c ſpinoſe malagevolezze dell'arte ; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina ; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto , ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio ,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino ,venne appellato meetóvuje @u ,c Galieno parimé : e con orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate ; chiamando egli l'uno , e l'altro : iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo , o dal zelo della verità , o dall'invidia , o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni ; nientedimeno in tanto pregio , e in sì gran , yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro , ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere : e di lui favella più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole ; e mi ricorda , ch'una volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella : Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato , che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui , e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate , ela doctrina di quello . Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco , ch'egli, comenarra Galieno , ſi foſſe ſtato il primo autore , e introduttore della vera arte ginnaſtica , e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri metteſſe ; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea . Ma 1 opere , colla ! 334 Ragionamento Quarto < + 1 Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe , e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili , malagevole molto egli è ad avviſare ; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente , ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare , e oltremodo ſchiyo , anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito , e apparente ſapere ; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta , e praticata , delle facoltà , e d'altre fimili vanillime novelle , e ciance , le quali non altro in verità , che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli , e inviluppate tenzoni della filoſofia , e della medicina ; nella qualcoſa ,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione , s'Io pur diritto eſtimo , ſomma lode ritrarre , malignamente troppo in verità , e a gran for to funne ripreſo , e vituperato da Galieno ; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo , e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re , duro, e implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le , nulla curando , che ſuo avolo ſtato e' fi foſse ; col qua le , e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto , e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno , che Ariſtotele , ed Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire , che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna ; ma della milza . prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα , πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo , il quale dif ſe,che la milza foſse anánt , ni avevéeyn ,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato , come que’ , che diſsero , che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue , tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar , Ma benchè Erafiltrato sì grande , e sì valent'huomo ſi foſſe , e che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato , e di rari doni , ç maraviglioſi arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natu 1 DelSig.Lionardo di Capoa 335 matura , e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale : e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto , e compiuto ; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto , e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno' , e in alcun con aſſai fievoli , evane ragioni riprovato ; il che ravviſa no talvolta , e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue , ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui :e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro ; coſa', della qua le , così evidentemente ne appare il contrario , che forte mimaraviglio , comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio , e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un libro intero per impugnarlo . Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente traſcorre . I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo , neper evidenza de'ſenſi , che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti , che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino ammirare', e venerare ; avendo per vero , e ſaldo, e indubitato ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia ; egli è da creder , che dall'o pinion , che reſtè abbiā noi rapportata , prendeſse cagione d'inſegnar poi Eraſiſtrato , altro non eſser la febbre , che un movimento inuſitato del ſangue , che dalle vene, dove naturalmente riſiede , all'arterie tragittiſi: e cheſicome al lor , che non ſoffiano i venti , pofa abbonacciato , E nelſuo letto il marfenz'onda giace ; ma 330 Ragionamento Quinto ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia , ed eſce fuori impetuoſo , e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda , ed allaga le piagge tuttc , c le campagne vici ne ; così anche , fe non v'ha coſa , che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio , o per altra cagione ſoſpinto , e agita to mai venga , sboccando ſubito dalle vene , ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito , che in eſso dimora ſia altrove riſpinto , vada a fermarſi , e ſtagni in quelle cic che ſtrade , dove terminano l'arterie ; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb . bre ; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης , αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί , ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν , τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι , όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων , πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα . Αrtifciofotis trovato nel vero , ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far , cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina . alcuno , ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato , e chemal'inteſi , e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più , che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni ; e che perlo ſpirito egli abbia ? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino ,e di quelle particel le , onde ſi forman l'etere , e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto , certamente ſi deecgli credere, ch ? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso : imperocchè ravviso , e conob be , che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue ; il che diede poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene . Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, con Del Sig. Lionardo di Capod. 337 -- to ; comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe , merce che non già alla Grecia , ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue . Oltre a ciò ſi pare ,che ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10 , perchè al ſuo grande avvedimento , e induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando , che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi , ſe è vero ciò che ne narra Galieno . Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo ; s'accorſe egli anche , ed è egli non picciolo ſuo vanto , che'l reſpirare non diedes già a noi natura , comeimmaginò con Ippocrate , Diocle, e Ariſtotele , Perchè'l caldo delcor temprato fia . Ma non potè penetrar egli nientedimenoil vero ,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati formati sì , che debbano reſpirare ; imperocchè contendes Erafiltraco , che la reſpirazione ad altro non vaglia , fe non fe a poterempier d'aere Parterie ; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana ,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte , e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere , e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene , che nel ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile , e per così dire , ſpirito ſa , ſi faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe ;come nella formentazione del moſto , e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi ; queſte groffe porzioni, forza è , che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no , o nell'acre , o in altro corpo ſimile , il quale contenga pori acconci a riceverle , e che ricevutele , ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto , che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo , quancunque aſſai menomo , non fao V u cel 338 Ragionamento Quinto ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti , tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti , come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni ; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza , onde , e l'uno , e l'altro movimento , e di formentazione, e dicalore rieſca grande , e notabilmée te impetuoſo , allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione : per lo che non baſtando . dilatare , il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela , abbiſo gna , che altra aria mediante la reſpirazione fi beva ; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato , che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande , ne verrà da notabile, calore accompagnato , allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno , e baſteragliquello , che, o colla ſola traſpi sazione , o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà ;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja , vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti , i quali cosìdalla terra , come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che , o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua , acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito , rimangono i peſci poco ftanto privi di vita . Nell'uovo poi , e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi , e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise DelSig. Lionardo di Capoa 339 li ; e pieghevoli , e poroſi i ſuoi vali , può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo , o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo , e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale ; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo ,ilpicciolo ,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace , o dal fime gli vié comum nicato ; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti , anzi duri , e fi accreſca nc'liquori la formen tazione . Aggiugneſi , che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima ſoſtanza , la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione . Ma laſciando queſto ſtare al preſente , forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco ; e altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato , la quale a dir il vero vien portata in sì fatta maniera da Galieno , che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe inteſa , o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione ,per la quale ſe ne muojan gli ani mali nelle mofete . Vuole Eraſiſtrato , per quel che ne nar ri Galieno , che ſe ne muojan gli animali nelle mofete , e nelle ſtanze chiuſe , einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni , per ritrovarli in sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto , chene fi riceva dall'arterie , ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente l'animales . Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno , e dice , che do vea dire più toſto Eraſiſtrato ,che ficome nel pane , ne’logu mi , e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria , così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna , e amica agli ſpiriti , e un'altra maligna , es nimica . Vu 2 M2 340 RagionamentoQuinto 1 ! . Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento ; onde vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione ; ma che che ſia di Galieno , lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato , e'l ſuo modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale , quale la s'im magina, o la fi dipigne Galieno ; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse materiale,anzi che no , facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto fermiſlina opinione ,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe egliin tendervoluto , che picciolo , o poco : imperocchè la p.2 rola asfilos, della quale e' li valſe , ſecondochè dice Galie no ſteſſo , non ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo foteile , e che da' Jatini ſi dice tenuis ;ma ancora per dinotare,come ſi può ve derein Ariſtotele , e in qualch'altro autore di que' tempi , quel, che i latini chiamano , cxiguus , e noi picciolo , o po co diciamo . Or chidomine non fa , che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal veramente , qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato , ch'egli ſia , cioè troppo ſottile :con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles art erie ; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte , qu anto più ſottili ſono , tanto più convenga , che compo he , e formate licno di minutiffime penetrevoli particelle ; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie ; ma entrarvi poi allo incon tro . DelSig. Lionardo di Capoa 341 tro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe , e groſſe fo ſtanze accompagnato . Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole , e anfanie Erafiltrato , ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete ; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione , per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto ,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme , e congiunti , che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano ; e non altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta . Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato , da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre ; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime glandolette , che ſparſe perentro , e ſeminate vifo no ; c quantunque la carne del fegato , e della milza paja , nella prima viſta una mafſa di ſangue , pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia , che ſe ne ſepari quel ſangue , che vi ftà meſcolato ; che allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro , che in Erafiſtrato lo ho ritro vato ; egli mi ſembra , che ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri , in quella guiſa , che s'è da noiaccennata ; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre , ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario , e non naturale del ſangue ; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia , anzine men cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando , come a razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire ; il che avrebbe potuto fareegli age vol 342 Ragionamento Quinta 1 volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia ; ne gli mancò , al mio credere , ingegno , ne animo ad una tanc'impreſa acconcio ; ma gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo , non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore ; ma inveſtigar nondimeno , e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide , e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco ; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo , non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde , e come il ſangue caldo diveniffe , e fi conſer vaſſe negli animali . Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere : egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente , che niun'altro tanto mai più ,ne pri ma , ne poi, per quello , che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere , colla gran fua diligenza , e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo , avendo egli dalla vicina morte ſottratto , e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa , vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil , che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio , che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna . E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato , e in vece dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale , ch'e'guadagnonne , obbrobrio , e vituperio eterno riportarne ? Ma in ciò imitar lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino ; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato Del Sig.Lionardodi Capoa. 343 . rato il medeſimo Erafiftrato , ſe pur tale appunto andò law biſogna , qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola , non ne riportò Galieno , ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce , in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente . Ma per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare ,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece , ne troppo ſi valſe delle purgagioni : delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri ; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie , che'lrichiedeario ; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare , e ſenza porgerne loro cagione , fol con iſtrettamente cibargli , felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato , ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina ; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti ; per chè ſi vede chente , e quale e' fi foſſe il valore , e quanto grande l'animo di Criſippo , e d'Eraliſtrato , i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina . Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato : la quale ſiè , che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di tempo l'infermo ; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro , il qual dice , che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente , ma all'imminente male anco ra ; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo , non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne , che per sì fatta maniera adoperan doni 344 · Ragionamento Quarto doſi nel medicare Crilippo , n'acquiitaſſe lode , e gloria immortale . Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato , Io no'l ſaprei diterminare ; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno ; cercando egli , come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci , a diritto , e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria , e la famad'Erafi ſtrato ; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato ; ma da Galieno me. delino per avventura fognate . Maegli ſi dee fermamen te credere , che non poteano mai, ne Criſippo , ne Erafi . ſtrato , ne Medio , ne Ariftogene bandire , introdurre , mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo , ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità , e non da vaghezza alcuna ; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie ; e forſe Criſippo , o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta , che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi , e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza . Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro , o col morſo di velenoſi vermini le vene , e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita , egli è coſa malagevolen aſſai nel certo ,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare ,che'l crar ſaugue,nemolto nepoco , ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci in uſo niuno noirera ; ne Ome ro , il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza , e magnificenza convenevole all'eroico poeta , livi de giammai far mézione alcuna del ſegnare nella cura del le fe . DelSig. Lionardodi Capoa 345 : le ferite di Marte , diMenelao , d'Euripilo , e di Macaone; perchè , per tacer d'Achille , e di Patroclo , ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino , ne Chironę lor maeſtro , ne Eſculapio lor padre , ne Apollo lor avolo , ne Peone medico di Giove conobbero , e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero , o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare , i quali per teſtimonianza di Socrate ,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro , come avviſa Dio doro , altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo , fuoriſo Jamente , che criſtei , digiuni, purgative medicinc,e vomi tive . E ſi pare , che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai , comedicemmonoi già , trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra , che bagnata viene dall'Oceano orientale ; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali , che ne i Saraceni , allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio , neinoſtrive l'han mai potuti intro durre . ? Ma che che ſia di queſto , chi poſe in uſo primiero il trar ſangue , Io immagino , che fi movcffe , e ſpinto vi . foffe , non già come immaginò Plinio ( ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume ; non eſſendo miga vero ciò , che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe , che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici , o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia , checonvenne , che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo , sfidando per It' ! 346 RagionamentoQuinto d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni , colle quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato , sì fatta opinione difen dere . La vita degli animali ( dico ora vita , largamente parlando x quello , ſenza cui al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi , o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra , che in altro ve ramente non confifta , che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente , che in alcuni animali in vece di quello (i mira . Coſa , la quale non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche manifeſtamente la vita ; perchè ſe non per forte diſtretta , e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali . Ma delle due maniere , colle quali il ſangue menomac puoſli , ciòſono , ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi , che'l contengono , o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo ; il trarlo certamente è quello , il qual reca nocimento , e danno maggiore , e più gli animam li affraliſce ; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue , con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali , e del chilo s'ingenera il ſangue, cin , priina de'cibi s'ingenera il chilo ; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro ; il che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole . Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno , che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue , non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia ;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze ,che detro abbiamo effer nelſangue , ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li , cafar laro ricoverar la ſalute ; perchè quanto più gra voſe , e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamen te è Del Sig.Lionardo di Capoa. 347 O te è il erar fangue, e men fi eonviene . Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue , onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane , e inutili contefe : certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali , o per ſoverchio di rigoglio , e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia , o perchè egli è sì , e talmente piggiorato in tutto, in parte , che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio , e ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti , etre queſti caſi certiſſima coſa è , che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere . E apertamente avviſafi, che coloro , che fom mamente in ſangue abbondano , ſon più d'aleri forci , e be atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze , comechè buona coſa quanto a ſe , pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue , avvegna chè buona , e laudevole fia ,può talora nuocere , ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató . Orrel foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare , che ragionevolmente ne debba temere il medico , poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo : potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire . E ſe'l male è già fufficientemente appiccato , ne di quello il ſangue punto più s'inframerre ; che monterà egli attutar la canapa , acciocchè la girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada , perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male , oglirecas qualche impedimento alla cura di quello , può bene il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1 : { so 348 Ragionamento Quinto laſſo , con imporre all'infermo , che più o meno fi riman ga da' cibi : o più , o'meno , ſicomcli conviene , menomar lo . Nein ciò è da riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno , cioè , ch'alcuni corpi v’abbia , i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici ; '. concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no , qual G ſuppone : e che la collcra non s'inframetta pun . to nelle vene , nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono , nelle vene ſi trova : e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento , che continuo di quello falli : può bene il medico co medicine , che attutino la collera , e con beveraggi , che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo ; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera ,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate , e Avicenna ,ſon pericoloſi iſalasſi ; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene , impoſibil certamente egli ſarebbe , che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco : nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan . guc agli infermi , per qualunque gran male cglino aver ſero , Ma ſe'lſangue è malvagio , o cgli è per ſe ſteſſo tale , o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata , non che giovi mai il falaſſo , anzi egli è ſommamente nocevole ; imperciocchè , non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente , c più fiero , e rigoglioſo diverranne , ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze , che di cemmo : le quali poſſono , e nel ſangue , e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero :e ſcio gliendo , e aminendandocacciar via dal corpo per cieche , o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue . Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene , farebbe come colui che con trarre ac, qua * DelSig.Lionardo di Capoa. 349 qua da un lago , in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra ,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire . Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo , con trarne parte , non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli ; ſenzachè l'infermo , perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze , le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare , il nuovo ſangue , cheper quelle s'ingenera , e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori . E quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare , quando il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme , e viziofo ritrovali . Ma per farci più addentro nella preſente quiſtione : l'al terazione , o'l cambiamento del ſangue , o egli è in tut to effo , o pure in qualche una , o più delle ſue parti, ość. fibili , o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova ; oveche ſi covi il difetto ,certaméte inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo ; concioffiecoſachè il l'angue in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione , e confuſo ne vali ſi ritrova , , che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile , e infiebolita rimaſa , meno certamente potrà rin tuzzare , e ammendare l'avanzo della cattiva . Ma potrebbe per avventura alcun dire , incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva , o dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono , renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare ; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora , o affatto li ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona . Io certamente , ſe ciò foſſe vero , a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi : e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici , anzi a ciò ſommamente confortar gli deurei 350 Ragionamento Quinto devrei ; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri , o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue ,e per quel della formentazio ne , convien , che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello , che è buono , che ſe di tutti , e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi , certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene , anche in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno , certana coſa è , che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio ; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza , che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe . Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue , e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova : certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena , trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe . Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo , maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai , ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte ; perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno , inſieme col fan gue fe n'elce fuora . Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura ; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc , quando , e perchè quella opcri. Avvien talora , che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto , ſi è tolta via . Talora la cagion del malce nel ſangue : ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto , o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata ; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1 DelSig.Lionardo di Capou. 351 Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita : e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre , e inſieme col fangue n'eſce fuora . Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle , impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie . Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo , ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to , e'l danno è ſicuro , e'l giovamento molto incerto , che ne poffa all'infermo ſeguire ; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte , che felicemente per opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion , che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro , o quel della formentazione , allora ccrcamente, non che rieſca giovevole , ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo ; imperciocchè per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti , diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti , comechè fembri , che per ſegnare debban ceflare , fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona , onde effi' movimenti procedono : non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale , per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era , nonſolamentevano ſarà il falaſſo , ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali , le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere , sformatamente accre fciuti ſi erano ; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati , ſi fà grandiſſima perdita di Sangue : e poco , o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma 352 Ragionamento Quinto Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire , allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli : ma sì ſi dee prender guar dia , che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente , perchè il ſangue allor dalla febbre , che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi , e perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare : ma ancora , perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più ,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola , e della pleureli avvenire ; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina , o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne , che con quantun que ſangue trarre , non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione : evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa , ne viene av montaremaggiormente il male . Neha luogo niuno certa mente quì , o la derivazione , o la rivulſione , che chia mano i medici , percui eglino tutto dì ſono a zuffc , eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate , e di Galieno : i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga , ſempre ne liegue il medeſiino : c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre : ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano : E mentr’ei vien ,se , che ritorna , affronta , E comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove ; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli Del Sig. LionardodiCapoa 353 dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue ,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto ; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse .; el principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano , il Primero fio , il Pariſano ,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur . Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento ,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc ,, .e della dirivizionc ,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus , &artificialibus : que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem : do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat ; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas reftitui : adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari ( quodnunquam ) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum . Vnde manifeſtum fit vanas efle revulfionis , deri vationis nanias : quippe quibus conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi , Perchè ad alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza , riguardando per avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia , i quali prima d'Ippocrate fiorirono , ma in quel tempo , che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto , furono così ritroſi , e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell' huomo , e in altre ſue opere , fegnò giammai nelle febbri , ſe non folamente in quelle , che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te , che da ſegnar ſia con tal convegna , che non vi ſia feb bre ; e avviſa egli oltre a ciò una fiata , che dopo lungo uſci Y y nicht 354 Ragionamento Quinto 1 1 1 1 1 mento di ſangue dalla matrice d'una donna , le ſopraven ne la febbre : coſa ,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire . Ne è punto vero ciò che dice Galicno , che Ippocrate porti opinione , che in tutte acute , egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato , in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi , egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda , ma di que'ſolamente , de'quali egli quivi ragio na , sì veramente , che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed , o pure verùm , e noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna , e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio ; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo , ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate . Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli , perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto , che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco : che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue , non fola mente in quelle , ch'egli chiama finoche , ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon cagionate . E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro , e ſtar guardinghi , e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana , e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano ,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli , o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro ; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute , e più in quelle , che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce , e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo ;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora , e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma . Del Sig.Lionardo di Capoa. 355 Ma avvegnapure , che con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe non fe di rado , eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore ; non però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona , e manifeſtamente porla a riſchio dimorte ; perciocchèſovepti volteincontra , che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione ,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto , laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare ? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate , e Galieno , perchè eglino diſideravan , che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola , e della punta? perciocchè in quelli , fico me il inedeſimo Galieno inſegna , ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire , eziandio nel di .chino del male , non avendo in lor virtù, perla fiebolezza , da poter il puzzo già cotto , e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano , non per altro certamente , ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione , che continuo coloro fanno : perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri , malli anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione , che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli ? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti ; e forſe più per oggia , e diſpecto , ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Era 356 RagionamentoQuinto 1 Eraliftrato , cotanto egli commendò i ſalali, che per ra . gion , che veramente ve'l traeſſe ; perchè con tante leggi, ' e convegne , e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo , che certa mente delle diecivolte , che i noſtri Galieniſti ſegnano , ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate ; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono , che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno ; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie , con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro . E comechè Galieno , come teſtè diciavano , n'aveſſe una volta inſegnato , che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri , quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori ; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella , tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto , e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo , ficome e' dicu , quàmin particulari exequatur . Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco , ebalordo egli è nelle ſue regole , come già diviſa to abbiamo , che in preſcrivendole in univerfale , fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano . Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice : lo dimos ftrerò in queſto libro , che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo , anziche ne men coloro , ch'abbondan oltre fiodo ia langue , fian da ſegnare , ſe prima manifeſtamente non DelSig. Lionardo di Capoa 357 fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue : e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo , e la ſtagione , e la complesſion dell'aria ſia : e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare , che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano . Ecco le ſue parole : Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον , και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας , αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς , εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG- , οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte , xai megy, noi xwegen wij , satíscos , @osc te thonyera , sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ . λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν . Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato , e altrove inſegnato , che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento ; nel quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo ; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda , non è egli si toſto da ſegrare : ma sì fi dee con purgagioni, e con menomargli il cibo , c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo , che nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre : acciocchè il debito alimento alles parti rimanga , ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare ; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato . Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia ; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto , o'l decimo giorno , o altro giorno critico : e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno . Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne , che ſe peravventura da altri medici , o dagli asli ſtenti , o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato , allor tu : debbi - 358 Ragionamento Quinta debbj imporgli beveraggi d'acquafredda ,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi puote , allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe .condo lui ſmaga la perſona , affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori , e dibattimenti nel corpo , e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare . E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici ; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in . fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete ; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino , o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno , ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato ,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe ; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro , quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato , e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole , neceſſario a'malari il ſegnare ;allora nel maggior caldo del la pugna , quali ſchivando la propoſta , che cotanto in pri ma avea preſa per la punta , li rivolge contro coloro ,i qua li giovani, e mal pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo ; e sì cutta la colpa ri yerla 1 Del Sig .Lionardo di Capoa. 359 1 verſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto , che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa ,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano . Mamol to aftuto , e malizioſo ch'egli è , ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito , n'accagiona la tracotanza , e la befraggine de'giovani e mal praticime dici : come ciò colpa foſſe dell'età di coforo , e non più to fto del medeſimo medicamento ; perciocchè egli dice' , e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono , che , di coloro , a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno , e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote : e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate ; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie , e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù , e giovamento ; ficome nelle terzana , e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli ; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte , e fignoreggiate ; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro ,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono ,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura , e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai , ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita . Anno 1641 Noven bris 300 Ragionamento Quinto bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard . Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum . Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone , adeoque difettis venis ,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit ; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum : biduo enim ante mortem plus ediffet ,fi ipfi conceffum fuiffet , Fuit enim per venæ feitiones , purgationes, hirudineſque ità exhauftus , ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò , che ſi porta per Galieno , ſe pur cgliè vero , di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì ; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue ; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro ,come teſtimonia il medeſimo Galieno , i qua li fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero : e coloro , i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno ,co loro grandiſſimo riſchio ,dopo ſegnati fino allo sfinimento , affieboliti , e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino , e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona , che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia : e sì rimangono liberi , e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira , o per timore, o per altra grave , e ſubitana paffione le gotte , e le quartane , e altre dure , e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende , ſciocchi oltremo do , e ſcimuniti eſſer coloro , i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò , chè Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va ; perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammaz zare Del Sig.Lionardodi Capoa : 361 1 zare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta ; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del corpo , onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della perſona , ſi riftanno le ma. lartie ; perchè da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può , che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati . E fenza fallo gran ſenno fanno coloro , che ne più , ne meno ſegnano , pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi , e di riſchio , o affat to inutili . E a ciò riguardando i più pratici , e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo , e guardinghi ſo 110 nel fegnare : ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti- , ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai ; ſe non molto di rado , e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici , comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati , e ricreduti , pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi , e si laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno , così ſcarſamente, e a biſtento ſegnano , ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre , coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in nome , e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue , quando in verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato , egli fem bra, per quel che nemoftriGalieno , che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben conoſciuto ; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato : perciocchè pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco , ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta , che trovandoſi cgli medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo del Rovo ; c ſoggiugne Galieno , chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 362 Ragionamento Quinto re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione , e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile , non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza , la qual egli avea della facoltà de'ſemplici ; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento , che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita Galieno , ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino rinvenire . Ma ne Eraſiſtrato , ne Galieno ſeppero mai' , che nel ſugo del Rovo , e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle materie , onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni . E quinci ſi ſcorge apertamente , chevada errata in ciò la medicina razionale antica , la qual ſi crede , uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in opera coſe , che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito : bé potea anche effer agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina , Serapione , e Menodoto , che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare ; e in verità tra'l Rovo , e la Galla ,per tacer del vitriolo , onde vien formato il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato , ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza . Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare , non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere ; e ſe , come pare a Galicno , Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata , certamente egli l'avea per iſperienza , o da fe , o da altri fatra , la quale agevolmente può eſſer fallace : 0 pure per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'er 1 1 1 Del Sig.Lionardo diCapoa . 363 d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole , difettoſo , e incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri : Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe , opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate , maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano , e non più veduto , o intero modo di medicar le febbri . Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua , il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero ; riſtata poi la febbre , gli cibava di carne di porco arroſta , econcedea loro liberamente il vino ; maſe la febbre non ſi partiva , facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare ; e comechè in alcune fortidi febbri , e in qualche huomo gagliardo , e ben atante della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con altro che .colle purgagioni , e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare . E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara ; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico , e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio ; che in tal guiſa egli credette , che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po 364 Ragionamento Quinto potrebbel'ammalato guarire : fæpe igitur, egli ſcrive , et aquafrigida , cui oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft ; quoniam interdum fic evenit , ut horror oriatur, ds . fiat initium quoddam novi motus , exque eo , quum magis corpus incaluit ,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere , ed agli ammalati alcun pro avvenire ; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna ; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà , n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno , confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo , fino allo sfi nimento dello infermo ; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo , e'l vomito anche talora , come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire ; per li quali , e per le quali o ſperano , che debba mancare affatto ,oin parte la febbre . Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi ; cioè più cofto in più volte il ſangue , che tutto inſie metrarlo fuori , Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco , fra quante traverſe , fra quanti viluppi , fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie , e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na ; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera ; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute , e approvate ; e per tutto quel tempo , che le lettere fiorirono nella Grecia , e nel Romano impe. rio , celebre fi manterne la ſua Setta , e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata ; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava ; la qual per tutti i 1 corpi Del Sig.Lionardo di Capoa 365 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non meno il grande , che'l picciol mondo regger doveſſe ; é dove ella non foſſe primjeramente offeſa ,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento , male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir gilio in prima dicendo . Principio cælum , duterram ,campofque liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit :totamque infufa per artus Mens agitat molem , & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando , e menie , e Spirto Dieda queſta mondana , ed ampia mole ? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira ; Com'a lor parve , e'l Cielo , e l'ima terra , E laſpera delſollucente, e vaga , E’l globo de la Luna , e l'auree ſtelle , E de l'aria , e del mare i larghi campi Nutre , e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra ? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi , e alMagno , ad Agatino, ad Erodoto , altri , e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado ,ſommamente la nobilitarono , e l'illuſtra rono ; e fra gli altri Archigene:il quale , tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece , e per li tanti doctiſ ſimilibri , ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa , ne grande , ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina , non ha che cedere a niuno , ch'abbia o prima , o dopo lui ſcritto , e medicato infra'Greci ; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica , onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no : e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti , difettoſo , e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale . Oltre re , 366 Ragionamento Quinto Oltre a queſto e'miſembra , che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema ; imperocchè in medicando le malat tie , poco , anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono ; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito , ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare , chente ,equal li fia la ſua nas tura , cioè qual figura qual , grandezza, equal movimento abbiano le particelle , che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano , e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna ; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo .. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio , in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade ;huomo com'e'dice , quan to al naſcimento , di condizionemolto vile , e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima , perciocchè aſſai poco gli fruttava , in un tratto medico divenuto . E sì , e tanto egli adoperò , che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina , a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte , e poco men, che affatto op preſe, e abbattute ; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici , a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo , ne ordinò a ſuo talento , e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro , della vi ta , e della morte diquelpopolo , nelle cui mani ſtava la morte , cla vita d'ogn’uno ripoſta . Ma fermamente egli fi dee credere , che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de , non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe , quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe , comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto ; quale appunto di fu quello , che vien narrato dallo ſteſſo Plinio ; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello , che per morto era portato alla ſepoltura , facendolo egli a caſa rie tornare , con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe . Eben 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 367 . túrós , E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo' , e la ſingolar fua prudenza: allor , che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate , generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte . Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante , e tante ſue opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe ; nelle quali ſi vede apertainéa te , che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle coſe , s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade , che non già per caſo, ma di neceſſità , e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo : e che fa natura altro ve ramente non ſia , che'l corpo medeſino , o'l ſuo moto : per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli , veloci , e ratti , e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi , e con vicendevoli percoffe , l'un coll'al tro cozzando , e forte battendoſi , fi vengano a ſminuzza rc , e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge ; le quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra , e inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi , prive d'ogni qualità , col moro , col numero , colla grandezza , collow figura , e coll'ordine le coſe , e l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne ,che ſien privi diqualità i corpicciuoli ; concioſliecoſachè altro dal tutto , altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura ; il corno ènegro , mala ſua polvere è bianca ; ma dovetre dir egli ancora , che le qualità altro non fieno , o per me'dire altro non le faccia apparire , che'l concorrimento , la figura , e’l fito , e la grandezza , e l'or dine , e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli , o ſperali, o piramida li , e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no , a formar ne vengono quel ſentimento , che dicalore ſi chiaina. Di 368 Ragionamento Quinto Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle , o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali , vi laſciano molti , e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi , varj di grandezza , e di figura ; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano , callo incon tro , ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli ,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti , e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie ; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade , avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente , come la freneſia , il lecargo , le puinte , e lefebbri grandi ; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento : e s'ingenerano per la curbazione de ſughi , e degli ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina , e nella fover , chia magrezza ſi vede : 0 nuovi ſpazj a viva forza in non , convenevoli luoghi ſi aprono , come nell'Idropiſia acca de , Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte ; ma nel vero al tro quelle non eſſerç , ſe non ſe le cagioni antecedenti . Si ride egli di quel grande ſchiamazzio , che fanno i medici in. torno a'giorni critici ; portando opinione , che d'ogni tem po , com'egli avea avviſato , poſſano creſcere , e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie . Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men , ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role , che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè ;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente , e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re , care qualche giovamento agl'infermi ; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo , e pronto il danno , ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi , medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huo . 110 , e DelSig.Lionardo di Capoa. 309 mo , e di sì fatte coſe aſſai intendente , quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina , e dalla fiebo lezza de'ſemplici , o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo , nel ſapere ben regolar la vita col ci bo , coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole , poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli , come huom crede , da neceſſità alcuno ſtretto ,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto , che ſicoine Galien dice , egregiamente cgli ne ſcriſſe : e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò , e poſe primiera mente in uſo , e ne compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati , anzida’ine deſimi ſuoi emuli , e avverſarj commendatioltremodo , e fovente adoperatifurono ; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le ferite . Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de criſtei . Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo : quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito ; del quale , com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia . Ne ſi dee qui tacere , che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria , come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole di Plutarco , avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν , αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν , τε και φέρεσθαι παχυμε . ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι ,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι , μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ ( šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει . · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio , come riferite vengono ; e per la più parte da chi punto non l'intendea ; e talor anche da al cuni per vggia , e mal talento a ſtudio guaſte , e travolte . Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina ; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento . E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele , ed Eraſiſtrato , che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò , che ſi bee , ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina ; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno ; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato , perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo , perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie . Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade , dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe ,le qualiognun vede , che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte ,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì milenſo , e ſciocco eſſere un tanto huomo , Negò ben'egli la facoltà attrattiva , e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai , ne facoltà , ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo , o per ſe ſteſſo , o per altro corpo da ſe parimente tocco , e moſſo ; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino , o fune , o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma * I 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 371 Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire , quantunque volte rammento quella ragione , colla quale Galieno con tro Aſclepiade ,ed Eraſiſtrato , e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro ,fermanente credette , ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata ; dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo ;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima , ſe'l grano non aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna , che in ciò punto l'appagaſſe . Quinci ſi pare ,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile , prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno :profeito ſiGaleni libri de demöftratione , cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens , ac poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt , non eſt ut eos libros tantopere expecte mus . Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte , e molte coſe di notomia per Aſclepiade , che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro , e ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma : comechè paruto fo fe , ch'egli aveſſe portata opinio ne , che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino , che co'nunemente per ciaſcun ſi credea ; impertanto immaginò egli , di ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo ; ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene , e dalle arterie miſeraiche tratto veniſse . Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito , Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto , che in guiſa della ruggiada il chilo , e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe , nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è ben 372 Ragionamento Quinto èben 1 cerco , che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere , chenti , equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą , e'l fito , e l'ordine , e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto , o in parte turandogli , o più del convenevole dilatandogli , o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini ; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte ; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc , alcun ſicuro , e certo rimedio per ragion ritrovare . Dove poicgli dice farſi la freneſia , il letargo , la punta, ele febbri da'corpicelli , chenegli ſpazj inframelli dimora no , perchè egli non ſoggiugne ( o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi ? e avvegna pure ,ch'egli accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli , e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta ; anzi pajon'elle molto leggieri : e ſono queſte , che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano ; e più agevolméte gli ſgõbrino ,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire ; ma di ſaper anche il movimento , la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri , ficome poco 'addie tro noi dicevamo ; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto umano co durre a capo , yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno , che di ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade , come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che , comeperGalieno ſi narra , egli ſolo , e Dioſcoride d'ogni ſorta 1 DelSig. Lionardodi Capor 373 Torta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta ,de' ſughi , de' liquori , e d'altre , e altre coſc fof ſero pienamente informati : nientedimeno , ſe le pruover che intorno alla loro natura , e al loro operare egli nellas ſua opera recò , ancora di leggeſſero , ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato , ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni ;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade , alla fola ſperienza , non men che altro più vile Em. pirico ricorrere . Ma ben ciò conobbe egli , ne'l diffimulò punto , e confeſsò apertamente , altro la medicina non ef fere , ch'una cotal ſemplice conghiettura ; onde ebbe a dire Plinio , ch'egli : medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit : o come legge Giacopo Dalecampj : conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra ,che non molco bene ( comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico , ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi il vino , e bagnar loro con acqua calda la teſta ; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare . Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue , fuor ſolamente ne'dolori ; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti , ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare , che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli ,che formano il fuoco , cagionar ſoglio no il dolore : come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina ; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina , i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono : e le liquide , benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi , non ne ſono cagioni vere , e preſenti , ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò , egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto , e a ſcriver tutto , ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire , che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla filoſofia ſeguito , Quinci ſi vede , che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran le lodi ,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta ,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine , ofervato ,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna , ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe , & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to , e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e fe'l favore , e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere , ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro , fifoffe fatto di qualche nuova forte di metodica medicina inventore . Veggiam di lui ſolamente alcune forme , o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari , e di molta poca co ſiderazione , dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta nel medicare Ottavio ,tutta travolta da quella di Cimolio ; perciocchè Ottavio , licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta ; ma per avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo . Neciò è nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola ; poichè il fece Ippocrate ancora ; co mechè egli poi moſtri , ch'aveſſe altro in animo, con inſe gna 3 Del Sig.Lionardo di Capoa. 375 gnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione , avvegnachè ſenza profitto , e infelicemen te fi faccia , dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da : návraisatakóyov meséori ,xai pen'govojévwv * xara'dégor ,designer swßaives , i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente , che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti , con graviffimo dan no de' cattivelli . E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare , che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto , che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano , conduceva a ficura morte gl'infermi : impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli : egli replicogli una gran vit lania , chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo , non altrimenti , che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima , nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero ; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando ,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate , nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione , allor che non le riſponde l'uſcimento . E chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte , qual ſia la vera, e legittima ragione ? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia , ne opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare . Egli li fu Antonio Muſa , per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te ; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον , μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν . M2 376 Ragionamento Quinto Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio . Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta ,nequeindigno Mufa dedere bona . Caneta quibus gaudetPhabus ,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno , Clejo nam certè candida non loquitur . Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali maraviglioſamente con incredibil velocità , ſe'l ver dice Plinio , ne guariyano. Io yo meco diviſando ,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico ,celebrato ;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo , cui in iſtrana guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı , fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα , των σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν , ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη , και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons . Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda ; e egli, e'l ſuo fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata . Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo , aprir loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla , ſe in Salerno , e in Velia foſſe così fredda l'aria ,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa , freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi i bagni freddi . Aua DelSig. LionardodiCapoa 377. ? Quæ fit hyems Velie ,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio , &qualis via.( nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum : gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni , vicus gemit , invidus ægris : Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa , che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio , guariſi d'una gra villima inalattia ; comechè dica Plinio , che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio ; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora ; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe , che per averle anche fuor di teinpo , riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne , e in cotanto credito , cheoltre alle ricchezze , agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo , ma per tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio , come ne da teſtimonianza Suèronio : Medico Antonio Mufa , cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt , ſtatuam , çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt . E fe'l mio avviſo non m'inganna , d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata , ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la tirannide , n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata ; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa . rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto , ne Caffio , ne Seſto Pompeo , ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare , e per terra non avean potuto adoperare . E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa , quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio , ſe ne morì Marcello ; perchè di preſente e'per denne !, gloria , che guadagnata s’avea ; non ſi dee imper 1.2 . P ; CXLV2Livi , come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire ; anzi morilli Mar. cello in Baja , come teſtimonia Properzio , il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu . Neſembramiveriſimile ciò , che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala , facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia , e fargliene ſervigio ; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit , ſono ſue parole , gratificari ei , que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello ,che in quelle di Stabia , la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte , che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe , e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita ; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote : Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije : coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo , e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore , il ſoffogallero : o di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto ; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato . Ma paſſiam oltre a dir DelSig.Lionardo di Capoa. 379 a dir di Clinia da Marſiglia . Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco ,e ſuperſtizioſa : imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno ,o cibo , o medi cina , fuor ſolamente , che in certi puntiaſtrologici di fito , o dicongiunzioni della luna , o d'altri corpi celefti : e bert gli approdarono sì fatte malizie ; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne ;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria , e parte alla medeſima ne fe dono , acciocchèpoter Le riſtorar quelle , quando huopo ciò lor foſſe . Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina , non avendene niuna certa , e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata , ch'un ſottile , e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance , e promeſſe le troppo credule perſone . Ma forſe , come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea : ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe , ne trar fuora gli cſerciti , ne far giornate , nc alcuna coſa di confiderazione , o civile , o militare ado perare , ne mai ſarebbon andati a gucreggiare , ſe prima non perſuadevano a l'ofte , che gli augurj avean promeſſo loro la vittoria , affinchè i Coldati maggiormente incorag . giati prédeſſero ſperanza divincere : dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria : così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle medicine loro preſcritte ; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina , la quale da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata ;ma dalla minuta gente giovevole , e neceſſaria giudicata ; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo , Bbb 2 che 380 Ragionamento Quinto cono . 1 che foſſe non meno fciocco ,che ſtrano, come quello, che poſti in non cale , e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno , vana per avvé tura , eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla ; imperciocchè chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo , ben toſto ſcorgerà i mancamenti , e i difetti di quella : i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina , quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono ;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina , ch'e'medefimoconfeſſa , e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie : a bello ſtudio par , che riltando in s l'ali , o dando lunghe , e inutili aggiratc , a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano . Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo , ch'egli inneſta in ſu'lſecco , or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina , niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori , e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode , ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando , renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero , e fiſio comodo come naſcano , o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità ,ma ſolamente le ponga già nate ; ne men , quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita ; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare , ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda , ne pur gli effetti che per lc , o per accidente da lor fortiſcono . Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natu Del Sig . Lionardodi Capoa 381 natura della materia , dalla quale quelle dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura; il che quanto monti , agevolmente da ciò potrà comprenderli , che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali , ne la natura delle malattie , ne le cagioni diquelle , ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere . Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe , o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle ; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà , in che conſiſta la árminatío , o nimiſti , che tra loro eſser fi dice ; perchè anche ne fiegue , che non ſi ſappiano , ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare , che ſeconde chiamanli ,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano , giudica , che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo , o caldo , o temperato, pur nelle ferite meſ lo , dolore , e infiammagione apporti ;e che non altrimenti , che dal caldo , dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri ; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della medicinapiantato ; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò , che nella naturä vedeſi . Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della natura , fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza , o pur alla forina eſsenziale , all'amiſtà , o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le coſc , e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote . Quindi: per racer del Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, 1 382 Ragionamento Quinto . ränt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis , nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea , qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem . Talia verofuntelementa Galenicorum : ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis , carnis , fuccini,magnetis , & cetera ſecundum formam eſsentialem . E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones , & qualitates infunt , per commune quoddams principum infint neceſse eſt ;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram , calida propter ignem . At colores,odores , Sapores efse progosov , fimilia alia , mineralibus, metallis , gema mis , lapidibus ,plantis , animalibus infunt . Ergo per com mune aliquod principium , & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa : nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam . Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men , che tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole , ed oſcura intorno all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura ,e la cagione di qualche ſtra na , c non conoſciuta malattia , allora abbandonato affac to il lor maeſtro Galjeno , e poſta in non cale ogni ſua dot trina , ed ogni diviſamento della ſua razionale , e vana mie dicina , a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano , E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno ; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più , e più fiate diſegnato , le facoltà non có fiftere in altro , che nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità , avviſando alla perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare , così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice , la chiama facoltà , o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di palpitare ; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza d'adoperar quelle coſe , chcin eſse ſi fan . 1 1 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 383 fi fanno . Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le facoltà , che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere ; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono , quelle fiate , che per Galien ſi ricorre ad una cagione , la qual eglimedeſimo , non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare ; e che egli ignorando , che coſa ſia veramente , inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla . E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar ,come le partide gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli , che ſico me al comandamento di Vulcano , ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più , o neno il fiato ; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano ; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer immobile , ed ozioſa ; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli , sì che le vene non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono : ma l'attraggono , e lo preparano al fegato ; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo , gli da l'ultima perfezione di ſangue : müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα , και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας : τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ . γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος , ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον , ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας , και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva . Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo ; perchè malamente l'economia degli animali , ed ondenaſcan le malattie , ei luoghi , e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella , non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te , j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura , e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe , o nelle vene lattee , o in alą tre , cd altre infinite coie da’moderni deſcritte . Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore , e dei fingue : ritrovato , del quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio , e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo , che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te , craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva , quindi fperando, che'la medicina , quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte , in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità ; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità , ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea : Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio , e tempo in un'intero volume , laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira . · La maggiore, c principal parte , e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè , che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene ; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori , e falli ſottopoſta , che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto , e sì factamente negli Impiri ci dannano , erimordono . Ed è ciò dicanta conſiderazio ne , e rilievo , che in utili a baſtanza , c infruttuofe, e vane le contezze cutte della medicina , ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote : le qualitutte ad altro non fono indirizzate , che a diviſare , & proporre agli ammalati i cibi, siinçlicamen :1 , 3 ? fu conced.fipreselierelli 13,45's DelSig.Lionardo di Capoa. 385 ra , medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo umano , della cagione , e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi ? certamente per quel che Io micreda , niuno , ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci , e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti , e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno , e faggio conoſcimento dellana, tura , e della propietà di quelli avere ? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente , e incerta farà da dire la lor medicina ; per tal modo , che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile , e laudeyol titolo dell'Arte meritare . Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una menoma particella , che nella definizione , o nel partimento , o nel fillogiſmo dubbiofa fia , ed incerta, toſto dubbioſo , e incerto il tutto anche diviene ; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia . Senzachè la medicina in tanto è arte , e conſeguenteinente certa , in quanto ella ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini . Adunque non eſſendo queſti certi , ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina . Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti , e più dorti eglino ſono , tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare ; ne dalla lor doctrina , e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va ; imperocchè manifeftiffima coſa è , che Galieno mede ſimo, non che altri , con iſchiettezza veramenteda filoſo fo , e degna di lui , molte , e molte fiate apertamente il co felli ; ed una infra l'altre mordendo , e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi , che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo : non laſciaremoin Сcc . tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore , e dall'odore, e dal fa pore , e dalpeſo , e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano . Quindi appreſſo ſoggiugne , che tutta la ragione d'eſaminare , e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter debbia , avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj . Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe . Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum , rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus ; fed ex modo , quo nos afficiunt ſolum ; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat , fed tota fit empirica . Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro , e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato : Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit ,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata . Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe : nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum : quoniam hic author nihil , quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum , quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità : poichè , per tacer d'altro , non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato , il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia , ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice , che quelli non ſiano ſtati mai , ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali ( ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele , ſpezialmente intorno alla materia prima , dice . mani Del Sig.Lionardo di Capoa. 387 manifeſtamente , e confeſſa , che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente , dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione ; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti , cd inutili ciar le ; poichè avendo egli ſognato , che ſarebbon guariti due infermi , ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue , ei prontamente gliele craſſe , e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo , fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno ;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede , ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe ; ed Io il ridirovvi colle parole di lui ; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον , ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν , άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα , κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno , come fanno il Veſſalio ,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti , e tanti errori , che nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno : per non recarvi consì lungo racconto più di noja , che per avventura non ſi conviene . Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò ,che a ciaſcuno è manifeſto , che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance , che di coſe ripiene ; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe , a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle . Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota , chc la dottrina inſegnata da Ga lieno , per la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa , c peggio ſpiegata . Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione , di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 388 Ragionamento Quinto di Placone , e d'Ariſtotele , e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata ; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato , d’Aſclepiade , e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato . Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare , che mai fempreGalieno adopera , non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe ; e ſe talor e'fi pare , che viſcenda , il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale . E nelvero chi è , che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi , a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova , ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza ? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo , e del ſangue , della natura , e degli uficj , delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti ? Chi è per Dio , che non iſcorga , com'egli facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici , e com'e . gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del la natura , delle cagioni , e deglicfetti delle febbri , e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia ,e dell'Epilcilia . dicendo egli , amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da freddo , groſo , e tenace umore ; recandone per ragione , che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano ; o eſſendogli caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata ,più al vero conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando ; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea , e ſottile ; ſenzachè ſe ver folle , com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia , e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi , converrebbe chemai ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel DelSig. Lionardo di Capoa 389 ra , poplellia : e che queſta in quella mai ſempre terminalſe ; il che non ſi avviſa , ſe non ſe di rado ; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina , che non curoffi mai di aprir cadaveri ; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello , il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali , ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele :87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων , και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον ούτως . Or non fi coglie da ciò che è detto , che Galieno della coſtruttura delle parti del cervello , e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere , allor , ch'ci fa parole degli altri mali della teſta ; ed ora mi ſovviene ,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici , in così dicendo : ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini , cheaudaci , o fapienti non ſono , così la malinconia col fuo colore offuſcando , ed ottenebrando la ſedia dell'anima , le reca timore ; ne' qualiderti è certamente da ammirare , che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo :eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce , che coſa foſſe il colore , ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc , o'l diſcorſo in noi fi facciano ; perchè ragione volmente nel vero , comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato , e deriſo . Or come per Dio huom , che ſuperficialmente filoſofu della natura , e delle cagioni delle malattie , mai può in medicando della ragione valerſi ? .e certamente , per ta cer d'altro , a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare ; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana , cioè , che ſi cagioni la terzana dalla collera , la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che 390 Ragionamento Quinto la , che curar ſi debba per li contrarj ; le Galien non fa la natura della collera , come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca , e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda , e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario ? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo , e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co ; ma s'ei non fa qual ſia la natura del calore , e della ſic cità , e del fuoco ,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra , ne comprender mai potrà , come ella , e per chi s'im putridiſca , e come ella cagioni la febbre , e comea ciò ſi poffa dar compenſo . Certamente meglio partito egli avrebbe preſo , ſe della ſola impirica valuto li foſſe ;la qua le , ſecondo quel , ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale , Ne meno lo dirò , ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni , ed efficaci medica menti : c che egli la più gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj , ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti , e cra’volgari impiri ci ; perchè diſperato egli anco di ciò , fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine , e nella dieta , e ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo , aveſſe avuto Gi rolamo Cardano riguardo , certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera , nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis , pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi foſſe Galieno , il riconobbe , e l'ad ditò il Veffalio , che più del Cardano ne fudi gran lungu informato . De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui , che per iſpiegarne la cagione , alla facoltà ricorſe , ne punto ſeppe de’movimenti del ſangue ? Ma nella loica , quanto egli poco valce , il dica Aver roc, i 1 DelSig. Lionardo di Capoa 391 tropo ſtudio . roc , il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo . Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere , il della loica : e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò , s'egli non ſapea ,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare ? e tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato ; e dicoloro , che dopo lui vennero , paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina . Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro , che le coſe mede fime dagli antichi già dette , malamente per lor compreſe , e peggio rapportate , compilare ; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori , ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio , che di tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio . Ma dovea purGiulia no , ſe filoſofante era , qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui , avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma , che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio ; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati , edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre , anzi alle ciance , e alle lunghe dicerie , che alle fal de operazioni avean l'animotutto , e'l penſiero rivolto . E sì , e tanto queſta ſconcia , e biaſimevol coſtuma crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici , ancora,laſciando da parte le loro pruove , e le ſperienze , tutti nelle ciuffole , e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta , ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria , e'l tempo in contraſtare ! ic 392 Ragionamento Quinto le ſette razionali ; perchè in iſperimentare , e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe . E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico , ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato : il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni , alla natura , a’ſegni , e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale , così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è , che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui , che alle tante , e tante pruove fatte permefin'ora ; dal che moſſo lo infermo , diede di botto comıniato al van ſofiſta , e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi . Ma certamente cotanto ciarlare , e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica ;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no . E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà , non che per dono , ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale , che per fermo eglino ebbero , e per coſtante , così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere , Ritroſi ancora ſi parvero , e negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti , come faldede gli animali ; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e , conomnia , e l'ingenerazioni , e gliavanzamenti delle ma lattie ; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti , la quale così dubbia , incer ta , e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche , e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare , e confuſe , E ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride , il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere , o falſe elle fi foſſero , di tut te pienamente fece faſtello ; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio , per Paplo , per Aczio , per Simon Seti trat DelSig.Lionardo di Capoa 393 tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo ,o.umis do , oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero .. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato , certamente il fanno dove e * no'l merita ; ficoinc allo.incontro il commendano , dove no'l vale . Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride , ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian pervenute : ma perchè eglino vi ſia cauri , guardinghi, e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza . E quinciancor manifeftamente s'avviſa , che non che nulle giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio loro oltremodo nocque ; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere, che nelle limite , e ben culte ſtorie loro . Io tralaſcio di far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare , quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare , e comporre infieme imedicamenti femplicida colui , che di quellinon fia pienamente informato . E ben s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci ,.e più ſtimari della . poco lieta uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio , e ben regolato vivere , l'arte tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero ; e sì , e tanto-in.ciò furono ritenuti , e rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano , cad altri la fo la mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici ; perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire icadaveri; avvegnachè una tal Did dili . 394 Ragionamento Quinto diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova , più toſto ſia effetto ,che cagion delmale ; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re . Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali , ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo ; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate , elleno ſon cosi rozze, ed imperfette , che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede . Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni , che ſi ſono attentati di ſcriverle , comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera , o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie , ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie :0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano ; ſe pur non ſon elli imalizio fi , che le coſe ſempre aroveſcio , e travolte ne vogliono da re a divedere ; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe , per difender le loro opinioni tutto di van recando . Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che , tal ſovente videli , nonche ad altri ,ma a ſe me d'elimi far contraſto ; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi , e le malagevolezze di quell'arte , che eglino cotanto con biftentis e vigilie , e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare , emaggiormente offuſcaro no ; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno , il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera ; incontraſtabil cagione . E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo , il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate , e riprovate . Finalmente ſi conoſce , che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato ; imperocchè les aveffer 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa . 395 aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto , certame te qualche veſtigio appo gli autori , chealle noſtre mani so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata , e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le faccia più meſtiere . E ciò maggiormente , che dagli Arabi fu maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato . Ma egli è in iſtato più miſerevole la loro ſcuola , che dove alcunas volta Ippocrate , e Galieno non dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono , ella ſconciamente gli abbandona . Nel rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor ſolamente aver letto , o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe, che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca favella , l'un ſemplice , e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe , emolte non inteſero ; ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura , fe di vantaggio qualche lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo . Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi ritrovati ve ne abbia forſe saluno , che a que' de Greci prevaglia . , niente dimeno nulla ,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno , ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero , per cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape , le Mulſe, gli Offimeli ſem plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi ; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero ,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo ; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante , e perciò alle viſcere nocevole oltremodo , e nimici; della quale il miele è affatto privo , mercè , che le apiil rendon volatile , Ddd 2 e fot 1 390 RagionamentoQuinto é fottile , e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono ; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne , che men acuto anche , e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta . Maſenza più diftendermi in queſto , ayendovifaſtiditi pur troppo , lo fo quì fine al mio ragio mare . RA : 397 RAGIONAMENTO SE S TO, vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra , tutta lieta: , e feſteggiante ringiovaniſce , e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte ; e fiabe belliſce : cosìparimente;o Signori ,le ſcienze , e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano , cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella ,d'o, gni ſcienza antichemadri , riſurte fiorivano ; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto ; ne l'Archițettura più , 12.Muſica ,o la Pittura , o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva ; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento , in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe , efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala 299 Ragionamento Sesto 3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi , e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch , avallar doveſſerola ſignoria di coloro , e la medicina , e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà ; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune ; e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti . Maggior gloria certamente fu di coſtoro , i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa , e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro , i quali in prima ſetteggiando a lor talento , nel confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti; c . s'eglino , i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione , ed i primi ri trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono : che farà da dir di coſtoro , i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto ,e d'ogni erbaccia purga to : anzi cotanto duro , e mafagevole , e ſpiuoſo il ritrova rono , che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti : quanto egli è du To , e quaſi impoſſibile , allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate ,a far loro cambiar uſanza , ericre derle , e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire , ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero : che non fu di coloro , i quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata , cpre ſcritta uſanza da ſuperare . Ma ciò al preſente laſciando , trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento ; e diremo chente , e quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina . 1 + 1 Egli Del Sig.LionardodiCapoa. 399 Egli fembracertamente , che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico , e filoſofante Bafilio Valentino , monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi , e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura : comcchè co ' falalli ,e colle purgagioni , e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male . Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe , e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi , diede egli cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina , chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo . Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina que’tre principi , de'quali anche ſer veli il Paracelſo : çiò ſono zolfo , ſale , e mercurio ; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò , che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi . Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla , laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi ; perciocchè ben doveva egli avvi ſare , quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele , e di Galieno : e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo , che ſembra aver qualche ſembianza di vero , cioè , che icorpi tutti in iſciogliendoſi , a quelli come aloro primi componenti ritornino , ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa . to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo . Adunque egli giudica , che tutte coſe abbian lor materia , e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione : e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli 400 Ragionamento Seſto 1 1 dagli elementi formata , e da’tre principj ſolfo , fale , e mer curio prodotta , e perfezionata ; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe ; que, ſon fue parole , exficcatione ignis , & aëris in terram formata eft . Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi , i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù , e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta ; ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo , pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente , e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò , comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo , e vano nel ſuo filoſofare . Perchè o colpa foſſe de'tempi , o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia , e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe , avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura ; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire , che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de vegetabi li , degli animali , e de'minerali procedono . Mapure egli , come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati , e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina , e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe , che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la , ne conſiglia , econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento , e dall'utile , che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có figlio , ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla , quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli , e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro , mercè la chimica conoſciuti ; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco , gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino , el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo , ſe non compiutamente fornita , a grande ſtato condotta ; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae ſtramento ; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo , e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo , ſolo le fifle me dicine approdar poſſano , ficome quelle , che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando , le quali toſto diſcorrendo per le Atrade , non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra . Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo , che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare ; allegandonc l'eſem plo del veleno , il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro , tragge , ed aſſorbiſce l'altro veleno ; ed in veggendo egli , che l'acqua arzente guariſce la Riſipola , immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe . Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con , ghiettura , ch'egli entrato ne’valti regni della natura , qui vi poi li ſmarriſfe , ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe ; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto , avreb be detto , che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità , gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino ; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire , e compornc tanti be veraggi , che vulnerarj ſon detri. Maciò , ch'è di maggior conſiderazione , cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare ( il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura , e tutt'altre proprietà di quelle particelle , onde i tre principj ſono formati , eco me , ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere , come il ſuo Vulcano fia conoſcitore , egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole , ficome e'di Eec CC CON 402 Ragionamento Sefto 1 ce con quelle parole , che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur , ignis ignem excitat , commotione vehementi , & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti , eper aërem accenditur , ita ut verè , & efficaciter ardeat ; fali maner: in cinere , &mercurius inde fe proripit una cum ſulphure ardente . Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na contezzadella naturadel fuoco ,di cuipoteva informar ſi dalle continue operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo ,egli in sifatramaniera none avreb be ragionato .. E ſe in cocal guiſa foſſe andato confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi , NTOI farebbe ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in aceto . Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo , e poco ſtabile ;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento , ch'eglieb be del noſtro corto intendimento , e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente in filoſofando . Il perchè preſe ad eſclamare una fiata . Bone Deus !'natura à nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus conftitueris adeobreve , & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in creaturis; que non ſcientiæ , fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai di venire a Teofraſto Paracelſo ; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto , dal Cortino , dal Riolano padre , e da altri famoſi Galieniſti calcata ; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero , porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam intellectus ; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni , che già più fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele , e'llor Galicno adoperate : intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire , che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra ; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe 1 di mio Del Sig.LionardodiCapoa. 403 di mio talento , e ſpezialmente quelle , ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien piantato .. Lamedicina del Paracelſo , quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja , e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata , e profondata lilia , cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie , per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor fano : ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare : coſa , la quale già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata ; e quantunque nel diviſarle cagioni ,e la natura delle målar tie , e diciù , ch'a quelle , ed all'economia degli animali s'appartenga , valentiſſimo egli fia : edil ſuo autore abbia trovati , e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi ; e quantınque alcuno dir giuſtamen te vaglia , aver lui aſſai più di lume , e di vantaggio , e d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro , che co® loro infiniti , e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori , così Greci , come Latini inſieme s'ayefſer mai fac to ; non però di meno chiunque con occhio filoſofico , e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole , ed intralciata , e le ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella . E tutto ciò certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere ad intendiméto uma no , come di ſopra baſtantemente è detto ; ed ancora per chè il Paracelſo a tante , e sì diverſe , e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato , Che dal troppo veder men'alto intende, tutto vinto , e tremolante più oltre non osò guatare : ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto inuoltrar fi dovea ; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il 1 404 Ragionamento Seſto 1 1 Il montanaro , e rimirando ammuta, Quando rozzo , e ſalvatico s'inurba. Perchènon men , cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza , e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità : ene men inveſtigando onde avvenir poſfa , ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re , e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie ; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura , o alla proprietà , o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente , ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi . Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa , convien la coſaw più minutamente diſaminare . Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare , che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to , che due elementiin ſe contiene , ciò ſono il fuoco , Paria : e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua , e la terra . I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli , chela luce , e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono , allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze , e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono , varie , e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare : i principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali , o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi . Gli elementi ſono due , uno è fecco , il qual terra dannata , e cenere , carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido , il qual flemmafi dice . La Del Sig.Lionardo di Capoa 405 La terra dannata non ha virtù alcuna , ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono ; e la flemma parimente al tro non adopera , che ammollare , e inumidire ; perchè ſon dette principi paſſivi . Ma non ſolamente la ficcità , e l'umidore, giudica il Pa racelſo , che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora ,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono , dice egli ad altro non ſervire , fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui , tutte , e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te , e ozioſe ; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale . Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol , che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire , che fecondamente chè giudica il Paracelſo , le quattro volgari qualità altro non adoperino , che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali , che attivi egli chiama ; ſono anchetre , fecondo lui ; ciò ſono il Sale , il Solfo , e'l Mercurio . Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda , ſavorofa , la , qual disfaſli , e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca , e li raſſoda : e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo , agevole ad accender fi . E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe : e per lo ſolfo gli odori in quelle fpirano . Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo , echiariſſimo , il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando , agevolmente ſi diſperde , ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre , egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi ; e non potendoſi il fale meſcola re , s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime particelle , fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare . Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo ; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo : ſi age 406 Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto , fonde il ſolfo , e maggiormente disfallo , acciocchè poſla diſcorrere , e meſcolarſi acconciamente a formarle coſe del mondo . Vien poiil mercurio , il quale a guiſa d'anima nel corpo , per cutto penetra , e diſcorre ; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po , ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia , es’at trae la ſoverchia acqua , chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de corpidivengono . Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che diſtruggendofi qualunque corpo , in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva : e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in altro giammai cambiarli , o folverſi : egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento , e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele , e di Galicno intorno a’loro priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze , e non altre dice il Paracelſo eſſeri veri principi delle core . Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal di viſo del Paracelſo , non vo'ora opporgli , che y’abbia alcu ni corpi , i quali , come affermal'Elmonte , e altri valoroſi maeſtri in Chimica , non ſi poſſano maidisfare , o fciorre nelle loktanze da lui avviſate ; ficome certamente è l'oro , e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti ; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò , che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi : e che prima in quelli in niun modo alliguavano ; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua , le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi pare , era in priina nellegno : e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo maccramento il ſale ; anzi dirà il Para . Del Sig. Lionardodi Capoa. 407 Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno , e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne , e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge ; per ciocchè in quello ſommamente abbondano ; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica , o ben fati colo favorio di diligentemaeſtro ; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato . Nepuò il fuoco , per direvole , e gagliardo , ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo ,ne mer . curio, ne fale non alligna , non ſi potrà per opera difuo co , orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte , che dall'arena; dalla ſelce , non maiſolfo , o mercurio ſi può trarre ; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe , e poche , che nel volerle diſa minare ſi difperdono . Ne recherò , che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene , e le pietre : le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo ; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo , edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare ; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze , che ne ſvaporano . Ne dirò pur coll'Elmonte , ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa , che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio , e l'o lio poi tramutato in acqua ; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede , fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe veduto . E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella dell'Elmonte , ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua , due once , e mezza di ſale , e dodici d'olio , perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo , che l'olio ſi ſia nuovamente dal 408 Ragionamento Sefto , dal Cale acetoſo della gromma ingenerato; conciofoſſecofa , che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe ,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo , e i ſuoi principj : ficome quelli , a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe . Sola mente dirò , che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle coſe ; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò ,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza dellavorio , ſi rende quaſi egli impoſſibile ; ſen zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino , e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te ; c altre comechè pur virimangano , nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan comprendere , non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento , che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea , come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te , e quelle , ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino ,eco me operino , ſe pure il fanno ; ne è maraviglia , che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto : da che egli non ſa qual ſia la lor natura ; ne certamente ſaperla , anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva , non ſappiendo la natura della ſoſtanza ,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare , che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza , qual veramente giudicavaſi , dovea ben'egli in avviſando , che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe , prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc , e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli ; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato ; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie , e diverſe figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa 409 de' ſuoi principj cagione ; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero : eche non eglino , ma il corpo medeſimo in varie , e diverſe brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice , e cominciamento . Ma intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo , ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri , che ſotto ſuo nome vanno , èda dire , chemolto vaga , e in coſtante ella ſi foſ fe , e di pochiſſima fermezza . Il che altronde certamente non nacque , ſe non fe dall'avvederſi , ch'egli fe in medicão do , dell'incertezza grande dell'arte ; non però di meno egli pur convien confeffare , niuno ,per quel che ſi ſappia , aver avuto corante , e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie , quanto il Paracelſo ; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare , che non fu certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo , e avveduto , ch'a molto ſpazio , così nell' uno , come nell'altro non gliandaſic dietro . Perchè in tā to pregio , e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale tanto , o quanto della medicina cono ſciuto ,ma non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo . Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di , ancorachè alcuni di loro per uggia , e mal talento con biechi occhj il guardaſſero . Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo , così di luifcrive : creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum , quod Iafon apud Colchos conquifivit : ( Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit ; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres viros , quod magis miror , eft confequutus . E prima dello Spondano , Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno , e di lui per invidia inimico , pur dalla verità ſtret to ebbe a dire : audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis curatos : & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata . E al trove egli n'avea detto : Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR 410 RagionamentoSefto ( nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus , perva. gatus magnam Orbispartem : chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium , ita utper eam metalla immutaret . E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus introivit , metallorum , ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit , ad morbos defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque. videatur . Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta , e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto , e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice : Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert :doctioremme legiſememor non ſum .. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum : din univerſa philofophia tàm ardur , tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem : lepra , podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: &quotidie per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia , magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină ,quam non ex Hippocrate , fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre clarèfentio : admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat , & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per veduta anche di lui racco ta : pari induſtria novi ipſum leprofos , bydropicos , e pilepti cos , podagricos , morbo venereo infectos , aliofque innume ros infirmos gratis fanare . Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non potuerunt imitari ; unde in ma gnum DelSig.Lionardodi Capoa. 411 gnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera appunto , ove fraſtorna to dagli emuli dilui , e fommoſſoanch'egli in truppa , a rabbioſa monte mälmenarlo , infra le tante , e tantc menzogne , e cacce , che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna ( del che gravemente poi pencilſı , ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare , che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico , aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem , felicitatem , Quindi di luinarrando foggiugne , che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit , nulla victus præfcripta , aut obſervata ratione . E de'ſuoi mirabili , e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo , dice , ita gloriabatur , ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque aliquoties , dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza , che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in vita , e faccigli in morte famofiflimi eſcqui : volle , che nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto ; Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram ,podagram ,Hydropem , aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis , ac bona fua in pauperesdiftribuenda , callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo , comeche delle men nobiliel la li fia , alla contezza noſtra pervenuta ; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere . Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo , ebbe a dio re eller quelle così rare , e prezioſe , che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato . Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina , qual noiraccontato abbiamo; non per Fff 2 rò di 412 Ragionamento Seſto rò di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire : e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita , cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento niuno fchermire : comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur . Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato , e adoperarsì co'ſuoi valevoli , co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe , che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na , attenendoci a rimedjdeboli , eſpoſſati , per falvainen to delle noſtre vite ? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte , che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto ; perciocchè da quellola vita , e la morte noſtra de pende ; quod autem , dice egli , parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine , tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur , &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet , ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam ,ac fpem deponere . Etfi enim nocentia fimul omnia , &medicinarum fimulomnium virtutes , morbo rum genuinascaufas ; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè , ftatum formum omnem deftruit ; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus , ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani , noftraque molimina infrin , gant, & providentiam noftram , ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo , che comechè egli valentiſſimo medico , e filorow fante ftato foſſe , pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono ; cotanto piatto , e imbacuccato tant . egli 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 413 egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti ,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono . Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci , o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe ,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi , pochi egli ne volle inſe gnare :. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe , che ben ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia ; de'quali egli medeſimo favellanda , dice : in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent . , Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono , togliendo in cambiouna coſa per altra , e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro malattie , e ſovente anche uccidendogli . Vuole egli, che ciaſcuna malattia , toltenc quelle , che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle ancora , che dalle ſole qualità relolacce avvengono , le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono , dalle impurità ſemplici del ſale , o del mercurio , o del ſolfo , o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no . Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo , ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro , ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo . Le medicine , dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale , ch'è da curare ; perciocchè quantunque ognun fappia , che le malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti , e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor natura ; non però di meno le medicine , le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor generazione ; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità . Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie , così dica : caveat itaque medicus ne arbores duas in unams curam inferat :fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium : morbis falinis,falem :morbisfulphureis, ful 414 Ragionamento Sesto ſulphur ; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit . Ma in buona fe , che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo : igroravit bonus ille vir , quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita . Ne ciò è ſempre vero , che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare , cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum ; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte , e molte coſe il contrario avvenire . Ele pur talvolta incontra , che s'accozzino , certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo ,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono , i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono ;nei corpi ſpea rali , o ritondi , comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi : avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo :Scorpio ſcorpionem curat , realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium , meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello , che egli va diviſando ; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe , nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno , e acconcj anche a riceverlo , più agevolmente il ricevono dalla ferita , ch'egli fa nella carne d'alcuno , che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella ; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella fcrita , volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano . E queſte ſono le con tezze ,che deve avere il medico avveduto per doverpren . der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze , o altre fraſche , le quali agevolmente poſ fono ingannarlo , e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma , e colla terra dannata, e altri, Catri Del Sig. Lionardodi Capoa. 415 $ 1 e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli ? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa . racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando ; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio , o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo , feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi , ch'a ciò il conduffero . Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle , che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida , ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale , come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio , non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe , ne'curar di vene łatice , o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo , o della circulazion del ſangueso dal tri , e d'altrimoderniritrovati : comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate . E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione , o ad altra coſa del mondo , igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto , ſe egli diquella erisì ben fornito ; perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo , e ajutario sì fattamente , ch'egline ſolva , vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo . Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta , e participan te della natura celeſtiale : onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile ; adunque corale eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj , acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa . Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai , anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder , che quella ci ſia , o pofla mai eſſere :av : vegna pure , chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte , e diverſe generazioni di graviſ fime malattie . Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure , e argomentoffi dicomporre , e lavora te con ſuo gran biſtento , e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto , ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli , ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe , e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli , e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato , no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore , e della vir tù della ſua univerſal medicina . Ne meno egli certamente detto avrebbe , che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie , cche i caratteri , e le immagini ſcolpite nelle piaſtre , e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle ; ne farebbeli follemente ſognato , che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli , ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini , e ſi fonda : onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie : e che'l ſale , e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino , fi ſublimino , e ficalcinino cagionando le malattie : è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione delle ſubitane morti , e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo , e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte : e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano , quante ci ha coſe create : e tante , e tant'altre ciuffo le , e aggiramenti , che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo . E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto ſciocco , qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia , c per diſpetto cosìdiſguiſate , e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro , e altrs, o ſciocche, o fans 1 1 Del Sig. Lionardo di Capos 417 o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue , licome il medeſimo Oporino , che così fellonoſamente rubbellogli ſi , manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla , c dir glicne male ; ſenzachè manifeſta coſa è , che quelle , che ragionevolmente ſon da credere opere ſue , vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate , ne più poi per innan zi rivedute ; perciocchè egli dal ſuo focoſo , e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe , e quali dal profondo della natura cavarle , con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare ,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto , s'a ciò tempo aveſſe avuto ; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli ; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco , e diviſato rimaſe , qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni , che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari ; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi ; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio ,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro , cheegli li voleva dire . E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto , quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite , ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte ; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco , o nulla intendenti , così confuſe , c inviluppate di vennero , che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne , iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza , ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi , e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono ; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piat 418 Ragionamento Seſto sì piatto , e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente , e con lunga fatica agli huomini dotti , e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice : ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus , id factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men , che come corpo morto ſenza vita rimane : non può certamente eſſere ne filoſofo , nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò ,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato .. Fra Tomaſſo Campanella , comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe , pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali , cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli ſono , che il ritrovar la verità . Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro , per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie ,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi ; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura ; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina , dalui fabbri cato , manchevole oltremodo , e difettuoſo riuſciffe . Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo ; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma Del Sig. Lionardodi Capoa 419 Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia ; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti , dicendo il fegato efferfonte , c origine del ſangue e la milza del fiele : e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli , cor Jan guinis jecur ,fplen fellis , & alia aliorum ; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent ;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur , ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia , d originis . Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno : Quid horum eft , quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc , che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza ; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo , e col movimento all'altre membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli.. : Ma che direm nai del fiſtema di lui , della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone ? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co fe , i quali egli chiamaagenti: e l'umidità , e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia , ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da : e ſi rondafecca , ingroffata dal freddo . Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo : nè'l ſecco con altro , che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo : 04 fecco col caldo , dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti . Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco ; perciocchè il caldo ſolve le coſe , e le allarga , e l'aſſorti glia : e'l freddo per contrario le indura , le ſtrigne , e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze , o for me eſſenziali , de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo , c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 le cgli, 420 Ragionamento Seſto fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente , non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è ,chc dice egli eſſer : altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc ; daʼqualivuol egli , che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce . E queſti principj incorporei , o primalità , ch'egli chiama, vuol egli , cheſiano lapotenza, la ſapienza , e l'amore ; onde ciaſcuna coſa voglia , poffaw , e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione . Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura ,non fa meſtier , ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura , ma altre , e altre coſe diver filime da quelle ; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo , e del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi , non che dichiarare , fe quelli vera mente operino , e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare ; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro ; perchè manifeſtamente s'avviſa , che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele : e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe ; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più ; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente , che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello , ne del ſecco , o del dolce ,, o dell'amaro , o di tuce'altre ſenſibili qualitadi . Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun , che riguardiall'acqua , che per lo freddo congelata fi rarifica , agevolmente ſi può avviſare , che non feiapre il freddo condenſi le coſe . Mache è ciò ch'egli di ce , che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò cre 1 . 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 421 1 credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio , ne l'Elmente ,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono . Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità , c'huom finte da lui non le creda , e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo ,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni , che da lor procedere tutto dinoi veggiamo . Ma per darci ad intendere , che le coſe tutte abbian ſenſo , do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni , i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella ,che l'huomo ſi componga del fal do , dell'umido , dello ſpirito , e dell'anima ; e che la ſal dezza dalla denſità naſca , e queſta dallo ſpeſſo , e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga ; perchè dice egli, che le coſe condenſe , e falde , sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute , dice eglieffer la ſpiritualità : la qual non che reſiſta al toccamento , anziella dileguiſ immantinente ,e fugge da ognjintoppo . Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale , ma ſicomeeglichiama, affettiva :dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene , riſcuotonſi quelli , e combattendo diſcacciano ciò , cheloro è d'impedimento . Soggiugne il Campanella , ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe , e per non dover ſeccarſi, erõperſi :e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo , o di ri cetto , che loro dia luogo ,e le ſoſtenga . Ma agli ſpiriti,di ec egli , far luogo le parti umide ,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino : e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino , e non ſi portin via ; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito , acciocchè quello pre 422 Ragionamento Sefto premendo il cibo , e traendone il fucco , il formi: e ſomi gliante , acciocchè per quello ſi riſcaldi , e diſcorra ; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito , acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito , acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo , e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda ; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito : dalle cui paflioni ella vien rattenuta , o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo . Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte , maggior capital facendo degli agj propj di ſe , e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti ; che le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora : le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema , e rintuzzare il diviſamento del Campanella ? Egli non ha dubbio veruno , che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani , e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina , conveniva in prima molto bene la natura del corpo inveſtigare , e di ciò che a quello avvenir poffa : ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola ,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti , emolci errori di Galieno , e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe : pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì ; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le m2 Del Sig . Lionardodi Capoa. 427 fc malattie , e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel le imprende a ragionare , che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato , e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow febbre : ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El , monte da lui tolia l'aveſſe ; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo ; ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la : Febris , dice egli , eft fpontanea .extraordinaria fpiritas agitatio , inflammatioque ad pugnam contra irritantem mora bificam cauſam : quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red ditque expulfioniapsan , vel extinétioni', velmeliorationi . Macomechè la febbre tutto ciò faceffe , nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è ella cert2 ; mente da dir malattia ; ſenzachè Io non ſolo , come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti : e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe , quando gli metra bene , riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta , e gli reca in toppoalle ſue operazioni . Cofia , la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole ,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga ; e alcuna fiata gli uni ,ė gli altri meſcolando compor fi convenga , acciocchè il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin . di il contrario combatrendolo il difçacci . Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta , che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone : fiquidem, dice , Sapone ex oleo , cinere , da calces confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum , & alliciente : cinere , calce fimul expellentibus, Quare , ſoggiugne poi , maculas vini ex calce , di vino fa . pone confecto educes; fihanc nofti magiam . Ma doveva av viſar pure il Campanella , non già per la fomiglianza , che pulla opera , l'olio con l'olio fi meſcola , el vino col vino ; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura , e per la diſpoſizione delle loro particel le ; e doveva egli pure inveftigar la cagione , per la quale la cenere , ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco . come egli dice , dall´altro olio , quello ne portin via ; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe , ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli , i qualiſe mai loro ven gono colti , la calcina , ne la cenere , ne anche il ſapone , che di lor fi lavora , non ſaranno d'efficacia alcuna ; ſenza . chè fe per fomiglianza è , che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti , e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli , e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de' panni lini , che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle : 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra , che quella ,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa , o l'erpice , elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina , ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj , appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino . E quinci , dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga , e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio , chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato ,che la carne della vipera non ſia veleno ? Perchè falſo , e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come , e quando de ſomiglianti ,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu : a'conſigli di lui certamente in niun modo attener nedob biamo , fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire . Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti , che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi ,dif ſe egli , che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti ; e pure il caltoreo, il 90 : Del Sig.Lionardo diCapoa. 425 il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto , che cagiona il letargo , avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora , che l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia . Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta , in cui colui dice , che ſi tragga il mercurio dell'argento , e che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit , cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia fimulnaturarum . Ma comechè in molte , e molte coſe , ficome accennato abbiamo falli il ſiſtema del Campanella , e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato ; impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina ; perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare ; eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi , che la noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab . bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla , e mandarla al ſuolo ; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele , e di Galieno , e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina ; ma non gli venne cotanto fatto , chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori , giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti ; quindi in tanti , e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves : cioè a dire , che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti , e tutte l'apparenze , che nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbo 1 426 Ragionamento Sefto 1 1 imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe , filoſofandoora col Paracelſo , e ora con Ga lieno , avviluppa il tutto , e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte ; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare , e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina . Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo , appo l'Elmonte,è l'ac qua , non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria , ne il fuoco , come quello , che non è ſo ftanża , ne accidente , ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione , con dire , che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi ; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi . Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio , e'l ſolfo,i quali da quel la per natura' , e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale , folfo , e mercurio , come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo , di fale , e di mercurio coinpoſta venga . Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente , che l'Elmonte non manifeftis pūto , come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi ; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion , che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta , e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo , Quis unquam mortalium novit quid fit aqua ? qua tamen creatorum eft maximè obvia , aperta ,viſibilis,atranslucida ? tantum enim deea Del Sig.LionardodiCapoa. 427 de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum : quod fit .corpusgrave , liquidum , humidum ,digitocedens , fluidum , amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum ,attenuabia le in vaporem :nemo tamē novit internam aquaquidditatem , vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua ; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile , e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe ; im perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto ,e meſcolato d'atto , e di potenza , ei freddo, e umido , ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto , per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe , che acqua non ſono, e in che conſiſta la potenza , e come ſi maturi nell'atto , e venga a perfezione , sì che acqua , se non altra coſa più coſto quella divenga : ne diviſando , che coſa las freddezza fia , ed onde avvegna il diſcorrimento , ne per qualcagione alcuni de'corpi liquidi , e corſoj, umoroſi an. cor ſiano , ed altri no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua , ne più di ciò che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia . Ma fe l’Elmonte aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi mnaraviglioſi avanzi del le divine opere , ch'ancor fi riſerbano di Democrito , o al diviſar degli altribuoni filoſofanti : o pur s'egli, ficome conveniva , dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle ſottilmente ſtudiato ſifoffe : o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto mente : Io ſon ben certo , che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella ,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento , a queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la natura di quella . E certamente in ciò , che ſi apro Hhh 2 no, e 42.8 Ragionamento Sefto ño , e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili : e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto : e dal riempiere gli ſpazj , e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella , che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli lafciano , vien preſcritta : e dall'avviſare , che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia : ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili , e tra eſſo loro in atto partite , e fpiccate per un.. cotal movimento continuo , che non mai le laſcia appicca re , e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare , e si riparare all'ignoranza , ch'egli di se medeſi mo ne confeffa ; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente , egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome , e inſenſibili particelle , le quali sì fattamente fixo no accozzate ,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa : avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite ,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano , ne meno per alcuno de’loro lati : e ſeguentemente continuo ſi muovano . E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo ; concioffiecofa chè l'acque , comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento , checosì l'acqua ſciolta ritiene , abbia le par cicelle ſue , o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a : quelle comunicate ;: perciocchè l'acqua , almeno perquel che noi avviſiamo , cede cheta al toccamento , e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere : e di lataſi a'raggi della luce : e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza , che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati : avve gna 1 3 DelSig.Lionardo di Capoa 429 1 gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto , convengano eſſer diverſamente foggiati ; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le , ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare . E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti , e or dinari ſono , che agevolmente per entro , e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti , ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano , i quali tanto , o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro , c talotta anche in parte , o in tutto gli ſolvano ; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo , e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia :non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle , ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco , Platone , altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica , e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le : 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio : Alfonſo Bor relli , il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis , &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum , ſcilicet concipide bet interna , & individua qualibet aquæparticula , ſolidad's &dura : cujus figura octaedra . E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro , o almeno poco diſſomiglianci ; la qual for 1 1 430 Ragionamento Sefto forma loro , o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole , che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare ; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto , ne mai, per quanto Io poſſa comprendere , certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti . E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga ., o di caldo , o di freddo,o di altra imma ginabile qualità ; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella , che ella in agghiacciando riceve , o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta , e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua , ma il ſito ſolamente , e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole , l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente , come ſi dice , ſuggellata das Criſtofano Clavio , la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata ; e altre acque ancora per più ,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo ; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura , emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate : Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte , che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare , il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era : che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più , ch'altrove ſerrati gli aveſſe ; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento , emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce , quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta Del Sig.Lionardodi Capoa. 431 1 e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente ,ch'alta vena preme foverchiando il letto , ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe . E quinci certamente viene , che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno ,cheGalieno fi aveſſe fatto ; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello :altri ne toglic in preſto dal Paracel fo , come gli Archei, i Blas' , i Magnali;e quelFormento , il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole , eft ens creatum form male, quod neque fubftantia , neque accidensfed , neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia , ut femina preparet;exiſtat , a precedat; con che' , e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico , da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro , di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva ,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto , e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le , ch'egli traſcurò la morta , ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto ; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili , e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ' , che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio , quando così di lui diſſe ; hic auctor , utu eunque acerrimi ingenii ,in eo fuitminus felix , quod .veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro . Per ciocchè oltre alla contezza delle buone , e valevoli medi cine , , ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli 432 Ragionamento Seſto . co egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu , ch'avviſando i graviflimi danni , che per li ſalaſſi , e per.le purgagionipoſſono intervenire : e'l veleno , che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu , e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario , comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit . Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo ,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo , che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine , operare, le quali ſenza recar moleftia , o noja alcuna allo in. fermo , fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi , e pericoloſe malattie , che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato , e quaſia miracolo tenuto . Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole di lui , e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte , Chymicarum ,dice ,operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt , ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius , altius fe infinuantibus , & remediis à natura productis cedere ne Sciis , primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio , Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis , ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici d'orrevolmente commendarnelo , ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio , che nó ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo . Ma cotantielo gj pur nulla fono in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro ſecolo , ciò ſono il Gallen do , elBoile , ed altrimolci di non poco pregio . Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello , che niuna delle ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wife DelSig. Lionardo diCapod 433 wifeſtar ci abbia voluto , e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo ; non do vea pure egli , che sì corteſe , umano , e compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa , che di tanto pro era al mondo rutro ,dovea diftos lui , lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine . Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe , con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera , ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe , avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato , Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu . mò lungo tempo , ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa , ſenza alcun fruta to mai ritrarne ; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina , chevalevole a domarfolie le malattie ; e quantunque egli dì , e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini , e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti , e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano , o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito , di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando ; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj , e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do : Si rationes mea , cu experientia non optimę videan tur , trutinentur , &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino , Celia minentur prorſus à fcholis : quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur ,tutabuntur . Primieramente avviſa il Fabbrila materia , onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile , viſibile , e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ , virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei ,come dalla ſua cagio nel'effetto . Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po : ma egli appenamefſoli in camino , ſmarrì il diritto fen : tiero .. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga : e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente favella . Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe , omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo , e diſcorrente , di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita , e tutte quelle coſe avvengano , che ſi oſſervano nellemalattie . Queſto ſpirito , dic' egli , che nel fegato e alquantogre /fo : ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello ; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce , la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc , non ſolo dello ſpirito , ma di tutt'altres coſe del mondo ... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce' , e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più , o meno , che lo spirito participidella luce , tanto più , o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga , Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito , e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver , reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere , che ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto del 1 $ . DelSie. Lionardodi Capod della lorvanica . E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore , che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate . Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian , doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu . monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo , c poi collc viole ; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo , che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla : ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito , acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema , ove vi ſia . Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa , che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro ,e'lſangue dell'Irco . E certamente dagli acetoſi medicamenti , che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro , che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera ; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto , e fievole per l'antecedente falaſſo , qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere ? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri , allorche dall'Elmonte ay viſato ,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes : MirorParifienfium medicorumpertinacitatem , curationem febrium , & ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar . ga , ocopiofa collocantium : cum fepe fæpius caulja moru. borum , & potisfimumfebrium tam continuarum , intermite sentium non refedeat in fanguine , imovirtus s proprietas: lii curana Ragionamento Seffo . curandi morborum omniü in fanguine collocetur ,cum arcbeūs visalis fanitatis economus , & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata ,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur , di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū , que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors ; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe ,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri , e quanto malagevole ; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza concette , e per vere al. cun tempoi fermamente credute ; il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge ;nella quale fto ria , e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi ; maciò traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò , licome poco addietro accennava , che troppo vacillante, e caduco e'fia ,eche il Fabbri poco , o niente non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione . - Ma la SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro , l'ordine de'tempi ( erbando , far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori de’mueſtri , e delle dottrine già da loro imbevute : pur tanto non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora incorrere ; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri razionali, è manchevole , e difertuofa ; edan co tale ventura certamente le avvenne , per non aver ellow avuta cortezza della chimica .Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel , che fi dovea,preſtata ... credenza alle parole di Platone ; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada della vera filofofia . Im. Del Sig . LionardodiCapod. 737 Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta , le cui radici fian nel cervello , onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco , i rami, è tutto il ri manence a mutrire , tal ſugo bianco vuol che ſia freddo , umido ; mache nel fegato facendoſi roſſo : caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue , in caldo , e fecco fi muri . Il calor del cuore crede ela la , che ſerva all'huomo , come it caldo del ſole alle pian te ; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle , o membrane, che vogliam dire, delle vene :mapoiin roſſo , e ſanguigno umor convertitos per altre vie , cioè per le vene, e per le arterie ritornare . Or queſto fugo ove ſia malignato ,fuor delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando , contro il provveduto ordinamento della natura . Tutto adunque il Florido ,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore , vuolella , chedalle radici , cioè a dire dal cerebro avvenga : la dove fc quella , che pia madre fi appella , la dura madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare, allorvederſiverdeggiante , e fiorita tutta la pianta : ma ſe mai divengan vizze , o alqua to s'abbaffino , fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più vita . Con queſto trovato , o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore , vaella tutti i con . venenti della vita , e della morte , e della generazione , u della corruttura dell'huomo , e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva ; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali , che non poffeno . fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala :ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem : Ma 738 Ragionamento Sesto Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio ; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe , ficome troppo groſſa , e ſciocca : e quella di Democri to , e d'Epicuro , ficomefoverchiamente ſottile , e da’ſenli lontana : alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia , e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ) .di ſale , di ſolfo , d'acqua , e di terra formata ſia ; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva . E con quelto cinque ſoſtanze , in ciò , che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne , ſi ſtudiacgli , e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura , e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici , ma comporte, e me ſcolate ; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte ; anzi egli dice , che non avendoviragionc , o ſtrada al cuna da potergli avviſare , ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento , e voler giudicarc allas ventura , ea riſchio delle.cofe del mondo , che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare , avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando , dica procudere,autfomniare philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è , ch'un andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna . Ma ciò laſcia do ſtare , o non s'avvede egli , o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli , e fi deprima, c come poi ſi cſalti , e come con gli al tri principj ſi meſcoli : c comc ammendi, e affreni i ftraboc chero 1 9 Del Sig.Lionardodi Capon . 439 chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale : é comequela to tante , e tant'altre operazioni faccia , le quali egligliat tribuiſce . Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano , ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva ; e colcoccare , che colmuovere ora in uno , oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare . Eben'e gli dovera ( ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare : cav vifare , chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole , ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi , che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte , e moltes particelle diviſo : le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano ;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare , ſe le ſue particelle picciolitime non fono , esì fåttamente foggiate , che molti gomiti 20 angoli, non abbiano . Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello , licomc egli dice , di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito ; e che da quello nafca il calore , cla varietà de'cofori , e degli odori alle co fe , e l'a lor bruttezza , e bellezza : c per la più parte la di verſità de' ſapori ; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe ,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente , afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo , argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite , e ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc . E què è danocare , come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del fuoco ; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici , in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi exiſtentiam , ac certum durationis modum obtin net . Quindifoggiugne : formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud , quam ejuſmo 440 Ragionamento Sefa 1 1 . 1 + ejufmodiparticularum impetuofius concitarum motus , deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri , e fpeffi , ficome far veggiamo al fuoco : il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi : non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato . Ma Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte , mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco , e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette , acciocchè agevolmente muovere , e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando , ricreduto , igannato inutaiparere . Convien dunque dire , chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare , e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra , e la propietà de'componenti di quelli . E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire , cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile , edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva ; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata , e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne . Eles non da altro , almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò , che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi , ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi , e da fiffi di nuovo volar ti . E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che con ! 1 1 1 + 0 Del Sig.Lionardodi Capoa. 441 1 convengano le particelleinfra loro , le qualicotante gener razionidifali compongono ; e in ciò ancora , che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano , divenendo da aſpri, e amari , e acetofi: dolci , e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò , che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano ;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura : 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie , e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya' , iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti : e l'altre generazioni de' fali cſfer più , o meno di quelleforniti , ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare , ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante . E comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto , o quanto probabili folamente , e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità ; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture ,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò , cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne , laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue , alle orine ,alle febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può , che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo , ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno ; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa , ch'egli afferma , ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato . Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventu Kkk raro 442 Ragionamento Seſto 1 rato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal , che nulla ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo ; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce' , non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui , quanto per ricredere , e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta ; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima detto . Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo , che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata ,ora maggiorméteper fuadere : cioè a dire che vano , e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale : ne medico poter giainmai in quella tane to , o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima , e inolto ſcorta diſaminazione , ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello , non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello , che in prima fapevamo :: cioè a dire nulla di certo . Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco ,, e infelice aſſai ; perciocchè dopo aver appreſa , ed eſercitata la medicina a quella guiſa , che in Inghilterra comunemente coſtumavali :volendo egli filoſofare ſopra quella , ſi perſuaſe , che le continue ſperienze , così.dover fi medicare additato aveſſero ; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità , ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina , che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe : anzi in qualche biſognatalvolta , ove i volgarimedici bene ado peravano , egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare , egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli Del Sig.Lionardo diCapoa. 443 egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice , per eſſenza ſempremaiſia : e che la pleureſi , la peri pneumonia , l'infiammagion della gola , e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre ; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi , e ſcemarla febbre , ſicome Icema , o creſce l'enfiagione ; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore , c l'enfiagione appa fiſcono : e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare , e a comunicarſi al ſangue , e far ſaccajan comincia altresì la febbre . Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite , e allor che qualche ſcheggia , o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca ;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane , e talor anche pertutto il corpoſi fpande ; e leav vien , che le fibre alcuna fiata enfino , ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento ; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto , ſicome immagina il Villilio ; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue , e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità : Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű . tur : fanguis in motu ſuo magis perturbatur : adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano , e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare :ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza , e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere ; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato , che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi , e mcnos'accenda , e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incen 1 2 1 444 Ragionamento Seſto incendimento diſcorrer poſſa , e riandar perla perſona .Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine , certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti , più negli effetti de’mali , che nelles cagioni di quelli s'indugia . E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti , ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace , e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo : mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta : come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue , che riman nella perſona , anch ' egli mordace , e pungente vi rimane ? certainente egli ancora , ſe non ſi addolcia , farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo , e ingenerar la febbre ; anzi tanto mag giormente , quanto per lo ſuo fcemo, più debole , e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza ,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo ; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera , diverrà ſenza fallo pig. giore : e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo : e manterrannc quel calo re , checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana ; perciocchè tra per lo cibo , che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda , e cotanto mal cagioni : ſicome a quel giovinetto nobile intervenne , di cui narra il medeſimo Villiſio ,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente , chequali ne fu per debolezzamorto , gliene ſeguirono fieriſſimivomiti ,e ſpalime , c rivolgime ci d'inceſtini : ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male . Vuole ancora il Villiſio , che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida , ac cioc Del Sig. Lionardodi Capoa 445 ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato : e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi . coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento . Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio , che liquorsche continuo muova , e diſcorra , ficome il ſangue , abbia quelle particelle , ch'egliſcioccamente chiama calde , le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate , ficome ficno in palco , maſſimainente , che pic cioliflime , e ritonde quelle fono , e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore ; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire , che fconcio , e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato ,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione , e'l riſcaldamento . Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato , ſe non già con falalli , ma con rimcdj acconcja ciò fare , ſicomealtrove per noi è detto , ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue , edirinfreſcarlo . Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli : quandoil medeſimo Ga lieno , che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli , e da fuggire . E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti ; non però di meno , ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via ; ne è da credere , che coloro che ne camparono ,fof fcro da falaſiajutati : anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre : e fuma raviglia , che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo : ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire , perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino , non effer mali ? Ma ben disi tra 440 Ragionamento Sefto 8 1 Travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio ; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe . Ma gľ Inghilefi , huominicotanto pertraffichi , e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo , Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici , e non più toſto rimirino alle varie , ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano , che ſenza laper mai di lanciuole , o dimignatte , e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano , altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità , che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie , e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno , e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio ; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande , d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio , manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi , e le purganti medicine adoperare , maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe , e maligne : alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale , non altrimenti , che ſe volgare impi rico e' fi foffe , conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare . In his cafibus , ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat ; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia : diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur , qua li demum methodo innitendum erit , donec ultimo crebro ten tamine , feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia , « Lata Del Sig .Lionardo di Capoa 447 ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus , monitiſquemunita , Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no , e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio cotanto certo , di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio , per eſſes e' ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento , rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe , di fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro , ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale ; ove egli s'ingegna di dar ragione dell'operazio ni tutte , che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam , prius fere intactam , fi nunc temere agreflus, non dignefatis abfoluero , veniam utcunque merebor , quia terram non modo: incognitam ,fed , GvaldeSalebrofam ,&quafi labyrintheam peragrare. incumbebat , fù’l priino aqueſta opera ; poichè il Paracelſo , e l'Elmonte , ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio , ne trattarono , tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne a queſti , nc al Villiſio , per non aver eglino conſide rata innanzi tratto , e riandata con diligenza la natura del la coſa , cioè que’principi primi , ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa , con quellafelicità , che le avca no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio , licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele , e di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine , la Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El mon 448 Ragionamento Sefto monte , di cui ſopra è detto , a quella apparare con tutto il ſuo intendimento , e con non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine , per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì , e tanto innoltroffi , cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte , e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito ,e poco cſper co Nocchiere , avvegnachè di ſarte , di - gomene , di ve le , di boffolo , e di tutto ciò , ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere , ſufficientemente ſia fornito : impertanto per nuovi , e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare , miſerevolmente inghiottito vi muore ; così il Silvio , comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice : e di non ordinaria medicina fornito , non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi , e quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego . Ma potrebbe alcun recare in dubbio , ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato , co me eglinevuoi dare a divedere ; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere , egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe , comechè una fiata dalla ra dezza , che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia , co mechè ,i per quel, ch'e'nedica , trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati , proteſtando le ſue dappocaggini , manifeſtamente dice : optabile foret naturalium rerum principia vera , eorundemque numerum certum , qualitates legitimas via,methodoq ; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé toſo , volle il ſuo ſiſtema diviſarne , dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera , e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto triumvirale ; che il ſucco pancreatico di 1 1 1 2 0 1.111 DelSigLionardo diCapoa. 449 ſangue , edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra ; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele ; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro , e volante , e comee'dice, liffiviale , da poča acqua foo Luto : in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva , la qualdegli ſpiriti animali , e della più ſalda , e tenace parte del ſangue com pofta , dalle glandole delle maſcelle per le docce , che falia vali diconft, alla bocca trapeli , e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda : e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori . Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo , e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta ; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo : ne dalla flemmadiffomigliante , ſe non ſe più alqua to ſottile ; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino , la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera , perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella , edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to , per lo quale la parte più groſſa , e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli : e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna ; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente , e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore : ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili , e alle fecces! meſcolandoſi , quelle maggiormente colorate , e tenaci ré. dere , Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio , dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol , che tutte le febbri dirivino ; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco , quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſa : 450 RagionamentoSefto ùfaço dimorando , maggiormente acetoſo divenga , e mor: dace ; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato : e naſcerne la febbre , qualdicono intermittente . E ſe quella parte della collora , della flemma , c del ſucco pancreatico , la quale al cuor ſi tragetta , non ſia ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj , e le contine febbri cagioni . Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti , e tre queſtiumori vuole il Silvio , che ciafcuna maa , lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe , eriotte abbia riſvegliate infra' medici un cosi ftrano ſiſtema , così vivendo il Silvio , come anche dopo ſua morte ; ma lo diciò non curando al preſente , folamente per quanto a mio propoſito s'appartiene , dico eſſer vera mente ingegnoſo , claudevoleil diviſamento del Silvio , e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya ; ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante ;machi ſpia più addentro , non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali e' glide fcrive , ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti , e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il ciene . Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità , ne poca , nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe , e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo ; perchè ra de volte ancora quel bollimento , ch'egli immagina ,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli ; anzi è egli imposſibi le , che per l'acetoſità il bollimento avvegna : ficome per pruova veggiamo , che il liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale , o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: DelSig. Lionardodi Capoa 451 bolla : che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio , da cui peravventura ciò apparò il Silvio : il qual contendendo co tro la manifeſta ſperienza , ne vuol dare adivedere , chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco , cheabboudi in collera ,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi , 1.3 il Silvio a dir , che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi ; per ciocchè, fe ciò foffe , inervicontinudrattratti , e in malei Itato ne ſarebbono : ſappicndo ben ciaſcuno , che l'acctori tà , ſicomc (triguente , e lazza, e pugnereccia , a’nerviol tremodo contraria , e nimica fia . Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia , comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento , chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo . E ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti ; perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono , e terzane , e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea , ficome anche il medeſimo Silvio confefla , oltremodo acetoſo s'avviſa . Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni : ciò che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio , e'l fiſtemadilui manda a terra , fiè , che egli trasa dando le fondamenta , a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia , il modo certamente del ſuo medicare , comechèpovero , e manchevole degli arcani dell'Elmonte , e del Paracelſo , non poco dee effer commendato ; perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine , e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe licità ,, e pregiodel ſuo nome ; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni troppa credenza : ele pole talora in opera , ove in tutto , e pertutto diſconvenivano : avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe . E come chè cgli dicoloro , che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' 452 3. Ragionamento Sesto folo può contrariare almale . Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune , andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli , che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi ,o fac cia qualche altro gran male ; non avviſando , che con altri ficuriargomenti , quandociòpur s'aveſſea temere , dar vi fi può compenſo , ſenza tor via , col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi , o fenfibile , o inſen fibile vacủazione , fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie , il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio ,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero , coltre alconvenevole ardito , imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti . Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio , il fales , e'l folfo , e dice quefti , licome in cotante arche , o matrici contenerſi negli elementi ; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro :cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe , in cui niun principio egli v'alloga ; l'aere , in cui ri fiede il mercurio ;l'acqua , ove ſtanzia il fale ; e la terra in cui dimora il ſolfo . Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva , vien dal folto ajutato , ed eccitato dal mercu rio ; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio , il riſplendere , il riſcaldare , l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua ; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco ; il mercurio è un certo ſpirito aeree , il qual coagula l'acqua , e'l fal volante rappiglia , e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce ,ed al ſolfo cótraſta .Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale , e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo . La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale . Indi Del Sig.Lionardo di Capod . 453 , 0 Indideltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare , così ne divifa : il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:( Delle qualità , che gli elementi compongono , due ne ſono attive , e due paſſive: attive ſono il calore , e la freddezza , paflive l'umidità , e la ſiccità . Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde , il ſole nelmondo celeſte , il fuoco nel mondo ele, mentale , e lo ſpirito vitale nelmondo animale , e tre allo incontro manifeſtamente fredde , la Luna , il mercurio , lo ſpirito animale . Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte ,dilornatura calde , e altre freddo , ma occulta mente ; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde , macelatamente , o accidentalmente ſi trovano : umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio ; ſecchiſ fime la terra , e'l fale . Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi , allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano . Le ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano . I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo , lam durezza dalla terra , e dal fale : la mollezza , e tenerezza , dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo , membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce , e falſe opinioni , che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ' , come faggiamente,il Verulamio avviſa : Elementorum commentum , quod avide à medicis acceptum , quatuor complexionum , quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum conjugationes poft fe traxit , tan quam malignum aliquod , infauftum fidus infinitam , & medicine ,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut 454 Ragionamento Sefto curto ,e pertutto inverigmile fembri ; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia ;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire , per non logorare fuor di propoſito il tempo . Mada tanti , e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio , aereos freddiffimo , e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento , ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa , e acquola parte del ſangue ; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere , e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé , il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be ; tragittaſi dal cuore perle vene , e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo coptrário ,la morte . Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da lui ſognato , e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del ſangue ; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di fuoco , e dar lui il moto , e'l vigore allo ſpirito ani male . Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo , e comunicando egli ſempremai più , ome no calore a cucce le parti delcorpo , come , e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo , e inmo bile ingenerarſi ? Coavien parimcnte poi , che'l Mcf ſonieri ci additi il modo , col quale s’uniſcano fralo ro , el diſuniſcano si farciſpiriti ; e altresì , che ſaper egli cifaccia , onde avvenga ,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale ; ccoine al lo in DelSig. Lionardo di Capoa. 455 lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi , ed eſtingua lo ſpirito vitale . Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano , vada ſovente errato ; e quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno ; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo , che qualor l'azione dell' animale , o del vitale ſpirito ſia impedita , gli huominiven gano damaloritravagliati ; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo ; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere , ſalvo che in tor via quelle cofe , che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder , che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti , cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall . Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero , e materiale effer ſi vede . Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia . Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima : ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno , impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina ; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto , che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe . Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole . Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis , & cognitionis inventrici) repugnare prefumat , nifi pro ratione fufficiat , multos pudere , cos pige me quiequam denovo admittere , quod confirmat& eorum upi niuni 456 Ragionamento Sefto nioni adverfetur , à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent , ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate , ne dicam Idololatria, Hippocratem , Ari ftotelem ; aGalenum venerari videas ,utquicquid ab illis non dictum , non dicendum , quicquid abillis incognitum , no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in moſtrar , che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non debba a crederſi , che ſian primi ; imperocchèegli vuole , che della materia ,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino , c'di queſti facciali il ſale , il ſolfo , e'l mercurio , che ſon terzi principi; i quali finalmél te col vario accozzamento loro , quanto v'hanell'univerſo coinpongano , Ed ecco , ſecondo lui , onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno ; ne’quali , allor , che il ſale , il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati , che non vengano fra ello lo ro a tetizone , n'avviene la ſanità , e per contrario lemalat tie . Diviſa egli , ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali ; dicendo , che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata , come è il fal comune , e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa , e in cerca fpecie di malinconia parimente acç. tofa , come è il ſale armoniaco ; e così ancora diſcorre ra gionando degli altri ſali , che ſono negli altri umori . Vna sì fatta dottrina fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare ,che celtaſſero le perſecuzioni chelor faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno ; anzi , come in tute gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi, eglino divennero d'ambedue le par ti nimici ; e come alga , o ondamarina , che da'contrarjvé . ti ſia , or quinci , orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate . Il per chè anche noi ſenza quì intertenerci immaginamo, che da quel , che di Galieno , e di Paracelſo addietro abbiam di: viſato , rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato ; imperocchè, ſe ne con gli elementi , ne co’principi chi Del Sig.Lionardo di Capoa 457 1 1 chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi : di ſeguente è da dir , che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa , che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via , il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio ;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito , e nella notomia , e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe ; impertanto non ſeppe egli sì , e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe , che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina , allor che veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali ,vuol , che il mercurio , o ſia lo ſpirito , e l'olio , c'l ſale , ela flemma , e'l capo morto , o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno , o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente , che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere , e quello dell'aria all'olio , e quel dell'acquz alla flemma , a quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe ,Signori ,chi non avviſa , che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia , e che le particelle , che'l compongono lian , piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao . E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere , la qual peravventura immagina il Glif fonio ; perciocchè l'aria , comechè diſcorrevole , c vagas oltremodo ſia , non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru , ciare acconcia , Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs , quali ſono il Mmm file, 1 4384 Ragionamento Seſto . slaai Cáte jela terra dannata , porre d'accorto , e far ch'una coſt fola , e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza , nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro , e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe ; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle : la qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare . Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli , al Paracello , e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò , cheeſli degli Archei mil lantando dicono : e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo , ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta : dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d ? altra parte coranti buoni , e pregiatiſſimi diviſamemi , chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo , che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore , il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale , e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali : e altri ſoſtegna : e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda : tenendola buona fperā. zagli fpiriti , iquali egli in feſta , e lietamente fa vivere . Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando , ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice , che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi ; e oltre a ciò contenga ancora , ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale , e animale , e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e movente chiama , da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte , c terminate . La facoltà percipiente , dicu , egli, DelSig :Lionardo diCapoa. 459 egli , che l'Idea dell'uovo , e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli , non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti , i quali egli può produrre , conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa ; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora , e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea ,e una cotal brama di quella limitata , sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno . E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione valevole , e acconcia , maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli , che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga ; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią , o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc , ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be . Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale , vita le , e animale ; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo : l'una fiè , che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera ; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita , e dimora : al quale in , acto egli fignoreggia . Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale ; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito , quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato , de’polmoni, del ven tricolo , della matrice , e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate . L'Archeo vi tale , licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione , così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 flui 460 Ragionamento Sejto fluiſce , comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante , i quali nel ſucco nutritivo abitano , e dimorano. E dalla perturbazione , e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli , chele malattie tutte ne avvengano . Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole , ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei . Dirò ſolamente apparer manifeſto , ch'egli in luogo di ſpiegar , ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te , vie più oſcura , e inviluppata la rende . E doveva pure cgli avviſare , che di quelle cofe , che nonci ſono , ne eſſer poſſono , quantomaggiormente ſe ne favella , tanto men ſe i nedice ;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio , eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate , foffe poi sì vocolo , e traſcurato in ciò , che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie , non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio , quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato ; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc , diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero ,fi rifuggirono a sì fatte fraîche , e ne compoſero cagioni fia tc , e favoloſe, onde natura . Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio ; il qual manifeſtamente affermando , fe cfſer pago , e contento a ' principj chimici , e a que primicorpi , che coloro chiamano componenti , avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor : se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei , e sicon fondere , e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani , e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma DelSig.Lionardo di Capoa 401 Ma che è ciò , ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai ? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino . La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono , leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo . Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti , co' quali ſi ſtudia , e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti ? Tralaſcio a bello ſtudio , comeche aſſai vi ſarebbe da di re , ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa , i quali , ficome egli dice, avvengo no per congregationem , vel attractionem magneticam , fi ve fimilarem . E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne , che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene : e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra . Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat , quod per attractionem fimilarem , five magneticam intelligam.nempe alle &tationem , five incitamentum , quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto , e ſcempiatocervello immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio , il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento , e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce ? certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare ,che le cofe , che ſtanchete , e fenzów movimento , ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no , infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano .Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò , che naturalmente filoſofando ragionan que' valent' huomini , de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar 402 Ragionamento Sefto 1 ! 1 1 i 1 dar del ferro alla calamita , doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare , onde ciò ayviene . Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe , il qual dicon magnetico , del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime , e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro , inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali , che efcon fuora della calamita , faccian , l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il movi mento ; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino , ci fianchidel ferro forte percuotano : e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano ; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle ſpiritali , le qua. li urtano in eſſa , e ancor la ſpingono intanto , chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia , che la calamita ancorada ſua parte fi muoya , comeche più tarda, e lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro , e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti , intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2 , ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita , e la calamita d'altra parte verſo il ferro . E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare , dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio ; perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali ſcioccamente traportare : ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe : e che ragionevol mente damedici feguir debbafi , ficome loro molto pro fittevole , e acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti ; eche Galien d'altri diviſamengi degli DelSig. Lionardodi Capoa 403 1 degli umori infrămetterſi non volle , ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte , il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario ,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato ; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire , certiſſima cofa . ſia , che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina . Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie , e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro , ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto . Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già ; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto . Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu . ra d'inveſtigar la natura delle coſe , non ſolamente utile niuno , ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare , comechè ſcorto molto , eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata , che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra , ficome cgli afferma , introdotta . Non propone egli medicamen to , che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento , molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano ;e in ciò ,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine . E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato ; il qual per altro è certamente non poco da commendare ; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza , e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma 464 Ragionamento Sefto Ma di troppo lungo tempo abbilognerei , fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio , del Carlettone, delBartoli , e d'altri ſcrittori . A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento , e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero ,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate ,e riandate ; e altri di loro , fra'quali il Tacchenio ,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi , e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo ,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re : Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza , che da'fi lolofanti antichi , emoderni vi ſi fia adoperata , e per qua te coſe per la morta , e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali , nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte , e per quantepruove , e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace , non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna . Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto , o quanto alle ragioni pongas mente ; per le quali , s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole , anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle , che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra , e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro , che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina , comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia . Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, DelSig.Lionardo di Capoa. 405 buglio , e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica , e di ligenza , che adoperata viſia , chi mai fin'ora avviſare ha potuto , che coſa ſia un piccioliſſimo catarro , che ne mo- . leſti? e . venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle ,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα , και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν , ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico , da Cornelio Celſo :allorche diſſe della medicina favellando : eft enim bęc ars conjecturalis ,neq ;ei refpondent,non folum có . jecture ſed nec etiã experientię per ; nulla diredel Cardi- : nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia , e le buone letterc , traſcurarono la medicina , no facendone niun capitale , come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet ; .. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ' , ούθ ' η τέχνη . . E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti , e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono ; anzi dice Plinio : Populus Romanus neque 46- ; cipiendis artibus lentus : medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit ; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito , e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū , ut confisú fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum , conjecturarum eſtimationi bus nutans ; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost : clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja : Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos , ut mihi confu lant conſulo : incerta famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt . Perchè 9. Chieſa , come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe : adunque , egli dice , non è certamente ragionevole , che il Sacerdote , oʻI Diacono , o altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo , e alfai fo vente fallace . E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici ; al che riguardando per avventura Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede queſto ſalutevol conſiglio : Nulla eft rectior ad falute via ,quă medico caruifje . E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca ,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni , 2.4 . La medicina como fue erbe , e coſe diri Che fa ? caccia carote a tutti mali ..'.... Infin che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi ; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina , alla fine fece boto scomedarra Giorgio Orni : Si Deus aliam prolem largiatur , nullo se ampliusmedico ufurum . E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più rara , ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò ,come narra Daniele Einlio ,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità ; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna , che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti : defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala , celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová ; il quale canto non potè tenerli, che alla fine , un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva , inqueſta difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum , &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa , di tralaſciarne l'eſercizio , e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata , La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro , che a faccia ſcoverta abbia la medicina guarata . Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea , dico , ſovente dire a' ſuoi ſcolari : miferi , ed infer lici noi , félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire , che ne meno ne poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere ? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto , e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere , e di nobil'animo forniti ,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe , ſavj interpetri della natura , ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri , lol faro menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola , riſtoratore della Pitagorica filoſofia : e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro , ed eccellente in ogni ſcienza . Anzi quinciè egli avvenuto , che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina , l'abbjan , nel maggior hyopo mcNain son çalere . Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi cina , diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale ; ed eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare , comepotè il , inen male ; alla bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto : A voi Nnni 2 1012 468 Ragionamento Sefto 4 non fa meſtieri la mia opera , imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale ( così un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle , ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute . E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda , e sì crudelcanaglia ; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto , abbiſogna loro , che alle giunterie , e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie : ma fino a'tempi di Galieno , per tacer de’più antichi , eran ſommamente in vi gore.E cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia , acciocchè buon medico divenga: in que. fta guiſa ? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de' medici ; perciocchè alcuniinfermi rade , e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo romore co'pie di , ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce : acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli , che gli ſia rotto in teſta il ſonno . Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi , e ſenza ſenno , ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale ef fendo da un infermo domandato ,' ſe di ſua malattia morir doveffe , rifpofe con quelle parole , ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato , e ad un altro infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo della per ſona , e grazioſo in entrando , e in ſedendoſi , acciocchè nó gli ſiano fatte le ſcherne ; ma non cotanto tronfio , e traco tato , ina mezzanamente grave , ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto , e umi le , o di ſoverchio altazzoſo . E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del medico , i quali ancoramezzanamé te deb 7 Del Sig.Lionardodi Capaa: 469 te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino : ne cotanto ofcuri , eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw ; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero . Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica ; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore , fino alla cuticagnato , devafi ; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette , e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato , o le dicella , o tutta la perſona,a modo di becco , fpiacevole odore gittaſſe , fi debbon eglino d'odoriferi unguenti , od’acque nanfe for nire , prima che ad altri medicar fi preparino . Ma purvoleſſe Iddio , che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie , alle maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano , e maggiormentein pre gio , e ſtima ſorinontare . Così vedeli , che un medicobia fima ; e danna i medicamenti dell'altro ; tutto che que'me deſimi ſiano , ch'egli appunto diviſati n'avrebbe , s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale , ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari , fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo . Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit , repudianda . At fi non adbibuerit ,tuncprobanda , tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur . Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi , allor , cheſcriffe : Medicus aliorum remedia ne lave det ,utſupra vulgaresfapere videatur ; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri : rabies quadă ,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans . E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno : medicus libertus , quod pataret , fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum , poftulabat , ut feques rentur 470. Ragionamento Sefto rentur fet ; netie opus facereni , Ed'un altro medico narra Calliodoro , che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe : inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius : & omnesjudicio quo cedant , qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie ,e04 rumquediſtingue confli& us , quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj ; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del Sere . Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici , che per uggia ze mal talento guaſtarono , e atterrarono diſpetroſamente ; bagni di Pozzuoli ; e di que'ribaldi ancora , che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto , di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino . Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico , chiamandolo talora : Invidie pelagus, derrationis organum , ambitionis perforatam clepſydram ;aliena veritatis contradictorem gar . rulum , propriæ ignorantia conftantiffimum defenforem , & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus , ut potentium gratia uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili faciunt . E Giulio Celules della Scala nella fua poetica , de’medici parlando : turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem , invidam , maledicam ; cbtrecta tricem ; novam ſpeciem cynicorum yavaram , temulentamus Supinam , ignavam fimul,asq ; ignaram . E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio ; e più che altri del meſtier della "incdicina intcndcnte , vuol ; che da eſa neceflarianente 5 avve Del Sig. Lionardo di Capoa 471 avvegna ,che taliticnoquei, chefeſercitaiio : medicina ! facit , ſono le ſue parole ,nonreruin memoris , fed verborü :1 callidos y verſatiles ingenio ;inuidos avaros ; idolofos , las boriofos , non ingeniofos , de minime graves s opus enim coni rúm , d exercitatio minusquam liberalis eft : e altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate , adeò ut nihil pejus excogitari poffit . Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro , e di Venere , onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore : c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore ; il qua-> le ſoggiúgne , chedalle ſtelle medefime , onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente , e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo , e malvagio ; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia : è nondimenodacredere , chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe , chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento , e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano , efimalmenano . Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo ,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore , intanto , chegliene fư tolta l'Iſola , e la Rocca d'Vraniburgo , di cui egli era Signore : e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia , ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono , che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria : E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria , ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume , non pur 1 472 Ragionamento Seſto $ . pur delSettentrione,madel mondo tutto , onde foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo , dicalo in mia vece Pier Gaſſendi : Erant in his medici quidam , qui videntes non modo exDania , fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia , quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter , ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire , livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum , quibus preftabant operam ,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante , e , pocta Lino , la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare ; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente com poſero , appellato in lor lingua Emaneco , ci Greci Lino, la chiamarono . Ippocrate , comeſcrive Andrea antichiſe funo medico , inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido ; e quindi egli poi per tcina fuggiſli . A Quinto , medico famofiffimo , dice Galicno , fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici . E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico , come narra Gin lieno , ilquale anco di ſe narra , che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie , c machinazioni, e delle trappole , e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna , Avanzavarre , e Raſi : quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova , a Pier d'Abbano , c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie ; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità , delle tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo , e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi De Del Sig .Lionardodi Capod. 473 1 Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie ? vo , quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio : della Penna , ( chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina , contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo , che più d'un buonno ſcienziato , e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente , e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino . Ma quandº altri , e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe , che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft , gratis,qui nil dedis unquam , Mortuus , & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione , e dall'altezzola , e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia ? e da Michel Servetto , la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata , e di Marcello Ancirano : e dall'empia , e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti , e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio , e quindi ſen ? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania . E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato , e d'Erofilo ,osò , come narra Paolo Giovio, far notomia , non già d'un reo alla morte condennato , come i già detti due Greci facevano , ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura commeſſo . E per far omai paſſaggio a coſe più note , e men forſe moleſte : che Ooo non + 474 Ragionamento Sejto non oſarono , che non imprefero , che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania ? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere , e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno : conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono , e malmenarono Lionardo Fuſio , Giovan Cratone , e Andrea Mattioli ; il quale con meche Italiano , e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri' , e altrimedici,purGalieniftige della formede , fima banda parzionali; e fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo Fracaſto . ro , ea Matteo Curzio , comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina di Galieno difendeffero : e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono . Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer barono quegli altri pur Italianimedici ,che ſtizzoſamente & 'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc , e deſtinguere quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt , lio Ceſare della Scala ;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile , e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto , il Baucineto , l'Arveto , il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor più addietro accennate . È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti fanciulleſchi , fenza fermezza:niuna didimoſtramento ? Matroppo lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie ; e le noje;che nella Lamagna ,nella Dania , nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino , Michel Tofſite , Bernardo Perotti , Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo Crollio , ealtri infinitimedici doro tillin Del Sig.Lionardodi Capod 475 1 tiffimi, e avveduti affai ; i quali ſempre , o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora , laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo , e lo Schipani, e'l For tunato , e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da rabbio . filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc Aurelio Severini ( le cui doctiflime opere in molte , varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to , e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata , alla fine de' ſuoi beni ſpogliato , Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo , o quali ne ridiro ? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni , che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito : fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno , ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam , &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia . Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc : a cui tanto , e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici , che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano , non mai fi: rimaſero , finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così ,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo ,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti , dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110 , 1 2 477 Ragionamento Sefto no , ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali , come riferiſce Francefco Silvio , Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas , ac tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq ; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe pietre , o animali , o ſterpi, o coſe fimili , le qua li e'dicon , che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi ; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari ; e in tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa , voglion effer diloro ſchiera . Nel ta muova Francia poi , ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano : ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale , a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo . ni sì deſtri , checol vomito vi meſcolan di botto , ſenza che altri lor tolga in fallo , o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura , la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello , che tengono infra le dita , o altrove naſcofo ; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo , che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano ; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja , ſi fan loro ſcuſe , con dir , ch'il Demonio ,che l'uccide, è del lor più potente ; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano . Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi , e degli ingamni abbiſogna , deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti ; .poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro . Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia , e d'altre fimili Regioni , in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide : fe. 1 1 ! + licil Del Sig.LionardodiCapoa 477 licisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano , il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado , che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo ; onde dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan , chiam'io ,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle : Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna , el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti , il ſervizial , la curi , Che tolgon l'appetito , e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura : Che ſe dato è diſopra,chetu mora , Non ti guarrà dieta ,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia , cheformaggio,mentre Ha febbre ; emai non hamedico-auuto. E nonvoglio ( foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe ,che farà queſto qualchenovellar dipocca , o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante ,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia , o fommamente veridico ,non cinarr'egli, che in un villaggio , ove inai non vi bazzicavaalcun medico ,conmiglior ſanità, chial 778 Ragionamento Sejko 1 ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche , non ſappia ciò , che molt'anni avveniffe in quella terra , chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati , non che praticati, ſeppe sì ben pelarla , ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli ,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico . Manon ſo come caduto dalla . memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio , e di chiara fede: Animadversi , ſctive , in dyfenteriæ popu • larimorbo , in vicis de pagis , qui medicina non utuntur , mortuos , aut nullos ,aut paucos : in quibufdamurbibus plu . rimos elatus à medicis maximofumptu :e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri : ex iis ; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur ;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere ; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti . Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte , tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia ; e malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio , e avveduto governo il non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina ; e infra tanti ſubugli di ſchiere , e fazioni non ſi yide mai faggio Principe , o ben , ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le , e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco , o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo , o Antonio Mofaonorato , e careggiato da Ottaviano Ceſare , o Vezio valente adul tero DelSig.Lionardo diCapoa. 479. 1 tero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio , o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone , Teffalo , far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche . Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo , nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano , ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo . E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri : ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero , comeaddietro è narrato , non però di menonon poterono far sì , che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti ;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire , einvettive lungamen te piatifféro ; nondiineno di nulla mai', o reggimento , o maeſtrato , o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero , non Sommo Pontefice , o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia ,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch ," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici' , e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi , volle mai inan dare avanti i decreti diquella , nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa ( il qual ſe tanto nella filoſofia ,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato ,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò , certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare ;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici , tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico , e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva , ne fu da lui ſommamente onorato ; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro : pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco , anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi ,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne , così ne'paeſi balli , come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo ,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte , e del Silvione del Villifio , fen-) za ritegno alcuno ; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti . Che ſe mai Prins cipe , o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto , e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola , comechè menoma a certa , e determinata legge ligare , bea fiè veduto perpruova , che ogni loro ſtatuto , a ſconcio , e non laudevolefine ſempremai è riuſcito ; come ſi vide av venire , oltre a quel, che è detto , allor , che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata , qual dicono , come velenoſo vietato ; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno , e del Fraſſino , che poco prima era ſtata ſeveramente proibita . E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio , e dalMattioli , il quale in cotalguiſa favella : Er . rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene , che non ſi debba ven . der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino , e dell'ora 10 , la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna , imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna , e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza , è fantiffima , ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie , e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487 : Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi ; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino , e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro , febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione , che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate , del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane , dice : ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis : giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità incapaci ; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato , e'l Cujacio , e altri au tori di lieva in legge . Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione ; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici , che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole : venit improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis , & aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat : eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam , d predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum , medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere , quam à veritate . Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto ,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere , e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair 482 Ragionamento Sesto 1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa . rigi , e che infra l'altre leggi , e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina : ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate , e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire :medicos ſono , parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant , divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent . Empiricam caveant , neque ea ullo modo utantur . Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera ; e in vero , ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata , e riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette , e delle opinioni , e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora . E tanto più , che que' inedici , che con figliarono una cal legge , ne prima , ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono ; e in iſpezialità nel purgare , e nel ſegnare ,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo ; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate ; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore ; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te , che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati , ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo , o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali . E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina , che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati : delle diverle , e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare , e dalle si varic , e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo , ed inviluppato meſtiere , il quale non ha in ſe dottrina , o principj , ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento : e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze , acui s'avvengono tutti coloro ,che d'ordinar lebis fogne 1 DelSig.Lionardo di Capoa. 483 + ſogne della medicinafi danno alcuna cura . E perciò lag . gio ſembrami lavviſo di quella Città , o di que'Regni , ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute , non vogliono in alcun modo prenderfene briga , ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta , il quale , coine Orazio faggiamente avviſa , que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit . Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia ; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro , anzi prendendole a gabbo , ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola ; il quale a diritto , ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico , e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome . Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina ; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta , o a conſiglio de'inedici , quanto Trajano Boccalini : allor che narra , aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici ,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare : ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto , ma vie più moltiplicarono le malattie ; e le morti giunſero a tale , ch'egli rimaſe forte maravigliato: ( ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo , eſchernito , che ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico , con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza , con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RAS 485 . RAGIONAMENTO SET TIM Or 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato , o Signori; delle dubbietà ,.e incortezze del la medicina ,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare :'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti , che picciola , e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa ; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta , non conoſciuta ſelva ;per travolti-bronchi , e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via , o modo al cunoavviſare , convienr'certamente , che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto , e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita , e la ſanitàdi ciaſcuno ,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui , al mio gliormodo cheſi poſſa ; çfecondochè la condizione d'un sal 486 Ragionamento Settimo tal meſtiere comporta . E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare , i qualiad ogni picciol cravicello , o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince : uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti , che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia ,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita . E quinci ſi è, che quantunque poco ,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto , e cono ſciuto , chiunque voglia con qualche profitto , e laudevol mente cſercitarla ; perchè fa meſtiere , che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente , e quali coſe a fare un buon medico , e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te , o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice , ch'a coloro , che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές , tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi , e luogo allo ſtudiarconvenevole , e buon alleva mentoinfin da fanciullezza , einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio , ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto , e inutile ogni ftudio , e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na , turale inclinazione , dache alla medicina apparare , e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla ; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe , cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova ; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento ,che Natura pone, Seguen . Del Sig .Lionardodi Capoa . 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo , ſenza aver potuto in prima dello infermo , o della natura di lui molto diſtinta contezza , o eſperimento , convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze ; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento . Alla qual coſa fare , chi non avviſa , che fano giudicio , e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra . E mi ricorda a tal propoſito , che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea , ch ' ove il general della battaglia , iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito ,egli , o da vergognago da timore oppreſſo , il ſenno , e l'ardir non perdeſſe ad'un ora , ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati , e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa . Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia ; impc rocchè, direbb’cgli , quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro , che per naturaľripugnanza di genio , o d'ate titudine in altre arti , appena aſſaggiatele , dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto , non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto . Eforſe ciò avviene , perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie' , il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto ; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli 488 RagionamentoSettimo 1 . 6 gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto intender noftro , come temerariamente altri pur s'attenta di fare : ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più rare . Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice ,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi . Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca ,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro ,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio , chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire ; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con queſte parole : Notitia nominum prodeft ad doctrinam . Et nulla profeéto ars , curiofius , cautius vigilantius homini diſcenda , traétanda, meditanda eft , quammedicina , qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum , vi ta ; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce , non ch'altro , a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia , eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte , non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere , e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare ; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali , i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma ş DelSig.Lionardo di Capoa. 489 1 Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge : e malamente al ſi curo fornito loico , e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono . E certamente avea la ragione , l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare , e fpignere allo ſtudio della Geometria , e dell'Arilmetica : poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole , dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè ,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento , acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria , affermando ancora lommamen te giovevole , e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa , e l'altre biſogno nella medicina . Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto : ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili , e neceſſarie . Ma fe ( come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico , chifiloſofo in priina non fia : c per apparar filoſofia , la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto ,che il medico debba efter Geometra . Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie , che gli antichi filoſofanti , tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole , che no volcan ,cheniuno in quelle entraſſe ,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe . E'l gran Galileo de’ Galilei , grandiſſimo maeſtro di coloro , ch’alla vera , e dalda filoſofix attendono , diſſe ; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta : e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto , cioè a dir l'univerfo ; ma non mai poterviſe leggere , fc in prima la lingua , e i caratteri , co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto , dics in lingua matematica , e i caratteri ſono triangoli , cerchi , - Q29 altre 490 Ragionamento Settimo 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola : ſenza queſti, è un'aggirarſi vana . měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano , il qual mi ricorda , ch'avrebbe voluto , che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato , il quale , mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole ; del che recandone la ragione, ſoggiugne : Nam his folum , nec fallere , nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit ,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus , &fuis, ac fibi ipſi impo were . Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia , la Mu fica , e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede ; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice :medicusnon ignoret , qui foni, quos motus in ( piritu ,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano ; e con molte , e ben compoſte pa role l'utilità , che da quelli ſi trae , va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando , e quanto egli avanzato ſe ne foſſe ; ſenzachè, dic'egli , ſe il medico , non è di ſtronomia intendente , gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate , il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte , le quali ſenza ſaper di ſtro nomia , impoflibil certamente fie , che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere , come ben ſi poſſa medicare , ſenza ſapere, il naſcimento , e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le , neceſſarie al meſtier della medicina , le quali tutte la ftronomia ne inſegna . Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio , come vano , e inutile a'medici biaſimano , punge , e proverbia il buon Franceſco Vallefio , dicen do , che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile , non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe . Perchè il non mai aba Aan 1 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 497 1 1 ſtanza lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della medicina , principio , eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle , i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze , e d'altre aſſai malattie , manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj , ch'a quel li talvolta hanno approdato , e ciò, che per pruova ha noc .ciuto , e giovato agli huomini : e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto , e altri aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra , e lunga peſtilenza del Peloponneſo , traportato poi co tanta eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi . Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede ; imperciocchè , fe perfettamente egli ſaper dee la natura , è l'economia tutta del corpo uma no , le cagioni, così d'entro , come di fuora delle malat tie , le qualità , e le coinpleſſioni dell'aria , delle acque,de' vegetali, degli animali ,e de’minerali turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio , e diſcorrendo : ma in quella con ogni intendimen to , e ſtudio involgerſi , e riconcentrarſi, e in apprenderla , pienamente con ogni sforzo , e con ogni opera affaticarſi . Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina ; e Ariſtotele n'impone , che il me dico cominciar debba , ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif feriſca , ſalvo che nell'operare : e che la medicina altro no fia , ch'una operatrice filoſofia . Folle adunque , e danne vole oltremodo è da giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna : che il medico ſenza più avanti ricercare , appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne lo 492 Ragionamento Strimo ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità ; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai , come ſcioccamente s'avviſa Avicenna , anzi allor maggiormente vi s'interna , e profonda , e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo , che a ciò riguardando eſfo Avicenna , avviſaffe pienamente il biaſimo grande , che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare , e contemplar le coſe della natura . Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno , il qual ſopra ciò ben’un libro inte . ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove , il medicare una piaga non, effer impreſa da tutte braccia , ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi . Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate : il qual giudicò fi loſofia , e medicina eſſer compagne ſtrette , e ſorelle ,giua te , ed avviticchiate ; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma , amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo : Primomedendifcientia pars fapientia habe batur ; ut &morborum curatio , dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit ;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione , nocturnaque vigilia mi nuerant . Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto ,quan to Pittagora , Empedocle , e Democrito , e Platonc , e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero ; ſenzachè i fonda tori , e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina , eziandio della Metodica, e della Impirica , eilor più rinomati ſe guaci , tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono . Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo , iostec , cioè a dire : il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio . E 1 1 quan 1 1 ! DelSig.Lionardo di Capoa. 493 > quantunque ,come ſopra abbiamodimoſtro , aſſai poco al baſſo , e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto ; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi , non aver la medicina certezza alcuna ; e a queſto avendo certamente riguardo , diceva Cornelio Celfo : natura rerum contemplativ , quamvis non faciat medicum aptiorem , tamen medicine reddit perfectum . Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene ; concioſGecofaché , ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate , di buoni , e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già , come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui , che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella , cha per oggetto Panino dell'huomo , e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo , ed efficace ajuto . Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo , ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie ? cioè a dire , ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo , come da prima, e principalcagione , da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono , la qual certamente ne cono fcerc , ne rimuover potrà il medico giãmai , fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim ,dice Sinforiano Cãpegio , per tacer altri , eſt animi , &corporis neceffitudo , ut ſua om nia bona, ac mala , velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole cantò il Guarino . Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora , ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro : e ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro , non èmara viglia , dice Malfmo Tirio : perciocchè la medeſima artu di curare il corpo , così in fc ftella diviſa , e lacera ſi vede, : chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar ſolamente gli occhi , altri law veſcica , e altri altra parte del corpo . Ma con quanto di fcadimento , c danno dell'arte , e de’maeſtri di quella , per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe ,che partite , e ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo , ſenza badar punto alle malattie dentro , lo dicano tante , c tante malvagità , e ribalderie operate daʼmedici , come di ſopra dicemmo ; concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità , della giuſtizia , e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori . Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo , il medico filoſofo ſomigliante a un Dio , fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole , e neceſſaria alla medicina . Per chè guardando a tutto ciò Galieno , cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento , e di riunir di nuovo , e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro , ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare , e del medicare dell'anime le malattie . Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle ; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra , era egli avvezzo a ſoffrire , e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande , e immobile , ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni , o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria , o burbanza divana ambizione , o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia .. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno , che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato , e di quelle coſeancora , che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle . Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento conceduto , per veni. DelSig. Lionardo di Capon 495 venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no , gli conviene in prima il ſito , la figura, l'ordinamento, e la grandezza ,e l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare : alla qual coſa manifeſto è , che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa : perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello : incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium . La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando , come pienamente nete ſtimonia Galieno , a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano . E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare , e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera ,dell'aria , dell'acqua, della terra , della Luna , del Sole , e di tutt'al tri Pianeti del Cielo ; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime , e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro , e qua li a dannodell'umane vite . Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali , de've gerali, e degli animali tutti , oide il cibo , e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono . Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria , che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt : opifexque per orbem Dicor : &herbarum fubješta potentia nobis . E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo , chenacque In riva al Pò , s'adopra in ſuaſalute : Il qual de l'erbe , e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo , ogni virtute . Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio , che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere : e ame baſterà al preſen 490 Ragionamento Settimo 1 1 preſente per raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo , over'dice : chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto bene ſcorto , e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di medicamenti, e infra quelle , le più eſquiſite ſceglier ſappia ; concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato , ſe mai oferà un talme Aiere imprendere , ſappiendo , ſolamente in ciarle la nor na del medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico , Quinci ſi pare quanto errino i medici , comequelli, che pongono queſta parte , cotanto alla medicina necella ria ,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il doctiſſimo Fabio Colonna : in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat pharmacopolis carentibus, artem exerce re ? an ne verbis ? c più avanti trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali , che di cotal traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus , dice egli , neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum : Rufficus herbarius , qui fæpèlegere ne fcit , &à nemine doceripoteft , cafu colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem , fepiffimemortem afferunt , ignorantiæ finem ; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante , e tante malagevolezzo , che noi diviſate gli abbiamo , ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo . Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo , e non conoſciutia piè volgare : oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi , e avviluppati ſenticri con gran ſudore , e biftento giugner ſi dee . Egli è il vero , che giunto poi quivi , trova ben cento , e mille vaghezze allettaprici , luſinghiere . Già parę di udirvi dire concordemente , che lo voglia favellar della Chimica , nella qual ſi comprende tutto il bello , tutto il vago , tutto il maravi glioſo , che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10 , zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche ,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena , e ferrea voce , alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre , e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe , giovevoli , e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura , del fabbricare , del navigare, della mili della ſcultura , della pittura , della filoſofia, della me dicina : voi facendo teſtimonianza della grandezza , e dellº eccellenza della Chimica ,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali , il voſtro accreſcimento , ilvoſtro ſplendor trac fte : dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia , age volò l'opera : Netacete pure , o ultime pruove' dell'uma na induſtria , gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero , che co’ſentimenti inſieme i dolori , e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento ,e cento altre Egizie maraviglie , che tolte a noi dal teinpo , appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi , voi effigiati obeliſchi di Tebe ,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica ; e ne'metalli, e nelle gemme , cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate . Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού , και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης , μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv . Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare , che ſenza quella non può Rrr vale. 498 Ragionamento Settima valevolinente operare , ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina ; perciocchè , fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro , in cicchi , e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina , nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna , o più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe , che la vera , echimicąſperienza . Enel vero , che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare , e ſcernere del corpo umano , ſe.poi della nas tura , e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo , che nulla ; licome nulla ancor monterebbe , che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti , eivegetali , e gli aniinali, ei minerali , ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli . Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti , fenza la traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro : e ciò , tra perchè iſegui ,į le conghietture , onde di prenderle immaginarono , poco men che ſempre fallaci , evane fi erano : e ancora perchè parecchj di coloro , il tutto a quelle ,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre , edaltre qualità ſpiarc ,dalle quali molto più,che dalle prime , le operazionidelcorpo umano, come è detto , dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono , e ad intendimento umano moltonaſcoſe ; così ayviluppatou fono , e infra lor intralciate le particelle cutte , onde s'in generano :: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti , o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle , o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore , nec membris incuffam fidere cretam , Nec nebulam noctu , neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes . Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura , e la propietà dell'aere , dell'ac que , della terra , delle piante , degli animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali , in non pochi errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate , Teofra 1to ,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti , sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire , ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono ., quel ſolamente ſcrivendo ne , che per lungapruova già ſperimentato :n'avevano . H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia , edell'eloquenza Romana : mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera , qua radicum ad morſus beſtiarum , ad oculorum morbus , ad vulnera ; quorun uim , aique naturam ratio nuſquam explicavit : utilitate, con ars eft, &inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum ,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit , videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti , emedicidi grido, dallapore , dall'odore , e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero , come, o caldi , o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero , onde poila virtù di radificare , o di ſtrignere , o di riſtorare , o d'altro argomentar poteſſero : inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato ; e'l medeſimo Galicno , non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada , oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo , dal freddo , dall'u ! mido , o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro , e l'acetofo , ed altre fomiglianti qualità , che ſeconde chia mano . Oltre a ciò , v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno , ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù , eziandio belzoardiche , e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar , che l'acqua ftigia , che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge , cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia ? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano , 500 Ragionamento Settima mano , fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco : e.de'cavalli avea detto Pauſania ,, Trogo , e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia ; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio : conſervare antë eam , &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula . Machi potrebbe mai credere , cheſotto la dolcezza del miele , e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei ? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo , nel nitro , nell' allu me , e nel ſal comune s'appiattano ; e che nel ſolfo diqua , lunque ſapore ignudo , c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo , c roditore ; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino , uno acutiſſimo , c aſſai valovole a rodere , e l'altro ſoprammodo piacevole , e ſoave ; e che l'acqua pu ra , e ſchietta , che continuo ſi beve , e ſembra al guſto co tanto inſipida , ritengi un fale sì fattamenteacuto , e pene trevole , che ben balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare , e ſtricolare quel duriſſimo metallo , ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede ; echenelle viole, nel ke lattughe , nelle roſe , ne'papaveri ,, e in altre ſimiglianti ierbe , e fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato , ed ardente mícoſo li ftia , dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante . Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono , ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero : e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré- . diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando , e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia , la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta . E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo , ben conobbelo il curiofiſla mo Ga . Del Sig.Lionardo di Capoa. for mo Galieno , allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi , così ebbe a dire : In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade , e tenterò di far ogni pruova , acciocchè poftafi qualchearte , oqualche ingegnoritrovare , col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto , ſicomeſuol farſi nel latte . Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera . Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno ,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno , main altre , ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi , con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie ; e diverſe propietà , le tante , e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare . Oltre a ciò lo immagino altresì , che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica , comeche rozza; e imperfetta aver potut ? , 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato , come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere , quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc .- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente ,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme , e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa . Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe , ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi , e fortili, e.volanti troppo , ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole , e imperfetto il ſuo filoſofar. .conoſciuto avrebbe . Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove , tra per le tenebre folte disì antica età , e maggiormente per la non poca cura , che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno , e riguardo , accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin . mi , e con oſcure allegorie , e favoloſi racconti inviluppan dola :malagevolemolto,e confuſo per certo , e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia, .che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina , o pure alla Fenicia ,o all'Egitto , o alla China , o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo , avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica : novum effe inventum della Chimica favellando , nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum ; il che pienamente teſtimoniano Euſebio ,e Zoſimo; e Suida , c ſpezialmente il Firmico , il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino , pure traſſe le ſueſcritture , come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio , che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους , εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού , αργύρα , και λίθων , και περφύρgς λοξώς' . ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε , ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην . Μa che Democrito ſapeſſe la chimica , ſi può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola : exce dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur ; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca DelSig. Lionardo di Capox For conto Scala ; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio , che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato ,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto , untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto , e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito ; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome , da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura , las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora :: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino , e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri , e diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia , e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco , e neceſſarie al genere umano ; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto , ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte , e da’moderni inge gni ritrovata . Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio , o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi .. E quantunque ella ſia uns fpezial arte , che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte , di cui dipender debba; non però di meno per li molti , é diverſi fini , in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio . no , ella infra varie altre arti ſovente s'acconta ;, ma in tre ſpezie principalınente è partita . La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione ( come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida , La ſeconda ſi è la filoſofia ,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico 04 Ragionamento Serrimo di conoſcere , e ravviſare la natura , e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte . La terza- ſi è la medica , che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie , e dell'arie , e dell'acque, e demedicamć ti , e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano , e di maggior efficacia ,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino : e ſi poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no , o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche , o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette ; ſe non ſe per avventura dobbiam dire ,che maggiore , e più manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica , che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano . Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui , che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve , così ſo migliantemente o ſtronomico , o geometra , o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre , di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce . Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico , o chimico filoſofante-colui chiameremo , che del la chinica arte , o per medicare , o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole . Madall'uficio , edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa . E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede , ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco : chi può mai porre in dubbio , che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono : come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia . ti in Del Sig .Lionardo di Capoa SOS و ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural filoſofia , Pittagora , Parmenide , Anaſimandro , Democrito , e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni , che attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe , che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono . Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi , ſe non ſe di quello della reſoluziou del corpo umano ; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito : dicendo , nella carne ,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il fuoco ,e la terra , poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno , ne carne , ne in atto , ne in potenza ; imper ciocchè le vi foffero , certamente ſe ne ſeparerebbono . E tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato ; a'quali ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi , con dire , in bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere , che è terra , e'l fumino, che è aria : e la groinma , la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua . Ma quanto ſpoſata , e fievole una sì fatta pruova fia ,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica , cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto , e i difetti di cota le ſcioglimento ; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte , e varic favoleſche, oltre a quelle , che per la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono , aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo : ne è da dire la cenere , il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici , e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano , e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano , ravviſanfi compoſti di particelle di natura , en d'operazione diverſi, come quelle , che contengono un'ac qua ſemplice , ed infipida , ſenza altra virtù , falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che 1 506 Ragionamento Settimo le che la virtù tutta del legno : le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco , ed a ſcioglierſi nell'umido , ed una ter ra priva di ſapore , e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare , ma col conſiglio della chimica , poco men , che in tutti corpinaturali adattar puoſli ; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto , egli odori dal ſol, fo , e dal mercurio la penetrazione ; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà , che i ſemi del liquido , e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino ; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette , o dipiccioliſfimi globi : e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle , e aggavignate com poſto . E così pian piano ricercando la figura delle parti celle del fale , è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato , po trà chiche ſia inveſtigare ,come far ſi poſſano le piovese i grā . dini : come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette :come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina : come piovano foventi fiate pietre, ſangue , elatte , e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole , e altre molte , potemo ogo gi col giovamento della chimica , non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare , ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare ; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica ; che dagli effetti oro fulminante appel laſi , la quale acceſa , fa non folo lo ſtrepito , e lo ſtroſcia del tuono , ma anche ilcolpo , e la violenza della faeţea ; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata , la qual tonante chiamano . Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives , un ſale , chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro ,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento , che ac celo li fonde in pietra . Ma di troppo più tempo avrei bi fogno Del Sig.Lionardo di Capoa. 807 fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro , e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne , e manifeſte . Perchè non è forſe dadubitare , che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto , che prima in quella non foſſe alcun té po uſato , e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe ; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella , onde Platone, e se nocrate volean , che nel filoſofare non foffero ammelli com loro , che della Geometria digiuni foffero , come teſtimo : niano Laerzio , Suida , ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw . Concioffiecofachè la chimica fola il più certo , e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia ; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde ,e diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano , ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati : perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio , e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro , che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar giovamento , che della Chimica raccor fucle la medicina : Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia ,la chimi ca lommamente abbia luogo , e la ſua vital notomia ; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto , le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono ; e lungo tratto vi crrarono : e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del cuore , e del ſangue : e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato , o nelle vene , fecondochè con molti altri , così antichi , comemo derni porta opinion Galieno : ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele : c ſappiaſi anche , che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche , ficome vollono gli antichi me Sss dici ; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore : e ſappiaſi eziandio , che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli : ecento , e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi , de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri ( il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta ; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire , o fa pere :non per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede ; anzidopo tante , e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano : utiliſſima certamente , anzi neceſſaria a do ver ſapere ; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare , e mandare avanti una verifimile razionalme dicina : per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro , ele probabili ragioni delle coſe , non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle . Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico , il quale non potrà render ragione della natura della generazione , del movimento delcuore, del ſangue, del chilo , degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano , c della propietà ,e operazione di ciaſcuna di quel le ; le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere ; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa , e de' peli : ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa , e di peli , uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide , c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili DelSig.Lionardodi Capoa. 509 mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo , & unifor me licore , che chilo appellaſı ; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento , e'l ſuo calore , cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento , over disfacimé to decorpiſolidi , in virtù di convenienti liquori ; la gene razione della bianchezza nel chilo , e del roſſore nel fan gue , alla trasformazionedel colore nel latte vergine , e nell'eſſenza del fatirione , e altre ſimili coſe ; la continua produzione del calore nel cuore , e nel ſangue : al fervore , che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve . getabili . E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor , no alle malattie , a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano , coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi , fe minutamente les dette coſe , e molte , e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino , le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare . Ma non men utile , non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa , e ſottile eſaminazione l'aria , le terre , l'acqua , le piante , e gli animali , eimine rali corpi , attentamente poine ſpia , e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa ; e di qualunque lor menoma parti cella le propietà , elevirtù , ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa . E nel vc ro queſto , che ciaſcun di noi , e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda , penctra , avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente , e lieve , e ſereno , e ſottiliſſimo cor po dell' aria : la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate , e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem , plice corpo , come il volgo follemente s'avviſa ;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme , emeſcolato . Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora , edall'acque , che quella , irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi fupe. l 5102 Ragionamento Settima faperiori vi piovono ; per li qualil'aria, o più , o menoalla reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli altiſimi monti , ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua , e della terra , gli animali fi foffogano ; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu , miſerandaque venit Arboribufque ,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme , e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo , aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono , ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti . Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo ,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove , & fpira ; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali ,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce ; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare ; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia , cioè folvå , e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere , che'l ren dono mai atco alla relpirazione . Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente , c pura a tutta poffa fi ſcelga , eli proccuri ; e che al fapore , all'odore , e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano , ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto , e pugnereccio , che DelSig . Lionardo di Capoa JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali ,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie , comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo , e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta ; perchè è dacredere nó bene operar coloro , che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo , e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono ; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro , vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua , che ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua , e a guiſa di latte biancheggiare , quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice , e non diſtillara acqua ſimefcola ; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò , oltre al ſale , il ſolfo altresì , e'l mercurio , e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico , e chimico filoſofante Borricchio . E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano : il che diede per avventura cagione agli Egizzjdi giudicarla primera , e univerfal materia ditutte coſecreate , da'quali tolſe Ome ro a dire : Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι . Ωκεανών πεώτG» , καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro poeta , per tacer Virgilio , Catullo , ed altri, ſe . condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta : & vanti La reggia , ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede ,èfama antica L'O ! ST2 RagionamentoSettimo . L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio , il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales , aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli , come fasſi a credere Ariftotele , effer umido , così il ſeme , onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica : e dal credere, come riferiſce Plutarco , il ſole , e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca , ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio . Malo immagi. no , che Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua , ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia , onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo , allor che dice , il caos d'Eliodo , altro non eſſere, che l'ac qua . Ma non men dell'acqua , e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre , c con attentisſima eſaminazione conſide rarle , ove certamente infra tante , e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe , e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli ; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria , o l'acqua , o le piante, o le frutca , nuove , edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda , quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano , ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo , e dall' aria , ed all'acqua , e da' cibi quivi racchiuſi , e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie ; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati. , nitrofi , e ſulfurei dalle occulte miniere della terra , rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute ; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ray 1 Del Sig. Lionardo di Capoa 513 2 ravvifarido , come alcuneſoſtanze , le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno , come nel ſolimato ſi vede , del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini , pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino . E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella , che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria , ove ravviſa fi maggior varietà diminerali , ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente ; ne da altro , che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi , e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade . Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti , e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto , e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio , ed altre terre ,non ſolo della Campagna Fe lice , ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro . Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura , e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano ; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta ;che i ſapori , e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi , e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono , che poſlan ſempremzi ben comprendergli , egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermeti Ttt C2010 5.14 Ragionamento Settimo ca notomia , la quale partendo i corpi , ed eſaltandone le qualità ( per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa . E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti : che pur ven'hà molti : edanche intorno a que'veleni, che privi affatto ,e ignudi d'odore ,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità , di tanto vigore , e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova , qualia danno , c quali a prode gli huomini , chc nulla più ? E quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima , come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato , e la lingua , e poi tranguggiate , nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute , n'offendono ? Coſa ,la quale nel zucchero, e nel mele , e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto , a la ſaluteè rea ; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti ; a cui l'amaro Danno coſtor , che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno , e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun , che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo , Edì , fe'l mele in cullera ſi volta , Segno è , che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele , e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi ; pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte , e dello ſpirito del nitro dicimile : Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino : nibilominusin tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi , qui ubi exaltantur , & ad extremitatem ducun :: tur, Del Sig.Lionardodi Capoa. 515 tur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq ;faporismeile Corroſivă peffimü, atq ; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato , e ſciocco , e giudica pur dalle qua lità , ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura ; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete , ch ' accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete . E che direm poi del pepe , che così mordace; e pungente , puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde ? E che d'altre , e d'altre pruove infinite , che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi , non che piccoli diſcorſi di ragionamenti ? Sarà dunque da con. chiudere , che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo , pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge , c riſolve , e diſtinta mente elaminandone le parti , le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita , e le operazioni, e'l convenevol modo di farlo , certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde folca , é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano ,che col lim. bicco , e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono , o Ariſtotele , o Galieno ; e ciò fu , che nó fappiendo coſtoro la cagione , perchè cotanto noccia il vi no ,maſſimamente generoſo , e pretto a colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico ( sõ ſue parole) nõ cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem ;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id eveniat: neq ;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen non convel tuntur . Caufsa ergo eft aqua ardens , quæ in illo continetur : que quum latuerit Ariftotelem ; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam præbuit , in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior , quo vinum craf Ttt . 2 pius eft. . 116 Ragionamento Settimo 1 : 1 2 fius eſt . Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica , aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta , e avviſata : im perocchè oltre allo ſpirito ardente , che giova anzi che no al mal caduco , evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe , del qual aſſai più , che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole , e copioſo . Ma intorno alle fattezze , così dentro , come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici , non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo , ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo , e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino , emol to de’ſegreti della natura intédente Gio : Battiſta dalla por, ta . Maniuno certamente ha , che con maggior diligenzas per quel che me ne paja , e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio , E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo , non però di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare . Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto ; imperciocchè negliannidell'oro , e nella felice etade , quando i pomi , e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto : nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva ; e allora non men che le ſchiette vivande , i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo , e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro ; quindi tra perchè non ſi fapeva , o non ſi potea purlaw parte nociva , è inutile dalla buona ſeparare , e anche per chè così diviſe, debile molto , e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giun Del Sig .Lionardodi Capoa . 517 1 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima , é a far sì, che quella nulla , o poco nocer potef fe ; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe , quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle . Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme , e meſcolarſi i medica menti ; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna , ſe già tanti , e tanti indiſcreti , e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota , con ac cozzare inſieme ; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina , o più malagevole , o di maggiorpregio al mondo ; e componendo inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo , e inviluppatiſſimo guazzabuglio . Cofa , la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα , και βοτανικα , και θηeμακα, και τα από γής , και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy , og díxua , και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε . ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione , e la curiofità di coloro , che i minera Li infieme , e le piante , e gli animali, e ciò che mena laterra , o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto , fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri , colle zucche , e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum ,&ingeniorum capture officinas invenere ifas , in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita . E chi non maraviglierebbeſi di tante , e tante coſe , ch'a com por la Triaca , o'l Mitridate, concorrer debbono , dan ftancare i ſpeziali ,non che a raccorle,maſolamente in leg . gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio , vocatur excogitara compofitio luxuriæ ; fit ex rebus ex ternis , quum tot remedia dederit natura , quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur , interin nullo pondere equali , & qua . rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata . Que Deo 518 Ragionamento Settimo Deorumperfidiam iftammonftrante ? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit . E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima , e nel lavorargli non con avveduto , e ſano giudicio certamente adoperarono , ma a riſchio , e a caſo alcune di quelle coſe togliendo ( che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb . bono anche dell'altre , e forſe con maggior ſenno , più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero ,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero , non guardando minutamente comeſi richiedeva , al valor di quelle , ne punto efaminandole . Impreſa per molti ca pi malagevol troppo , e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi ,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj , ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110 ; iqualicertamente non è da dire , ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli , così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato , ch'il Mitridate , la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione , giovevoli, ed effica ci rimedi per molte , e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia , manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando , colle ſole piante medicare ; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo ,huom di varia , ed eſquiſita letteratura : fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft ,quam illa confuforum miſcellanea compo fitis ; magno mortalium , & difpendio , & damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali , che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco , con ufar medicando le ſemplici piante , non ordinaria lodå guadagnoſli ; e i popoli inge gnofillimi del Braſile ,iſicome riferilce Guglielmo Pifone , medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident , quia compofira ; e degli abitacori del Mellico , Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj , così dice : los Indios fon grandesberbo-, larios , ycuran fempre con ellas , demanera , che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio , y le den :ya eſtacaufa viven muyfanos , y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma : ed in quel va ito , e quaſi immenſo tratto dipaefe della China , comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio , fi è medicato permolti, e molti ſecoli , e ſi medica tuttavia , ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe . E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta , Nam varieres Vt noceant homini credas , memor illius eſcę , Que fimplex vlim tibi federit ; at fimulaffis Miſcueris elixa , fimulconchylia turdis ; Dulciafe in bilem vertent ,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita : vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia ? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti , e non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede ; perchè Plinio : non fecit , diffe , ceraia , malagmata, emplaftra , collyria , antidotaparens illa , ac di vina rerum artifex : officinarum hæc , imo veriusavaritia commenta funt. Pure , poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata , che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare : convenevol cofa egli certamente , anzi neceffaria mi pare , dovere il medico degli unis e degli altri piena , e ficura contezza avere ; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato . E certamente , o quanto farebbe egliil migliore , ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa , po • neſſe in opera , e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo , e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata : 520 Ragionamento Settimo 1 1 ratamente abborracciaffero ; o almeno lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione , laſcian-, do ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari , e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco , Apollonio , Critone, Pacchio ,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole , e aobil meſtiere ; an , zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi , come e'medeſimo ne fa teſtimonianza , e molto addie- : tro ancora , il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole ,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero , e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro : come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere ; a cui Bruno dicea : e ſappiate , che quelle camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra , quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro , che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano . Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio , remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis ; præftantior igitur medico erit remediorum natura : quare ea præparare , &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile , e lodevole , che non che i filoſofi di mag gior lieva , e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero , e l'a veſſero in diſpregio , anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee DelSig. Lionardo di Capoa ser deeimedicamenti ,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi ; come potrà giammai , quan tunque faggio , e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene , uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere , e gli artifi cj , co’quali ſi compongono ? iinperciocchè l'efficacia , e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci , de'inodi , co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare ? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato , ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro ; & quidem exifti mo , dice anche Pier Caſtelli , oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum : alioquin fore , utfere fem . per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari tornando , onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica , quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe ; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re , come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia , o colle fue propic manicomporle , o adoperarle, o conoſcere al meno , c riparare aldanno , che quelle aveſſero per avven tura cagionato ; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero , raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà , che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico , ſe non ſe intendentistimo della natura , e delle propietà delle parti, chic’lcompongono , e degli effetti ancora , e del mo do del loro operare ? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una , o d'altra malattia ; e divi . farle ſtagioni, e itempi , in che fan da dire , c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli ? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità : 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz 522 Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza , o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere ; o toglier lenoje, ei fastidi , che ſovente ingenerar ſo gliono ? Non è certamente cosìagevole , ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui , cui conoſciuta in priina , e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono . Or che di grazia avrebbe detto Galieno , re : qualche contezza pur delle chimiche medicine , comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta ? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere , e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio , cavvedia mento maggiore ; e non che piane ,e facili , e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe , ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare , e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im , perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci , che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero , comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti ; ne dalle rego le , che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè , ficome è detto , in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri .Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco , Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno , maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato , n' avrebbe mai conſigliato , cſfer ſempre da leggere , e ſtudiar ne’libri de'fapienti ( cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare :netanti , etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. 523 qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono . E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato , ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella ,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj , di bombe , d'artiglierie , e d'altri nuovi , emoderni ſtru menti , ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro , e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando , o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano : così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’ : antica , e volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono ; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte , e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta , e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio ; e rimettendo il medicamento al Izventura , e alla cieca andando , a manifeſto , e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà . Così quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota , la cúi memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi , che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe : ita plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio , chymice præſertim , aut mortue ,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare . Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano , lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine , e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè , comechèdirifi ancor degna ia ,la Vull liioc 524 -Ragionamento Settimo ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine , quantunquc ſicure , e piacevoli quelle ſieno , pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per altro , e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura , e l'uſo di cotal medicamento apparato ; che ſe egli dal Severino , dal Penoto , dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe , e pienamente conoſciuto come , o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia , certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe , che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to , e molto ſtimato Galienifta , il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori , fi era riſerrato il perto , infelicemente ſtrago Jandolo licciſe ? E piaceſſe pure al Cielo , che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte , e molte perſone morire . Egli è coſa troppo mani fefta , ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc , e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno , e riguardo, e ſcarſamente uſar lo , teinperandolo anche talvolta con acqua , o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più , e più volte co minciapianamente ad operare , ea poco a poco rodendo , infin le tuniche del ventricolo , ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora . Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu , Vincitur in longo ſpacio tandem , atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta , che ben felicemente a'fanciulli anco :. ra da Del Sig .LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui , che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli . ? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato ,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis pharmacopoeorum ; avve gnachè cotefto ſpirito , che comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa , non fia veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo , e di minor virtù , e giovamento di fuello . : ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori , ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj , e av veduti, talvolta ſmucciare , egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente , e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno , Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta , e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato , Aleſſandro Maffaria ? vvegnachè più toſto da pianger fiat , che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti , e funeſti, che ne fuguono . Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato , venendone all' lifo del darlo , e diviſando in che quantità da dar fia ,in und fua cotal ſciocca ricetta ,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori , o del gruogo , o del vetro , o d'altre, e d'altre molte medicine , che foglion farſi dell'antiinonio , abbia intender voluto ? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più . Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo , cheda piacevoliſſimo chequel, loè , facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato , ed al vetro dell'antimonio , lo riftrigne , eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo . ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella digrano . Ecco d'altra parte il più illuſtre , e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte , e temere , non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be , ſe nella maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe ; concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo ; il qualpenetrando , e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene , e nella punta s'accoglie , eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così aper ta , come occulta ,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata . E ſe cotal via di filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe ,certamente, che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma latiil.corno del cervio . Ma come , o in qual guiſa a sì no bilmente filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi i tondi , c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane , e più manifeſte di quellow , anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive ? Egli non può narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio , c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire : e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti , che il Macſtro Simon fi faceſſe , quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava . Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro , cujus fi granum unum , aut duo carbone defuper lentè ac cendas , bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia ;&contradicendi ftu dium ; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat , ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſ; fam Del Sig.Lionardo di Capoa. 527 fam refert : dignum certè hac patella operculum , & hoc philos fopho hæcphilofophia. , Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi , e che per opera diquella , e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono ; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto , così pericoloſi ſono ,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re . E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare , e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi , che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti , detti ſpecifici , i quali convien fenza fallo , ch'a chiuſi occhi , e ſcioccamente lavori , e maneggi chiunque del meſtiere , c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato , e intendente affui ; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina , così brevis ce ſecche , ecalor confule , e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano , che per im broccarnela quantità , o'l tempo , o la maniera d'uſarle , o le malattie , nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente , e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc , e ſervirſenic calora , dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti ; e per quel che permeſſo ad huom ſia , con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc . Cofa , la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono , pur troppo è a ciaſcun manife fta . Ne è già punto maraviglia , ſe gli arditi , e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno : ſe come è detto , anche nell'adoperare i . Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo ; e in quelli maſſimamente , a’qua 528 Ragionamento Settimo < aquali dan nomedi virtù occulta , cioè a dire di ragion no conoſciuta , e non punto da lor compreſa , credendo così la lor groffezza , e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono , ſicome con avveduto , e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno , così con loro no bili , ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano , degni d'immortal gloria , ed'eter na fama ſirendono ..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica : a divilar de' chimici medicamenti , e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo , pur dubito , non alcuni dannā- ) do ,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano . Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava ? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per , ogni menomacagion le vene ; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti , e altriricroyati di barbare , e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento , e la virtù di ravvivarlo , e di riſtorarlo alle liquide : uſar le ſcamonces , gli elaterj , le colloquintide , ilatirj , i pepli, gli Elleborin , iTurbitti , iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule , e tante , e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches , di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina , ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati , i mercurj divita , 0 Alcarotti , come altri gli chiama, i verri , i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio ,del vitriolo , del mercurio , o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale ? Deh piaceſſo pure al grande Iddio , che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodora ( DelSig.Lionardo di Capoa. 529 trodotta la medicina; o almen , che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata , e delle nuove , e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta : che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te ; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino , e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto , non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato , ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte ,buo giudice in sì fata te coſe ,da’medeſimi minerali ; che continuamente e' manego giava ; dal cui nocevole , e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto . Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro , e del vitriolo , e da altri minerali do po continuo tremore , ch'e' n'apprefe , e dopo lunghe , e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi . Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui , che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna , fe cotanto nocevole , e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili , e nocevoli ſpogliare , e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci ; ma per tacere , che alcuni di quelli ( e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli , e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano , parecchi , e parecchj ( coſa la quale certamé te è peggio aſſai , e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano , o pur tali ſi dimoſtra vano , rendegli la chimica col preparargli non altrimenti , che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali . Dica pur queſta nobiliflima Città : quanti, e quanti nel 1 Xxx ten 530 Ragionamento Settimo tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato , ch'angelica polvere allora chiamavano , pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno , ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet medicamento , o per la medeſima peſtilenza mancaliero . Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi ta , o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi ,altro mai, che dolori, noje , malattie , e morti recarnon poſſono . Odafi per Dio ciò , che di coteſti Chimici , e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto , l'eloquentisſimo Cortino , il ſot tilisſimo Riolano il padre , e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi , e mandi giù l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio ; e ſopratutto ſi riguardi a ciò , che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica , e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi ſcagliano . Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole , c dannoſo me ftiere , e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel vero , e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono ; e ſe ſono , e con ogniragione , da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili , e d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano , quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore , e della perſona pur buone fiano ; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie re , emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante , allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano . Sono o Signori, sì fatte querele , e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari ; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte , fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano , e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole , da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima ; e con torti , evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel , che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi : non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era , o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica . Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale , ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano , ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa ; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò , che per argomento umano imposſibile ad operare . Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo , e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da altri medici per malavoglienza , o per nimiſtà , ficome di ſopra baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri ,ut alius in alium culpam refe rat . Ne già è mio intendimento , che di cocal quereia al cun de'noltri medici al preſente fi punga , come a ſe pro piamente inveſtita ; perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici ; cben ſo , che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene , c onorati affai, e di qualunque gran loda dignisſimi : avregnachè Xxx 02 532 Ragionamento Settimo 1 1 1 1 1 talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL . già per altio , e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli . Pur male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce , non ſo donde , o falſa , o vera, ch' ella fiali , che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla bafla plebe , e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia , anzi tal volta ſenza ſaper come , o quando, c da chi cominciata ſia , volentier la s'inghiottono : & fepè etiam quod falſo creditu eft , veri vicem obtinuit . Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico , che non che viſitato giammai l'aveſſe ; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici ; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione , folamente i chimici medi camenti s'infamano ; maſtimamente per coloro , i quali nul la fappiendone , come di nuove , e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono ; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito :fuper omnibus negotiis melius,atq ;rectius olim provisü :et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe , intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi ; che pur diquelli il vulgo ignorante teme ; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine , comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ' , tantoſto alla cieca , e ſenza tema alcuna le fi tracannano , volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi me DelSig. Lionardo di Capoa 533 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono : non che ne ſapeſſer mai le qualità , e glieffetti , che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono . Non niego però , che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti , eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino , quando o per ſoverchio dicompasſione , che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti , ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia attutare , con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè Principiisobſta : ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio , e alla cieca gli ammalati , malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il Chimico ,e i fuoi rimedi bia fimati . E a tal fegno pure giugner veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico , che di quel medeſimo infermo, cl egli ſpacciato in prima , e già laſciato aveva , attribuiſce poi difpertoſamente altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc , che colgruogo di Marte un co tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio , e corrorto , e com'egli medefimo narra , già moribon do , e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio ,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei , che già reputādofia vergogna il falvaméto ,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano : Ha 534 Ragionamento Settimo Ha buon ز occhio , buon vifo ; buon parlare , Bella lingua , buon / puto , e buon toffire ; Queſti fon ſegni , che non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore , S'egli ufciffe lor vivodalle mani , Avendo detto , egli è Spacciato , e more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza , danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli , sfidate malattie , ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici ; e anche avviſa Cello , prudentis hominis eft, eum , qui fervari nonpoteſt , non attingere : nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit . E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto , per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono . E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti : prudentis medici, dice, ef ,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare ;ne hominem occidiſſe , quifua forte interitu rus erat , exiſtimetur . E che direm noi di que'chimici medicamenti , che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica , ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente , anzi abborrare i rimedjchimici , cheda'Ciurmadori , e da Cerretani , edas viliflime femminelle uſar pubblicamente ſi veggono , e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano , e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali , e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor s'imprendono , e teme ruri . 1 . DelSig. Lionardo di Capoa. 535 rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare , e lavorare alla cieca . Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne , e di cotanto riſchio : certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono , e veggonfiatcriſtar le caſe , e le famiglie , non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono , ma color ſola doperano ; non altrimenti , che ſe ſpada , o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia , non n'è lo ſtrumento da accagionas. re , ma la follia ſolamente dello ſcherano . Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare , e ſpezialmente con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano , maſſimamente le purganti medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo , lità del male , all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal ne capiterà : Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto tempore vina nocent ; Quin etiam accendas vitia , irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis . E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in corpo per traſeutaggine , e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne , le roſe , le caſ. fie , e anche l'aloé , di cui non ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente , e benigno ? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento , e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne , qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte , ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc ? Certamente niu . najper . alla qua : 536 Ragionamento Settimo 1 na ;perciocchè come Ippocrate medeſimo , e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe , e da non uſarſi ; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio , e tenere a bada la foga del male , ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde ; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio :neq ;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello , ir malis magnis eft ,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat , porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet :così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo , ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo , che non è dalla natura forſe per venir giammai . Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato , e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio ,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi , che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi . E per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo , e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi , e non debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare , non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate , e di Galieno s'inframmet . teſſe di purgare ammalato , in cui fian crudi gli umori ſex 2 :2 en Del Sig.Lionardo di Capoa . 537 za enfiamento alcuno : in morbis quoquenihil eft magis peri culofum , quam immatura medicina,comechè non medican-. te , avviso Seneca ; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno , che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo , e di maggior riſchio fiè il male ; concior fiecofachè nelle lievi malattie , che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino , poco nocimento ricever, certo egli ne foglia ; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane , che nulla il medico quan tunque accorto , ed eſercitato Gali , comprender mai ne puote . A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna , o s'altra al mondo è più vaſta , e più folta ſelva,tã ti alberi , tante belve , quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra ,madagli animali anco ra , e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano ; perchè troppo ſcarſa , e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza ; perciocchè quanto cuopre il Cies : lo , abbraccia l'aerc , nutrica la terra , e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace : e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri , i rami, e gli argenti , c gli ori , e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi , non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra , c tronchi, e frondi , e ſughi di cento , e mille infra lo ro diverſiffime piante , e anche tutte parti ſalde , e diſcor renti di tanti , e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie , e tante guife ordina , e lavora. : Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi ,e s'affarichi, è per huom da tacciarne : anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti , comealcun di loro follemente ſognoſli , veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è , anche antichi , che liberamente , e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera , e così fchietti , comecon altre coſe meſcolati l'uſavano ; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei : maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle ; e Dioſcoride no conſiglia , e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il mercurio : e ancora a' dì noftri nella colica , e ne'vermi , e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno ;e ſe fra’minerali v'han di que' , che velenofi fo no , ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili . Maſe egli avvien mai pure , che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili , egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici , e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra , e quali gli richicggano . E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti , ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere , e frane. E ſe'l precipitato , e'l ſolimato , che potentiſſimi veleni ſono , cavanfi dalmercurio , e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare , ne i chimici medeſimi , che gli compongono ; concioffiecofachè anche l'oppio , e altres molte comunali medicine , avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino : e ne balti ſolo al preſente fapere , che ciò non , lia ſpezial biaſimo della Chimica ; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo , no fu già ,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na , ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò ;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato , il qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe Empiricorii fecreta , quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra : nci , e rimoſi, dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo , dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila pietra lazula ,e l'oro , el’ematite , ci giacimi , e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano . Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā .chio là dove d'un cotal balordo , che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive : oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata , ideo quia non iis alamurfed ; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque . Quænos alunt impura ſuntimnia , do quefacilē mutationem ſuſcipiunt ,fed quotidie agunt in balſamum na turæ , cum corrumpendo in fenium ; labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus ; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus , purificant , & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli , così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe : ibi tum alibi , tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum , ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft , & referta multorum morborum fe Yуу 2 mina 540 Ragionamento Settimo minariis , tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca ; il che noi baſtantemente altrove dicemmo . At qui, dice egli , ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur , ii ple rumque re infecta cummagno dedecore , & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis . Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt , metallicis fæpè , &malè præparatis , & malèadhibitis uti ; verum ut jamfupra dixi mus , eadem eft materia , & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici , quàm vulgaris ; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne . Nonne maximè probanda eft ars illa , qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata ,non integra exhibet ? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo , elfal comune alla giornata ufarli , e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente , come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono . Pure non è coſa cotanto utile , e gio vevole al genere umano , che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem . Igne quid utilius ? fi quis tamen urere tecta Cæperit , audaces inftruit igne manus. Eripit interdum , modo dat medicina falutem . Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto , del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno ,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano ; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica , e ſozzainente lacerarla , e quaſi metterla 1 in fon Del Sig .Lionardodi Capoa 541 1 in fondo ; pure non han potuto far sì , che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla ;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto , ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero . Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto , e l'Arueto , e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo , e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante ,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë ,ut nihil amplius addi polje videatur ; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio , non men celebre , che dotto let tor di quella , nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio , che nulla più . Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto ; poichè non men ,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono ; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è , che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio , che alQuercetano , sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare . Ed è egli pregiato l’Alca . rotto , eziandio daʼmedici volgari , e Galieniſti, e per buo na , e giovevol medicina per tutto ſtimato ; ma pur ſi vuos le 112 342 Ragionamento Settimo le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati ; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica , e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle , o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo , certamente nuocer potrebbe , e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare , il qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente , con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente , certamente nemoriva . Ma di ciò ſenza dubbio , non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto del medico , cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla cieca , e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima . E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno ; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant , vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes ,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta , eft plenapericli , Et fævit,tanquam occulta , aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di quello , ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio , che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana ; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba , che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza , che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono , non eſſendo potuto alla debita maturità , e per fezion di inccallo pervenire , così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace . La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia , in tante , e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti , e ſperien ze , ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono . Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano , due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio : l’una fiffa , e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa ; perciocchè no filla , mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto , il qual corto più , che ſe mercurio vivo non foſſe , della natura del piombo alquanto ritiene ;e as queſta parte , che certamente è la maggiore nell'ancimonio , alori la violenza attribuiſcono , e'l poter , ch'egli ha nell'o perare ; anche havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra , la qual della ſua matrice ſommamente participando , con quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato , che pur ven’ha : a cuila malvagità tutta , e'l veleno altri aſſegnò , che tanto all'uſo , e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito , ne tanco , o quanto a colui , che'l prenda offender ſuole ; perchè ne Galieno medeſimo , ne Dioſcoride , ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia , e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio , con meſcolarvi deutro dell’Antimonio ,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno , che del me dicamento , ſe violento , e rigoglioſo il ſenciamo , che se vorrai purgare , ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio , meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri ,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe : seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors . ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν , διπλάσιον αλών, μίξας , και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai , comechè leggiermente , ſoſpettato, non forte velenoſo , enocevole l'antimonio . Nicolò Mirelio poi , it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto ,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra , ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci : e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo , che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone ; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola , ſenza danno, o noci mento niuno , e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré ; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia , e anche altrove, l'Antimonio crudo , ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi racconta , fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident , emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle , &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi , c da'legami , chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle dell'antimonio , o ſaligne , o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali , ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni , ei contefe intorno a ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje , e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano ,con fondere, e diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde anco ra del DelSig.Lionardo di Capoa. 545 ra del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo ,finattanto ,che colvigor talvol ta lo ſpirito , e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera , Anti monio , cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare ; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui , che'l prende , può eſſer coſa , che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera , parimente può ciò fare ; e quel'è la cagione , che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo : Ma che che ſia di ciò , ſe per opera , e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia , certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore , ove a tempo , e acconciamente , e con riguardo per huom ſi dea ; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi , cvuoti dentro , ma ſovente ancora diſſolva , e miglio ri , e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno , e cattivo così nelle falde , come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to , o purganre , o vomitivo , ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat , dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum , grad nainore cum periculoexhiberi pifit , quàm aniimonium dextere , ac debitè præparatum ; nunquam enim tormina ventris , convulhones , hypercatharſin , fluxumque nimium colliquativumcauffabit , etiam fi frigida ſuperbiba tur . E egli però quelta malagevoliſſima impreſa ,e difficil molto , p mio avviſo , anzi impoſſibile affatto ad artificio umano ; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella , che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare , che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere . Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante , o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare , e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre . E quel ſapie Z zz tilfimo 544 Ragionamento Settimo tiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium ,quandiu vomitum , aut fedes movet , mercurius revivificaripoteft , venena funt: non boni virirea media . Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro , e in regolo ; e'l mercurio di vita , e'l gruogo ancor ſe ne forma : purganti inſieme , e vomitive me dicine . E per cominciar dal vetro , il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente ; pure comunicar ſuole minutiſſime , e però inſenſibili , e cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore , in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato . Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio , Strolago infie me , e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta ; e dalGeri neri ſomigliantemente , e dall'Andernachi, e dal Langio , e dal Mattioli è ſommamente lodato . Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica , e in medici na , forte il biaſima , e danna ; dicendo , che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia , non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri , ed altri famoſi medici , e chimici con apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti . Vitrum antimonii , dice Giuſeppe Quercetani , quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur , perniciofum eft medicamentum ; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem , perſuperiora , einferiora magna cum perturbatione ducat , evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum . Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo , affatto dalla medicina il bandiſce , dicendo : Vitrum hic antimonii fciens omitto , tanquam pernicioſum medicamentum ; e'l dortisſimo medico , e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice , che comechè alcun guarito pur ne ſia , non eft tanti ifta for . tuita quorundam fanitas, ut propterea , vel unius hominis vita exponendafit periculo . Vidienim quum ager tantùm femiun . DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis , eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes ,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma , hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt ; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos ; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės , emungantque rufticis pecuniam . Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera , ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı ; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella ; che dal Ranzovio , e dal Mattioli , e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo , dannerà , e riproverà anche la ſua . Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene ; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio , ove c'dice : quane do coctio inſtituitur , favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico , fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur ;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio , e non dall'arſenico , ficome il Rolfincios avviſa . Ma che che di ciò ſia , in biſogna dicotanta confi derazione , lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no , e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio , e a dubitare non forſe così foſſe , come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata , e da altri cotanto commendati ,così il teſtèmentovato Quercetano favella : Antimonii vitrum idem ferociterpræfat ,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album , & arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem ; quippe quos adeo afro citer corpus concutere , ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus , ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi . Z z z M2 Ragionamento Settimo Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av , vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio . E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto ; infra’quali il Priineroſio ,così dan nandolo nefavella ; omnem retinet antimonii malignitatem , qua antea fub terreo excremento sopita latebat : edindi ap preſſo : fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat , poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft ; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo , così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona : Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus , communiterque adeo omnibus confectus non eft , ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris . Exregulo quidem eft :fed tertii gradus , qui longè differt àvulgari ; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium . Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re , e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no , perchè ſecondochè egli ne dica , dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano , e fpezialmente l'oro , l'argento , e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento , e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben ? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata :la qual certaméteè quella cheare . cer muove , ben li può di eſſo dire , che comechè per ope ra d'eccellente , e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe , pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi , ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto , e prudentemedia co , non ne ll'adoperarfi ,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua ; perci occhè pure , comechè di rado fortir ne fogliono , Ed 1 Del Sig.Lionardo di Capoa 649 Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo , imposſibil quafi a ſuperare ; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro , e dell'antiinonio diſpoſto fia , c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più ;o men vigoroſo ſortir ſuole , e sì da ſe mede fimo differente , che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto , e ſperimentato che l'Artefice fia , potrà maicome , o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli , perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo : o che tra per la violenza del vomito , e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra , e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere , e dibucciandofi la mucilag gine , la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole , difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti , e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento s'offendano : e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi , pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande . E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città ; purs baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role : Huc referamus hiſtoriam , quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam , quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat . Nulla com paruit vena , fivèrupta , five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit ; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret , dorfo .cultri inte riorem tunicam , ut penitiusreminfpiceret deterfit : boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant ; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1 . E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi , e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje , e ſvenimentirecar foglio no , e talora anche con toglier agl'infermi miſerabilmente la vita ; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo . lamente , madalle manne ancora , e dalle roſe avvenir fo gliano , ed eziandio da altremedicine , che per comun conſentimento più ſicure , e piacevoli, e innocenti tenu te fono : memini non defuiffe, dice il Libavio , qui Caffia fumpta omnia pateretur , que illi ,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno , che è nell'antimonio , è anche nella Callia , non che nella manna , e nelle roſe , e in altre ſomiglianti media cine ; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio . Neq ;enim ,dice il medeſimoLibavio ,in favellando pur della Caſſià ,parum acrem inde elicimus liquorem : tur batorem nimirumillum alui . E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio , non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio , non dell'antimonio . Ma egli è ſenza dubbio men temperato , emen gaſtigato del gruogo ; e fe guentemente maggiorinoje , e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna , e velenofa, che in eſſo preva le ; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole ; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere , e ammendare , e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato ſia , temer fempre , e fofpettarne dobbiamo ; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole , o nulla, o ſoverchiamente operando. M.2 Del Sig .Lionardo di Capoa 151 Ma non perchè dannoſi talora , e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano , ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire ; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini , e alle donne groſſe , ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini , delParacelfo, e dell? Elinonte . E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti , ma innocenti però , e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica , que'po chi inedicamenti , che vanno attorno ; come il belzoardico minerale , l'antimonio diaforetico , e altre ſomigliantime dicine , nelle quali comechè attutato affatto ,e ſpento il ves Jen ſia , pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa : non ſogliono , anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai , ne ad huomonocimento alcuno apportare ; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni , e nellolio , e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano ,de'quali il concorſo , il movimento , la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco . Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta , e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza , i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza . Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio , il qual vuole , che l'antimonio diaforetico , altro non ſia , ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico , certamente in altra maniera n'aurebbe favel la + RagionamentoSettima Lato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte : maco d'alcuno non men ,che la polvere di Sicilia , detta del Chiaramonte , e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora impietrarſi ; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare : e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa ; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté s'avviſa , volante, e vaga . Ma ſe ciò è ve ro , potrebbono per avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti , che colla loro efficacia vale . voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali , e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata peſtilenza : e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori , e ſtracciamenti di viſcere , che recar ſuol l’antimonio , non altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia . Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto , ed innoccnte mercurio , meſcolato dentro dall'huomo ,coll'acetoſo ſale , che vi ritrova , gua ftali agevolmente , es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera ; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa ,e da’fumi, e dalle unzioni , e da al tre ſoinigliantimedicine . Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole , e velepoſo all'uman genere rieſca , non ſono però da biaſimare cento ,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina , maggiori nondimeno , e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti , ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam ,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent , autſaltem melius pre parata . Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari ; fapillimè mitiffimus calor adhibetur . Sed pre 4 Del Sig.Lionardodi Capoa . 553 : præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam , mordacitatem omnem deponere . Etcertum eft , egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta , & fero ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca . Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile , e valoroſo Galie niſta , e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli elaterj , le ſcamionee , e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina , i quali già ella più forſe ad offende reinteſa , che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il natio amarore , e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte da noi , coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte : aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim , intelligo rerum vires pri ftinas manere debere , infui radicem introverti , vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum fub cuftode veneno : vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam ,atque deletericam qualitatem introvertit ; emergitque ex imo vis. reſolutiva , morborů chronicorum curatrix egregia . Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit ; filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium , &vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio , di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe : Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata , & alta magnifactione , propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio . Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere , utilisſime molto , e neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon , te , e'l Paracelſo , ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine ? Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do : e per queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina . Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura : e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole , e ſerbar folamente pus ra , e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di , e le qualità del fuoco , e gli ſtrumenti tutti , egli ordi gni acconci a lavorare , e'l tempo , e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano . Quindi dal loro faggio , e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti : e fanno dal vino , e di altri vegetabili , e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture , e fali, ed eſſenze , e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo , e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare , eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita ; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti , e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori ; in cui convien di preſente con prelto , c valevole argomento ſoccorrere . Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole , cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa , gridaforte ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis , fi ſcuſi nel Mercati , ignorante dell'arte , la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne , così ſoggiugnendo , Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555 : ratur miſtis tenuitas , quæ duplieiter malis peritioribus profi cit , quia cedit ad imum , radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret , &devincat. E quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità , e in ragion civile Martin del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa , creda col Mercati , econ altri mal pratici del meſtiere ; che ſia vera mente oro potabile quel liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale : ſommamentela Chimica loda , e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della Chimica , qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur , ut phyſiologie fatum præftantifimum , in ventricem auri porabilis , reinonminusutilis adſanandum , quàm ad alendum , ac quoad fieripoteſvitam prorogardam . Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti lavorare , e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico , che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda , e meſtier di tuo riſchio , è di tanta confi derazione imprender voglia , egli della chimica filofofia , è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno , e comprender lanatura , e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo , e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina , mal fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare . E ciò bene avviſando il Valentini , e’l Para celſo , e l'Elmõtese'l Quercetano , e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini , e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine ; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina , il Paracelſo , e l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre' , e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno , e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica . Ne per altro in vero in tanta infainia ,e ſcherno cadde cotal meſtiere , e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti , quanto , che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare ,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui cura , e talento i ragguardevoli lor medicamenti ; dicendo alcuni di eſſo loro , coluiſolamente effer vero medico , che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum Crollio , dice Criſtoforo Glucradt , verè genui num elle medicum cenfemus , qui medicamenta debitè cogni ta , non ratione , ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare , & à veneno, & feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non committere coguo ; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto , facilius eſt , R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus , cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome , avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene : perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero :Io non lo comead altrui , chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba ; perciocchè molte , e molte di quelle di maggior vigore , ed efficacia fornite ſono ; perchè certamente maggiore avvedutezza , e intendiméto richieg gono , che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto , che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce , aſſai più certamente ne può di danno , e di nocimento avvenire ; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati , e pericoloſi in lavorarſi , cheper ogni menomo fallo , o tra ſcutaggine , che vi ſi commetta , graviſſima certamente , e mortal rovina ne può ſeguire . Perchè l'incomparabile Res nato Del.Sig. Lionardo di Capoa 557 : nato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona : Caurè etiam fecit celfitudo ſua , quod non luerit Chymicis remediis uti ; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint , tamen , vel minima in eorum preparatione , etiam quum optimè fieri creduntur , variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint , fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare , che alcune di quelle , eziandio ottimamente compofte , e apparecchiate far fogliono ? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico ? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero , quocunque modo fe và cum folo nitro , aut addito etiam tartaro præparatum fit , traétu temporis aëri expoſirum pravam , da quaſ maligram induit naturam , fumptumqueintrà corpus , cordis anguſtias, lipothymias , vomitufque , & fimilia prava ſymptomata pro creat . Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo , comprenderla vera , e giuſta quanti tà , ch’ad ammalato ſia da dare ? la qual certamente non da altro li miſura , e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta : e quella ſenza dubbio comprender non fi può , fuor ſolamente per iſperienza , e per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati , e con rite gno in prim ? : quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga : oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti , che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione , e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano , pur diverſame te o più , o men vigoroſe , e valevoli ſortir ſogliono ; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe ; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate ? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli ? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono , iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne : dico , chenon haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare , ma que' ſolamente , che di maggior conſiderazione , e di maggior riſchio agl'infermi fono ; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco ; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza , quando la biſogna peravventura il richiedeſſe . Ma convienmiritor : nar addietro ; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro , che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti ? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici , e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico , e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus ; diſtillationibus , quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem ,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus , tantum affumuns aquam endi: viæ primam ,oprojiciunt aërem , ignem ; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia , & fecres ta : à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa : hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med . ad augendum coitum , ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum , &patentiffimum eft falem no poffe confici , nifi perdiſtillationem ; ducum prima aqua dif folvere cinerem , abluere primam aquam , terram albifi cando , ut docent fapientes . Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro , c compatriota'nelle fue 1 Del Sig.LianardodiCapoa. 159 fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori , con produrre in mezzo molti , emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci , per non conoſcerli di chimica ; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare , ſe dal tempo ne foſſe permeſſo . Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere , e ravviſare tante , e sì fatte guiſe dime dicamenti , che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere , ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto , e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti , ne in quali forti di malattie , in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno :cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino , i quali appena ſi pare,che l'ab . biano ne'lor volumi groſſamente accennate , non che par . titamente ſpiegate , e deſcritte , coprendo a bello ſtudio , e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te , per non logorargli yanamente infra le genti volgari ,cu dibaſſo intendimento . E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj , che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc , che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature , e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico : Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt ; preciofa tamen quum veneris emptum . Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro , che cotanto alcuni ſopranmodo millantano : come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere ? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento , certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali , perciocchè non è egli , ne eſſer può giammai ſal d'argento ; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me , e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi , onde già roſi , e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole ; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai , così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù , cheſipredia canodel ſald'argento ; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli . Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è , quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente , o la natura medeſima , o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro , e dell'oro , che chiaman potabile , del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi , ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare , e prender di nuovo forma di metallo ,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale . La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con . ſigliata ne fu allor , che diſſe : ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis , nifi prius redditum fit volatile , din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli , delle perle,del le quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini , cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior Del Sig.Lionardo di Capoa sor ciosfecofachè a farle tali , egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera , e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono , ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù , e lemillanterie di Lancillotto , di Triſtano , ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte . E ſepur vere coſe , e non vanisſime dicerie elle fono , ficome al quanti guari autori han voluto pur credere , cgli però ſo 110 sì inviluppate ; e cieche , e rimoſſe dal noſtro intendi mento , chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire; così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo , l’Elmonte , e altri, l'han ſapute co' loro riboboli , ed cninmisì bene avvolgere , e intralciare , che impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto , che comunemente far pe veggiamo , altro certa mente non è , ch'un minuto ſtrirolamento , o ſceveraniento delle parti , fatto , come è detto ,da’ſaliacuti elaltati ,e per ciò ſoinmamente velenoſi , i quali meſcolativi per entro , e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro , o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati , ceſano , e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali ; intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto , e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte ; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro , ma per opera d'ec cellente , e ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero , certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze , ma tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio ; come gli intendenti del meſtier fa vellano . E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro ; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento , e l'oro, e le gem me calar giù , e far toſtofondaccio : comechè alcuni cotali paltonieri , e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario : circumfuranei fallaces ,come dice il grand'Elmonte ,qui aurum , & argentum furripientes aliud in borum locum fuppofuere ; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare . Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte , huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato . Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum , qui foliatum aurum , gē maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum ; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium . Subtilior , ideoque magis condolendus efterror eorum , quiaurum , argentum ,coralia , perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri , verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura .Nefciät enim , ah neſciunt acidum venis hoſtile ; ideoque peregrina diſſolventiúfuperata , & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla ,& lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai , e ferino , e veritiero ſcritto Te : omnes illi , ſclama , qui talibus portentofis promifis, quo rum ne minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta , &impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus , intendendo egli di coloro appunto , de' quali noi ra gionato abbiamo : ſciocchi,e ignoranti della Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur , tanquam profundi ar. canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di ciò avea egli detto : meritò fufpeéti habentur , qui primam dari materia philo Del Sig. Lionardodi Capoa 563 philofophorum tùm ad quorumcunque morborum curationem , tùmadmetallorum tranfmutationem , multis , jiſque ad oſtë tationem , & fraudem comparanis rationibus probare conan tur . Qui ex auro , quod necfummaignis violentia , autul lo corroſivo cogi poteft , ut vim fuam metallicam exuat , se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe jactitant . Qui non folùm colorem , innatam tin &tu ram ex omnibus metallis , lapidibus presiofos , fed etiam fpi ritus , olea , & ſales non minus , ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco , corpore illu metallico , & incombuſtibili , balſamicum , &temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris , faporis, &tem peramenti , majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam ,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex ,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli , vengon si fartamente a ſchierarſi , e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje , od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono ; ficomealla giornata nel ſoliinato , e nel precipitato , e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio , dicoral oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice , illo nocentius toxicum . Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti , ſe non ſi deſſero tanto miſuratamente , e a ſpiluzzico , non nien gravi , e manifeſti danni ſeguirebbono , che dal ſolimato , e dal precipitato avvenir ſogliono ; perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi , e ignoranti , ſe nella chimica eſercitati foffero , cotali medicamenti , anzinocevoliſſimiveleni , a'loro ammalati per cagion veruna imporre ; e comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare , inaggiormente gliele abbattono . E ſappiano pure , che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro , che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere , che quell'olio d'oro tanto celebre , e famoſo in Portogallo , curi, e ſaldi le ferite con altro , ches co'ſali roditori , ed acuti dell'acqua regia , che if diffolve ; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare ; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro , o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire ; che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato , e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile , che rade volte ricever fe ne ſuo le , ſe paragonafial riſchio , in cui la vita del malato mani feftamente incorre . Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle , de’coralli , e dellc gemme ; perocchè , come di ſopra detto è , sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano , che per quindi torgli vano affatto , e inutile ogniſtudio riuſcirebbc .' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali , onde compoſto era , putiva; e quelvalent'huomoall ? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe , che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi ; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino , forte gli biaſima, e danna . Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia ; non però di meno in ciò , chcnarra delle perle , egli ſenza dubbio ſembra dir vero . Acetum radi catum , ſon ſue parolefua , acrimonia , & vi corroſiva, atq; caufti. DelSig. Lionardo di Capoa. 585 cauſtica non modo margaritas , verum alia etiam diſolvere ; &in cinerem quafi redigere , atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft . Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan . tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum , magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem , in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa . E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto , e roditore . E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle , e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato , pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano ;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo , che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te , le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric , che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono ? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano , ilquale con ſue ciarle , e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone , vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi , c'l biſmuto calcinato con acqua forte , e ſciolto , co me dicono , per deliquio , in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto , e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella : deci 566 Ragionamento Settimo --- . decima bolgia dello Inferno : Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio , Che falfaili metalli con Alchimia : E ten deiricordar ſeben , t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia . E non ha guari di tempo ; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali ( edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace , e vigoroſo , con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo ; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre , e più vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire . E ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene , che i baccelloni , e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie , e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al mondo , o folamente ne’libri di poco pregio , o dalle bocche , o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri infermi , chi potràmairaccontare :Dirò lo fola mente , ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino , o altro ſomiglia te libro di Chimica , ftimandofi egli già gran maeſtro in quella , preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto ; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle , pur colei preſolo , dopo acerbilliini dolori nabif fando , e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche , e irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare , ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio ; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno , come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo ; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto , Del Sig.Lionardodi Capoa. 507 ne , futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga . E dall'ignoranza della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co ftumi ; il che certamente non avverrebbe , fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo malagevol fia il comporlo ; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo , dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco , o pure il vitriolo riprodotto dal capo : morto , ſicome dicono ; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino , e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori nelle viſcere , e talora anche manifeftamcnte uccidendo . Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente rabbiando Gio :Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido . Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare . E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati ; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui , che prender gli dec ; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo , che non mai partir ſe ne può , trae ſoven te qualche nocevol particella della campana , e con la ſua mordacità tanto quanto la rode , e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge , e morde le viſcere , e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo , e difettoſa l'economia di quello renden do . Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio , fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo , che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime me dici. 5:08 RagionamentoSettimo : dicine della Chimica , e ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano : Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila , diſcive , trochive quieſcit , Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re , che non ne fieguono le ſcherne di lui , ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi , i quali, com'egli dice , quum rerum Chymicarum planè ignari fint ,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur, chymica medicame ta , quorum vires , & præparationis modum ignorant , fatis periculosè ufurpant . Or che direbbe egli , s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo , e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città , in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere , non eſſer cerrerano,non doniccico : 1a , che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico , che non gli ordini , appena che ne ſappia il noine, o bene , o malc , in tutte ſortidimalattie ? Anzi , che direb be egli pure , ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente , e con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti , e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono ? E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino ; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto , con danno , e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant , excoli ; ejuſquefcientiam à pluri bus , qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur . Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis , atque in uſum verſa ; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſi Del Sig.Lionardodi Capoa: 150g phyſicis , tùm medicis adopsate . E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica , a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra , e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa ? A che tanti valentisſimi medici ( de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla , per appararla ? E per racer d'Avicenna , di Rali, di Meſue, d'Abulcafi , e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli , d’Arnaldo da Vil lanova , e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio :Battiſta Món tano : Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno , Giovan Fernelio , Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero , Andrea de'Mattioli,Gio : Giacomo Veccheri , Gabriel Fal loppio , Felice de' Platteri , Martin Rollando , Anſelmo Boezio , Girolamo Cardano , Giulio Cefare della Scala , Gregorio, e Daniello Orftio , Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini , Daniel Sennerti , Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc ? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare , e abbatter la Chi mica , pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla , e ſeguirla ; e introduſſe in Vienna , com ' egli narra , nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli , e nobili medicamē. ti ; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to , e biaſimato . Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica , fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi , e magnifiche : poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa , di che pienamente non ſappia , e non ne ſia in prima a baſtanza informato :ma folo la Chimica fi biaſima , e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier ,dicui appena fanno il nome . : Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro , Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano ? certamente non è medico a'tempi noſtri , ch'abbia fior di ſenno , che per be ne ciò fare , con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica ; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà , o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta . E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa , fciat,diſſe , in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe , &vixin Gallia , & in Italia ; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio : encomia Chymie non opus eft , ut hic recenfeam : quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius : ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina . E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli : medicum abſolutum effe non poſſe ; immo nec mediocrem quidem , qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti , e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli , tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano : imperocchè l'acqueodori fere, gli olj , tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della natura produconſi , la varietà de'colori , che formanſi per uſo della pittura , le paſte da indorare , e lac que da partire i metalli , che continuamente adoperanſi dagli Orafi , tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo , che nel terzo libro de Af se , ebbe a dire : hujus eft id artificium , ut vi aqua medicata , quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento , aut cuivis metallo illitam , aut confufam ,nullo di Spendio abſtrabat , ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do , niſi quod ufu interteritur . Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere , etiã, quod magis Del Sig. Lionardo di Capoa 571 magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum , a inani , veluti quadam idea à materia abſtracta . E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius , S. fed fi D. de rei vind . nella quale ſi dice , che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari , hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices , vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum . Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do :poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade , perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere . Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia , conviene, che non ſolo , comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato : ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento :concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti , e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli : Ea fuit om nium hactenus invidia , dice di lor querelandoli Geremia Bartio , idque præpofterum occultandi ftudium , ac labor , ut non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica , tanquam eleuf , na facra celarint: ſed veterum etiam arcana , fimpliciori , apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate , in tenebras ipfis Cimmeriis , & Ægyptiis denfiores conjecerint . E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica , e conſeguentemente in Geometria , e in tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie ; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit , e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo me . 572 Ragionamento Settimo mo medico ; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire , &non eſs philofophus, fa tuus eft ; per tacere il Morieno , e altri . Maconviene oltrº a ciò ,che per internarſi nelle cupe , e profonde ſpecula zioni della natura , ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra , e molto in eſli ſpii, molto co prenda , e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe ; cer cando per lande , e per valli, e per colli , e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante , erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli , e peſci, e altri infiniti animali, e minic re , e gemme , e altre , e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda , come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo . Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura , e delle qualità di tutti gli ordigni , e ſtrumenti del meſtiere , e ſopratutto del fuoco ; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne , o d'altre ſorte di quelle coſe , che ſi lavorano ; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca , e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento ,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re : ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare , è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia , e per la medicina ſervir ſe ne yuole . La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata ; e ciò fanno per . non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te ; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno , ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè ; , come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe , e care , Saporite , foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare , Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti , e molti , che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri , ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati , e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro , che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel , che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate , quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente , e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole , al lor maggiormente n’inviluppano . Omnium rerum , avvi fa il gran Claudio Salmaſio , quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula , ab ufu , & confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt , fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam . Fornaculam fortem , ve caminum , in quo argentum ,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio , quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo , & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt ,modo percipere ; ipfis. confilium non effe , st intelligantur ,nifi à filiis artis (utvocant , nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr : ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus . E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta , ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum , & operam miſe rè perdant pleriquemortalium . Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant , ideo folü fcripfiffe 574 Ragionamento Settimo ut nõ intelligerent ? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo , chi non crederebbe interamente al Beguino , ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo , quelmedeſimoappunto , che gli antichi Chimiciin , molte malattie di darper bocca uſavano ? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra ,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino , non ſolamentenon giova , anzi n'offende notabil mente le viſcere ; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono , per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza ; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma : ecento , e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono . E quinci avvien poi , che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure , che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati , e alla groſſa diſegnati , che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare . E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato , il libro de mendaciis Chymicorum , con ſua poca loda compoſe . Or veggali di grazia chente , e quali fian le malage volezze ; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano , e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare , ficome non meno ſciocco , che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio ; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe , tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa , che ſpecu lativa fia : egli è di meſtieri all'avveduto Chimico ,anzi coll' uſo , e colla ſperienza , che col rivolger de’libri appararla ; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya , dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu , verfate diurna ; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro , e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco : econ altri chimici ſtrumenti ,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir , che più co'carboni , e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia ; ne per altro certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò . E comechè dura oltremo , do , e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto , ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω , Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα , Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα . Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni , & immortali Dü : Aleiper lungo, ed erto calle vaſſi , Che duro inprima appar , ma quando alfommo Si giugne , agevol èquel , ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere , ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui , che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella ; ne in meſtier di tanta conſide. razione , quant'è la ſalute , e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro , ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina ; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio : nullus adeò malus liber eft , ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit . E Giuſeppe della Scala : ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo , ex quo non alia quem fruitum colligere poffim . Ne è perſona cotanto ſcioca ca , e balorda , da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa , eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε , che per tacere altri , il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto , così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma 1970 Ragionamento Settimo Maparticolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro , poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione : prudens le&tor , vel auditor , omnes libenter audit , omnia legit : non fcripturam , non perfonam , non doctrinam Spernit :ab omnibus indifferenter , quod fibi deeffe videtur querit , non quantum fciat,fed quantum igno ret , confiderat . E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo , cui no aveapotuto porre alcun compenſo , e vani erano riuſcitii molti , e varj conſigli de' valentiſſimimedici . E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo , ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola , e perle ſcrofole ; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite ,aftenendo ſi da’ falafli , l'olio del lino , l'olio dell'olive , il ſangue del becco , il ſalnitro , l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale , i fiori del papavere roſli , la calce, il gen giovo , e'l zafferano ; nella colica la cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre , il ranno , e l'acqua del vitriolo , e della calce, e altrimolti medicamenti , che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo , il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole , come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò , ch’alla medicina ri chiedefi ; ma gli convenga anche girne dalle vecchiarelle , dalle zingane ,da'ciurmadori, e da’vecchj , e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più , ch’altrove per avventura non farebbe ; e quinci fi coglie , the'l medico , non menche del chimico è detto , debba an dar ſe poſſibil fia ,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora , acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre , delle minicre,dell’acque , degliani mali , dell'aria , delle ſtagioni , de'coſtumi , de'cibi, delle bcyan DelSig. Lionardo di Capoa. 577 bevande , delle medicine , delle malattie , e delle maniere di ciaſchedun paeſe . Ma con tutto , che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto : concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice , che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi :imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide , per tacer del Paracelſo , nell'Elmonte medeſimo , che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea . Ma laſciando ciò daparte ſtare , mi par tempo omai , che veggiamo , quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina . E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto , infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare ; conveniente coſa mi parrebbe , acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero , d'un compiuto , eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere , il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare , con iſpiegar loro la natura , i nomi, e gli effetti di quelle ; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle . E ciò tanto monta al comun deila medicina , che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe : ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia , quæ horto fimplicium publico caret , non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti , e molti danni annoverati , che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono . E certamente niun maiſaprebbe , comechè ſagace , cavveduto molto ſi foffe , giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti , ſenza aver huom , che d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata , allorche dilic , parlando de'ſemplici : Convien certamente , che non Dddd nina , 578 Ragionamento Settimo una , o due , o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro , il qualgliele additi ,come bocca gliele inſegni. E altrove : Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti ; eglino medeſimi non una , o due , e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola ; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia . Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano : diſſe :Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti , e i marchi d'unoſchiavofuggitivo , comeche mai non l'abbian veduto , a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui , comecanzone il vă per tutto poirecitando ; che ſe per avventura intervenije , cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono . E ciò tanto mag giormente avviene , quanto ,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele , ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno , chia mandoſi diverſamente da ciafcuno . Coſa , la qual cotanto fe ſudare , e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè , co mc egli dice : in berbulæ cujufdam facie repreſentanda , no tas tam variè delineant, utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur : aut cerie eandem multi plici prorſus effigie : quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium , per vaftas ire regionum multarum ſolitudines , invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare , abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare , ut inſpectu eriam , ne dum cognitione res ipfas comprehenderem . E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno , ch'a sì fatro meſtiere in tender preſuma .Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino , con apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! DelSig. Lionardo di Capoa. 579 . be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio , e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò , ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole , ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia , quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna , e nel tempo ,che germogliano , e nel tempo , che creſcono , e nel tempo , che languiſcono le piante diligen temente confiderare : τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι .. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna , di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo , e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to ; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere , e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi : ficome certamente fu Luigi Mondelli , Luigi dell' Anguil Jara , Melchior Guilandini , Giacomo Antonio Cortufio , Proſpero Alpino , Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio , ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa , e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero ; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove , in queſta noſtra Città , in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana , e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa ; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe . Intanto , che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli , che in ciò pochi ebbe a ſc pari , infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1110 580 Ragionamento Settimo -mofaa compor s’avea la Triaca , fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene . Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare ? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici , atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum , decus , fed quod maximum , quod optă dum , ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur ? quot agri indè necantur ? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più ,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue , farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano ; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo , o della materia, o del la lingua intendenti , in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri , o quante , e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro , che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio , anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella , pur malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato ? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia , ein man de'medici ri porla , come già prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba ; certiſtima coſa eſſendo , che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto ; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio , o perchè di fcco cotal biſogna le riſpondeffe ,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato , una faccenda di tanta conſiderazio ne , e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata , che un di ligen Del Sig. Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle , e facédofi ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe ; perciocchè in sì fatta guiſa non ha dub bio , che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero , agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due cattedre della notomia , e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei , che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero , e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune , che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri , ma per l'arti della guerra ancora , c per la na vigazione , e per le mercatanzic , e per tutto il civil con mercio . Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre ; la quale per quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto , così gio vevole , e neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono , & cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote ; e non ha il torto l'avvedutisſimo , ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare , e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere : avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia , alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio , quãdo diſſe : Medici hoc têpore ( Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines occidit ? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus , vel cum re ipfa . ignorent , quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt , quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis homines , quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur , jam ſe videre , caciores indè reverſicontendunt . E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe ; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia , come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia ; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere di fo le , e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina : Io richiederei , che i Lettori di ella , oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate , e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi , e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno , c altri famoſi valend huominigià ferono , di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano ; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace , e che niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina , che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre , ne coſa di certo mai determinare ; impertanto potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte , e dell'opinioni , e alle varie , e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare , che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu , qual via nel meſtier del me 'dicare debban genere , Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe , ficome alcuni daquelle parole : li bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant : vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re ; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno ,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia , come Galieno adoperò , ſcegliendo datutti libri il migliore , ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola . w inſtantemente conforta . Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto , ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che 11012 DelSig. Lionardo diCapoa 583 sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire , einſegnare ; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare , e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo , folum , che i Dottori chiamano taſſative ; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio , nevolmente è da fare , certamente non che lo ſpiegare an , che altri nomen famoſi autori vietato ne fia , anzi egli n'è apertamente conceſſo , o per medire impoſto ; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge ,, altro certainente ſtato non ſia , ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un , perfetto ge valentemedico ; il quale, conte già abbiam di moſtrato ,cal divenir non potrebbe , s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia . E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo , e bene in formato delle buone lettere' , che fe lo ſtatuto , e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo , che ſcriſfelo , econrpilollo , aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici , e filoſofanti alcuna concezza avere , eglino ſenza dubbio non pure permeſſo ,ma commendato anche avrebbono ,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro , e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto ;o pur ſe andò avā ti , fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova , e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate ,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena ,c di Meſueallor ſi coſtumavano ; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri , con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca , famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città . Ne altre doitrine in vero , o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do , licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi ; ſegnal certiſſimo , che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno , e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine , aper tamente cozzandovi , ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma , e la ſperienza ſeguire . E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando , ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono ? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono , ſe contro i divieti imperiali altronde , che da Ippocrate , e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto ,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte , e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi ; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio riva ; intanto , che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco . E tanto parmial preſente della traccia , che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato . Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia , comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar- , fi all'altrui autorità nell'inſegnare ; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole , 1 RA 585 VAN RAGIONAMENTO O T TA V O E VLT I M O. Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare : p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti , % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi , ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura . E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi , chi è di voi , che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile , e duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe ? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri , della quale dubitar Еесс PU 380 Ragionamento Ottavo punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza recato ? Vlti mamente , chi è divoi , che non ſappia , e che non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli , ſol perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale , alla ſcorta della ſperienza ſolamente , e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti , che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi , come voi ben ſapete , ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele , un Daniello Spinola,un Frá ceſco , e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci , un Luc' Antonio Porzio , un D.Michele Gentile , un To maffo Cornelio , e altri , e altri curiofi , e ſagaci interpreti della natura , che collor fenno, e ftadio ,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo , chegià ſtabilito , e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo , alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi ; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento ; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero , ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze , e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è da Del Sig.Lionardodi Capoa : 587 è dato agli huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento , e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo fortemente ra : dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no parimente le medeſime fatiche , ſe non maggiori, che durarono que'primi autori , e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare , ſe non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole abbiſognino ; ne a ciò fare veruna induſtria , veruno ſtudio , veruna fati ca reputerò vana , e inutile : imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero , che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro , camefelice termine di queſte poche fatiche , che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai comincianento ,dico , ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai , che s'aveſſe a rinovellare l'antico , e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa ,ri pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare , Oye poi queſta non li voleſſe ſeguire , certamente giudicherei il men male , che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni , in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente , che poi i maeſtri a quella guila , e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea . E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia , Filopono , caltri , e altri ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori , cioè a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto , diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra gione , econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura ; e ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza , che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare ; così nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir , come fuol dir fi , mille occhi , e mille , per veder ſe ciò ,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio , e immenſo volun medell'Vniverfo . Ma perchè chiaro appaja , e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele ,ne daremo ora , comechè breve , qualche faggio ; e primieramente in que ſentimenti , che da criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini : ne di noi punto fi brighi , ne con noi voglia , o poſſa uſare in alcunaguiſa , ne in ſonno , ne in vegghia: e ch'egli non ſia colui , ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda , ſen za alcun godimento nellaltra poterfi ſperare . Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta : ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna : dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro Platone ( cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe , cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia legge di Minoffe ,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura , acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza : burlandoſi di Simonide, che detto avea effer Dio folamente il ſapiente ; e ftizzandoſi contro Platone , ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile , e bazzeſca . Che igio , vani debbano fraftornarhi , comcincapaci, dalle morali dio fcipline . Che la modeſtia non fia virtù : nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric , la povertà , gli 1 efilj, DelSig.Lionarda di Capoa. 189 efilj , la morte , o altri infortunj : le quali coſe , come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio , Socrate la morte . Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante , e tante volte da lui ridetto , e pro varo, facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio , il qua le ſcioccamente egli chiama (wor , cioè a dire animale . E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza , ela providenza , elas libertà dell'operare empiamente toglie ; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle , e pertinace miſcredenza celare , apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le genti , e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj , che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono : E che direm’anche dello in ferno , il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de ; morendocon noi l'anime ancora , ne altra coſa di noi reſtando dopo morte , fe non ſe il freddo cadavero , ſenza , fentimento niuno ? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi . Ma non verrei mai a fine , ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie , e peſtilenzioſe doctrine , dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima ; e poi altristolſero l'occaſione di comporre , e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano : Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles : e prima di lui il grande Origene nel libro , cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro ; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia ; e'l beato Serafino da Fermo , e S. Vincenzo Ferreri abboininando , e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dare i4 590 Ragionamento Ottaud dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane , unde facte furtamare, ficut abfynthium ; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele . E ben ſi paa re , cometeſtimoniano Laerzio Diogene , Ammonio , Cle mente d’Aleſſandria , e altri , ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo , che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo ;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia , che dottrine d'Ariſtotele : Arriana berefis argumentationum rivos , de Ariſtotelæo forte mutuatur : fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant ufufaculialligandam , relinquunt Apoftolum , fequuntur Ariſtotelem , E S. Baſilio il magno ſchermendo , e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice , che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere , e diſtruggere Criſto ; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice : deh laſcia forſennato il malvagio , e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima : è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni . Or ſe nelle coſe , che abbiam noi di certo , come loni quelle della noſtra ſanta Fede , così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò ; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto , e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe , dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia , o tutta , o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do , delle intelligenze : la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui : e altri , e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig . Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra , che nulla più èda dubitarne ? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti , e le dimo ſtranze , crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele , e non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò , cheAriſtotele nefcrive : Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere , quando contro l'avviſo d'A : riftotele, Franceſco Pico della Mirandola , il Campanella , il Gaſſendi , il Blancani , ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono ? Anzi Io l'ho purriguardato , che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia , ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto , e intero , dove il Sol fia alto , e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia : anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere , che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni ; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo ; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle , mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava . Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio , il Campanella , ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere , e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima , qualità delle coſe : e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il non 592 Ragionamento Ottavi -- -- non volere far pruova di ciò , che ſogna , che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto , ch'un altra d'una libra ; potendo con durar poca fatica ,ravviſare , che que due mobili , tutto che tanto diſuguali di peſo , diſcendano però eguali in velocità . E chedirem noi intorno aciò , che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe , che poſte in acqua , o ſcendano giù , o galleggino ? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare , vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima , non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano . Intorno alla qualcoſa così ſmentito , eri creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei , che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre . ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo ,che di ſopra li ſieno ? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color ,che non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati , e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj , e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti ,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano , ch'egli ſia infallibile verità : quum hoc , dice Giulio Ceſare dalla Scala , pro comperto ,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere , e di non ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero , ritrovando alla per fine il contrario , ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum , nec itineris tantillum navis confi ceret , nullo Spirante vento experiri libuit , vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit , funi longiffimo alligato , quem nautæ fcandalium vocant , & altero leviore funiculo operculo accommodato , ita ut attractus illud aperire poſſet . Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus : vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum , ſcili DelSig. Lionardodi Capoa 593 fcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere , minorem funem traxi , operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num , falfo , amaroque , baud majorefalfedine , vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio guftabamuscompa rando . Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile , il qual dice , che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella diſopra ; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale , e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino ; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano . Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame ; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari , i quali dice Ariſtotele eſſer molti , e molti , che non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe , p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli , e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei ; e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro , el Coaſpe , e l'Indo , e l’Araſle , cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle , e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò intendente , che'l Coal pe per la Perſia diſcorra , e di la dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome , e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè non è da credere , che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane , e rimoſſe , in un modelimo luogo tutti , e da una medeſiına fonte ſorgano ; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno , che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ari 594 Ragionamento Ottavo 1 Ariſtotele , che nella Liguria un fiume grandiflimo ; e non minor del Po s'inghiotta tutto , e fi divori dalla terra , e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove . Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti ,egli molto ſcioc camente parlando dice , che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto , e condenſo , e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne , e nelle picciole buche della terra ; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza , la quale perrocce, e per burrati , eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere , eca dere La fa inquieta , inftabile, e vagante . Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli , e fonti, e poveri rivi , ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca , e da ridere , ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica . Eche direm noi di quella così ſmiſu . sata , e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja , ch'avanza inver quante novelle , Quante mai differ favole , ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice , che fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate ; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni , farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare ; c quì non può non gridar eoli : papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam . La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare , o tacciare il noſtro veritiero , e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico , cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue ; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen , ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat ; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent , dice , num recte philofophus, cujus eſiree condita , &abditadocere, excufetur ,fedicatur eum popula . rem famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere , non meno errar ſuole egli talora in rifiu . tar come mentite , e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere . Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo , in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe , e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria , egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve , (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo ,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare , e ad affermare a fuo talento tutto ciò , ch'e' vuole , fenza aver riguardo niuno alla verità . E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere , e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia , o vogliam dire cerchio di lat te , il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli , e dagli alci monti vi manda continuo la cerra ; errore così grande , che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero , e apertamente ne'l ripigliarono ; in torno alla qual coſa , ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo : il Reo ( dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore ; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia , ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone ; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur , nifi ftul si quidam :fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica ,et rationis expertes;e Aver roe , il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele , che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire . Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini , e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci , fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce , ch’ammucchiare inſieme , e riſtrette laſsù formano la Galaſſia , edi quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito , allor che , come Plu tarco , e Macrobio teſtimoniano ,difſe eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza , non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra , come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito , per avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore . Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle stelle comete , e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi ; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità , avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco ( che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così dimentito , e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo , intorno alla natura del ſole , e dell'altre ſtelle ? E che direm Del Sig.Lionardo di Capaa 597 direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda , pure ſpagato , dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione , alquanto più rilevata , e alta filia . Nedi ciò anche contento , ne’li bri medeſimi delle meteore , come ſe caduto gli foffe della memoria , ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra , non già ritonda ,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo ,o di cilindro , o dirottame di colom na : ftando ella , ſon ſue parole , non altrimenti,che tamburo ; perciocchètale è lafigura della terra : equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile , di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi , i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è , la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo , comechè peripatetico e' fi foffe : Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più ,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color ,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele ,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano , lun gofarebbe ora a dire ; le quali così manifeſte , e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono , chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle . E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele , tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne . Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio , cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo , che il luo maeſtro Platone , e Socrate ſi aveſſer già fatto ; e feco dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui ; e quelle , e queſte , or abbracciando , or rifiutan do a ſuo talento , non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo . E certa mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora , che dir ſi poſſono propia mente ſue , eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4 . 4 capiti , e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de multis , magnis infinitorum authorum ; & operum vigiliis ; recognita nufquam funt . E piaceſſe pureal Cielo , ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare , con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida , eſſer Ariſtotele ditardo , ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες ,είναι αυτονευσχερή,θρα συν , πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG , και στις πασαν αυλήν , και σκηνήν έμπισηδηκόα . Timeo diſse contr’Ariftotele , efser lui impronto , orgoglioſo , rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti , e per ogni ſcena pro verbiava ; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice , in favellando di Timeo , falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture , più balordo , e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco , ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele ;perciocchèegli ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor , ch'e'vi logo raffe ,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele , e malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo . E ritor: nando ora a ciò , che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele cerca talora di contraſtare , ed abbattere gli altrui veri ſentimenti: maraviglioſo certa mente , e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli dice del ragnolo : ed è,che avendo già detto in prima De mocrito , che le ſottiliſſime fila , onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole maraviglioſamente le fuc tele , egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere ;levofli incótanente fuſo 3 4 DelSig.Lionardo di Capoa. 199 ر fuſo Ariſtotele , e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe , che Democrito in ciò manifeftamente fal lava , e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo , a guiſa di corteccia , o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia ; o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice : ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον , ευθύς γεννώμενον , ουδ' έσωθεν , ως αν περιθωμα , καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges : cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila ,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina Democrito , madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali , che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine ,e lentezza de’poco curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto ,confarne pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di Democrico ;ilquale tutto il corſo del la ſua vita , che fu affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato ; e tanto più degni di biafimo ſi rendono , quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno , e avvedimen to , o fatica per venirne a capo : che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno , allor, che ne’lor piccioli abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero , chi mai ſoſpettar avrebbe potuto , eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco , e ardimentoſo nel ſuo lcrivere , che manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj . la ſua ragio ne ; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve ; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud ; filare;pchèvalſe tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto : acceptomanu bacillo Araneum quendam :dia ce il Blancani : ex iis , quicirculares telas , quas nonnulli , & quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt ,fic adii , ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet ; dum ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet : cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret : cum primum obferuo ipſum inverſum , hoc eſt capice deorſum , ventre ſurſum pendere ; ut autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui , ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret ; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire . Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio ; mane a Plinio , ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre : così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura . Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri , dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi , e non già le uova , come alcuni im maginano ; ma quanto ciò ſia dalvero lontano , dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe , non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce . re i piccioli ragnolini ; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro , tra'quali fu Erodoto , che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen DelSig.Lionardo di Capca. 661 ) و : camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade , e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane , e incredibili novelle , e più affai , che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo ? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili , e poche quelle ſiano , che par,che af fatto eglinon ne aveſſe ; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia , non pure per Ateneo , che forte ne ’ ripiglia , ne ſi fa chiaro ;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio ; il quale aperti due gran lioni in Afnias , reggia di Danimarca ,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa , Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle ; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio ,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem , sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto , quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante , all'effeminato Ruggicri così dica : Dimidolle già d'Orſi , e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni ; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni , ricorre per difen der l'Arioſto , giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane , e puerili , ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche , e cavillo fe : Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele , diccndo egli aver i Lioni così dure , e falde l'offa , che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco ; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti , che avvenir loglia nella pictra focaja . Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia , i quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro , non però di meno per diligenza , chevi fi adoperaffe , non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco ;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero ,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa ; concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure , e pieghevoli canne d'India , o due molliflimc ferole , o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco . Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte , e partite , ficome tutt'altri animali le hanno , e poi per opera de’nodi con giunte ; ma tutte intere , e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte , che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame . te lo convinſe di bugiardo , il Borricchio ; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant . Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio , e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi , dice egli, che i cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al pedal dell'al bero , quando e' vuole ſtallare ; c più appreffo ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave , e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi , ch'egli divorar ſuole ; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato , che il Lione fpira; percioc che , come e narra , le interiora oltremodo putono al Lio ne . Coſa , la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione aperto , o teſtè occiſo ,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che: Ariſtotele fognò del Camclo ; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo ;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia formata da'peli ; c ciò , che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte ſangue , ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le , e ad altri molti animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono ;e tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas ventura del noſtro ſecolo ; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori , i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono ; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio Cicerone , incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della natura degli animali ; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e ſcimunito , ben è da credere , che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per Ariſtotcle : c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti ; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a dire ; con qual cura , ö diligenza , potè mai egligiugnere a fapere , che coſa fi facciano i peſci nel ma re , come dormano , e qual ſia il lor vitto ,o qual Proteo , o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua . gliargliene . Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche ; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio ; e dopo aver narrato queſte , e cent'altre novelluzze da ridere , e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori , dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali , riſtucco alla per fine di più annoverarne , trala fcio 1o, dic'egli , di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale , cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato . Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali , Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni , e che buccinavaſigià ( ficome riferiſce Gggg 2 Arc 604 Ragionamento Ottavo . Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè , ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro , per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti , che ſo condo la ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa , e mirabil opera gli foſſer deſtinati , co me narra Plinio :aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere juffa,omnium ,quos venatus,piſcatuſque slebant ,quibufque vivaria , armenta , piſcine , aviaria in cura erant , ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto ; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an tichità , dice , che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro , ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata . Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare ; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre , ch'e' fece in Grecia , e perle grandi impreſe , ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana , gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj , in uccellami , in cacciagioni , o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi ,priina d'incominciar la guerra contro Dario , ad altro certamente dovette badar , ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri ; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta ; manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele , che per fargli onta, e diſpetto ,mnādò Am baſciadori , e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone , e fie ro emulo d'Ariftotele . E dirò ancora , che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro , in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico , che in acquiſtar notizia , e contez za delle coſe della natura . Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era , come ne da teſtimonianza Tineo :760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν , επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito , e divorator delle più ghiotte vivande , ne fi ritene va di DelSig. Lionardo di Capoa gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore , per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo , le più fiate miſeramente ne capitano ; e tinto s'in veſchiò nella pania , che per amor venne in furore, e matto ; e come narra Laerzio ,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia , che a leicosì immolò , come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi ; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo , gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni : poi tolſe a fare il foldato ,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo ; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità , con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio . Io adunque mi fo a cres dere , ch'egli non nai vedefle notomie di morti , non ches di vivi animali ; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò , che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva , o immaginato . Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde , é meſcola il tutto , ragionando de' nervi , es delle vene , cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus apram . Così cgli follemente immagina naſcer i nervi ,e le venej tutte dalcuore ; il qual dice ſolamente eſſer quello , onde il ſenſo , ei movimenti negli animali fi facciano ; ne ad al tro fervire il cervello , fuor folamente , che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore . E ſomiglianti altre balordaggini , e fcipitezze narra : anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla fabbrica , diſpoſizione , ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti falli commiſe ,che ben potè dir Ateneo : coſe tali ſcriffe Ariftotele , parlando della ſtoria degli animali , 'che come dice il Comico , daglá ufcempiati ,e pecoroni quaſi a fravaganza ,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi parc , che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente , anzi che no, allor che diſſe po + 1 CO Aria 806 Ragionamento Ottavo 1 1 4 co Ariſtotele conotcerti di notomia . E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe , ſolamen te que’pochi ſe ne leggono , che il tempone laſciò ; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim ,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent , effent fortaſſis innumerabilia . E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe , del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare ? Ma ſenza venir tinto buccinato , fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato ,non dirò Erofilo ,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli , sì chemeritevolmente , e ne ſtupiſce l'aman ſa pere , e l'amira il preſente ſecolo , el celebrerà il futuro , Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura , cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale ? Eglicosì ſciocco , e gocciolonc fu Ariſtotele , che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono . E per nulla dir de' Greci ; o d' Avicenna , d’Algazele , e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato ,che talor da lui apertamente non fi partiſſe ? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto , lume della Criſtiana ſapienza , e della venerabile Ordine de'Domenicani , avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate , niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam , fed juxta pofitiones peripateticorum ; & ideo illos laudet , velre prehendat, non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto Pereira della Compagnia di Giesù , il quale in quel ſuo libro de rerum naturaliums, principiis , dopoaver largamente conſiderati i poco fermi argomenti, c fillogiſmi , con cui le coſe dubbic , e incertes . fievo Del Sig.Lionarda diCapaa. 607 fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium , quam nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles , fi quis velitbeneſentire , propriè loqui, nous poteft dici abfolutè ,din totum ſcientia ; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e ravviſandole ,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche : ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars , pars autem topica tantum probabilia .. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia . Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa , quanto inu tile , quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele , conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola . Dico adunque , che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire ; una , ches quantunque falli , è nondimeno agevole , e piana, echiun que per quella prende il camino , non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē . preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini , e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono ; e comechèſembri, che tutto dicano , che tutto ſpianino :impertanto , altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo , ſe'l ver dice l' Arioſto , que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità ; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile , e più gloriofa . Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc , ei ſavj interpetridella natura ; i quali diſcorrendo regolatamente , ed offervando con diligenza , guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto ſenticro , ed a tenere la falfa ſtrada ;o che ſe'l 608 Ragionamento Ottavo fe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare . E fu tanta certamente loro ſchiera , e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare ; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon , perchè rara è vera gloria : i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie , che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle , Leucippo , cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico : Rari philofophi: numerus vix efttotidem ,quod Thebarum porta , vel divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta con fumpfit ; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili ,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe , che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif fimum ,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della natura ; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia , e per invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui ; poſe in non calere co tal vero , e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali , c apparenti ragioni avvilup pò il cutto . La qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe , fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia ; ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia , e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti , ove rinaſcendo viffe , e morio . Perchè non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un vano berlingare , e cinguettar dives Del Sig.Lionardodi Capoa. 609 di vegliardi ozioſi , e ſcioperati , a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire , che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato ,ei moderni ſolamente in pa role . Qualdunquefia maraviglia , ſe così mal concia , malmenata la filoſofia , non potea vantaggiarli nella Grecia . Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ' , gépur di enlew oux iso , certè ha bent, dice Franceſco Baccone , id quod puerorum eft , ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta , e ſpenta la buona filoſofia , poco a capi tal tenendoſi i libri diquella , nc punto per huom riſerban doſi , o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono ; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto , e corrotto ſecolo erano in pregio ; ne? quali poteſe ben paſcerfi ,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri , che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco Bacconc , doctrina humana velut naufragium per . pefa eft; & philofophia Ariftotelis , o Platonis tanquam , tabula ex materia leviori , minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come , dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade ; e queſta è quella filoſofia ,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita , e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna : e a cui dicevam , che già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero , e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto , e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo , lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare ; comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi , e malimamente in quello , ch'egli intitola il Ti Hhhh . . meo, 610 Ragionamento Ottavo meo , o della natura . Perchè ben ſi pare , ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero , per cui già Democrito , e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano ;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν , fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης , αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων , ουδεν·έτι , ουδε . περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν , έξω Δημα reíte ;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare , come formifla carne , el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti , o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno , fe non ſe alla rimpazzata ,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora .Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto , e falfſſimo appo ſtamento , e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare ; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre , de'venti, delle gragnuole , de’nuvoli,del criſtallo , della neve , della rugiada ,delvino, dell'olio , e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe , e detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle ; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne , e dell’oſsa , ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe ; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero , che ſi conveniva ; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente . E queſto è quel , che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella dife . DASig. Lionardo di Capoa OIT difeſa del ſuo Platone . Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi , pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori , e i ſapori, e i colori delle coſe ; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele , niun maeſtro in filoſofia , fuor ſolamente Democrito , aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe . E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν , και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ , και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura , é netta,meſcolalla , e inu midilla colle midolla ;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco , or nell'acqua , sì, e tanto fece , che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi . Or chi domine , non direbbe con Ariſtotele , eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole parole , ſenza veder più in là , che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la terra , come vuol Platone , era pura , e ſchietta , non era , meſtier certamente di sbriciarla ; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata , così ammaſſati, e riſtretti ſta vano , che ſegnale alcun di partiinento non avevano , già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi ; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella , ma una cotal maſſa , che tritata , e minuzzata così ſe ne poteva formar terra , come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle ,in cui partir ſi poteva . Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco , o ac qua per lavorar quaſi in fucina , temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva . E ſe i cubi eran partiti , e affacciati nella lor debita figura , che coſa mai potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega ; non altra diſcorrente ſoſtanza , e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo Jarmente figurata ; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo . do ; ne la terra pura farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata . O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto tener diviſi ? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze , n'occor re queſta, che non già un corpo ſaldo , ficomeè la terra : main diſcorrente verrebbero a comporre. E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo Placone intorno alla generazion . della carne , e de' nervi;ch'egli narra nel medeſimo Dialo go del Timeo ; il qualccrtamente non è altro , che una va ga , e ben compoſta diceria ; che con vane parole allettan do i ſemplici , e poco intendenti delle coſe naturali , fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in dir ,che il ſuo mae ftro non trapalli più , che la prima buccia delle coſe in filo fofando , e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della natura . Di più , dice Ariftotele , e libera mente confeffa , che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie , come fa Placone , ſia coſa affatto ſconvenevole ; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità , altra cofa , ſe non folamente corpi faldi ; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne : Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe . E comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo ; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo , come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie : non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno , ſoverchio alfai , e ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie . E noi , le il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai , e forſe altrove ne diremo ; ma non è al preſente da traſandar , che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli , e minuzzarſi in altre fi gure 1 1 Del Sig. LionardodiCapoa 013 1 ' 2 gure', come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia ; vano certamente , e foverchio è a dire , che que'cotali corpicciuoli colle lor figure , e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo ; e non più tolto un ſolo corpo , il qual poi in molti corpicciuoli di moka te , e varie figure partito foſſe . Ma fe pur vogliams contendere , che ne ftritolar , ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano , lo .non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante , e tante diverſe coſe , che noi ci veggiamo , baſtanti pur ſiano . Ne meno fo lo certa mente comprendere , come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione , che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio ; nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani , e prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone , riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā . taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi , non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare , e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe . Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli , non volendo ne ans che affermare alcuna , comechè leggeriffima cofa , feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto , delle coſe del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia . Ma lo ſcal trito , e fagace Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo , e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi , cercò artificioſamente la coſa naſcondere : e tanto operò , che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò . Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare : e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza , or diprima filoſofia altiera mente chiamollo ; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati . Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire ;ma chi pur n'è vago di qualche contezza , vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio , e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà ,e di ligenza eſaminandolo , trovollo alla fine non eſſer altro , che la medeſima loica d'Ariſtotele , con diverſe parole , e nuovo ordine travolta : e una ſconcia , emalcompoſta me ſcolanza , e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco , il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto , o d'Ariſtotele medeſimo fureputato , comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele , c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe ; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco . Ma che che di ciò ſia , immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere , ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte , per non doverle poi meſcolar colle fi fiche , come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano . Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza ; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente , e ideale , ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai , e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani ; i quali s'avviſavano concotali va ni , e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto , quando per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva , maravigliando ſom mamen Del Sig.LionardodiCapoa. 818 mamente di cotanti termini ſtratti , e fantaſtichi, comes nuovi , e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten dimento , e da dover richieder più profonda , e ſottil dot trina , checoloro non aveano ; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq ; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero ,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella ; ne come di nuovo naſcano , o yengan meno , ne co me patiſcano, o operino nel mondo . Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri , .e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono , che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore , il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus ( dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico , edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones : ubi adres phyſicas de venitur , quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit ; ed in un altro luogo : Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus , quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude : fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui , che riſtucco forte , e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi , e rimproveri, rin venendo in lui più , e maggiori tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro ,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica , e apparente , prele per principi delle coſe sé. fibili , e vere , terminitutticonfuli, e generali , e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare ; mallimamente , ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata , do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj ; e ciò cotanto egli giudicò vero , che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i principi , onde Ariſtocele vuole , che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi foſſero , così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare curci que'fiſici principi , che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono . E ciò ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo , allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati ; e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale . Il qual arti ficio dopo il Digbi , molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono . Ma laſciando ciò al preſente ſtare , non iſpie gando mai Ariſtotele ciò , che in fiſica ſia quello , a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale , e confuſa ſua difi zione della materia , e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene . E nel vero , chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce , e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi ? ed ecco la gran maraviglia , naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza , chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe . Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe , cioè a dir materia , e forma , ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando ? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio , e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli ; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel  tenza , overo in potenza a divenir tali coſe , e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto , che dandoalla materia perfe zione , la mandi avanti , e la faccia eſfer propiamente tale . E queſto è quel, che con tanti riboboli , e aggiramenti , e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona . Ma per Dio , ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate ria , cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta , o quell'altra coſa ., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma , e ciò che abbia afarſi , acciocchè la materia imprender poffa o queſta , o quell'altra diterminata coro per informarſi ? e ſe queſte pur non ſi fanno , comepotrā . mai ſaperſi le qualità , l'opere , e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano ? Se a giovane , il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli ,dopo molte , e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro : attendi figlio , e nota ben tutte mie parole , ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli : egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa , che non è mica già oriuolo ; perchè ſe oriuolo ella già foſse , non potrebbe divenir oriuolo ;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente ,che udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato , Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io ,era qual coſa è quel 12 cotal materia , che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale ; e quali ſono quelle coſe , per le qua lidivien tale ; ma non ritraendone alla fin riſpoſta , fe pri mieramente di faſso, o di legno ,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre ; e poi con quai mezzi , e lavorj ſi fac ciz, ſchernito , ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura . Or così appunto ſcherniſce , e beffil Ariſtotcle . i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi ſcolari d'Aristotele , ponendo in non cale l'autorità del maeſtro , çome in altre coſe già fatto aveva , diſse la materia delle natura li coſe eſser vero , c propiamente corpo ; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo , e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe , pur non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe , reſtò di farſi più avanti , e l'impreſa in ſu'l buono abbadono . Nemenopotè ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna ; il qual diſſe doverſi aſſegnare alla materia , comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò , che dice Ariſtotele intorno alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui , con iſtorcere , e piegar le fue parole in altri , e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima , e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do : ſe la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è , ne: che, ne qualc , ne quanto, ſarà certamente ella , come S .. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta : cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele , che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili ; e pone egli i quattro volgari elemen ti , come ſecondi principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare ( come avea fatto in prima Empedoclc , Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo , la vera eſſenza diquelli ; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità ; maegli poi , come a natural filoſofo conveniva fare , le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle ; ed appenadeſcrive , rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti , e manifeſtiad ognuno ; ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più ; ficomeallor , che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie no ; e pur dovea egli avviſare , che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento all' acqua , chenon le facea calare a fondo , ſepara quelle coſe , che non convengono nella gra. vità, Del Sig.Lionardo.di Capoa : 619 vità , e.che di diverſo genere ſono . Così parimente erra Ariſtotele allor chedice , il caldo fceverar le coſe , che di diverſo genere ſono,, da quelle , che convengono inſieme nel genere medeſiino ; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe ,, che ſiano di qualunque genere , comechè talo ra ( il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do , non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi . Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido , definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo : ma l'umido è quello , che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè , tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha dubbio , che una coral definizione non avvegua al di fcorrente , di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica , ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re , s'inſinua , e penetra agevolmente , compreſo cede's e non fa reſiſtenza ; perchè non eſſendo da ſe terminato prende dileggieril'altrui termine . Ma l'umido , oltre a queſto s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile ; laonde altro.nonè , ſe non che una ſpecie di diſcorrente . E fe l'umido pure è tale , quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec , .co.il fuoco.con Ariſtotele , maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio , ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi . Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo Zabarella , l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco , no già per ſe , eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente : cioè ricevere agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità : non convenendo il ciò fare a tutti i corpi fece chi : ma per la tenuità delle parti di quello ; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe , avvien , ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono , il termine altrui . Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò , che dice il Zabarella , adattandoſi aſſai più dell'acqua , cdell'aere il Iiii fuo ز 2 620) Ragionamento Ottavo fuoco a quel termine , che da altri corpi preſcritto'gli vie ne : oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua , e fominaméte umida l'aria , perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco , egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità ; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo , il ſecco eſſer quello , che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo , c malagevolmente prende l'altrui termine : Engordà , no evóerson pèr cireiw opw , duodessor dè , egli non può con venire in modo veruno al fuoco . Or come adunque il Za barella oſa affermare , che'l fuoco fia per ſe ſecco ? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue , ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele ,è ſpecie dell'u mido , e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue , ma nella tenuità l'aria , non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele , per fe ,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il fuoco . Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella , e da Ar cangeloMercenario , che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde , e come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti ? ma ond'è, che il folc , per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo , comechè produca calore ? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità ; come nel ghiaccio , ne'metalli , einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo , o pure i più di eſſi ,fi poſſono fondere in vetro , chi ardirà di dire , che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe , o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro , non di rebbe ciaſcheduno , che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro ? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina , vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à , per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco . Ma forſe ſarà ſecco il fuoco , perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco ? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re ; ma eſſendo propio del calore , comc Ariſtotele dice , il rarificare , certamente da ciò umido più coſto , che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri , Ariſtotele non l'umido , ma il diſcorrente aver definito ; e che fi legge umido nelle fue opere , per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri ; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione , che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel , che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum , vien detto da’latini . Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele , immaginaro no aver fui l'umido definito ;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza , e di co traddizione ; perchè d' talora dica ,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco , anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò , che fingono coſtoro , chiarainente ſi conofce ; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua , il che appena mi ſi laſcia credere , che aveſſe potuto avvenire , eſſendo ella così ric ca , e copiofa divoci , non gli avrebbon mancati modi , e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè , per tacer d'altro , dice egli una volta , che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti , perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi , che ter mina 622 RagionamentoOttavo minare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote . le definir voluto l'umido , o pure il diſcorrente ; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote , e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea , viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria , eller o umida , o diſcorrente , M ,a nella ragione , che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta , ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido ; e dice eſſer quello , il quale ha , forza dicontenere , riſtrignere , e coaglutinare la terra ,la quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl .; perchè eſſer :cgli .conchiude , l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti , con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν . άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare , che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta ; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare , es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo , e umido : caldo , e ſecco : e così poi far anco di que' , che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue , in dicendo , che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa , che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue ; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità . Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento , in cui non ha dub bio , che conllte cutta la nzural filoſofia . Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere ,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione , e’Imovimento , che chiaman locale . In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica , in cotal guila : rov Suv áués.Övr. ÉVTE . dexaci , ģTovorov , cioè endelechia di quella coſa , la quale è inpotenza , in quanto ella è tale ; ed altrove : aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU , xuvytor, cioè , il movimento egli ſi è endelechia della coſa , la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza . Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato , e uccellato da: Ariſtotele ?maſſimamente , che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta , e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro , famoſo peripatetico , eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa : atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit . Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa , e quaſi divina ; ſpiegandoli , emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to . MaCicerone , e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago , e artificioſo ritrovato d'Ariſforele , per uccellar le genti ; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele , non ſolamente per ifpiegare il moviinento , ma l'anima ancora , e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio ( coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo : Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia ; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore , inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più ? 'perdonili anche a lui ' , che contro le regole della dialettica con voci equivocoſe , e oſcure le definizioni formar fi poſſano :'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto ,non già per perfezione acquiſtata , e compita , mache tuttavia fi vadi acquiſtando , comepar che e' voglia : o per me”di re, per 1 624 Ragionamento Ottavo 1 re,per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne ; perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa , comechè imperfetto ; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto , cioè a dir alla forma , in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla . Or dove eglino ſono , dove conſiſtono quelle tante , e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu ? Parturient montes , naſcetur ridiculus mus . Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa , l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua , nondiincno quel movimento , col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione , e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame , in quanto , ch'egli è rame , ina folame te in quanto egli può divenire , o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς , και κατα τον λόγον , ω αν και του χαλκού , και ganzes , ÉV TERÉNHO , xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole , echiè per Dio , cheno ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco , la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare ? Ma dell'atto , e della potenza , non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento ; anzi in molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire : Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe , actus potentiave diſtinctioni gratias debet ;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat ; il che parimente venne avviſato da Antonio Perfio . E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto , e della potenza per rattoppare , e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli ,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs Ariſtotele quel mo vimen DelSig. Lionardo di Capoa. 625 vimento , che chiaman locale , certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale . La qual coſa : ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire ; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione , così definendola : l'alterazione , è atto di quella coſa , la quale ſi può alterare , in quanto ch'ella alterar fi puote : αλλοίωσης μεν γαρ , και του αυλοιωτού ή αλοιωτών , εντελέχω . Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione : egli è il movimento del luogo, endelechia , cioè atto della coſa , che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale , dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele , che in trattando del moto locale , a valer non ſe n'ebe be . Matacer non fi dee certamente quì , che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa , genere anche delle ſpecie di quella , perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta ,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele , rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives ; il quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo , impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer , occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta , da perplexa , parum etiam vera ; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat , quàm ut afserat verum . E perciò funneanche da Attico , eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato . Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque , e così ſo vente in iſcrivendo uſolla , ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi : Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit . E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele , dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza , lo ſtudio , non per altro , ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia , e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo , e baſſo intendimento ; il che ſi pare , che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera , fe pur fu ſua , e non da' ſuoi ſeguaci finta , ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro , che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros , quos edi tos quereris , non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe , neque non editos ; quoniam iis ſolis , qui nos au diunt , cognobiles erunt ; impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente , che fu ravviſata da ognuno in gui ſa , che non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio , diTemiſtio , e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to , alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze : Accedebatad hæc ingenium viri te&tum , & callidums, &metuens reprehenfionis , quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte , quæ fentiret ; inde tam multa per ejus ope ra obſcura , & ambigua . Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto ,ſei eſſere le ſpezie del moto : cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento ,diminuimiento , e moto locale; ma a chiunque bene , e ſottilmente la coſa ragguarda , niuna altra forte di movimento ſi fu avanti nella natura , ſe non ſe locale ; e nel vero tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono ,ſalvo che movimenti locali ; e ſi pare ,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli ; concioſliecoſachè dica egli una volta , che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello , che dir ſidebba propriamente moto . Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento , il quale è ſempre mai Del Sig .Lionardodi Capoa. 027 mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto ,e circolare ;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione ,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare , Il moto çircolare , il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto , e regolare ; vuole Ariſtotele eller quello , che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello , che faffi in ſuſo , ed alla in giù , Mataçé do , che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti , ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ' , ma ellittici , follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo , che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo , cheſi muove convien certamente , che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino ; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to , e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette ; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men , che infinite linee rette ; laonde niun moto del mondo farà circolare ; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano ; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare . E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc , quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione , dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere : l'una di quello , che ſi fa intorno al mezzo , o lia centro : l'altra diquello , che ſi fa dal mezzo ; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo ; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion ,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti ; concioſliecofachè abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa , e vana del pari la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele ; enon aver moto veruno nell'univerſo , che compoſto eſſendo del retto , e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. K k k k Ma a è 2 028 Ragionamenta Ottavo Ma trapaſſando a quella diviſione del moto , così cele bre ne’libri d'Ariſtotele , in naturale , e violento :veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo vario , ed in conſtante e ' li moſtra ; perciocchè una fiara dice , il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato ; il che ſe vero fofſe , vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto , giuſta Ariſtotele , altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa , trondimeno alcun movimento eſſer naturale . Vltimamente Ariſtotele vuole , che quel moto djr ſi debba violento , il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo , che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è , fe non cambiamento di luogo , e al corpo non meno è natural queſto , che quell altro luogo : certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento ; e ogni qualunquemoto , che nell'univerſo ſi faccia , dovrà dirfi naturale . Ne la terra , o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe , comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in alto , quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi , che la ſpingono giù , e fan ch'ella ripugni il ſalire . Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto , ch'ogni coſa , che ſi muove , per alrri ſi muova , la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to , in quel , che vien fatto da fe, e propio chiamato , e in quel, che da altri faſli , e per accidenteè detto . Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir , come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire , che'l generante muova ancor quando è lontano ; anzi ancor quando più non è ; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente ; il che ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero , quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate . Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana , e differéte da quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare ;e comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà , colla quale potè dar loro il moro anzi gliele . DelSig. Lionardo diCapoa 629 gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no ; e che Iddio ancora fa , che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze ; e laſciando di riferire , che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo , e altrimae Ari in divinità , iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari : Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura , colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo ; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche membro , ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli , che continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare , che ficome ſcema , o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento , così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso ; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma , come è l'anima del corpo , muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en tro lor fono , o pure que' dell'aria , o dell'etere , che gli penetra ,e gli circonda; e'n quella guiſa , che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto , e a quel corpo ; ed eſsen do il moto delle particelle , che l'etere compongono , rapi diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro ,comechè lontaniffimos icorpi . Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando , lo dico ,che no men , che s'aveſse fatto del moto , ſcioccamente falla in di viſando del luogo : imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo , ove la coſa allo gata ſia ; la quale opinione , comechè egli la toglieſse di peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle , e da altri deriſa , pure egli sì disfor mata la ci reca , che nel vero ſembra , che più toſto egli ab . + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo , il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini; e sì ſciocca , c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro ; e nel yero ſe'l luogo , comeragion perſuade , e Ariſtotele medelimo inſegna , appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato , dovrà ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera ; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il luogo , ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo , la quale a cir condare , e ad abbracciar viene il corpo locato , ed è affat to fuora di tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe , chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo , per tacer d'altre ; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute . Ma per nulla dir di ciò , che dice Ariſtotele del tempo , il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento ; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe : chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura , e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare , accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar , oltre alle qualità menzionate , della ra rità , e della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere , mora ſo da leggeriſſime ragioni , poter un corpo rarificandoſi in grandire , e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo , di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10 , e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera , Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce , come de' colori, come de? ( 1 pori, DelSig. Lionardo di Capoa 631 pori , come degli odori, comedell'altre ſenſibili qualità. : Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare , certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo , dell'a . nima , e delle ſue operazioni , dell' aere , de' venti , delle piove , de'fulmini , dellaneve, del tremuoto , dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola mento , della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente , fi come facea meſtieri : chenti , ſono le diviſioni , chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice , che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare , ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità , e di crollare , e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato :ftudiofus impugnāde veritatis ;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi , &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram , in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem , ne quid omnino tractaverit . Ma non ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento , ch ' Ari ſtocele fa delmondo . Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto , avendo egli larghezza , lunghezza, eſpel ſezza ;dalle quali dimenſioni in fuora , altra grandezzaw , non v'abbia , dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove fiano due , allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre , allora in prima diciam tutti ; il che effer di sì fatta maniera , la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli , non per altro , ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole : d'Averroe in dico , il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli , e per addicar ne l'ultimo sforzo , e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto ; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare ; e in fine ch'a miracolo Natura il fece , e poi ruppe la ſtampa ; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe , fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè , qualor difle aver Moisè dette molte coſe , ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro , quell'altra beſtemmia ; che coloro , i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto , ſian fanciulli, e che di ſtruggano , e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo , e ballo intendimento : impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele ; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto ,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare ; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele , o pure quella , che ſi contiene ne' libri , che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori . E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele , come p teſtimo niāze di Tullio ,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio , e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare ; nondimeno però nei , co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere , che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori , l'iſteſſo modo di filoſofare : portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro : Mala ſciando ciò ſtare al preſente , chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede , non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante ; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento , gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro : non con fermo , e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio , e avveduto , è da dir con Bac cone , coitio , non confenfus; e come dice il Ciampoli , copia comune , non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce ; e mat fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele : cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo ;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo della Valle , il quale veramente fu ilprimo , che liberò la filoſofia da quel cieco ,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta :Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi , nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos : genus hominum fuperftitiofum , atque vecors , defe ipfo malè meritum ; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis ; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt , qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli , avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe , che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare ; perciocchè , come teſtimonia il Romino Ora tore , la filoſofia , dipochigiudicatori s'appaga , cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus , multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi , & fufpe ta , & invifa ; eragionevol mente in verità ; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone : nihil multis placet , nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio re , ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire . Ma ciò , che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato , deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo , noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione , che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce , e inveriſi mili opinioni , che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum , quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti , ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro , dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo , infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone , e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina , nõ farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia . E per cominciar dalla ſtoi ca : grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro , e fondatore , il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re , volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro , che apertamente avean da quella traviato ; e Com ? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura , non però di meno egli Del Sig.Lionardo di Capoa. 838 egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio , ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla . tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la forma nõ cagione , ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo , che coſa veramente la formalia , e in che conſi ſta la natura del corpo , e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità, mani feſtando , e dichiarando chente fia la lor natura , ecomes ingenerino : è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone , e Ariſtotele vergognoſamente caduci . Ma non ſembra vero ciò che Cicerone , e altri fcrittori riferiſcono di Zenone , che egli aveſſe per efficiente cagio . ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce, o tutte , olamaggior parte dell'operazioni natura. li , comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima , come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le , che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice , eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia . Dice ben egli Zenone , che ſon due i primi principi delle coſe : paſ ſivo l'uno , cioè la materia , ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità : Paltro attivo , quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone , ch'altro non fia , ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione , e di ſapienza , il quale per tutto diſcorra , il tutto abbraccj,il tutto penetri ; e che dalle varie , c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere . E Lill 2 nel 636 Ragionamento Ottavo nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar , comeché rozzamente la natura del fuoco ,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle , e pazza opi nione ; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca : ex illisfempiternis ignibus ,quæſidera , acflellas vocamus, , veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe , atque alieno loco exiife . Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli , o sferici, o piramidali,non pofſa ne ſentire , ne in tendere, ne far niun'altra operazione , che l'anima far ſuo. le ; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle dappoco , e baffe , qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi , e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi , emorire ; e quelle de’dotti fo lamente che , fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere , come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo : fi ut fapientibus pla cet , dicea Tacito di Zenone , e degli ſtoici , non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio : nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt ,aut non diu manent . La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus : dia manſuros ajūt animos , ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque ; imperocchè ſtimava no , che l'aniine , come quelle , ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque . Ma cotal crcdenza ella mi ſembra , che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe ; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe , d'Aſia ter rore , e'l fagace Vliſe , e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque : ingemit Æneas , dice Servio , non propter mortem , fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio , quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di via DelSig. Lionardodi Capoa 037 viſamento's ch'eglifa Zenone , intorno alla generazion del mondo ; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto , il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0 ; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle ; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae : qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe ; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi , cioè il fuoco , l'acqua, l'aria, e la terra ; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero . Il fuoco ſecon do Zenone è caldo , e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida ; ma l'ordine col quale , c lic ſtelle , e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa . Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco , il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto ctere ; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe ; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua ; e ultimamente la terra , la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte , e altre sì fatte empiezze , che ci vuol dare ad intendere Zenone . Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio ; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca , Fileinone , e Manilio : Sive parensrerum , quum primum informia regna , Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens , & fecula jufa ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum . E prima di Lucano , quel greco poeta, così traslatato da Cicerone : Quod fore paratum eft ,id fummum exfuperat lovem ; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato ; ne lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt cauſſis . E a ciò ponendo mente Luciano , piacevolmente deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa ,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove , e gli Dii tutti , non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate ; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per menoma ,ch'ella ſi foſſe , che dalle Parche non foſſe in prima ordinata , e lun gamente compoſta . Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri , e ſergentidelle Parche , o per mc' dire ſtrumenti di quelle , come la ſcure , e'l trivello . E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove ; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero . Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare , ſe lc Parche per prieghi pur ſi moveſſero ; poichè al le Parche , e non a Giove l'imperio tutto del mondo , c'1 primo reggimento de' fatiè da attribuire . Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando anche l'aſtutiſlimo Macometto ,per nulla dir di Lutero , e di Calvino , eſſer corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti , preſela , ed inſegnolla nel ſuo Alcorano , acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli , ponendo giù ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo , pole in bocca al valo roſo Rede'Turchi , Solimano , Giriſ pur Fortuna O buona , orea , com'è laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a ' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più , ne meno falli colui , che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre , di colui , che allor , che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le . E . DeSig . Lionardo di Capoa 639 te : Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole , chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando ,no’l muova amore ,non ira,non odio, non timore , ne qualúque altra più violéta paſſione . Senti menti in verità , per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco ; ed Io per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella , ch'un huomopoffa viver nel mondo libero , e Sciolto da tutte qualitati umane . Manon queſti ſolamente ſono ,ma altri, e altri i falli che Zenone , e iſuoi Stoici prendono , alla noſtra fede , ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio , come cotato preſſo alcuno ſiano commendate , e in pregio tenute quelle memorie,chedi loro rimágono ; e ſpezialmé te l'opere di Seneca ; imperciocchè non è punto , com 'egli follemente s'avviſano le genti , quell’ aſtuto Stoico , re ligioſo , e dabbene ; concioffiecoſâche , ſe ben fifamente vi fibadi , in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà , e direligione ; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta , e poco men , che di perfettiſſimo Criſtia no ; e a prima faccia appaja , qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone , Virtutis verd cuſtos , rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone , egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali ; come quando egli per iſpiegar la maniera , nella quale faſli la viſta , diſſe l'occhio valerſi della aria teſa , co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte . Com nobbe ancora Zenone , comeche a durar non viaveffe mols ta fatica ,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole , ſe non le fuoco ; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote , come egli immagina' , eſser quel fuoco , ond' è forma to il ſole ,ſincero , e puriſſimo. Ma non ha dubbio ,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo . Zenone s'ingannò grandemente , immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle , della natura della terra : per eſserella più di eſso loro alla terra vicina ; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna , la quale perſuader ci poſsa , che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi , i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati , le ſtelle erranti , e fiſse , e la terra : afferma , che le ftelle , co me quelle , ch'animaliſono , dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento ; e venir il ſole nutricato dal mare , la luña dall'acque dolci , e l'altre Atelle dalla terra ; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole , checoltivò molto più di quel , che certamente a natural filofofo fi conveniva , gli ftudi della Loica , onde conveme, che i ſeguacidilui , for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati , vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura ; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno , che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati , ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano . Malaſciando Zenone , trapaſseremo a ragionar d'Epicuro .. Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi , che , da pallionati luoi ſeguaci , c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie , ch' Epicuro non huom mortale , ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza ; e chc Epicuro anche fi foſse Quel , che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè , per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ facer 1 Del Sig. Lionardodi Capoa. 041 faceffe , che traſcrivere le ſentenze di Democrito : i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe : anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti , incorſe in graviſfimi falli . E gliporrò opinione Epicuro , che da una infinita , ed immenſa corporea ſoſtanza , qual ſecondo lui altro non è , ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie , ¢ varie grandezze , e figure , e da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede ,fia copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo , ed a ventura , dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento , ſolo di que'corpicciuoline fian nati ,non ſola mente queſto , in cuinoiabitiamo , ma più , e più mondi , Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli ( che apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene : e cocal movimento torto , eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli , quali movendo per diritto , ed in altri corpiceiuoli incop pando , neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime , come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis . Ma fe noi riguardiamo , non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo , ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada , ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata : non può in niun modo da ciaſcun comprenderli , come a riſchio , per caſo , ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata ; e per non trarre argomenti dalle ſtelle , dad ſole, dall'huomo e da altre ,e altre opere maggiori d'Iddio , mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti , come ſono le moíche , le zanzare , le formiche , l'Api, gli Acari , c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio , tanto quanto , cavviſar li poſſono ; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle , così ben compoſto , e formate , come nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono . Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene ; e nel capo è anche loro il cervello , le glandole , le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini ; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte . E che dirò lo dello ſtomaco , delcuore , e d'altri fomiglianti me bricelli ? che dell'offa , e delle vene , e dell'arterie , e del facco latteo , e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle , chente , e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono ? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano , e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel lo adoperano ?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno ; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre , e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate , ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non ceffa ,e non s'allenta La negra turba ,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche , e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen , che l'ore,e'lgiorno , Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto . E avendo forſe quella per pruova appreſo effer la ſementa , onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte , e riſtrette , per ceſſar l'aſprezza del verno : come apertamente col microſcopio noiveggiamo : avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie , incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca , el bel tempo fereno Spias DelSig.Lionardo di Capoa. 643 Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo . Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe , e poi la ſerba , e parte Cuſtode , e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene , e calde nutti Tolte al dolce ripoſo , al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo . Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te . Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica , e portarlo a un'altro vi cin formicajo ; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche , e andar loro incontro , e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne ; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire ,e ri trovar le foreſtiere ,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne ; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa : e ciò due , o tre fiate facendo , alla fine dopo cotante aggirare , quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca , e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora , e laſciando il patteggiato cadavere , n'andar via ; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare . Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica , la qual ripoſtali in guato , non altrimenti , chei'ragnuoli ſi faccia no , preſe per lo piede unamoſca , la qual forte dibatten dofi , e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava ; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un ' 644 Ragionamento Ottavo :: ſo un'altra formica partiffi.di preſente , e ricornò con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo . Ma perchène G faccia maggiorméte manifeſto ,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E picuro ,e quanto fia grave l'ingiuria , che per quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque , che una ſoſtanza fia quella , onde cotanti aſpetti , e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo , eſle re egli ſtato parere , in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele ( il qual più ,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono . E tanto par che coſtui voleſse dire colà : nell'ottavo libro della metafiſica : ove feriſse eſsere una , medefima coſa l'ultima materia , e laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio . ne( del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica ; ſcrivendo , che la forma non maipoſsa dalla , materia fceverarfi , ſe non ſe in mente noftra ,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo ;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa ;ſicome non è da elami. nare , fe la figura , che imprende la cera, fia da quella di itinaa . E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando , la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella :ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme ( le quali ſe-veramente altro foſser , che ka materia , folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza , di cui ragioniamo,altro,non ſia che : Del Sig.Liarcardo do Capoa 45 che corpo inminutisme particelle di grandezza , difigura; di fito , di moto , e d'ordine diverſe ,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico , più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse . Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza , e ſapienza valevole a dir ſporre , e ordinare in tante guiſe , e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria . E ciò ben conobbe da pri ma , per quel ch’lo ſappia , il fapientiflimo Greco Filolo . fante Talete Milefio ; e confeſsollo manifeftamente , di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum :Derim autem eam mentem , quæ ex aqua cuneta fingerei . E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia ,.e cotant'altri antichi filo fofi , i quali tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo ,e fceve rando queſta maſsa comune , e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe , quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora , che dalla materia lua ſimilare , comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo : comcchè a torto poinefoſse egliprover biato , e biaſimato oltremodo da Ariſtotele , cola ove diſ ſe , ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire , per dar ragione dell'apparenze nas turali : non altrimenti , che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole ; edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone , o Timeo'; ed è da credere pure , che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora , e damolt’altri fa * mofi , .e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata . Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna . E forſe non guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro ,o di De mocrito ;i quali ciò checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero , attribuirono al caſo ; imperocchè la divina , ed eter 1 li e ne be 12 2 na on 646 Ragionamento Ottavo 1 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne ; e così attribuendole il poco : ilmolto , anzi il tutto negaronle , com'è il poter criare dal niente ; perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do , tutta la materia nell'opera conſumaſſe ; e quinci avve niſſe poi , che un ſolo e'ne formafle . Ma ritornando ad Epicuro : non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe ; imperoc chè egli nonmeno ſciocco , che empio , immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano , come quello , ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti , ina quafi corpo : ne aver Iddio ſangue , maquaſiſangue : Dice Epicuro ,oltre a ciò , che gli Dii ſian vaghi , adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno ; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio , che vuoto rimane in fra que’tanti , e tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia ,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile , ei cieca fortuna ,con iſcioccaggine , e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra , e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte , e d'altre fimili em piczze d'Epicuro , ad ogn’un conoſciute : Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè , quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano , ben potranno dividerſi da uno , o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli fia no ; ne fa punto luogo il dire , che non avendo nell'atomo vuoto alcuno , 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo , ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere , e partire ilvoglia , con replicati colpi a poco a poco penetrarlo , e dividerlo , ma ſi può creder 1 1 1 1 imper DelSig.Lionardo di Capoa . 647 inipertanto , che ſia queſta una quiſtione vana , e che o no mai ; o rariſſime fiate avvenir poffa , che un'atomo per al tro ſi fenda , e ſi divida ; concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato , e congiunto , ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa , egli è manifeſto : gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere , e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni , a fe vicini, che'l romperhi .S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino ,dal vedere , che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano , i quali per qualunque forza , che l'arte , o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura , e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro , e dal non venir que gli mai rotti , e in particelle diviſi . Ma non mi par , che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa ; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer vera ; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe , cheli toccaſſero , e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto . Oltre a queſto , fe infiniti gli atomiſono , ſe condo Epicuro : faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj ;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo ; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia : Io non veggio lo , come infiniti corpi , e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro . Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro : maal tri , e altri errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi , come Cartefio crede , maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto , o poco più , o poco meno grande di quel , ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò , che Epicuro immagina della figura della terra , del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento , e aell'occaſo dellole , della luna, e dell'al tre erranti , e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa , allorche noi veggia mo , e immaginiamo, le coſe ;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire : maſſi mamentequei , ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele , e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole : ſe l'invenzione della veri sà , come d'accordo ciaſcua vuole , è ilfine della filoſofia , Io non lo come coſtoro , i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia , a riſchio , e per ventura , come alcuni vogliono , ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente , e alla sfuggita ,ſenza troppo minutamenteconſiderarla ; e come altri poicredo no , crae ella ſua origine dal Diavolo ; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine , efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro , i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano . Ma certamente troppo a lungo , e più diquel ,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie ;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile , e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia , Ga ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto , e compreſo tutto ciò , chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano ; ne per aloro certa.nente , che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali , fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto ,o di quel to zuore ; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font , recevesà la fuitte des creances an cien Del Sig. Lionardo di Capoa 649 outil ciennes , par authoritè , &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu :on reçoit cette veritè , avec tout for baſtiment , de ato telage d'arguments, odepreuves , comme un corps ferme ; ſolide , qu'on n'esbranle plus , qu'on ne juge plus . Au contraire, chacun à qui mieuxmieux , va plaſtrani , &con fortant cette creance receuë , de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple, contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde , feconfit enfadeze ; den menfogne . Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint lepied , où gitlafaute, älafois bleſſe : on ne debat, que ſur les branches : onne demande pas fi cela eſt vray , mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno , la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto loro , e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti , e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora , che fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo , ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele , non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire : ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus , ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint . Anzi Ariſtotele medeſimo , leggendo i volumidegli an tichi filoſofi , concepctie alcuno di que'ſentimenti onde , inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc ,perché ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza , tratto anch'egli dall' altrui errore , !! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare , giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe , e non ne’ſenti menti confiftere . Che fe egliaveffe: avvilato , il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce ,e foa ve : a un'altro poi amaro , e diſpiacevole parere , come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire : certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle , dital forma , e così ordinate , e moſſe ,, che in diverſi palati, or di dol cezza , or d'amarezza faceſſer ſeinbiante . Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare , le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti . Ne ciò è maraviglia ; perciocchè p iſtudio , e fatica , che vi ſi logori' , non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano . Cosi avvien appunto ad una botte , o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito , la quale av vegnachè forte fi’rada , eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta , concioſliecoſachè quantunque bennetto , e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono , le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino , o altro ſomigliante liquore , che vi ſi pone , trameſtandofi loro , agevolmente vi nuotano per entro , per opera della fermentazione poi creſcono",intanto , che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono . Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva , e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre ; eri porre ; poichè le nuove ſpezialmente , ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento , chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa , eccitano , per qualche ſomiglianza , che è tra loro , alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta , ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono . Eco Del Sig.Lionardodi Capoa : 651 E comechè ciò baſtantemente , per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto , pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò , che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro , che all'arte ,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai , e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare ; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano ; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca , o di forziere , che in noſtra caſa ſia , ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento ,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre , ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono , o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno , io nominandolo ne ſovviene . Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca , il ſolomovimé. to dell'aura , dolcemente faceva venire avanti madonna Laura , eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens , che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder , ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio , e per avventura con qualchevoftra noja eſ . fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine , mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque , che non giová punto ,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica , in medicina , e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn : 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie , e alle maniere , che vengon tenute nel medicarle; e qual pro ,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante , che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare , il quale con fedi autentiche , e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole , a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica ; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria , e di tanto riſchio a co loro , chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore , ligati con facramenti , econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe , che minutamente fi ricer caſſe , acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta , i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe ; ne da altro cer tamente naſce , ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari , che così fortemente vengano elleno talora biaſimate :approba jiones,dice il Primeroſio , fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem , & neceffaria , fed deberent diligentius obſervari . At jam omnia negliguntur , nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti , nihil minus , quam apti ad medicinam , aut docendam , aut faciendam . Ne perciò giudico lo convenevole , come alcuni vogliono , che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati , fian di nuovo daeſami nare ; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione , allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati , accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare . Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno , ove per legge comandò non poterſi il peri Del Sig. Lionardo di Capoa 653 pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati ; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo , chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui , che aw medicare inprenda, da tanto ſia ; perciocchè parlando de gli Impirici , folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono ; ne vollono eſſere da eſaminar coloro , a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze : Doctor medicinæ practicabitfine literis , quia fuitexaminatus , quando fuit doctoratus , &approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato , che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta , per tutto il noſtro Regno , poſlan liberamente andarmedicando :ne altrimenti effer mai avvenuto : eft fciendum ,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore , in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum , quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege , vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti ; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina ; cioè a dire , di dar licenza di liberamente me dicare ; ſenzachè non ſapreiIo certamente , quali medici farebbon da eſaminare ; perciocchè egualmente i giovani , ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne richiedere a parlamento . Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu . fcire , fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli , i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite . Sogliono re carſi per eſemplo coloro , che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono , i legiſti ; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati :maben dovrebbono avvertire , che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale eſaminamento : eleggen ; do an 654 Ragionamento Ottavo doanzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero , a'quali , o alcun governo , o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica ; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono , per molte , e mol te cagioni , le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto ; ſenzachè i vecchj anco ra , anzi con maggior ragione , che i giovani , farebbon da eſaminare ; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica , ed eſsendo aſſai meglio i giovani , che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua ; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto , pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno , allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia , ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto ; e ſo glian talora , o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere : cheda colui , ch'un ſol medi camento ſappia , non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto , nel conoſcerſi delle malattie , aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra , e contrarj rimed, talora imponiendo ; nella qual mala ventura , comedicemmo, cadono talora , anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito , e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova Del Sig.Lionardo di Capoa 051 poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo , che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero ; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male , ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio : in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia , fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur , mox raptus in afinumftrigofum , fiin venitur fcabidum , ſublimistollitur , averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur , conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima :poftremo expiata urbe ejici tur , illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali ,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici ; il quale fu il ſecondo capo , onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente , quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in sìnobilmeſtiere . Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere , edipoca licva ado perar ſi rimira . Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men , che tutte altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza , che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ' , dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba , almeno della latina , c della greca lingua inteſo , per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta , e apparecchiata la conoſcenza , non folamente di que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma , ma di quelli ancora , che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico venirimpofte . Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora , che alcu ni di quelli han co’ſemplici , de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee . Ma ſopra tutto convien , che la propietà , e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia ; acciocchè poi comprender appieno ,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni , che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano ; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica ; ſenza la quale Io non veggio , come bene , e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare ; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe , ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero ; perciocchè, quanto a me , lo non ſo a niyn modo comprendere , comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa , il qual non abbia in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali , oltre alle ſopradetre coſe , avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina , ed in qualche ſpedale co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato . E ſcorgendofi omai in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser della Chimiea baftevolmente inteſo , e ſperto , In quanto alle Chimiche medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato , che il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza , o non fanno , o non poſsono invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici , Del Sig. Lionardodi Capoa. 057 rei , ch' a' ſoli speziali, e a tali , quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura ; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna ; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero , o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici . Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano , come dir ſi ſuole , le ſpezierie ; concioffie coſachè vana ſenza dubbio , e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai , per ſogno niuno, lorvir tù , e lor forza baſtantemente avviſare . Echi mai ne' bof foli delle botteghe , la bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale , e d'altri , e d'altri sì fatti medicamenti d'odore , e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be , e l'eccellenza , e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande , che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere ; imperocchè i fali fiſi , per nulla dire del fa pore , che in tutti il medeſinio appare ,ne alle varie manie re , chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte , ſoglion figurarſi: ne a' varj colori ,de'quali veſtono il precipitato colcotare , ne ad altro ſegnale può niuno macſtro , comęchè ſperto , e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta , di qual animale ſieno ; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro ,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura , e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare ; ma onde ciò avvegna , non fa iuogo ora , che lo imprenda ad inveſtigare , eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare , più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità ; la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro , il quale lo ora ſto intero a comporre. Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.

 

Carabellese (Molfetta). Filosofo. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.  Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant , ed era all ' origine della moderna ... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo ...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo , a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico , " in G. Semerari , La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty , Sens et non - sens , Paris , Nagel , 1948 ; It . trans . by P. Caruso , Senso e non senso , Milan , Il Saggiatore. La ontologia di Carabellese, così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé [...]. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19. L’alterità di ciascun io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8. Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza»11. Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19. Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese. Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. Pantaleo Carbellese. Keywords: lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’insieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

Caracciolo (San Pietro di Morubio). Filosofo. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“.  Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”.  Martin Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine: 222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla, è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che “chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama” la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il luogo  2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano, per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”, il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’ stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”, questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento: come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”… Esattamente, però senza gli enti il mondo non c’è … Intervento: il mondo è la totalità degli enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è sempre quell’assenza di prima … Sì, queste parole sono assenti, nel senso che non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco: esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza. Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo  3 potrebbe essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente, compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il “fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure, L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. – A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante” significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”, solo in quanto  4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come “differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a “difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro, l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla, per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola “costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste” tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il linguaggio”  5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa, alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina, non lo può determinare … Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in volta … Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere, significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti, l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la “presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità, sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa, chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili, perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata. Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato” sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si può pensare la differenza in quanto tale, così come non può  6 neanche dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: … non avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio necessariamente (…) Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene: si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica. Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di fronte a ciò che è degno di essere pensato … Intervento: è una forma di controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice, ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette, mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo, sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo. Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano, dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio “che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere, lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger.  7 20 maggio 2015 Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio, questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario, lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. /…/ Se l’affrettare nel senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo “così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”, l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia” significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come  8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola “Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice “Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa” “rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco “sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione, seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa, questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già, da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale” cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza del  9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”. Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che differenzia l’istinto dalla pulsione … Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda primitiva, o comunque dai gruppi degli animali … Intervento: dal branco degli animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo, il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός” “attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza  10 anzi al contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche, che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”. L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino. Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la poesia di Stefan George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza. “Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa, prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. // Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non “si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé, con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri termini sta dicendo che il linguaggio non dice se  11 stesso, si trattiene dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi, ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo. Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza, potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe, dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo punto non c’è la possibilità di bloccare un significato  12 ovviamente, ma questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo, di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è” ? e questo “è” è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è” nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti) l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che “la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente, qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato, pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che dà la parola?  13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren” “ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola” ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war, soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande) : (Ripete di nuovo il verso  14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa, farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i “nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi, perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme, che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è qualcosa che da fuori  15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima, le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario, velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come “energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”, espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola, mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose, l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti, presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri” (questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco? Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere  16 presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger.  Alberto Caracciolo. Keywords: in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.

 

Caramella (Genova). Filosofo. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!” --  Grice: “I like Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”.  Dopo un primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista  Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia.  La sua vasta cultura, gli permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta funzione teoretica.  Altre opere: “Problemi e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania); Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei, M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce. Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella , La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di Genova,  La recente V ita d i G io rd a n o Bruno, con documenti e ined i t i 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opp o r tu n ità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel 1576: anno in cui la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello S p a c c io d e lla B e stia trio n fa n te , che dice proprio così : « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta degna di p o rt ar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam p o s s id e b itis 4 ». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano fin dal secolo X V 5 : e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato, 1921-22. Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, a pp. 269-273. 3 Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato (Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed. Gentile (D ial. m orali di G. B., ivi, 1608), pp. 185-186. Q u e t if e t E c h a r d , S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 49 al p opolo nella precisa circostanza della c o m m e m o r a z io n e del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a G e r u s a l e m m e 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio p endente presso l’ in q u isiz io n e, per i sospetti di erodossia avanzati contro di lui, n o n a n n u n ­ ziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giu d ici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche g io r n o a G e ­ nova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tan to m e n o di interesse psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e di sd eg n o : lui da p o c o a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n v e n to napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a G e n o v a ; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o ­ tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoled ì s a n t o 2. E allora il Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai giudici veneti, se ne a n d ò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n ­ siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ u n ic o veramente tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio g e n o e se , d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 P e r la s t o r i a d ella re liq u ia v. Im b r ia n i, N a ta n a r II in P ropu ­ gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 M u tin e lli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 50 stetti in Noli.... circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spam panato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi; e cioè dalla fine d ’ aprile 1576 ai primi del 1577. C o m u n q u e, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici ; perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il b i s o g n o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di q u e s t e sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del B ru no3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO, p. 6Ç8). 2 Vedi A. P e l l i z z a r i , Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella, 1924). 3 G . Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. A mabile, in A tti A cc. S cienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e s p a m p a n a t o , op. cit.., p. 273 n. (e anche T occo in Arch. fiir Gesch. d e r P h ilo s., IV, 1891, pp. 346-50; B onghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889, pp. 585-86; G en til e , G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi 1920, pp. 63-64. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) « dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o ­ vese»: ma dell’asserzione importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il P o 1 ». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. T r o ­ verà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli, mai più. S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino ... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei.  La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano.    La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi (1911 - 1988), giovane interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Cedam, 1941). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Benito Mussolini.    L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel 1941 e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa».    Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza».    L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane.    Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista.    E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto De Marzio, Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli, Primo Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.  Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale, nel maggio del 1919, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare fin dal 17 dic. 1918, dicendosi lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Dal luglio 1921, su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale.  In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva proposto come tema di studio.  È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica.  Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze 1921), La pedagogia di Vincenzo Gioberti (ibid. 1922) e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano 1921) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice.  Nutrito di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Arturo Codignola. Dal 1920 collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista Il Lavoro.  In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito (pp. 106- 110).  Conseguita la laurea in filosofia nel 1923, nel 1924 il C. ottenne presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante. Dell'ottobre 1925 è la diffida dei prefetto di Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collaborava dal febbraio 1922) e i suoi redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi (Torino 1926) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti fino al 1928, pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.  Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il 21 apr. 1928; rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno. Il 16 genn. 1929 venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una lettera al Croce del 5 febbr. 1929 (in Il Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita con d. m. del 21 giugno 1929. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio dal 16 settembre.  Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel 1933, vincitore di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Nel 1935 passò alla cattedra di filosofia teoretica (che terrà fino al 1950), conseguendo nel 1936 l'ordinariato.  Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina 1931) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari 1933) lo sforzo di plasmare un proprio e originale impianto teoretico.  In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania 1942), di guardare alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della teoria.  All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania 1942), Metalogica: filosofia dell'esperienza (ibid. 1945), Metafisica vichiana (Palermo 1961), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica (ibid. 1966).  In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal carcere del 1928 - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della svolta.  Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania (1943-45); fu presidente di sezione del British Council di Catania (1944-50) e presidente di sezione della Società filosofica italiana a Catania (1947-50) e a Palermo (1951-72); fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato prima alla cattedra di pedagogia (1950-52) e poi a quella di filosofia teoretica (1952-72) presso la facoltà di lettere e filosofia.  Il C. morì a Palermo il 26 genn. 1972.  Opere: Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo 1974, pp. 371-414. Oltre alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia vichiana, Messina 1930; Breve storia della pedagogia, ibid. 1932; La filosofia di Plotino e il neoplatonismo, Catania 1940; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Milano 1946, pp. 225-233; L'Enciclopedia di Hegel, Padova 1947; La filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli 1947; Introduzione a Kant, Palermo 1956; La pedagogia tedesca in Italia, Roma 1964; Pedagogia. Saggio di voci nuove, ibid. 1967.  Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 1061, fasc. 21865. Per l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, XXX (1975), pp. 26-38; Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, XVI (1980), pp.63-I16; Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova 1983. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero della università di Palermo, 1971-72, pp. 5-15; P. Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero giovanile di S. C., ibid., pp. 16-33; F. Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, VIII (1972), pp. 56-65; A. Guzzo, S. C., in Filosofia, XXIII (1972), pp. 165-167; M. F. Sciacca, Il pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, XXXII (1971 -73), n. 2, pp. 11-24; A. Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, XIV (1973), pp. 81-93; F. Cafaro, Commemoraz. di S. C., in Nuova Riv. pedagogica, XXIII (1973), pp. 17-26; P. Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo 1974, pp. 251 -262; M. Ganci, S. C., ibid., pp. 361-366; M. A. Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di metafisica, XXIX (1974), pp. 465-472; F. Brancato, S. C.: senso fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di S. C., in Theorein, VIII (1979), pp. I-II; L. Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, n. s., I (1979), pp. 305-330; M. Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S. C., in Labor, XXI (1980), pp. 157163; M. A. Raschini, Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp. 267-278; M. Corselli, La figura di S. C. nel periodo giovanile (1915-1921), in Labor, XXV (1984), pp. 71-79; G. M. Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo. Santino Caramella. Keywords: “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool Library.

 

Caramello (Torino). Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has dedicated his life to him!”  Studia al prestigioso liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e nel 1926 riceve l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Pietro Caramello. Keywords: peryermeneias Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” – The Swimming-Pool Library.

 

Carando (Pettinengo). Filosofo. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his ‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him – whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” --  Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo, Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito ad una delazione.  Sottoposto a torture atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore, capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente: "Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". Ennio Carando. Keywords: filosofo socratico, Socrate, Alcibiade. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carando” – The Swimming-Pool Library.

 

Carapelle (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse ‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze. Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il positivismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il portato dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale, vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe indefinitamente frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo inconveniente si può rimediare temperando il positivismo con lo sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena accettazione del metodo una piena apertura all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad esempio, nella fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In questo senso si può procedere a mantenere una costante tensione sui problemi posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque per la filosofia di definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo del metodo basato sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati sperimentali e integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante il ponte dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia (Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli Bocca, Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore. Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (CEDAM, Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e forma logica (CEDAM, Padova); Il concetto di informativita, CEDAM, Padova); La filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di Montaltino de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Na­poli e pur fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo­ tivo, ci siamo nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse l'opera di Husserl. L'iter formativo di Filiasi Carcano (1911-1977) interseca situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve­ dremo, anche in altri giovani filosofi della stessa generazione. Di più, nel .suo caso, c'è una singolare — e probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956 — io non posso dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca­ zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia men­ talità giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa passione pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica54. Questo germinale orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di allontanare Filiasi Garcano dall'area neo-idealistica, il cui radicale immanentismo, la esclusione dei concetti di peccato e di grazia e l'avversione per ogni for- 53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo­ sofia contemporanea, in AA.W., La filosofia contemporanea in Italia. Invito al dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219.   LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 59 ma di naturalismo, non potevano in alcun modo essere accettati 55. Di qui un sentimento di estraneità e di insoddisfazione subito denunciati fin dai primi scritti, l'intima perplessità e la difficoltà di orientarsi in una temperie culturale già decisa e fissata nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro canto, un naturale rivolgersi al problema metodologico, come pre­ liminare assunzione di consapevolezza circa i percorsi teoretici che con­ veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia ancora nul­ la presumere circa la necessità di quei percorsi o la natura di questo sco­ po. In tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia doveva prevedere come esito programmatico, da un lato, una sorta di epochizza- zione delle grandi tematiche metafisiche e della tradizionale formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di analisi, con­ fronto, chiarificazióne e comprensione che consentisse di recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico. Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad abbracciare nel suo complesso il controverso panorama culturale del tempo, più quel programma iniziale perderà la sua connotazione prope­ deutica per trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i termini di un radicale esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non aver abba­ stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione. Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di critica (...), ma ha piut­ tosto il carattere di un prescindere, di una sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74. ; * P; Filiasi Carcano, // ruolo della metodologia, ;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia   60 .CAPITOLO TERZO contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di con­ seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose. Crisi della filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo carattere problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza del suo concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché circoscrivere le proprie pre­ tese conoscitive ponendosi su un piano risolutamente pragmatico, assur­ gere ad una più compiuta presa di coscienza storica e conciliare la filoso­ fia con una mentalità scientificamente educata. Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale Filiasi Carcano vedeva realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb­ be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor­ dio, singolarmente soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri­ ve Angiolo Maros Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi Carcano pensò, o sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle scienze', capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico di una problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo metafisico, quale eira frettolo­ samente spacciata in certe grossolane versioni del tempo (non esclusa, lo ^bbiamo visto, .quella del suo, maestro), la fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e un rigore filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano insista, fin dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della fenomeno­ logia, ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle spalle ". contemporanea, pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice Francesco Perrella, 1939, pp. VIII-202. • s* Cff. Il pensiero scientifico ìtt Italia '(1930-1960), Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/, :« Ricerche filoSofìche », VI, 1; 1936; pp: 18*34.   LA PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 61 In piena coscienza, — scriverà l'autore nel 1939 — se abbiamo voluto scio­ gliere l'esperienza da una necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60. Tale schiettezza, corroborata da un carattere decisamente antisistema­ tico e dal recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi di un nuovo, vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione positivistica e determinazione metafisica, ma capace, al tem­ po stesso, di metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una nuova positività oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più saldo punto d'osserva­ zione dal quale far spaziare sul multiverso esperienziale il proprio sguar­ do fenomenologicamente addestrato. È in questo punto che la fenome­ nologia, riabilitando l'intuizione in quanto fonte originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul tronco dello sperimenta­ lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno ' alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la coscienza cri­ tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e descrittivo della filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo di riscontro, i punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista: Descrivere la nostra esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi­ nata; cercare di raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più com­ prensive, esprimenti, per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza del mon­ do; non perdere mai il senso profondo della problematicità continuamente svol- gentesi dal corso stesso della nostra riflessione; infine stare in guardia contro tutte le astrazioni che rischiano di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della vita: sono questi i principali motivi dello sperimentalismo e (...) al tempo stesso, i modi mediante i quali esso va incontro alle più attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero contemporaneo61. D'altro canto, si diceva, non è neppure precluso a questo program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella, 1941, p. 120.   62 ......... CAPITOLO TERZO ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio l'atteggiamento feno­ menologico. Scrive Filiasi Carcano: In realtà, il dilemma tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui­ zione che escluda la scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un piano fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano ad accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso le­ gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di spirito che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il modo particola­ rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di metafisica 62. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente rin­ viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe­ rimentalismo — certo difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va­ lere per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom­ pagnandolo, con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon­ damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. III.3. - LASCUOLATORINESE. ANNIDALEPASTOREENORBERTOBOBBIO. La terza grande area di interesse per il pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo all'Università.di Torino e si costituisce prin­ cipalmente intorno all'attività 4i tre studiosi: il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte fra questa e la neoscolastica mila­ nese è Carlo Mazzantini; il secondo è Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi .della civiltà, .eit,,. p.., 184. ,: ; 63 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, cit., p. 153. Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano. Paolo Carcano. Montaltino. Keywords: semantica, quarto duca di montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carapelle” – The Swimming-Pool Library.

 

Carbonara (Potenza). Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input (esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’ alla Husserl.  Conseguito il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.  Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno atto del pensare»..  Il problema secondo Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante.  La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia” in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso  non potendo rinunciare a se stesso ma neppure al suo opposto -- nec tecum nec sine te  -- solus ipse. Si interessa anche della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua spiritualità religiosa:  In Ficino, il platonismo si congiunge al cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone, Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone figura nella catena dei platonici romani.  Riallacciandosi a quella tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello; Introduzione alla Filosofia (Napoli;  Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo (Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il platonismo nel Rinascimento. Cleto Carbonara. Keywords: esperienza, dull title: “l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro, l’altri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The Swimming-Pool Library.

 

Carbone (Mantova). Grice: “I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ –  but the favourite-favourite are  his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’) and even more, his “La dialettica”.  Si laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova. Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso anno. Fonda a  Pisa  con il sostegno del Leverhulme Trust un Programma  di ricerca sulla filosofia, concentrandolo su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica, fenomenologia, per Mimesis Edizioni.  Si concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca, sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme, dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty (Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos ed eidolon, il bello.  Influenzato prevalentemente da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile", intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di "deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di "a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di ogni identità.  Altre opere: “Ai confini dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano, Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte, pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust, Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano, Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata, Quodlibet). Mauro Carbone. Keywords: “individuo e dividuo” eidos, il bello, essere en comune, mit-sein, #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- -- --. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library.

 

Carboni (Livorno). Filosofo. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the tacit response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions, analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo.  Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).  Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini  e Didi-Huberman. Scrive su  “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di Estetica”.   “L’Impossibile Critico. Paradosso della critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi); “Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare, Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee” Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca).  Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures housed there. This article documents and comments on this development in art education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17. The register is presented as a photographic record, with a transcription and biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical shifts. It argues that this new museum access contributed to the early nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of access actually served to further entrench the “middleclassification” of art education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art historian and curator based in London, and is currently convenor of the British Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art. Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in 2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital presentation of my research, the two anonymous readers for their valuable critical input, and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for providing access to the register and for their advice. I am especially indebted to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for the access provided to materials there and for advice and suggestions. I would also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks, Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright. Cite as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State", British Art Studies, Issue 5, https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of 1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection was made available for its students in time for the royal opening of the Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and transcription, with an accompanying directory of student biographies (see supplementary materials below). This may be taken as a straightforward contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets, societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”. 2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or fees. Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students themselves; they were expected to be largely self-selecting and self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the service this did to the public good were emphasized. But, once closely scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if disciplinary function can hardly be recognized as such), in serving to further entrench the “middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The conjunction of art education and a grandiose notion such as the liberal state may be unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art worlds are structured and in their structure have a homological relationship with the larger social environment. 4 The initial part of this statement (that art worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small number of institutions, and the practices associated with academic tradition in principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field of power, so that social relationships are reproduced within this relatively autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his insights into the status of these institutions and the role of forms of public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below” historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies, disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their bodies in relation to one another and to their model, the management of their behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name into the British Museum’s register of admission was producing his or her governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal, belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case, which can be sketched out only in outline in this context, is that the emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of sociological exploration, and because its individual membership can be documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated huge amounts of documentation about society and its individual members—tax records, parochial and civil records, the national census from 1801—which digitilization has made more readily available than ever before, allowing this generation of artists to be documented as never previously. 10 The production of artistic identities through these records is not unrelated to changes in artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period from the foundation of the Royal Academy (1769) to its removal to Trafalgar Square, or even as the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical. Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to, in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”, slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation, and even active opposition to the state. I propose that art education, as it took shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic” phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal” relationship between the past and present, or a linear genetic relationship between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the rise of art education and museums access representing a stage towards democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the “freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to students has barely been noticed in the art-historical literature. The register has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing, 48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been on display for many years at his private house in Park Street, London. William Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man, promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture, much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3). Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection, but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a compromise. With the erection of a new gallery space for the collection underway, the Museum considered how special access might be given to artists. That the question was posed at all should be an indication of how far the realm of cultural consumption and production was being folded in to the emerging liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February 1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings collections might be used by artists, and to draw up “Regulations . . . for the Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card, 1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian, Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee, with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21 May, over three months after what should have been a straightforward matter was raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington. 26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision of superintendents to monitor the students while at the British Museum was referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose, & that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid 2 guineas for each day’s attendance’ . . . Much discussion took place.” 30 At a further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had about the supervision of the students, Farington making the point that: as the studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection; therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31 The point of contest may have concerned the right of the Council to organize things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom because they had already internalized the discipline required by these institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled, students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of 1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4 and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential “academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the British Institution’s show in 1809. Another five students registered in February and July. This included another recently registered Royal Academy student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805, recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane, and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and indeed the mix of male and female students (discussed below), continued throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight of the twelve students registered on 11 November were current Academy students; this proportion of Academy students to others continues throughout the record. But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed: Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known & approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as made at the last General Meeting be printed & hung up in the Hall, & at the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were predominantly students at the Royal Academy, but also included the emigré natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in 1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817, the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13). The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The register terminates at this point, although the volume continued to be used to record students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs from the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12. Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13. William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817, watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register must have been maintained, but appears not to have survived, and evidence of student attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These later records also, incidentally, point to the variety of student practice in the galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption that admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself with a Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as Chalk”), students evidently worked in different media as well. James Ward referred explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827 (fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41 Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood, recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’ passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827, watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus, apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810 (figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm. Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high. Collection of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The Register of Students as Social Record Of arguably greater interest than the question of the “influence” of access to the marbles on artistic practice is the evidence the register provides about the social profile of the students. This takes us to the heart of the question about the relationship between art education and the state. This was, in fact, a question raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw up a report on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking reassurance that this publicly funded institution was not “merely an establishment for the gratification of private favour or individual patronage”. 47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body, everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery, from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket, is admitted without further reference to make his drawings: and other persons are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their qualification. According to the present practice, each student has leave to exhibit his finished drawing, from any article in the Gallery, for one week after its completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its public duty in providing free access to appropriately qualified students. The bare figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which could be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest historical accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical record was evidence of how Planta had progressively extended access to the Museum: “From the outset he administered the Reading Room itself with much liberality . . . As respects the Department of Antiquities, the students admitted to draw were in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.” 52 At that level of abstraction the information appears beyond dispute. What I test in the remainder of this essay is how these statements stand up to the more individualized account of student activity represented in the biographical record. That record does include the most assiduous students of the Royal Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B. Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs, William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending students, although in most of those cases we can conjecture at least some biographical context. 54 Slightly less than half the total number of individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more established male artists attended, and several of these were formerly students at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward. Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined presence in the register of artists who did not pursue the art professionally or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde, Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known to have practised art to make it quite certain that they were not, at least generally, being admitted to consult the collection without intending to draw, and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”. Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were admitted without special comment or notice despite the issues of propriety around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum library over the same period: only three out of the three hundred and thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms, relatively female compared even to the study of literature or history. This points to an under-explored context for the inculcation of the students into life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to consider the family as the context in which artists are made as much as, if not more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either, predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education, and access to material and social support. In many cases their brothers, who shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or merchants. A number of individual students gave up the practice of the art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts; William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while others were never really obliged to draw an income from their practice but pursued art as a pastime. It remains the case that there was a high level of occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture. Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard, Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of “dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon, Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted confusingly as “John Martin” in the register, although the address given provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family setting. There are several points to derive from this information, even as lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that while female students were a minority they were a definite presence; in this regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the contemporary records of student attendance at the British Institution or of copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so entirely male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds unconnected with the art world; really, only a handful, which would include John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as a third and most important point would be to emphasize how emphatically metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is striking that the social affiliations of artists point to strong, arguably increasingly strong, affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the minority of students from backgrounds neither closely connected with the art world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the exceptions rather than representative. The relative weight of personal and Academic connection is exposed in the record of the provision of references for students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper of the Academy Schools through this period must have provided references as part of his duties, and accordingly provided the second largest number of recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall, officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate, professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation. Simply stated, even if study at the Museum was free and freely available, any given student would still need to access a letter of reference and the time to go to the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio, paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students militated against anyone attending who had to use these daylight hours for work, a point which was made quite often with reference to the Reading Room through this period. 63 The most assiduous students needed the time free to study at the British Museum, something that well-off students like Eastlake, Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the Academy who were obliged to work during the day to make a living, or who were serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours available at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office, would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office, Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism, visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students. Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this “micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed) promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed, to know or at least be able to access the right people, to get in. This point may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street, was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane, Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to which he replied, “I should derive assistance from them if I had the opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without forms of positive support to counterbalance or actively adjust social inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced, homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into the exclusionary processes of the emerging cultural field which is significant—the possibility that talented students could get access, gain reputation, achieve success, without being limited by their social origins. “Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which may be marked only in small differences, in personal dispositions and behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small contribution to that larger project, with the excess of data presented here perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7] That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July, & every day in the months of August and September, from the hours of twelve to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the name of such person to be signified in writing, from time to time, by the Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays in April, May June & July one of the officers of the Department of Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August & September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do (according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72 Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State” (2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/ speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research project, which has given rise to the present study: a biographical survey of all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a monograph, provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy Schools in the Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller survey indicates several important shifts over these decades, including a fundamantal shift in the proportion of students coming from family backgrounds in the arts and design-oriented trades, in comparison with those coming from professional and genteel backgrounds. It exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged as “officers”, in the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate representation within the developing art establishment (as Academicians, or as officials in other cultural bodies). The term “art world”, as designating a space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev. edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it is closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre Bourdieu across a succession of influential works. Notable among these, for present purposes because of its methodological statement about the homological analysis of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See, notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp. 70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003) and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities, 1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge: Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian framing of art education and creative production within liberalism, see McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston, MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell (Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso, 2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge: Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119. Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights secured by this rising documentation. The position taken here is more determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in “liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans. David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3, above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press, 2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007), 72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”) in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London: Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press, 2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press, 1992). Chambers, Joseph Banks, 107. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68. http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/ access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17 vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals (London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles, 59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven, CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November 1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994): 536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London: Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859): Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40) appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821, c.724 (online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/ 1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23 February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the British Museum (London: Trübner and Co., 1870), 520. 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 Bibliography Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds (1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley, G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press, 2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans. Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone, “Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden; Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as “probationers” for a period of three months (which might be extended), and once registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine; Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W. Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne; Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September (1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London: Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil colours, employed in copying some of the pictures. You can see from this circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols. (Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14, and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations” from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817, meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock, Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening classes might seem to be more accommodating, even this may have been challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter, “permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”. Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783. On educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms or unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans. Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn, which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort, the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations, 245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835, 40. Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans. David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian Meditations. Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press, 2000. – – –. The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press, 1996. Cash, Derek. “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836.” British Museum Occasional Papers 133 (2002) http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/ access_to_museum_culture.aspx Chambers, Neil. Joseph Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830. London: Routledge, 2007. Chumbley, Ann, and Ian Warrell. Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life. London: Tate Gallery, 1989. Coltman, Viccy. Classical Sculpture and the Culture of Collecting in Britain since 1760. Oxford: Oxford University Press, 2009. Combe, Taylor. A Description of the Ancient Marbles in the British Museum, 3 vols. London, 1812–17. Cook, B. F. The Townley Marbles. London: British Museum Press, 1985. Edwards, Edward. Lives of the Founders of the British Museum. London: Trübner and Co., 1870. – – –. Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum. 2nd edn. London [1839]. Farington, Joseph. The Diary of Joseph Farington. Ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre and others. 17 vols. New Haven and London: Yale University Press, 1978–98. Foucault, Michel. The Birth of Biopolitics: Lectures at the Collège de France, 1978–1979. Ed. Michel Sennelert. Trans. Graham Burchell. Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008. – – –. “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France, 1975–76. Ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana. Trans. David Macey. London: Penguin, 2004. Griffiths, Antony. “The Department of Prints and Drawings during the First Century of the British Museum.” The Burlington Magazine 136 (1994): 531–44. Hamilton, James. London Lights: The Minds that Moved the City that Shook the World, 1805–51. London: John Murray, 2007. Higgs, Edward. Identifying the English: A History of Personal Identification 1500 to the Present. 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levi: filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia della filosofia romana.”

 

giornale critico della filosofia italiana.

 

Giovanni d. “Positivismo italiano.”

 

cassiodoro: noble Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia

 

casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”

 

cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Carchia (Torino). Grice:”I once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication  (“nome e immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc.  Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino : Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza);  L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2003  88-8498-112-3 Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006  88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico. Paradigma, schema, immagine. Gianni Carchia. Keywords: erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.

 

Cardano (Pavia). Filosofo. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria.  Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.  Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del filosofo.  Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate.  Ottenne la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di Francia e della regina di Scozia.  Colpito da un doloroso avvenimento riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram congregationem).  Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre opere.  Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di elaborare  Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a Cristo.  Il contributo in matematica  Noto soprattutto per i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca: eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati meccanismi tra i quali:  la serratura a combinazione; la sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate  in una illustrazione navale. L'invenzione di questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere: Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma – segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae” che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni empiriche e delle sue speculazioni occultistiche.  Della sua produzione filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:  De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia, 1536 (medicina). Practica arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta  (politica).  Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero raccolte e pubblicate a Lione  in 10 volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto  "G. Cardano" della sua città natale, nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese.  La blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di terzo grado"  Il Rinascimento. Omeopatia e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della "Tempesta”  somiglia tanto a Cardano in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita” (Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1                                                  Frontespizio  Lettera dedicatoria  Praefatio  Vita Cardani per Gabrielem Naudaeum  Testimonia  Elenchus generalis  Index librorum tomi primi  Previlege du roy 1.1De vita propria    Le redazioni del 1544, 1557 e 1562    (Archivio) 1.2De libris propriis (Archivio) 1.3De Socratis studio (Archivio) 1.4Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis (Archivio) 1.5Actio in Thessalicum medicum (Archivio) 1.6Neronis encomium (Archivio) 1.7Podagrae encomium (Archivio) 1.8Mnemosynon (Archivio) 1.9De orthographia (Archivio) 1.10De ludo aleae  (Archivio) 1.11De uno (Archivio) 1.12Hyperchen (Archivio) 1.13Dialectica (Archivio) 1.14Contradictiones logicae (Archivio) 1.15Norma vitae consarcinata, sacra vocata (Archivio) 1.16Proxeneta (Archivio) 1.17De praeceptis ad filios (Archivio) 1.18De optimo vitae genere (Archivio) 1.19De sapientia (Archivio) 1.20De summo bono (Archivio) 1.21De consolatione (Archivio) 1.22Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris  (Archivio) 1.23Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione (Archivio) 1.24Dialogus Tetim seu de humanis consiliis (Archivio) 1.25Dialogus Guglielmus seu de morte (Archivio) 1.26De minimis et propinquis (Archivio) 1.27Hymnus seu canticum ad Deum (Archivio)  Indice rerum Volume 2  Frontespizio  Index librorum tomi 2.1De utilitate ex adversis capienda (Archivio) 2.2De natura (Archivio) 2.3Theonoston seu de tranquilitate (Archivio) 2.4Theonoston seu de vita producenda (Archivio) 2.5Theonoston seu de animi immortalitate  (Archivio) 2.6Theonoston seu de contemplatione (Archivio) 2.7Theonoston seu hyperboraeorum historia (Archivio) 2.8De immortalitate animorum (Archivio) 2.9De secretis (Archivio) 2.10De gemmis et coloribus (Archivio) 2.11De aqua (Archivio) 2.12De vitali aqua seu de aethere (Archivio) 2.13De aceti natura (Archivio) 2.14Problemata (Archivio) 2.15Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto (Archivio) 2.16Discorso del vacuo  (Archivio)  De fulgure liber unus  Indice rerum Volume 3  Frontespizio  Index librorum tomi 3.1De rerum varietate (Archivio) 3.2De subtilitate (Archivio) 3.3In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio)  Indice rerum Volume 4  Frontespizio  Index librorum tomi 4.1 De numerorum proprietatibus (Archivio) 4.2Practica arithmeticae (Archivio) 4.3Libellus qui dicitur, Computus minor (Archivio) 4.4Ars magna (Archivio) 4.5Ars magna arithmeticae  (Archivio) 4.6De aliza regula (Archivio) 4.7Sermo de plus et minus (Archivio) 4.8Geometriae encomium (Archivio) 4.9Exaereton mathematicorum (Archivio) 4.10De proportionibus (Archivio) 4.11Operatione della linea (Archivio) 4.12Della natura de principii et regole musicali (Archivio) Volume 5  Frontespizio  Index librorum tomi 5.1De restitutione temporum et motuum coelestium (Archivio) 5.2De providentia ex anni constitutione (Archivio) 5.3Aphorismorum astronomicorum segmenta septem (Archivio) 5.4In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis (Archivio) 5.5De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio) 5.6De iudiciis geniturarum (Archivio) 5.7De exemplis centum geniturarum (Archivio) 5.8Geniturarum exempla  (Archivio) 5. De interrogationibus (Archivio) 5.10De revolutionibus (Archivio) 5.11De supplemento almanach (Archivio) 5.12Somniorum synesiorum (Archivio) 5.13Astrologiae encomium (Archivio) Volume 6  Frontespizio  Index librorum tomi 6.1 Medicinae encomium (Archivio) 6.2De sanitate tuenda (Archivio) 6.3Contradicentium medicorum (Archivio) Volume 7  Frontespizio  Index librorum tomi 7.1De usu ciborum  (Archivio) 7.2De causis, signis ac locis morborum (Archivio) 7.3De urinis (Archivio) 7.4Ars curandi parva (Archivio) 7.5 De methodo medendi (Archivio) 7.6De cina radice (Archivio) 7.7De sarza parilia (Archivio) 7.8Disputationes per epistolas liber unus (Archivio) 7.9De venenis (Archivio) 7.10In librum Hippocratis de alimento commentaria (Archivio) Volume 8  Frontespizio Index librorum tomi 8.1In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria (Archivio) 8.2In septem aphorismorum Hippocratis commentaria (Archivio) 8.3In Hippocratis coi prognostica commentaria (Archivio) Volume 9  Frontespizio  Index librorum tomi 9.1In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria (Archivio) 9.2Examen XXII. aegrorum Hippocratis (Archivio) 9.3Consilia (Archivio) 9.4De dentibus (Archivio) 9.5De rationali curandi ratione (Archivio) 9.6De facultatibus medicamentorum (Archivio) 9.7De morbo regio (Archivio) 9.8De morbis articularibus  (Archivio) 9.9Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna)  (Archivio) 9.10Vita Ludovici Ferrarii (Archivio) 9.11Vita Andreae Alciati (Archivio) Volume 10  Frontespizio  Index librorum tomi 10.1De arcanis aeternitatis  (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber unus (Archivio) 10.3Elementa Graeca (Archivio) 10.4De inventione (Archivio) 10.5 De naturalibus viribus (Archivio) 10.6 De musica (Archivio) 10.7Artis arithmeticae tractatus de integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini (Archivio) 10.9In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria (Archivio) 10.10In libros epidemiorum Hippocratis commentaria (Archivio) 10.11De epilepsia (Archivio) 10.12De apoplexia  (Archivio) 10.13De humanis civilibus successionibus (Paralipomena)  (Archivio) 10.14De humana perfectione (Paralipomena) (Archivio) 10.15Peri thaumason seu de admirandis (Paralipomena) (Archivio) 10.16De dubiis naturalibus (Paralipomena) (Archivio) 10.17De rebus factis raris et artificiis (Paralipomena) (Archivio) 10.18De humana compositione naturalium (Paralipomena) (Archivio) 10.19De mirabilibus morbis et symptomatibus (Paralipomena) (Archivio) 10.20De astrorum et temporum ratione et divisionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.21De mathematicis quaesitis (Paralipomena) (Archivio) 10.22Historiae lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) (Archivio) 10.23Historiae animalium (Paralipomena) (Archivio) 10.24Historiae plantarum (Paralipomena) (Archivio) 10.25De anima (Paralipomena) (Archivio) 10.26De dubiis ex historiis (Paralipomena) (Archivio) 10.27De clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) (Archivio) 10.28De hominum antiquorum illustrium iudicio (Paralipomena) (Archivio) 10.29De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore (Paralipomena)  (Archivio) 10.30De sapiente (Paralipomena) (Archivio)  Indice rerum. De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium. Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente.Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything – including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

Cardano (Lumellogno). Filosofo. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus Lombardia!” --  Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita) , all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città (1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il 1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Gilberto Porretano.  Dopo un breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108.  Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo. Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di Giovanni Damasceno.  Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica.  Il testo si divide in quattro parti:  la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi.  Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note  Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998)  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998)  Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden, Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico internazionale : Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, 2007.  Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di "Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Pietro Lombardo Collabora a Wikiquote Citazionio su Pietro Lombardo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pietro Lombardo  Pietro Lombardo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Francesco Siri, Pietro Lombardo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Pietro Lombardo / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Pietro Lombardo, .    su Pietro Lombardo, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Sofia Vanni Rovighi, Pietro Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici.Hugh Chisholm , Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press. Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte, means that the locals never saw him as one of their own!” --  Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara.  Pietro Cardano. Keywords: Cardano.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

Cardia (Roma). Filosofo. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life. Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and present. It is a place where the community come to mark milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.  Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth forever.’  The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della commissione governativa Machelon1 . Da esso Cardia deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria.  * Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1  Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset, n. 102/2007.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 2 Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione diventa  2  Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3  Come quelli di G. ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 3 inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le numerose voci laiche dell’islam moderno4  né, a livello istituzionale, ad annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in contrapposizione alla sharī ‘a” 5 . D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7  - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione possono avere per una società  4  Cfr. l’antologia di P. BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5  Così ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6  Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. 7  Cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8 . Una laicità pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una parte sola.  8  In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi ius S. RODOTÀ, La vita e le regole. 9  Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine del 1901 e 1902, la prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati del 1859, non segue la cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La Legge Coppino del 1877 non dice nulla al  3 riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un Regolamento del 1908 conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo del 1929 tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche  4 l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un elemento equilibratore nel periodo separatista, nel 1929 con la stipulazione dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che ha  5 portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del separatismo. Anche nel 1929, quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il giudizio delle forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto nel 1929 avrebbero dovuto farlo i liberali nel 1871. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta in quel modo nel 1929, forse non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato nel 1946-47 e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono riconducibili al solo articolo 7, quanto alla maturazione di una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti.  6 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica La laicità, invece, torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose (…), così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge. L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il “rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente, questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale. Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa  7 pratica non si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari, meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica. Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di competenza della cronaca nera.  8 Se in un paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini, avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione (peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce, violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello Stato.   9 6. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro convegno. Carlo Cardia. Keywords: filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool Library.  

 

Cardone (Palmi). Filosofo. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes ‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista". Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia, filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi & figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi, Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi, G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà, Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma, Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo. Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna, Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile, Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo, Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano, Editori Del Grifo,  Ludi. Bologna, Soc. Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano, M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un inattuale nella sua attualita. Domenico Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords: “Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool Library.

 

Carifi (Pistoia). Filosofo. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that  should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” --  Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino,  profondamente influenzato dalle voci liriche di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere, attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per ricongiungersi al mondo.  Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia, che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre, dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni, ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini, camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità. Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza.  La sua ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo. Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri.  La conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro .L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice»  Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio»  «La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana»  Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna (Raffaelli, Rimini ). Note  Rainer Maria Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere, .  Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS, .  M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino»,   Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»;  Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore», ; E per musa ispiratrice la nostalgia, «Avvenire»,  Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri»,  Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»;  La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale»,  Per la sezione bibliografica questa voce trae informazioni dalla  inglese.   Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su «Clandestino». Roberto Carifi. Keywords: filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme – l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger, conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library.

 

Carle (Chiusa di Pesio). Filosofo. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo.  La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani.  Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius -- LE ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere , sacra profanis . HOR., poet Ars . LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso , 216-217. Via Cerretapi, 8 DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, 12 Piazza Plebiscito , 2 S. Maria al Ros .°, 23 (N. Carosio ) (N. Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip . di S. M. Al Rettore Magnifico della Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile Università di Bologna , commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occa sione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo G. C. 251303 سے PREFAZIONE Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino , parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita , perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima erano sfuggite . Quegli studii di giurisprudenza comparata , che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta , sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo , con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella , che ebbe ad essere mag giormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo , con cui i Romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve es sere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti , VI - nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle parti colari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e private: conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella storia dell'umanità . Certo era naturale cosa , che uno stu dioso della Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governò la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi deimateriali che furono raccolti con tanta diligenza , sopratutto in Ger mania. Miaccinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età ,ma che ebbe il van taggio di rendermi aggradevole la lunga fatica , e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa , unitamente alla convinzione profonda, che le grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro , che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo : ed è che VII - il presente lavoro , cominciato forse coll idea , non preconcetta ,ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trovò il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse . I Romani, cosi nel formare la propria città, come nel Pelaborare le proprie istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamerei di selezione ; anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottomet terli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città furono costruite coi massi più solidi delle co struzioni gentilizie: cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, furono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia ,ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenzedella vita civile e politica . Anche questo fu un processo naturale; ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappon gono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando ,bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche , che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che ildiritto romano non èuna produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori; ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani , a modellarla in concetti VIII tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica , che nel proprio genere può essere paragonato ai capolavori dell'arte greca . Questo è il risultato ultimo,a cui sono pervenuto : per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il libro, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, ho cercato di riprodurre quella coerenza organica , che è la carat teristica dello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai rifugiati dalle comunanze vicine. Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato a Roma le sue istituzioni pubbliche e private , mentre il suo successore le avrebbe data l'organizzazione del culto , finchè da ultimo Roma già ingrandita , mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse , avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile , politica e militare per opera di Servio Tullio , che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città . Per tal modo la forza dapprima, poi la religione e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta dell'eterna città , e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei Re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito . Il suo fondatore è Latino, mentre invece è Sabino l'organizzatore del culto , e da ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la stessa tradizione circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private , che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg gende;madovette poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gen tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i risultati della critica moderna, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana , avrebbe continuata quell'opera di formazione della convivenza civile e politica , che era già stata iniziata dalle altre popolazioni italiche , le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. 3. Secondo il computo più universalmente adottato , Roma è stata fondata nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe com parsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione gentilizia , e stavano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e politica . Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra ( 1) Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma fino all'anno 283 dalla sua fondazione, accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi il BONGHI, Storia di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto il libro terzo, che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio , da pag . 513 al fine. Milano, 1884. - 3 le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro prove nienza dall'Oriente ( 1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi Umbro - Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente (fatti nel 1874 e nel 1883) hanno dimostrato , che il sito occupato da Roma doveva già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica. Sopratutto fu scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena ) sarebbe esistita anche prima del periodo reale leggendario , e costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusiva mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco ( 2 ). (1) Tale provenienza delle stirpi Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro , parentela colle Elleniche, colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza Etrusca . Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra zione di tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena , 1884 , sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita , themis e ratio , pag . 175 e seguenti. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart, 1882 , pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere presso gli Arii dell'India , della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880, i cui primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. ( 2) Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome, Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN , il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica , ninth edition , Edinburgh, pag. 731, 1886 , vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo lavoro : Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886 , pag . 45 e seg . Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che aveva già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico , per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria, avevano però dimen ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di loro di ori gine, di costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii ; solo erano ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove tacevano i conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse , secondo l'opinione del Mommsen , del Leist , del Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del municipio . Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e gradazioni diverse  . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con un carattere pro fondamente religioso ; sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura ; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città , ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia , di cui pud trovarsi un notevole esempio nella gens Claudia . Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come lo provano le sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo Umbro-Sabellico (1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita , per quel che riguarda l'organizzazione sociale , le stirpi Latine. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio . Tali aggregazioni di genti, che chiamansi tribù , abitano nei vici e nei pagi; ma, riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi ( 1) In ciò sono d'accordo il Mommsen , Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag . 140 e seg., ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er, pag. 13. Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più conservatore che non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas. Questa aggregazione più vasta non solo aveva comune la lingua , il costume e la religione , ma eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gli attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio , il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la circondava, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza , a cui riparare nei momenti di pericolo , il tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza , il luogo ove si ammini strava giustizia , il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, erano piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti nazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di trenta , erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza pro gredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando an cora a vivere nelle comunanze di villaggio , erano pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che doveva poi svolgersi nella città e nel municipio . 6. Vengono infine le stirpi Etrusche, la cui civiltà è ancora og . gidi celata nel mistero , perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città , conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovavano in comunicazione mag giore cogli altri popoli e sopratutto coiGreci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sa pienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, ( 1) MOMMSEN , op. e loc. cit., pag. 44 e seg .; FUSTEL DE COULANGES, La cité an tique, Paris, 1876 , pag. 274. 6 - che determinavano i riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione doveva essere ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto anche l'antica costituzione della città etrusca , secondo il Mommsen, si accostava nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione eda nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione ed al commercio , erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale . I capi Etruschi avevano il nome di Lucumoni; la popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie , e se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città , che entravano a costituirle , non erano co si intimi e stretti come quelli che esistevano fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia , ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la co munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile , che Roma compare nella storia . Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa ab biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco , questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses , guidati da Romolo e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura , di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata (3 ). (1) Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae , centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem pertinentia » . ( 2) MOMMSEN, op . e loc. cit., pag. 155. V. il LANGE, op . cit., pag. 14 , ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24 . Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato , siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre comunanze , che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercitò una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasformò in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di villaggio , che erano disperse in quell'antico septimontium , che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio (1). Cosi pure dovette presto entrare nella federa zione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul Quirinale . Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore , due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è ancora che lo sta bilimento romuleo , il quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina , che è quella dei Ramnenses , ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine (2 ). Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini, e allora Roma diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione relativa al pomoerium , che alcuni vorrebbero collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium . La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione dal CARLOWA, Romische Rechtsgeschichte, Leipzig , 1885. Erster Band , § 8, pag . 59 e seg ., dove sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di confine fra il territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON , op. cit., pag . 45 . (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE, Iurisprudentiae anti- Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta , Lipsiae, 1879. LABEO, n ° 14, pag . 111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 25 : tuttavia non pare che il medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù . 8 cetto latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie co munanze . Questi due stadii nella formazione di Roma primitiva , di cui non si tiene sempre sufficiente conto , sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto Pomponio , secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla divisione della città in curie su bito dopo la fondazione di essa , ma vi sarebbe invece addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate » , cioè quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune (1) . 8. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della comunanza romana in questo suo primo pe riodo di ingrandimento , sarebbero dalla stessa tradizione ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella dei fonda tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale , i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum , come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum . L'origine di questo ultimo elemento è incerta , ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in prossimità del sito , ove Roma fu edificata , Cosi intesa la formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però non toglie, ed ( 1) POMPONIUS, L. 2 Dig. ( 1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città , che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacer dotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto , che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina , fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato , spiega il carattere che Roma ebbe poi sempre a ritenere di città eminentemente latina , in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo , dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum , in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina , fu anche foggiata sul modello delle città latine , e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventò fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio . È però naturale, che questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confe derazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù , che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch , Les origines du Sénat Romain . Paris, 1883, pag. 13 e seg ., e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines. Paris , 1886, pag. 5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74 , § 1, Cod. Theod . 12, 1 . « Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata . Vero è che questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio dalla critica contemporanea ; ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la co munanza colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze , e che non fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate , come era della città palatina (1). Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio della divinità patrona comune siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gli edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica ; edifizii che al tempo dell'Impero già erano considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto , ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai aveva cessato di esistere . 10. A questo periodo però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro , in cui cominciò ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città , la quale, fortificata e chiusa in se stessa , apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano per una simile trasformazione. Conveniva anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si facessero sottentrare altre distinzioni, le quali so stituissero al vincolo genealogico il vincolo territoriale , e che gli elementi diversi, che erano entrati a far parte della stessa comu nanza politica e militare , fossero anche stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti (2 ). (1) Dion., II, 37. Cfr. MIDDLETON , Ancient Rome, pag . 58 . (2) FLORUS, III, 18: « Quippe cum populus Romanus Etruscos , Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est » . - ll - Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco , già cominciano a delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato , secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del pa triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette li mitarsi a fare entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò , che gli viene attribuito di aver raddop piato il nu mero delle Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli equites , aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses , Luceres primi le tre dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con aggiungere ai patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già era incominciata sotto Tarquinio Prisco . 11. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio , che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e tributaria , per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in classi ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta , che fu dal nome di lui chiamata Serviana , i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimo strano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger , che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle plebs, ormai già fatta numerosa , che con Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit. e loc. cit., pag . 81 e seg . 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiri tium ( 1). È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popo lazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne ilpomoerium . È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina dome stica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza . Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica , conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti. Tuttavia , anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione , ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato . Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica , a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbando nato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città , i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio , poi per tutta l'Italia , e da ultimo per tutto il territorio dell'impero . 12. Se ho insistito alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella for mazione delle città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen , ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii fu modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica , mentre lasciò che le genti e le famiglie con ( 1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI, Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia . Gennaio 1887. - 13 tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio , alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La sua formazione pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un processo di selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo . Qui basterà il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto il Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà di Roma fu una proprietà collettiva come quella delle gentes , ciò che è smentito as solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel po polo , che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo , che in tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico , nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento, che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via . È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta dal Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della città . Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc. cit., pag. 77 , ove dice che le genti erano incorporate tali e quali nello Stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato » ; il LANGE, op. cit ., pag. 37 e seg ., ove con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano; 14 - 13. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ebbe già ad esser iniziato dal Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esa minate col sussidio della critica . Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina , è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare , accanto alla vita patriarcale e gentilizia , quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia , ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale ; solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia , ed è in tale intento che essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto pubblico e privato . Una volta poi che quest'opera è iniziata , Roma, con quella tenacità di proposito , che è sopratutto propria del popolo romano , non si arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città , di colonie, di provincie orga nizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città . La qual opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo , a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni pubbliche e private di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit, trad . Courcelle Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitiva » , il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando si discor rerà della costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo senato , dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito , dei suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è il Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie . Vi hanno quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici , che sono collegati con essa , e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere ; perchè trattasi (1) Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa , sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne derivò che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru zioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intel ligenza di Roma primitiva . Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica , della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia , dei suoi mo. numenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa , che vi sono autori che, se guendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cerca rono di inferirne gli stadii della sua formazione progressiva , come tentò di fare il Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des institutions romaines, Paris , 1886 ; altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come sarebbe quello del Senato , come il WILLEMS, Le sénat de la république romaine, Paris, 1878 , 2 vol. , come pure il Blocu, Les origines du sénat romain, Paris, 1883, od anche quello dell'or dine dei cavalieri, come tentò di fare il Belot, Histoire des chevaliers romains, Paris, 1866 , 2 vol. — Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come il Vico ed il Niebuur, ne ricercarono la storia nelle lotte degli ordini, che entravano a costituirla e nello svol gimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Esso formò il pensiero costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giurecon sulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, < ... disiecti membra poetae » potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura . Henriot, Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, Paris, 1865 , 3 vol. 16 d'un argomento che aveva un carattere pressochè sacro per il po polo Romano, e in cui concentrava tutta la propria vita , per guisa che esso continuò sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio . Hanvi invece le tradizioni, che si riferi scono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accom pagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che dånno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero , come osserva il Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte delle altera zioni, che furono causate dal partito diverso , a cui appartengono gli scrittori (1), ma siccome trattasi di istituzioni, che ebbero un pro cesso storico non mai interrotto , cosi egli è ben più facile di rista bilire la verità , che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. (1) È da vedersi al riguardo Bonghi, La fede degli storici superstiti di Roma antica , capitolo desunto dalla 2a parte del II volume, che anche ora non è pubbli cato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rirista storica italiana. Torino, 1886. Fascicolo 1º, pag. 25 e seg . - 17 - CAPITOLO II. Il patriziato e la plebe in Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è , che nella popolazione della medesima cominciò fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patriziato e la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo avrebbe aperto un asilo , ove si potessero rifu giare coloro, che per qualunque ragione avessero dovuto abbando nare la propria città . Ciò farebbe credere che la distinzione fra il patriziato e la plebe fosse in certo modo nata con Roma, quando non fosse certo , che cotale distinzione già esisteva in altre città , e non vi fossero formole antiche , che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes (1). Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di affidare ai plebei la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela dei padri, il che sarebbe anche con fermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo , secondo cui i senatori sarebbero stati chiamati patres, in quanto che erano incari cati di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus) (2). ( 1) La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento im portantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase « quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse » formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore delle proprie leggi. Quella formola dimo stra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza , per qualche tempo ancora i due voca boli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, pag. 51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887. (2 ) Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato in greco e nella traduzione latina nel Bruns, Fontes, pag. 3 e nota 2. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo che il patriziato e la plebe, anche quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo , il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comu nanza di tradizioni, nè il diritto di connubio . — Mentre il patriziato si presenta colle tradizioni di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e debbono forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico ; la plebe invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e diorigine probabilmente diversa ( 1). Essa ha pochissima importanza negli inizii di Roma,ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a differenza del patriziato , può continuamente acco gliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio la plebe non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col patri ziato , ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto pubblico che di diritto privato, e dalle discussioni, che seguono fra idue ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si ritenevano i fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la plebe era un elemento , che trovavasi in condizione inferiore e che per la maggior parte era sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del patriziato , pretendere ad un pareggiamento completo . Quelli avevano un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo : a Patres senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis » . V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep., 2, 9 : « Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam » rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 59 ed il Padelletti, Storia del dir . rom ., pag . 19 , sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città , ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello Stato ,avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare » . PADELLETTI, op . e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd ., pag. 10 . 19 -- clientela ( 1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii, allorchè trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini , non conosceva ancora la famiglia or ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui le unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae nuptiae, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto ; ma erano semplici matrimonia , in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto dalla cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere una comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio : rogationem promulgavit, qua con taminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da ultimo una differenza importantissima consisteva anche in questo , che solo il patriziato possedeva gli auspicia , cosicchè tutti gli atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur avendo una religione e feste ( 1) Gellio , Noc. Att., 10 , 20 chiama la plebe quella parte della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non insunt ». È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe ( X , 8 ) gli oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del patriziato: « semper ista audita sunt eadem : penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc. » . Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice ; —o queste gentes potevano derivare dalle popolazionidelle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia , il che cominciò ad es sere possibile dopo le leggi Licinie Sestie, colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una gens Minucia, che sarebbe stata plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori recenti sull'ar gomento sono da vedersi il Voigt, XII Tafeln , Leipzig , 1883 , I, pag . 262 e seg . e il KARLOWA, Röm ., R. G., I, pag . 36 e 37. (2 ) Liv ., Hist., IV , 1. - 20 popolari, non possedeva gli auspicia , nè aveva un proprio culto gentilizio (sacra gentilicia ). Queste differenze erano tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, era pero naturale , che essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. 17. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire , che in Roma primitiva la superiorità , che si attribuiva il patriziato sulla plebe, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale , ed era prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promi scuità primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Esso sapeva indicare i proprii antenati, aveva con servato gelosamente le proprie tradizioni, ed era già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più erano le gentes, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città , in cui provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge, espressione della volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie , ma chi tenga conto della umana natura , che in questa parte non sembra ancora essersi modificata , non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima : prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del vantaggio , che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile . Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica , pº Nobility , ove il patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des Romains. Paris, 1870, I, pag . 10, ove parla del patriziato come di un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India . Cfr. Muir HEAD, op. cit., pag. 5-8 . - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto , di quello cioè della proprietà quiritaria , riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica , e perfino l'ammissione a quegli auspicia , a quei sacerdotia , e a quella scienza del diritto , che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei ( 1). 18. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e della plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi nell'organizzazione gentilizia . Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente , che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col patriziato . Quindi è che nè i clienti, né i servi come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile; poichè i primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici salutatores, ed i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto . La questione limitasi pertanto al patriziato ed alla plebe , ed è quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cið non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione del patriziato e la composizione della plebe , non pud certo affrontarsi il problema della origine delle due classi. – Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che esistevano fra di esse negli inizii (1) Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte dal LANGE, Hi stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218. I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel cap . I, Le assemblee elettorali, p. 1-135 . 22 di Roma, la superiorità pressochè incontestata dei patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei nei primi tempi della città dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ebbe a tro varsi ; ma dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica , la cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di orga nizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una di stinzione, così altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine Aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo , sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certa mente rannodarsi ad una divisione ben più antica , e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità , che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a sta bilirsi in un determinato suolo , e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri aveano prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi granti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popo lazioni germaniche invasero l'Impero Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza , che ci ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di connubia more foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una prote zione giuridica e di una forte organizzazione sociale (1). Dovettero ( 1) Sono sopratutto i poeti latini, come interpreti delle primitive tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo , in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta , che l'Henriot ebbe a fare dei testi dei poeti latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo : Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris, 1865, 3 vol. I testi, che ram mentano la presunta età dell'oro, si possono vedere nel tomo I, pag. 5 a 7 e quelli relativi all'imperio della forza da pag . 32 a 38. È poi notabile come tutti i poeti accennino al concetto di un diritto naturale, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine delle leggi. 23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo , e furono questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa aristocrazia , che comprese i padri nella famiglia , i pa troni nella gente e i patrizi nella tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia po tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che meritava dapprima anche di essere considerata come tale ; ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata , i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende i servi nella famiglia , i clienti nella gente , ed i plebei, che cominciano a compa rire colla tribù . Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro , e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si cambiano in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i servimano messi dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti senza patrono formano il primo nucleo della plebe . Padri, patroni e patrizi sono i sedimenti successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle terre, dei primi organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti ed i plebei rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo stabilimento delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati ed escludere qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo ed essere indi pendenti dal patriziato , appartennero probabilmente alla classe dei servi e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac certavano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del resto non era intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a divinità i proprii antenati) (1) ; mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una abbie zione pressochè servile , da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd fra le due classi vi ha questa differenza , che la prima tende a tir coscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica , eome era l'organizzazione genti lizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti ; mentre la plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa pud accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù , gli emigranti che non siano ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie , ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela . Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine , la grande differenza è questa , che nelle origini solo il patriziato ha una vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima cheuna posizione di fatto . Il patriziato e il popolo da esso costituito è un ordine ; mentre la plebe non è che una moltitudine , una folla non ancora or ganizzata ; quello ha tradizioni militari , religiose , giuridiche , mentre questa non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di for mazione del tutto recente ; quello ha una religione gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli antenati, mentre questa non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbiso gnano di ricevere una forma religiosa . Ben si comprende quindi, che la distanza era grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad en trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricer care più particolarmente l'organizzazione già formata del patri ziato , e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la plebe. (1) Liv., X , 8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos ! » . 25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione gentilizia . sl. Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai diversi gradi della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre  , in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili , e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione , che vennesi ope rando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione gentilizia . Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di privata violenza , che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il ehe sembra essere più probabile ; ( 1) L'enumerazione delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi nel Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II, pag . 472 a 512. (2) Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determi nare la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi alle varie stirpi. 26 questo in ogni caso deve aversi per certo , che è in virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul medesimo modello . Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di dissoluzione ; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e politico, dal quale è assai difficile sce verarlo . Ciò non ostante dalle vestigia , che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse , tutte stretta mente connesse fra di loro. Esse sono : la famiglia fondata sull'a gnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela , e da ultimo la tribú , in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe (1). 21. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia abbia prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente , o dalla tribù; ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito , in cui le stirpi Arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia (2 ). Qui perd non sarà inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di con gettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, p. 121 , ma non è invece quella seguita dal Leist, Graeco- Italische R. G., § 18 a 36 , il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altret tante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. (2) Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non defi nita , fra il SumnER MAINE, Early law and custom , London, 1883 , c. VII, pag . 192 a 232 da una parte, ed il MORGAN ed il Mac-Lennan dall'altra , come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER , Principes de sociologie, II, pag. 317 a 348. 27 strato dal fatto , che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet tere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti (1). Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città , la gente invece è il gruppo intermedio , che då giusta mente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione genti lizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gli altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La gens infatti è più forte e nume rosa della famiglia , perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo culto , e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di ori gine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune , può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla . La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam biarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza , perchè è la consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, dånno origine alla tribù , la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e politica . I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si ven gono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello , che è quello del gruppo patriarcale , e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appa riscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr. Willems, Le droit public romain , 56 édition. Paris, 1883, pp. 25 , 30 , 31 e 48 . 28 conseguenza , che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e politica , compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di convivenza civile , colla diffe renza tuttavia , che nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile e politico , mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente pa triarcale ( 1) 22. Cid premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cid sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ebbe ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia . $ 2 . La famiglia come parte dell'organizzazione gentilizia . 23. Per quanto sia vero che la famiglia , quale presentasi più tardi nel diritto quiritario , sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia . Fra gli altri argomenti l'importantissimo è questo , che una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare , che presuppone una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di patres indicava sopratutto i capi delle famiglie patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci ( 1) Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degli Arii, alla gens romana ed al révos dei greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento , mi rimetto alla mia opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880. Lib . I, cap. I, ed all'opuscolo : Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza civile e politica . Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine Aria , oltre le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm . Königszeit, Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso provano eziandio le nozze con farreate , certamente proprie del patriziato , che nelle leggi attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si po tevano contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere originario , ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica , diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci , e che perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul vincolo del sangue . È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana sembra , almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per guadagnare in forza ed in potenza , unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del padre, era una conseguenza logicamente inevitabile , che come il padre prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia , cosi l'agnazione, ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse prevalere nella composizione diessa . È in questo senso , che la famiglia primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il primo anello e come ilnucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia . Essa infatti ha una costi tuzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto le cose , che ne formano il patrimonio , dipen dono esclusivamente dalla potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il padre, nel cui potere essa trovasi unificata , la famiglia è un vero corpo vivente , che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a tenere (1) Dion ., 2 , 25 e 2, 63, il cui testo è riportato dal Bruns, Fontes « Leges Re giae » , pag. 6 e 9 . 30 indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume ro. mano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio « ercto non cito » le quali significano in sostanza che non si dovesse pro cedere alla divisione immediata del patrimonio (1). In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia , e si ha così quella famiglia in largo senso , di cui ci parlano ancora i classici Giureconsulti, che la chiamavano « familia omnium agnatorum » . Questa indivi sione dovette certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della pa rola , che comprende tutti quelli che sono soggetti alla patria potestà, venne delineandosi una famiglia più vasta , che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto ( consortium ), stante l'indivisione del patrimonio . Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cam biato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che (1 ) Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche « ercto non cito » e ciò in base a quello che ci attesta Servio , il quale interpre tando questa espressione, dice appunto, che essa significa « patrimonio vel hereditate non divisa » , Serv., in Aen ., VIII, 642 (Bruns, Fontes, pag. 403). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù della quale , secondo l'attestazione di Gellio : comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium , quod iure atque verbo romano appellatur cercto non cito » . - Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola testamentaria , con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò, che ercto deriva certamente da ercisco e cito è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente » . Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin , Paris, 1886 , pº Ercisco e Cieo . Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato dal KARLOWA, Röm . R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum , lib . I, cap . 19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent » . È questo forse il motivo, per cui presso i Romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per in tiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato nel seguente capitolo ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio > . della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente (1) . 25. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva , vuolsi sempre aver presente , che essa non è già un orga nismo isolato , ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto . Diqui la conseguenza che quel potere del padre , che giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico , che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù , per guisa che i temperamenti, chenon vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organiz zazione gerarchica , di cui la famiglia entra a far parte . È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta , il testamento , che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento , colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia , che entrano a formare la gente e la tribù ; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio , in quanto che l'una e l'altra , sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura , mirano però fino all' evi denza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella ( 1) Leg. 195 , $ 2 e 196 , Dig ., De verb . signif. (50, 16 ): « Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum , nam , etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt » . Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica , che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conservò però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo del prof. SEMERARO , Enciclopedia giuridica italiana , vº Agnazione, vol. I, parte 2*, pag . 720 . 32 linea agnatizia ; il che può scorgersi ancora nella legislazione de cemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di succes sione e di tutela , che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio . — Quanto al testamento , esso era certa mente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che esso , dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente , dovette invece servire per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio , in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli, dal vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo ; dal quale, secondo Festo , sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium , che avrebbe significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era ( 1) Da quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà , in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium , e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia entrava a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva certo essere applicazione del principio : a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita ius esto » , ma doveva mirare sopratutto all'ercto non cito . Il testamento esisteva ,ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto , nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo : La saisine héréditaire en droit ro main , Paris, 1880, da lui pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit fran çais et étranger, ove, combattendo il Maynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità , senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione genti lizia prima esistente, idea , che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le pa role con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano ( familia rustica , familia ur bana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carat tere speciale alla vita economica dell'antichità e cooperò a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota il Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè i servi erano impie gati non soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tendeva a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia affer marsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale ( quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti ( 2 ) . e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi il PERNICE, M. Antistius Labeo , Halle, 1873, I, pag. 110 e seg., ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer , Leipzig, 1879. Erster Theil, pag. 133 a 191. (2) Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabo lario giuridico, di agere, che, secondo il BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare » , e si applicava sopratutto al gregge ; quello di grex talvolta applicato al popolo ; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii ; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale ( Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia , di peculium , di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE ( Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare : « Romanorum populum a pastoribus esse ortum , quis non dicit ? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum , quod est flatum , pecore est notatum » . Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù , e poscia nell'ager pubblicus della città , la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium . Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34 27. Del resto quello , che qui importava, era sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia ; poichè essa, fra le isti tuzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conservò più lungamente il suo carattere primitivo . Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose , che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio . La sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimo nianza dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici , siccome accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento , che per il patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei ca ratteri della famiglia del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla (1 ), in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze , a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia , di cui era entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano ; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica , religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensi bile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero lo SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pa storale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizza zione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patri ziato romano ( V. SPENCER , Principes de sociologie, Paris, 1879, II, pag. 338 e seg .). (1) Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine , che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER , op. e loc . cit. - 35 - $ 3 . La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia , quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica , viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica , ad essere sottoposta ad un processo di dissolu zione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo , quelle cioè che avevano un carattere politico o militare o legisla tivo , finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città . A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità del Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio , a cui diede una interpretazione che non può essere ammessa , pose gli investigatori della storia primi tiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della città (1). Per tal modo l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR , Histoire romaine, trad . Golbery, Paris, 1830, Tome II , ove parla : des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie , pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione genti lizia nella città, concetto , che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva , per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù , queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA, Röm . R. G., I, § 2, il quale continua ad essere intitolato : Das Volk und seine Glie derungen (tribus, curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes ; ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione, $ 23, pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit public romain , Paris, 1883, pag. 36 , che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes . Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus hominum , il che significa solamente, che nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36 città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in una via , che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii , che si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di organizzazione sociale , che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente , era poi stata trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche ( 1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di Dionisio , il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV , p. 96-104 , 1874). Si può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali , essendo un ampliamento della fa miglia , comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non provata , almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib. II, ediz. Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V , p. 269 , ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag . 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci,ma anche presso i Barbari. Plato , Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto , lib . I e II, e sopratutto a pag . 90 e seg .) i 37 esse più di tutte le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico . Di qui la conseguenza, che, a parer mio , i veri caratteri dell'organizzazione per gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive genti del Lazio , che non nella stessa India, ove l'elemento religioso preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la gente, anzichè essere una divisione artificiale della città , deve invece es sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione gentilizia . Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria potestà , maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato origine a tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la gens nel se guente passo di Festo : « Familia antea in liberis hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias ; unde familia nobilium Pompi liorum , Valeriorum , Corneliorum (Bruxs, Fontes, pag . 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt, Die XII Tafeln , Leipzig, 1883, II, pag . 760. In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro . Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus , loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita . Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia , da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare , secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare , che in tristi circostanze ap pariva ardua alla intiera città. 30. Non è dubbio tuttavia , che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio , probabilmente chiamato here dium , che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo . Di qui la conseguenza , che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso ; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare . Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva , in allora venivano ad esservi altrettante famiglie , di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia , e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum , finchè il loro patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità , allorchè questa divisione era seguita . È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata , per distin di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag. 8 e segg. - 39 guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto . Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead , che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gli artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio , che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe . Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale , come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato , ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente (1) . C ( 1) Che l'ordine degli agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell'Historical Introduction . Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati , ove il giureconsulto mentre dice che : lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur » , usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit » , espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente , che qui il giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD , converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve 40 31. La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile , che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia , finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato . Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è sempre conservato , ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen , che ne costituisce in certo modo la caratteri stica , ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa pianta . Cosi accadde, ad esempio, della gens Claudia , la quale già numerosissima conservava ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il punto , in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della gens Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cercava di imitare l'antica or ganizzazione gentilizia , si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela , che stringeva l'antenato, da cui parti la forma zione della gente plebea, ad un'antica gente patrizia . 32. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto ; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia ; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento , discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 15 e seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo , che, ad una compattezza pressochè uguale a quella della famiglia , accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria , e come in essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse , ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive , di fronte alla potenza assorbente della città , finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio Tullio , le genti invece per . durarono per parecchi secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà , come lo dimostra il fatto , che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza . 33. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè : 1 ° alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto , e nel sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a costituirla , per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe . Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza eziandio , che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude certamente , ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò , che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però , che il vocabolo patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava l'individuo, l'altra che era il vero nome (nomen) designava la gente , a cui egli appar teneva in quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva le diverse famiglie , e la terza infine ( cognomen) designava la famiglia, in quanto questa era una particolare diramazione, della gente (2 ). A queste appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis : « Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur » . Bruns, Fontes, pag . 339; VARRO, De lingua latina, VIII, 4 : « Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis ; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales » . Bruns, Fontes, pag. 389 ; Isiporus, IX , 2, 1 : « Gens est mul. titudo ab uno principio orta , appellata propter generationes familiarum , id est a gi gnendo uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409 ; CICERO, Top. 6 : « Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt. Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Qui capite non sunt deminuti » . V. anche Liv., X , 8 . (2 ) Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885 ; e sopratutto la trattazione veramente magistrale del Mar QUARDT, Das Privatleben der Römer, Erster Theil, p . 7 a 25. Ivi egli nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen , come gli Antonië, i Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13 , not. 2. Quanto agli esempi citatinel testo a pag.40, è pare a ve. dersi il Bonghi, Storia di Roma, I, Appendice sulle primitive genti patrizie, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia , pag. 490-91. 43 uno o più soprannomi (agnomina), che servivano a contraddistin guere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra fa miglia , o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistin zioni operatesi nella stessa famiglia ( 1). Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i sopran nomiprimitividi Regillensis, Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb besi un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma fu veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto questi caratteri particolari della gens sono anche com provati dalla radice gen, comune alla gens latina e al révos dei Greci, che significa generare e produrre; come pure da ciò , che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepul chri sono di carattere eminentemente privato . Così è pure dei sacra gentilicia , i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata , che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pub blica, che si compiono invece a pubbliche spese (3 ). Solo sembra far eccezione il ius decretorum ; ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato , il medesimo pud facilmente essere spiegato quando si consideri, che la gente aveva compiuto un tempo funzioni politiche, che non po terono scomparire di un tratto anche colla formazione della città (4 ). (1) Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT, op. cit., p . 15. (2 ) VARRO, De ling. lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non , ut debent, habent » . BRUNS, pag . 387. (3 ) FESTUS, p Publica : « Publica sacra , quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata , quae pro singulis homi nibus, familiis, gentibus fiunt » . Bruns, pag . 358 . (4 ) I casi ricordati dalla storia , in cui le gentes si sarebbero valse del ius decre torum , sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò ai suoi membri il celibato e la esposizione degli infanti (Dion. IX , 22 ) ; la gens Manlia proscrisse il prenome di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia quello di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però fu il Senato, che prese simili prov vedimenti, vietando il prenome di Marcus agli Antonië (Plut., Cic., 19), e quello 44 35. È invece assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico . Non si può anzitutto accertare, se la gens avesse sempre e costantemente un proprio capo (princeps gentis) (1), o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio , Atto Clauso avrebbe abbandonato Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo , che la gente dovette avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conservava e trasmetteva le tradizioni della gente . Era nel suo seno , che si sceglievano gli ar bitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla mede sima gente . Era questo consiglio parimenti, che sull'ager gentilicius faceva degli assegni di terre ai clienti, ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie che si formavano nel seno della gente ; era ilmede simo ancora , che poteva richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche dei dipendenti da essa (gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra intendeva alla pubblica e privata condotta dei singoli capi di famiglia, preveniva e reprimeva gli abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio che i capi di famiglia , contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni (bona paterna avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano trasmet . tere ai proprii eredi. Era la gente infine che , in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones ( Tac., Ann., III, 17). Partivano eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à Rome, Paris , 1886 , n . 114 , p. 97, dove dice che la gens conservò il suo sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto l'impero. Fu al lora che incominciarono i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore ($ 118 , pag. 99), mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia , e quindi proba bilmente anche al sepulchrum gentilicium , essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi il Voigt , Die XII Tafeln , II, pag. 771 e seg ., ove parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45 - fani prima di essere pervenuti alla pubertà , come pure doveva es sere essa , che facevasi vindice delle offese , che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo fra i membri della gente esisteva l'obbligo della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie , e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati (1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, sarà facile il comprendere come un gruppo così intimamente connesso , unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte , nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città (2 ). Esso continud, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie , come lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di gentilicius, l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius, quelli dei sacra gentilicia , del sepulchrum gentilicium , per modo che, anche prima del for marsi della città, dovette svolgersi tutto un ius gentilicium , che governava appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio . Esso quindi non deve confondersi col ius gentilitatis , che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il ius civitatis indicherà poi i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio , che il vocabolo di iura gentium , che poscia ebbe a prendere un così largo svolgi mento, dovette nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle mede sime ( 3 ) . (1) Quanto ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II , pag . 774 . (2) La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ , Institutions romaines, pag. 7 in nota , come pure nel WILLEMS, Le droit public romain , pag. 36, nota 4 . ( 3) Fra gli autori recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium , sono a vedersi sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag . 35, il MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium , che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipen denti da essi o gentilici , il ius gentilitatis che significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i iura gentium , che governano i rapporti fra le varie gentes . - 46 $ 4. – Il patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia . 36. Fra gli istituti di questo ius gentilicium , quello che più me rita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela , essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza , a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I clienti, durante il periodo storico , costituiscono una classe in feriore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda (1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario , sono indicate coi vocaboli di patrono e di cliente , il quale ultimo vocabolo , secondo l'opinione ora general mente adottata , deriva da cluere, che significa audire nel senso di essere obbediente (2). Come tali , i clienti entrano a far parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles ; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in una posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei famuli in seno dell'organizzazione domestica . Essi non partecipano al ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il patrono ed il cliente , attribuendo l'istituto della clien ( 1) Cfr. Willems, Le droit public romain , pag . 26. Non potrei però convenire in ciò , che egli considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore , perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico , che bastasse ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono , mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica . (2 ) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vo Clueo . (3 ) Cfr. MUIRHEAD , Encyclopedia Britannica, vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo stesso Romolo ; ma egli è evidente , che anche la sua descri zione già altera alquanto le primitive fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e si era svolta nell'organizzazione gen tilizia . Secondo Dionisio , il cliente aveva delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto ; deve ac compagnarlo alla guerra ; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa sioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia , ed anche quelle dei sacra gentilicia . Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell'ager gentilicius , proprietà collettiva della gente ; il che non rende esatta ,ma spiega l'antica etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati « quasi colentes » ,perché avrebbero coltivate le terre dei padri (1). Infine Dio nisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela , adatta al gruppo gentilizio, veniva ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica (2 ). Alla sua volta poi il patrono doveva al cliente protezione e di fesa , e quindi era tenuto a provvederlo diciò , che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia , il che facevasi me diante concessione di terre, che il cliente coltivava per suo conto. Esso doveva di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio , apprendergli il diritto (clienti promere iura ), ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo (1) È Servius, In Aeneidem , 6 , 609 , che vuol derivare il vocabolo di clientes da quasi colentes in quanto che scrive : « Si enim clientes quasi colentes sunt, pa troni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere » . Bruns, op . cit., pag. 403. Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata . (2 ) Diox . 2 , 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispet tive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag . 4 . 48 modo in considerazione di membro della gente, ancorchè in con dizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente veniva bensì dopo gli agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo ( 1). Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuri dica, erano collocati sotto la protezione del fas come lo dimostra la legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus clienti fraudem fecerit, sacer esto » , ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii avevano un carattere ereditario . Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio , ancorchè in posizione diversa , cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio , condizione anche questa, che , consentanea al carattere dell'organiz zazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica , ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità , che accorda a tutti la propria protezione (2 ). 38. Basta questa breve esposizione per dimostrare, come la clientela fosse un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continuò ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti nella città , ove tuttavia si trovò compiutamente disadatto , perchè ripugnava a quell'uguaglianza di posizione giuridica , che deve esservi fra coloro , che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che tro vansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza , che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si ( 1) MASURIUS SABINUS, « In officiis apud maiores ita observatum est; primum tu telae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato , postea adfini » . HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, yº Patronus. « Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus sit , manifestum ; ut quia ut liberi , sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt > ; Bruns, pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische R. G., I, pag . 39. 49 attennero ancora strettamente alla propria organizzazione e rappre sentarono in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima città ; ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusci solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto ; senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario , che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l'homo novus nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo , e diventarono anche semplici salutatores ; il che tuttavia non tolse , che il vocabolo cliente sopravvivesse alla istituzione da esso indicata , e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono aveva certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompariva nei rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cit tadini Romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gen tilizie, col quale un individuo, un municipio , un Re od un popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino Romano per far va lere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere (1) . Così pure nell'interno della città , la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica , continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo delle elezioni, nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai scomparso . (1) Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. 1, 39, ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET, vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela . Les institutions politiques de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che rivestiva il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia . Le formole epigrafiche, da lui citate in nota , si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somi glianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clien tela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa potesse anche essere analoga a quella ricostrutta dal Voigt. « Te mihi patronum capio . At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50 39. Quanto alla clientela , fu sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa . Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gli im migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo ; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta in nanzi dal Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei liberti verso il patrono (1) Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia , sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che , se cosi non fosse stato , i servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica . Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea , che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa , e tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere na turale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costu manza per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o gentilicii nella gente . La clien tela in tal modo veniva a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo , e si comprende eziandio come la sua coabitazione in una famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente , (1) L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che ebbero a professarle , occorre nel .WILLEMS, Le droit public Romain , pag. 28 ; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom ., pag. 9. - - 51 - 40. È in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato ; ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo , che è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta creata la configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si poterono poi fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro tezione o difesa di esso . Come quindi era stato naturale , che il servo affrancato dal capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso apparteneva, così dovette pure essere naturale , che una volta creato il rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi nella medesima anche gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente, vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa , che ne diventava il patrono ; quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza ; quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di terra e riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia , assegnando perd ai medesimi una posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la clientela fosse una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale , poichè serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di diritto , e quindi, mentre da una parte accresceva il numero e la forza delle genti, dall'altra procurava al cliente una protezione giuridica, di cui sa rebbe stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente (1) Questa più larga estensione data all'origine della clientela ,che, senza escludere l'opinione del MOMmsen, la comprende , sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio, V , 13 : « Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt » . 52 destituita di fondamento la potente intuizione del nostro Vico , il quale riteneva che la clientela o come egli la chiama il famulato fosse un mezzo indispensabile per giungere ai governi civili , in quanto che essa fu effettivamente il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un gruppo , a cui non appartenevano per nascita, senza tuttavia essere assorbiti in tieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi (1) . Non può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia , il com parire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù , donde la conseguenza che la città for mandosi soffocherà la clientela , mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia . $ 5 . La tribus come il gruppo più ampio dell'organizzazione gentilizia . 42. Al disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti Italiche un'aggregazione più vasta , che è quella della tribú , come lo dimostra il fatto , che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita la città di Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori alla città, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni eser citate , era tra le varie aggregazioni quella , che più si accostava alla città propriamente detta , così è anche quella, che per la prima fu assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse (1) Vico, Seconda scienza nuova , Lib. II . Della famiglia dei famoli innanzi delle città , senza la quale non potevano affatto nascere le città . Op. comp. Ed. Milano, 1836 , vol. V , pag. 296. 53 conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle sei centurie degli equites (sex suffragia) composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi (1). 43. Gli è perciò che come fu assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia , cosi non è meno dif ficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda . Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una gente preva lente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome com plessivo, il quale percið era ricavato dalla persona, che guidava la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita . Così, per arre starsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio accertata , si può essere certi, che la tribù dei Ramnenses ricava il proprio nome complessivo da Romolo e da Remo, che erano a capo di essa, se condo la tradizione ; il che è pure di quella dei Titienses, il cui nome deriva da Tito Tazio capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale ; nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens Romilia , Titia è Claudia , le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Ti ties o Titienses, e dei Claudienses. (2 ). Di qui pud indursi, che la (1) Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù ; ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città , nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città . Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio , desunte invece dalle località , ove erano stabilite. Cfr . CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 79 e seg . (2) Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling . lat. 55 (Bruns, pag . 378 ), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. « Ager Ro manus, primum divisus in partes tres, a quo tribus appellatae Titiensium , Ramnium , Lucerum » . Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio , da Servio , da Dionisio , che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il 54 tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggre gazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza , si raggruppano intorno al capo della stirpe pre valente fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. 44. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere oc casione a questo aggregarsi delle gentes . Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una vera e propria comunanza di villaggio , come era di quella dei Titienses già stabilita sul Qui rinale . Tanto nell'uno quanto nell'altro caso essa assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione di una divinità, comune patrona, perchè fra le genti primitive non si pud comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme (1). Qui intanto l'unificazione del gruppo diventa indispensabile , anche per l'intento che la tribù si propone di con seguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che potrà prendere il nome di praetor o di dic . fatto, che egli dopo continua con dire: « Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis , Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc. » . Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le tre tribù, dal momento che ciascuna continuava ad avere il proprio terrritorio , salvo che si trat tasse, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente ammi nistrativa , come dovette appunto essere. (1) Secondo il Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui Pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e Quirino ; quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di Quirino e di Giano e quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure diGiove e di Giano. Si può aggiungere, che della triplice divinità rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che erano quelli diMarte, di Qui rino e diGiove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe indizi dei diversi stadii, che Roma ebbe a percorrere nella sua formazione progressiva. Institutions Romaines, pag. 477 a 494 . 55 tator, se la tribù trovasi avviata ad una spedizione ; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito ; dimeddix , come accadeva presso gli Osci, ed infine anche di rex , sebbene questo vocabolo , sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città propriamente detta . Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita , che non dall'elezione; come lo dimostra il fatto , che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere gemelli debbono cono scere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città , o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo debba già trasfor marsi in reggitore della civitas, formatasi mediante la confedera zione di varie tribù , in allora , secondo Dionisio, sarà già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del popolo (1 ). Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres , perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la deno minazione di senatus. Infine nella tribù già può avverarsi la riunione (comitium ) degli uomini, che colle armi ( iuniores) o col consiglio (seniores) possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse ; donde la conseguenza , che già nella stessa tribù può ve nirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del populus, salvo che gli elementi per costituirlo si ricavano ancora direttamente dalle varie genti (ex generibus hominum ), cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio . 45. Questa naturale formazione della tribù dimostra , come la me desima corrisponda fra le genti Italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc o comunanza di villaggio , e fra iGreci col vocabolo di dñuos (2). Essa costituisce in certo modo (1 ) Dion. II , 3. (2 ) V. HAUSSOULIER, La vie municipale en Attique. Pref., 3. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il dñuos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e corrisponderebbe alla curia e più soventi al pagus, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La curia infatti è una divisione politica delle città , mentre il pagus sarebbe la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il dñuos corrisponda a quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale , perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio , da essa pero già si vengono elaborando quegli elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica , finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della civitas , il quale più non dispiegasi nel pagus come la tribù , ma bensi nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di ricostruzione, che la tribù mal pud essere stata l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città ; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in base a cui si costituiva la città , come lo dimostrano anche i vocaboli di tribunus, tributum , tribunal, i quali tutti richiamano l'antica tribù, e quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni Italiche, che l'edifizio novello della città si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo . D'altronde è noto , che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù , il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo , si venisse formando una comunanza plebea, che provvedesse al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento poteva essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro clienti fossero organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi nell'India , nella Persia , in Grecia e in Roma, vedi Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita so ciale. Lib . I e II, come pure : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica , colle opere ivi citate. ( 1) La distinzione è fatta nettamente da Dionisio (4 , 15), il quale chiama la tribù primitiva qulai revikai e quelle di Servio Tullo qulai totikaí. - 57 antiche formole , in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tra dizioni, mentre invece si chiamd plebes dapprima e poscia plebs (da pleo , riempire) quella moltitudine ragunaticcia , che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio , potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle primitive istituzioni sociali , che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive è la forma zione di un nuovo gruppo ; ma quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gli elementi, che per questo o quel motivo si vengono stac cando dall'organizzazione prima esistente , e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano aderire. § 6 . Sguardo sintetico ai varii gruppi dell'organizzazione gentilizia . 47. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche anteriore alla città , credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della pro venienza delle genti Italiche , è molto probabile, che esse già re cassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo , le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di una potente ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse 58 anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento , collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia , per rendersi atta a sostenere i con . flitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice , di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della famiglia gentilizia , che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta , che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia ; ma intanto, memore del culto del proprio antenato , custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra , aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù . Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia , salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza , e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pres sochè giuridico nel patronato e nella clientela . Così pure nella gente , accanto all'elemento monarchico della famiglia , già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico , il quale costituisce un consiglio degli anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente , che predo mina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia . Di qui la conseguenza , che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degli anziani, che già mutasi in senato , 59 perchè è già composto dei capi di genti diverse , ma intanto aggiun gesi l'elemento democratico o popolare , che componesi di tutti gli uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio . Cid però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percid più un'esistenza di fatto , che non un'esistenza di diritto . Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto delle genti; ma cið non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia alla città essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose . Per tal modo si avverò nel periodo gentilizio una vera forma zione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base alla futura città : Tantae molis erat romanam condere gentem . Non è già che questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti Italiche, in quanto che le traccie di essa ap pariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine Aria ed anche presso quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e furono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città . (1) Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit , pag. 107 a 163. È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene facendo il Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo : Cours de droit égiptien , Paris, 1884, della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, La condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886. - 60 CAPITOLO IV . La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti alla medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia primitiva di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà , che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione della città , si rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva , conosciuta sotto il nome di ager gentilicius e di ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizionitali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale (pecunia ) allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio , dall'altra la tradizione parla di una ripartizione fatta da Romolo del territorio Romano e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri (bina iugera) ai capi di famiglia, che lo avevano seguito, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio (heredium ) del più antico patriziato , che era quello della tribù dei Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di antichi scrittori che si riferiscono all'argomento : VARRO, De re rustica, 10, 2 : « Bina iugera , quod a Romulo primum divisa viritim , quae heredem sequerentur, heredium appellarunt» . Plinius, Hist. nat., 18, 2 , 7: « Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus) » . Lo stesso Plinio poi, 18 , 3, 10 scrive : « M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem , cui septem iugera non essent satis . Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto. Brons, Fontes, pag. 387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61 49. Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello Stato , ma contro questa opinione si è giustamente osservato , che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto ignota ai Romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia ne furono escluse ( 1). In senso contrario si fa perd notare, che non può ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica , che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un concetto della proprietà , che presso gli altri popoli non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opi nioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente alle seguenti. Vi ha l'opinione del Niebhur, del Mommsen , seguita anche da molti altri, fra cui noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gli altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale , che colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo Stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De rep. II, 14 » , ma in ciò è contraddetto da Dionisio , il quale parla di una di stribuzione da Numa fatta ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gli altri da Columella, De re rustica , 1, 3, 10 , « Post reges exactos Liciniana illa septem iugera , quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta » . Ho citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. (1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni del prof. Cogliolo , Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza , e a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri poteva bastare ai bisogni della famiglia , stante la coltura intensiva applicata al medesimo. - 62 singoli cittadini (1 ) ; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente pri vato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà (2). 50. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà , così la ricerca delle sue origini presso un popolo , le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e sociale . Sonvi infatti coloro che, come il Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà , vogliono trovare, anche presso ( 1) L'autore, che primo approfondì i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è certamente il Niedhur, Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà privata, e che questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione fu seguita dal Puchta , Corso delle Istituzioni. Trad. Turchiarulo, $ 285 , dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII, pag . 189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti nell'Enciclopedia giuridica italiana , come pure nel suo precedente lavoro, La gens in Roma avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op . cit., pag . 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della proprietà cominciò dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit, chap. VIII, Histoire de la propriété primitive, pag . 231 a 288. Essa poi fu allar gata dal Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives, dove si oc cupa della proprietà presso i Romani da pag . 177 a 193. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli sostiene che anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson, l'AucoC e il Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi Germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885, 1er vol., pag. 705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata già sostenuta in modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of Land-holding among the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie di una proprietà collettiva,mentre altri, soste . nitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta . Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente collettiva , viene ad essere inesplicabile come un popolo , che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto della proprietà . Dall'altra , se si sostiene che la proprietà Romana fu senz'altro una proprietà asso luta ed esclusiva , non è men vero che il popolo Romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà , quale almeno sarebbe stata formolata da coloro , che si occuparono delle forme pri mitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la gravità e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto , finché non si ricerchino le condizioni della pro prietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica . 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non sarà inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione sto rica, che governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole opera sua , ha cercato di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un ca rattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere, che l'u nico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii ( 1). (1) L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo: La propriété et ses formes primitives. Paris 1874, e la legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, pag. 4 ,il che giustifica alquanto la censura fattaglidal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE hanno tro vato molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a veri ficarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe 64 Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali lo Spencer, hanno già dimostrato , che una legge di questa natura non pud essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale (1 ). Quindi è che l'unica legge storica , relativa all'evoluzione della pro prietà , che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, sarebbe che la proprietà , essendo una istituzione eminentemente sociale, ebbe in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale . Sopratutto poi la storia delle isti tuzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della fa miglia , cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia fu certamente quello di assicurare il proprio sostentamento . Siccome perd la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale , entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia , cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini sa rebbe prevalso il regime collettivo della proprietà , quali sarebbero le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare al LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione veramente primitiva, non si potrà neppure sostenere che la forma di proprietà , che trovasi durante l'organizzazione gentilizia , sia la forma veramente primitiva . Quanto alla letteratura copiosa sull'argo mento, può vedersi il dotto lavoro del VioLLET, Précis de l'histoire du droit français. Paris, 1886 , pag. 481 e 482. L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine abbia avuta prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si sarebbe poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata avrebbe prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega , come ciò abbia potuto accadere,mentre il pas saggio può invece essere seguìto presso i Greci ed i Romani. VIOLLET, op . cit., pag . 71 e 72. (1) V. SPENCER , Principes de sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag . 717, ove egli parla « de la fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs » . - - 65 ritorio , secondo consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa miglie ; l'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di be stiame; e l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti (1). Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter af fermare in base ai fatti, che la storia della proprietà romana non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. § 2. – La domus, il vicus ed il pagus e i loro rapporti colle varie forme di proprietà . 52.Non è dubbio anzitutto , che presso i Romani le sorti della pro prietà e quelle della famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro . Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il Quirite, come si vedrà a suo tempo , entrò nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del suolo , e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro , che un solo vocabolo , quello appunto di familia , comprende le une e le altre (2). A ciò si aggiunge che è un prin cipio, costantemente applicato dai Romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale , nè alcuna corpora zione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere asse gnato un patrimonio , il quale, indicato col vocabolo generico di ager, (1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap . II, V , VI, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London , 1872 ; Early history of institutions. London , 1875. Early law and custom . London, 1883. (2 ) Questa è la significazione che il vocabolo « familia > riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere , emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo familia , coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi nel Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, 1884. Notae ad Tit. « de usufructu » , pag. 48, vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 5 - 66 può essere chiamato , secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili (1). Ciò prova fino all'evidenza , che il Romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato , che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà , che le serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento , e che questo con cetto fu da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia . Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio famigliare possa , presso i Romani, considerarsi come una creazione dello Stato, ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già prima, se appena fondato lo Stato, il primo atto che esso compie , secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata . Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma ; ma tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di questa condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente seguito dai Romani, anche nel periodo storico , che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel periodo anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del l'organizzazione gentilizia , per cui essa, a misura che giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente , viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento . Come più tardi la sede esteriore della civitas è stata l'urbs (2 ) , così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf. De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana , vº Ager publicus-privatus. Vol. I, Parte II“, pag. 604. ( 2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal fatto, che già nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes ; Paris, 1877, II, pag . 305 , come pure nel BRÉAL, Dict. étym . lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è dubbio , che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto , che con un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche mancipium , perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia , perchè comprendeva tanto i liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce anche che di questo dominium , il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella , da cui il capo di famiglia si separerà più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia , continuerà sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che costituiva l'heredium , e che nel diritto quiritario prese poi il nome di mancipium . 54. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie , provviste di un cortile e cinte da uno spazio , a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ), viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appar tengono alla medesima gente . Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo : che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città , quali erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti fra i campi (in agris); e che se essi già avevano un luogo di mercato , non avevano però sempre un luogo, dove si am ministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus (3). Cid dimostra , che se il vicus poteva svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. (1) Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti dal Voigt, Die XII Tafeln , II, pag . 6 e 7 , nota 2 . (2 ) TACITUS , Germania, XVI. (3) Festo , vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ognialtro vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che ilmedesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi (in agris), ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice « sed ex vicis partim habent rempubblicam , et ius dicitur, partim nihil eorum et 68 talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. Era poi naturale, che come le singole fa miglie in esso avevano il proprio heredium , cosi anche il vicus, sede della gente , fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti (1 ). 55. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per il mercato , ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia , sito, che probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa » ; poi trova il vicus nel seno degli oppida , e dice che comprende « id genus aedificiorum , quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa » . Tuttavia , anche nella città , il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1) L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus era poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vendeva al fra tello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota 1. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degli abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale persona giuridica fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin . I, 603; del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30 , 1). È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes, II, pag . 308. Quanto al con cetto del vicus e delle vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM W.Ross, Land holding among the Germans. Boston , 1883 , pag. 46. (2) Il vocabolo di forum è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significd il vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes, pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina , V , 145, che le genti latine « quo conferrent suas con troversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt » ; infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis intellegitur ; primo negotiationis locus ; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is , qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc .) Brons, loc. cit. Per tal modo il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito , ove il magistrato romano risolve le controversie fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare tutte le cariche della città . Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può rite nere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù . Ciò del resto è dimostrato dal fatto , che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esistevano nella stessa località . Così pure, nota il Lange , è dimostrato che il pagus Succusanus fu sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus lanicu lensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni, che com pongono le tribù (1). È poi anche naturale , che questo pagus abbia pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi compascuus, e che comprenda talvolta eziandio , oltre il sito vera mente destinato per il pascolo , anche delle siloae e dei saltus (2 ) . $ 3 . L'ager privatus, gentilicius, compascuus. 56. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che , almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra . L'ager (1) LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr . NIEBHUR, Histoire Romaine, III, pag. 112. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo , pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città , ed anche di proprietà privata . È poi degno di nota, che il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando i lati fondi permodoche, secondo Plinio , sei persone possedevanometà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dall' Imperatore, sovra cui dimorava una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipendeva più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi dell'Impero. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente nel 1880 una importante iscri zione, che contiene una petizione della popolazione del saltus all'Imperatore. Fondan dosi su di essa l'ESMEIN , sostiene che in questi saltus abbia cominciato a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, 1886 , pag. 293 a 322. V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain . Paris, 1885. - 70 si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium , se nel con tado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appar tiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium , la familia , il mancipium (1); ma siccome ogni capo di famiglia , oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale , che accanto al concetto dell'here dium si formi quello del peculium , accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium ; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii( 2).Che veramente questa forma di proprietà già preesistesse alla comunanza romana viene ad essere provato da cid , che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium , di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di herus e scrivesi talvolta anche semplicemente eres, per guisa che anche questo vocabolo in antico significava , se non il vero proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo , secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur » . Non vi ha poi dubbio , che con questi vocaboli ha eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di herctum o erctum , che significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con (1) Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo , Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft , pubblicato dal Beck in Nördlingen , pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag . 772, ritiene che l'heredium com . prenda l'hortus, l'ager , la cohors o chors, il pomatum , più tardi detto anche pomarium , e di più la casa, detta anche tugurium , che comprende il granarium , il foenilium , il palearium ecc. Ivi poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la italiana , così spesso trascurata . (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782, sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium ,mancipium e nec mancipium , 71 sorzii e delle società , che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio ( 1). Intanto la conseguenza viene ad essere questa , che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gen tilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium , l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia . Diquesti vocaboli però quello che significava meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium , ed è questa forse la causa , per cui il vocabolo , che prevarrà più tardi neldiritto quiritario sarà quello di mancipium , al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Qui ritium . 57. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non com preso negli heredia , che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non avevano una vera proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario ( 2). Dell'esistenza diquesto ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico , in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso , e della sua gente. Questi veniva di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che doveva certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca (1) Questa induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum , trova una conferma nel diligente lavoro del POISNEL , Les sociétés universelles chez les Romains, specialmente in quella parte ove si occupa del pri mitivo consortium , accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio .(Nouvelle revue historique de droit français et étranger, 1879 , I, pag. 443 a 462). È anche degna di nota l'attinenza fra i vo caboli di consortium e di consors con quello di sors, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vu Sors. Ciò è anche con fermato dall'antica espressione di familia inercta nel significato di indivisa , ricordata da Paolo Diacono 118, 8 . Cfr. in proposito i passi citati dal Voigt, Die XII Ta feln , II, pag . 112, nota 18 . ( 2) Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione dell'Esmein , Les baux de cinq ans en droit romain . (Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 , p. 222). - 72 della sua venuta a Roma, avrebbe, secondo la tradizione, compresi ben cinque mila clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandonava la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio , gli fu dato un tale spazio di ter reno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare due iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti 25 iu geri per sè e la sua gente . Questo assegno di territorio , mediante il quale fu la gente Claudia, chediede il nome a quella tribù rustica, non impedi, secondo Dionisio, che fosse eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove potesse abitare egli e la sua famiglia (1). È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium , quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova , che nell'organizzazione gentilizia era alla stessa gensod al con siglio di essa , che si apparteneva di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza , che, fra le varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo stesso che è nella gens, che si formano le famiglie , cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricavano gli heredia . Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi,i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium , e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornino all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa , da cui essi furono staccati. 58. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà , che consideravasi come spettante alla intiera tribù , e che prendeva il nome di ager compascuus, di compascua,di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia , e di communia o communalia nell'Etruria (2 ). Pud darsianzi, che un ager compascuus potesse esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la def finizione di Festo : compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis ; ma in ogni caso non vi ha dubbio , che questo com . pascuus ager certo esisteva nel pagus e già dava origine ad una ( 1) Dion., V , 40. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 283, 84 . (2) L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO: « Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso » . Bruns, Fontes, pag. 334 . 73 specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che dovevano dare gli abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo , che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura (1). Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pub blico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio , il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur , cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare im portantissimo : etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia , ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat (2 ); il che vuol dire in sostanza , che i Romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei pascua, che costituivano la proprietà collet tiva della tribù , tutta quella parte della proprietà collettiva del po . pulus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricavava qualche reddito . Del resto l'esistenza di questo ager compascuus sarebbe anche accennata in quel tradizionale riparto , che Romolo avrebbe fatto fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto ; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia ; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che fu anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente de dite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti (3 ). i 59. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza : 1. Che, anche anteriormente alla formazione della città , la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia , per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare , una proprietà gentilizia , e una proprietà spettante alla comunanza della tribù ; 2º Che di queste varie forme di proprietà , quella che predominava era la proprietà gentilizia , perchè da essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia , come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento dei compascua ; nel che può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR , Histoire romaine, III, pag . 212 ; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787 ; LANGE, Histoire intér. de Rome, pag . 150. (2) Plinio , Hist. nat., 18 , 3, 11. (3) Dion., II, 7. Cfr. NIEBHUR, Hist. rom ., III, pag. 211. - 74 - babile di quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale nella città non è che una tras formazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus (1); 3. Che queste varie formedi proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono tempe rando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridi camente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel co stume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di tem peramenti, che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia ; 4º Che quindi anche quel potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel iudicium de moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium , che era veramente de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella più tardi adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del diritto primitivo attinenti alla proprietà gentilizia . 60. Le cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo . La prima di esse sta in vedere se gli antichi heredia , ossia quei bina iugera, che Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano o non ritenersi inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della Repubblica , è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico, « Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt ,, Bruns, Fontes, pag. 391; il che è pur confermato da un passo di Sallustio , Hist. I, 9: « regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere » . (2) Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., pag . 32, il quale accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti. 75 privata colla formazione della città , noi possiamo perd affermare con certezza ; lº che questo concetto dell'heredium esisteva già anterior mente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio; 2º che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non fosse stata possibile , non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium , come pure non si compren derebbe l'esistenza certo antichissima di un iudicium demoribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio , che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti ; 3º che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio , dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla ap provazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del vil laggio ; 4º che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputavano comproprietarii sopratutto di quella parte del patri monio paterno che costituiva l'heredium , il che sarebbe in certo modo indicato dal vocabolo heres, che in antico avrebbe significato comproprietario , e che posteriormente continuò a significare la mede sima cosa mediante l'espressione più completa di heredes sui (1). 61. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e deten tore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dovette nei primitempi di Romaavere nulla di ripugnante almodo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo , che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che ap. partiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia . Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che do veva esistere nel costume della medesima ; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa , perchè non doveva occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia (1) Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur » . 76 mano la memoria della primitiva famiglia , governata dal mos pa trius, ac disciplina (1). Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizza zione gentilizia , per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera città . 62. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà pri vata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza , che il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzial mente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si com prende pertanto , che in base al costume gentilizio la proprietà vada ai figli , che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non indivi dualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia . Ed il motivo è questo , che se la legge di una città pud favorire il riparto immediato fra gli eredi, il co stume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito , come dicevano gli antichi Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira , non a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia , ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile , che la successione, quale com pare nei primitivi tempi di Roma e quale esisteva anteriormente , non ammetteva nè distinzioni di primogenitura , nè distinzioni di sesso , quanto alle persone che erano chiamate a succedere ; ma si può anche (1) Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum , tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex ... Tenebat non modo auctoritatem , sed etiam imperium in suos ; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina o . - 77 - essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente , se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza , che loro apparteneva , potessero compromettere gli interessi della gente . Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua , a cui le donne erano soggette per parte degli agnati ; tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose , e che col tempo diventò per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovarono modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico , di carattere eminentemente romano, che è la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum , non può esservi dubbio , che esse dovettero certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate , come appare da ciò che le XII tavole , nei frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più era ben naturale , che il concetto dell'una e dell'altro dovessero presentarsi naturalmente a capi di famiglia , che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra erano fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità , che continuasse il proprio culto genti lizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, erano acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia , ma intanto cosi l'una che l'altra non potevano nella medesima ser vire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa , ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla per petuazione della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea mone della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà , anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile . Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzoper. disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario ; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo , che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè , dettando il loro testamento , cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia . 66. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie , anche anteriormente alla formazione della città , già conoscevano una proprietà privata , attribuita al capo di famiglia . Ciò perd non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento , che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizza zione gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare in tegro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo , di spirito 80 così eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria , allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica ? Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta , a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità delNiebhur e del Mommsen , che lo Stato romano siasi formato mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia , cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli au tori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare il De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente seguita . Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello Stato esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale apparteneva alla gens e non alle sin gole famiglie , viene alla conclusione seguente : « Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più genti, esso sarebbe « divenuto , come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, « proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè * del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole « famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni ( fundi), rima « nendo gli altri proprietà comune ; cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà (adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la citta « dinanza (ager publicus) » ( 1). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita , mi sia lecito osservare , che anzitutto non è provato , che prima della formazione dello Stato non vi fosse che la proprietà gentilizia , e che la gente non lasciasse alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni ter reni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium , che senza alcun dubbio si applicavano al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, parte 2*, pag. 604. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute nell'opuscolo La gens avanti la formazione del comune romano, Napoli, 1872, e che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana . 81 le genti del Lazio ; poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia , e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia , o meglio a ciascun individuo, che seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di più , ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del mio e del tuo presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata , non può essere probabile che le gentes e le tribù , che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo , si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa , per starsi paghe ai bina iugera, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del pa triziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta , che siavi veramente alcun autore antico , che accenni a questa specie di societas omnium bonorum , per cui si sarebbero messi in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo , in base ad un costumetradizionale fra le genti latine, che doveva già esistere prima e che fu applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie, divise il territorio da lui occupato in parte fra i proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per ilculto , ed un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che parteciparono alla fondazione della città , dovettero continuare a te nere i proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto , che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie , che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più , ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno stesso di Romolo , a favore del popolo Romano, coi quali questo avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio ,che avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1) . Inoltre se Romolo , come dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna , sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4 , 6, e che egli attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro prietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù ; poichè è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia . Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e privata , l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata , senza confini e senza alcuna sua ingerenza , quale appare essere stata la proprietà quiritaria . Tutte queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune romano, a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito , non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre terre, salvo in parte quelle , che da esso furono conquistate sul nemico. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù , a cui ac cenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione pu ramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio , che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria , ed anche la famiglia, con cui essa appare stret tamente congiunta , non possono essere che quella proprietà e quella famiglia , che già esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia , salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione stessa , apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito ; e l'altro alla vestale Gaia Taracia , che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii; ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it ., pag. 609 e 610. Devo però di chiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandis sima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano. 83 biente in cui si erano formate . La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai singoli capi di famiglia , o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia , donde la conseguenza, che di fronte alla nuova forma zione della convivenza civile e politica , mediante una federazione fra le varie tribù , più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente col lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali , ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi terre ; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo . Del resto si dovrà più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il processo seguito nella for mazione della città , e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario . § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto , prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui, cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento del l'istituto della proprietà , che più tardi apparirà comprovato nell'or dine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro residenza gentilizia , per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso , per essere in caso di difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e pericoloso . Quanto al suolo conquistato ed occupato , è naturale che si cominci dal ripar tirlo , secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e che con tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove colonie (1). Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro capo, al culto , ai publici edifizi ; l'altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case , con un cortile ed un orto ; e l'altra infine è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia , che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico . — Fin qui però noi non abbiamo an . cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul Palatino . 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comu nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili per consiglio di queste varie tribù , rappresentati dal proprio capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È naturale allora, che il centro e la ( 1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv ., op. cit ., pag. 603 e 604 , ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo « come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi posteriori, poteva naturalmente essere attribuita , nella ricostruzione che si faceva posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo » . Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE, una invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma primitiva, come veramente è accaduta . Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso , che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv., pag . 604, nota 1 : « Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt» . Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. - 85 fortezza dell'urbs si trasportino in un sito , a cui possano avere facile accesso gli abitanti delle varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che per eseguire un simile accordo , siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non sarà punto il caso , che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù erano prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pub blici edifizii, i templi consacrati alle divinità , che la proteggono, non che l'arx o fortezza , che serve per assicurare la comune difesa . Intanto , di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im portanza giuridica , politica e militare negli inizii della città, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo . Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogan done le popolazioni e conquistandone il territorio; allora sarà na turale, che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia . Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. 69.Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne do mandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico (adsignationes viritanae) sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà , che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza ; ma poscia , di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager pu . blicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager , che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una 86 colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà , quel censo , quell'ager privatus censui censendo, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. — Un'altra parte invece sarà venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata , che possiede già il ca pitale per acquistarlo ; ed il secondo, quello cioè dato in affitto , finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre- vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia rite nuto opportuno di mettere in vendita (1). Questa parte continua na turalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensa mente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua , che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che ave vano di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo abban donata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata , ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e dånno occasione di ( 1) Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sap piamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti , fu il NIEBHUR, che loro dedicò una speciale dissertazione, che può vedersi nell' Histoire romaine, IV , pag. 442 a 474. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores i l prof. Biagio Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo , sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes, pag. 411 e 418 . Qui infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo , che i Romani ebbero ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste. 87 svolgersi alla protezione pretoria , la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso (1) . 70. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripar tizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sa rebbero dal Senato autorizzati a farla , e quindi tra il patriziato antico , a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea , e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occu pazioni e per limitare le occupazioni stesse , che col tempo minac ciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso . Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca , allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi in una turba forensis , e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di frumento . (1) Con cid non intendo però di ammettere l'opinione del Niebhur, del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò a suo tempo, che la possessio, come istituzione di fatto più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico : cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee , aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag. 348, la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupa torius. 88 71. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie , alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie , questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa , traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica per la popo lazione della città , il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli agrimen sori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita , a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una città , non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pen dente , a quelle indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio , che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager , che gli agrimensores chiamano arcifinius (1). Infine anche nelle porzioni di agro pubblico , che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius,ager vectigalis), pos sono esservidelle parti,che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli , e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum compascuae » , il che significa che essi , a somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o dipossessione privata , con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione a ques tioni fra i giureconsulti per vedere se , vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio , anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento , sul che (1) V. Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus , lib. I, 1, 2 , 4 , 5 . BRUNS, Fontes, pag. 411. 89 i giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti (1) . 72. Pongasi infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà , che la piccola tribù del Palatino,mutatasi poi nella città dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo; ma essa continuerà pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa , nella proprietà e nel possesso , nel territorio italico e nel suolo pro vinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa della città . Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia , che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e dånno anche un esempio sensibile del pro cesso semplice, ma sempre logico e coerente , che Roma ebbe ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato ,ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora cono sciuto . Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno conse guire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica po tente e pressochè celata , che senza apparire negli scritti dei giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie , trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato . Più tardi non mancheranno le occasioni di scorgere altre applicazioni di questo processo dialet tico , che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana . (1) V. Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca , propter asperitatem aut sterilitatem , non invenerunt emptores ; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae ; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis » . Bruns, pag. 414 . Frontinus poi, De controversiis agrorum , soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuo rum ) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns, pag. 415. È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli acces sorii a più fondi alienati . Bologna, 1886 . 90 - CAPITOLO V. I concetti fondamentali direttivi della vita pubblica e privata durante il periodo gentilizio . § 1 . Sguardo generale all'argomento . 73. In una organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla , che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata , che potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica . Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altripopoli, significa ormai« l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà indi. viduali » . Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo Stato organo ed interprete della volontà comune eimembri che entrano a costituirlo . È quindi inutile cercare delle leggi, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la di stinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata . 174. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale sup pone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo gen tilizio . Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di or ganizzazione sociale quella , che tende più di qualsiasi altra a strin gere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia , la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità , finisce per trasmettere , di gene razione in generazione, non solo il sangue degli antenati, non solo 91 il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto , cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una significazione re ligiosa. È questa tendenza , cheha condotto tutte le comunanze gen tilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo pro dusse fra le genti indiane, che appartengono alla medesima stirpe , quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucid nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città (1) . Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore , che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato , non è che una trasformazione di questa ten denza naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie , quando sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse . Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni ele mento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita , i cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso , come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo . È questo culto del passato, che contraddistingue le genti italiche (1) È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città aveva pur essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta , la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare della città. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al locus Vestae hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il Foro e fuori della Roma quadrata ; il che serve a provare sempre più, che la vera città , di cui doveva essere centro il tempio di Vesta , non era già lo stabilimento romuleo primitivo , ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimorava, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come custode della città, doveva pur trovarsi nel centro di essa . Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 39. 92 dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e pro fondamente critica, appena ebbero analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso , le abbellirono e trasforma rono colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse (1). 75. Questo intanto è certo , che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia , ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà , che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente , che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato , hanno già assunto un carattere sacro e religioso . Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminente mente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia , per modo che le genti italiche, sempre occupate da divinità , che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita ;mentre per i fatti di importanza mag giore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul (1) Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta veste delle formole legali ; Roma invece possedette una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato » . Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei Greci e dei Romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. Proloquium . D'allora in poi il para gone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come il Mommsen, il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata, comeil MAINE, op. cit ., il Freeman, Comparative politics, London , 1873, l'Hearn , Arian Household , London , 1879, il IHERING, L'esprit du droit Romain . Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, . ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap . I, pag . 85 e seg . - 93 tata . Di qui quella osservazione antichissima del volo degli uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio , che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile degli auspicia , che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1) . $ 2 . Del carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e del jus. 76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono la vita pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi al periodo gentilizio , noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione determinata , la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di fas e di jus, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi abbiamo una definizione conservataci da Festo : mos est institutum patrium , id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum . Qui è nota bile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale , restringendo in appa renza il contenuto del vocabolo , indica in sostanza che la parte ( 1) V. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, IV, p . 180-183; e lo stesso autore, Institutions romaines , pag . 533 a 540. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen . I, 346: « Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias » , e da CICE RONE, De divin . I, 16 : « Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur , quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant » . Per quello poi, che si riferisce agli auspicia , alle varie loro specie , alla procedura so lenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della formazione della città, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale del Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad. Girard , Paris, 1887 , pag. 86 a 135. 94 prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si riferiva alla religione ed alle cerimonie di essa ( 1). Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di fas; poichè il fas delle genti italiche è para gonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo , fini per significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso , che si riferiscono agli auspicia , al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto ( 2 ). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso , che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione religiosa . Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito più antico , vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3). Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso , comune al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis sacrificiis » . Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin , scrive: « Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag . 372. Lo stesso concetto ebbe ad esprimere il poeta Ausonio , Edyl. 12 : Prima deum Fas Quae Themis est Graiis ..., Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag . 102. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase « secundum ius fasque » , la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in un suo articolo « Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin » , pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit Français et étranger, 1883 , pag. 603, la cui conclusione è la seguente : « Pour nous résumer, le droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie « latin , et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie épique de la tête d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain ; « il est inséparable des premières idées religieuses de la race » . Questo è pure il concetto del LEIST, Graec. Ital. R. G., pag . 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist. Introd ., pag . 18 , segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice sanscrita < iu , che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo , ad ogni modo, come nota il Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. 95 cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Greci quanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro al vóuoç ed alla lex , sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ri tenessero la legge come un dono degli dei; come pure spiega quel sentimento , le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente . 77. Intanto questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specifi cazioni ed aspetti diversi. Questo concetto , secondo il Max Müller ed anche secondo il Leist, sarebbe stato dagli antichi Arii significato col vocabolo di rita , il quale esprime ora l'ordine che regge l'uni verso , col suo alternarsi del giorno e della notte , ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi (1). A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del ratum e della ratio dei latini, ed anche quello , che essi indicano coll'espressione di rerum natura , per guisa che anche il concetto di « ius naturale » nel senso che ebbe ad essergli attribuito da Ulpiano di un « ius quod natura omnia animalia docuit » potrebbe rannodarsi a questi primitivi con cetti (2 ). Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degli Arii associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere , iustitia, iudes , iurgium , iniuria e simili. Una trat tazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII Tafeln , I, cap . I, p. 97 a 125. ( 1) Leist, op . cit., pag . 187 . (2 ) Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin . II, 1, 12 , « palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt » . Questo è certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i poeti latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto naturale cominciò in certo modo ad essere sentito dall'universale co scienza , e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica , che si operò sopratutto in Grecia . V. in proposito la classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer, 4 vol., Leipzig , 1856-76 . - 96 - cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata , a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono uniti : di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex , il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi (1). 78. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata , quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio , si asso ciano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum , da cui derivò poi ratio , significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa , significherebbero i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà operosa , che muove e regge l'u niverso (2 ). Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in ( 1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt» , che Servio commenta con dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent » . In Aen . I, 269 (Bruns, Fontes, pag. 405). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal Leist con una quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera : Graec. It. R. G. ( 3) Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica , per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa . V. HUSCHKE, Iurisp . anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto romano era una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume (rite ). Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi Romani l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla consuetudine . Infine il ius è sempre questa stessa volontà divina , ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che ap partengono alla comunanza , nell'intento di provvedere alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse ; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro , così è molto difficile il preci sare la significazione di ciascuna , sopratutto nel periodo geatilizio , allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'au torità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. 79. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò , che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di usus; ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova , che queste nozioni dovet tero elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo italico , ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà . Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inoppor tuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il mos, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle co munanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso . È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica , mentre una parte continua sempre ad avere un carattere puramentemorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano i boni mores. Intanto egli è certo , che le genti italiche si presentano con questi varii concetti, già com piutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una incontesta bile prevalenza quello del fas. Fu il fas, che primo ebbe a ricevere vera elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la vo G.CARLE, Le origini del diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la . protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius pontificium , che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza , siasi sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale . Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti ita liche, ci preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos e la loro importanza nel periodo gentilizio . 80. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, ciò che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di Themis ,Nemesis , Adrasteia (1). Esso è l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte , che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio , che contiene delle norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per la divinità non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospi tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti primitive , e che poi ricompare, come hospitium publicum , dopo la formazione ( 1) Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, pag . 111 , cogli autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente . È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità , e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia , quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù ; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne l'adempimento non trovò altro mezzo , che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercitava tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa alla divinità , e quindi deve espiare il proprio fallo ,me diante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso ; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cadeva in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota , a cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo , dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario abbia dovuto fare un passo in dietro , come quello che doveva applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo ( 2). Che se il fallo sia tale ( 1) Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi la dissertazione del Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae, 1883. Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora san zione giuridica , si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico , appare dal dili gente lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma 1886, Cap. II, pag. 43 a 78 . (2 ) Cid è dimostrato dal fatto , che la distinzione fra l'omicidio commesso di pro posito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite 100 da non potersi espiare in questa guisa , in allora il reo viene assogget tato ad una specie di espiazione sacrale , la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio . Questa doveva essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica , che lo stac cava dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori delle leggi divine ed umane, per guisa che sebbene il sa crifizio della sua vita non potesse essere accetto agli dei, esso poteva perd essere ucciso impunemente da chicchesia . Di qui il carattere di espiazione sacrale , che informa ancora tutto il diritto penale pri mitivo di Roma, durante il periodo esclusivamente patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium , di consecratio bonorum , di interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osser vazione del Voigt, secondo la quale le primitive genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa alla divinità , che non agli uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale ( 1) . Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, suppo nendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto erano già nella loro età matura , vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale pri mitivo di esse le traccie della vendetta privata . Se cið intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso . Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più non può conciliarsi col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò , che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola , i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia , quando fossero com piuti per imprudenza ; mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling . lat., 6 , 4 , § 30 : « Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse » . Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup ., pag. 15 . ( 1) Voigt, XII Tafeln . I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza ; ma l'organiz zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa . Quindi, se si deve giu dicare dal diritto primitivo di Roma patrizia , sarebbero così poche le traccie , che rimangono in esso della privata vendetta , nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto della vita , ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la com posizione a danaro , almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta . La religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della privata vendetta e della composizione a danaro , le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale , come quella che era comune ad entrambe le classi (1). (1) Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla privata vendetta nel primitivo diritto Romano, havvi il MUIRHEAD , Hist.introd., pag. 52. Egli argomenta da ciò , che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza doveva fare l'of ferta di un ariete agli agnati dell'ucciso ; da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso era un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui ; dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero; dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legisla zione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere privato il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain . Trad. Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della giustizia privata e delle forme, con cui essa era esercitata . Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile; ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una privata vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal mo mento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù . 102 82. Accanto però a queste regole dell'umana condotta , che già sono munite di sanzione religiosa , sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una specie di morale primitiva . Esse vengono indicate col vocabolo di mos patrius, di mores maiorum , di boni mores, e costituiscono un complesso di norme direttive della pubblica e privata condotta , le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium demoribus, at tribuito al Pretore , e sopratutto nel regimen morum , affidato alla custodia dei censori. Anche questi mores maiorum si sono venuti formando durante il periodo gentilizio , nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides , anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero (1) . Erano questi boni mores, che da una parte contenevano in certi confini il potere delle varie autorità , le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine ; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza coloro , che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione giuridica . Così, ad esempio , furono i bonimores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei citta dini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri di Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di libe rarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di ritornare imme diatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro (1) Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro , allorchè scrive : Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem . Del resto sono diversissime le guise, con cui i poeti esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis , del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione privata, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che .. immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trovò poi la sua espressione giuridica nell' « uti lingua nuncupassit, ita ius esto » . Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole : ..... coactus tua voluntate es; ..... concetto che trovò pur esso forma nell'assioma giuridico : « quae ab initio sunt vo luntatis ; ex post facto fiunt necessitatis » . Per altri esempi può vedersi l'HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires, I, pag. 439 , e III, in princ. • . -- 103 promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica giurisprudenza,nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existi matio anche sulla capacità di diritto , e l'introduzione dell'infamia , della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona (1 ). Al qual proposito non sarà inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'ele mento esclusivamente giuridico ed il morale, che tardò così lunga mente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravi gliosa nettezza nel diritto primitivo di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e daiboni mores, continuò logicamente la propria via , e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana, che solo più tardi fu temperato nella classica giurispru denza, la quale di nuovo richiamò in esso quell'alito morale , da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto (2). 83. Intanto , per ciò che si riferisce ai bonimores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degli anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù , che sovraintendono almantenimento di questa morale primitiva ; mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose , o abbiano mancato alla fede promessa , o abusato del potere loro spettante , o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che , senza senza essere colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag . 31-34 . Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse altamente sentita l'im portanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli comin ciavano a venir meno . (2 ) Ciò verrà ad essere largamente provato , allorchè si parlerà della formazione del ius Quiritium , e si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini. 104 dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disappro vazione generale . Se il modo in cui formasi questa generale opi nione e l'influenza , che essa esercita, male possono scorgersi ancora in una grande città, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputa zione dei figli. § 4. – Le origini del ius nel periodo gentilizio . 84. Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio , apparisce fino all'evidenza, che fu soltanto , collocandosi in un posto intermedio , fra il fas da una parte ed i boni mores dall'altra , che potè riuscire e farsi strada quel ius, che doveva poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza ci vile e politica . Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma a quella for mazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo contiene in sè la propria deffinizione (1). Colui che manca a queste regole non offende solo la divinità e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appar tiene e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa (1 ) Servius, In Aen . 7.601: « VARRO valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium , qui inveteratus consuetudinem facit » . Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere morale , in consuetudine, che ha carattere giuridico, è indicato anche da molti passi dei classici giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va Mos e Consuetudo. - 105 alla comunanza , a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza (1 ) . Di qui la conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, comeuna specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere giuridico propriamente detto . Na turalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa , né la disistima generale , ma vuolsi una specie di sanzione coattiva da parte della intiera comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso , che già fra le genti e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei conciliabula , quei fora , che sono il primo nucleo , intorno a cui verrà poi a svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza , i cui precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico . Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città, limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private , e a sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo concetto , per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo , ma reca un danno alla intiera comunanza , che ora noi diremmo danno sociale , è un con cetto profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere variamente espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit ., vol. III, pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro : Multis minatur, qui uni facit iniuria : Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus ; Omne ius supra omnem iniuriam positum est ; e quello di Orazio : « nam tua res agitur, paries quum proximus ardet » , come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica : « Obsecro vos, populares, ferte misero atque innocenti auxilium » , ovvero : Obsecro vestram fidem , subvenite cives » . - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col tempo accrescendosi sempre più , e richiamando a se una quantità di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere religioso e morale . Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per proprio conto , afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento , che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il suo primitivo nutrimento . Quel carat tere pertanto di rigidezza , che suole condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed energia ; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli giose e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai era pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota , che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della forma di lex ; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato , dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque constituit) , creando cosi il ius legibus introductum . Intanto si mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani conside ravano come il frutto di una tacita civium conventio ( ius moribus constitutum ). Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola , che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones ; ma allorchè la - -- 107 legge viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla , non eccettuati quelli che erano di avviso contrario . Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro , per cui distinguesi una parte del diritto , che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum ; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla , e chiamasi ius privatum . Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe; mentre l'altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu reconsulti più tardi. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio , sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto privato (1). 86. Insomma al modo stesso , che l'urbs fu il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gli edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse comune ; cosi anche la formazione del diritto primitivo deve essere attribuita ad una specie di elabo razione, che venne operandosi nella coscienza generale di un po polo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo , (1) È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, il Savigny, Sistema del diritto privato romano, vol. 1', $ IX , trad. Scialoia, pag . 48 e segg. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto (duae positiones), e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricavò dallo spirito del diritto romano, secondo cui « ius privatum sub tutela iuris publici latet », De augm . scient., lib . VIII, proem . al trattato de iust. univ., afor. 3. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln , I, pag . 115 a 124, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig , III, A , pag. 347. 108 mediante cui da tutti gli elementi etici e religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio , si vennero sceverando tutti quelli , che potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. La città insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingran dendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla , deve essere considerata come il crogiuolo , in cui si get tarono indistintamente tutti gli elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che aveva un carattere essen zialmente giuridico , politico e militare. Fu questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo com piendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il poeta coll'esclamare : Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra profanis (1); poichè tale veramente fu il compito delle città primitive e quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi precetti, di carattere esclusivamente giuri dico , fu dapprima assai scarso , e si ridusse a quel poco che una città , ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia , che ancora aveva tutta la sua vitalità ed energia . Poscia però col crescere della città , coll'estendersi delle sue mura , col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a costituirla , coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus , quel ius, che prima aveva solo una posizione subordinata , si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata , e fu riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio , che gli era affidato , si riaccostò di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico , da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ) . Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo ( 1) HoR ., Ars poetica . 109 le proprie istituzioni dal passato , ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e politica , e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo , ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso , in quanto che è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi « rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente » . 88. Che questo sia stato veramente il processo , con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare, quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti, da cui egli è circondato , creano un'organizzazione di tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ri correre al diritto propriamente detto . Che anzi, se il diritto cer casse di penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità , come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio , uccisore della sorella, allorchè osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa la sorella (iure caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e con sacrati dalla religione, sarà il padre stesso , che sarà vindice dei loro (1 ) Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'o pinione di coloro , i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai re, come primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. V. CLARK's, Early roman law , pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD , Histor. Introd ., pag. 69 e seg., che la giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia , e a quella che apparteneva alle singole genti, quanto ai delitti , che erano commessi da membri, che entravano a costituirle. 110 falli , salvo che in certi casi di maggior gravità , come quando trat tisi della moglie adultera , non stata sorpresa in flagrante, egli dovrà circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso . Allorchè poi l'azione, che recò danno altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà essere risolta , e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca , che egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1). Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa , mentre il vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la pena di esso ; donde la espres sione di noxae deditio , la quale trovava poi una larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia , quanto eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del ius pacis ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes, pag. 346). Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia , nella sua significazione primitiva , parmi di poter infe rire con fondamento, che nelle origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa , che cagionava il danno, e il danno, che derivava da essa , e che non dovette esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrat tuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto primitivo, sopratutto romano , ed è solo col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto primitivo si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo di significazione mate riale, e poi gli attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata . Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo rupere, che nella sua significazione primi tiva dovette certo significare il rompere materialmente un membro, od altra cosa ; ma fu poscia recato ad una significazione traslata , attestataci da Festo , per cuiru pere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto primi tivo di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parrici dium ad ogni uccisione di un uomo libero, il che si vedrà più sotto ; così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passò poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dot tissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, La colpa nel diritto civile odierno. Torino, 1887, 2 vol. Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'a mico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo conto della posizione rispettiva , in cui in questo pe riodo si trovano due capi di famiglia , che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del furtum lance lincioque conceptum , in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino , in cui teme sia stata nascosta; ma cid a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa , in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio ), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dovesse per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di deru bato vi era stato nascosto (1). Del resto in questa primitiva condi grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica , la medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legisla zioni e della giurisprudenza , ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale . L'autore tratta dei concetti di rupere, di rupitias, di culpa nel primo volume della 2a parte, cap . I, § 1°, della lex Aquilia , pag. 6 e segg. (1) L'Esmein in un suo recente scritto col titolo: La poursuite du vol et le serment purgatoire, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il furtum lance lincioque conceptum , anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello , sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO , Saturnalia , I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa , perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura primitiva siasi naturalmente formata presso popoli diversi ; ma non potrei convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura; poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa ( V. Esmein , Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886, pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto , tenuto fra mani da colui, che ricercava la cosa derubata nel furtum lance lincioque conceptum , ricorda in certo modo la liba zione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è il Leist, Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum lancie lincioque conceptum è da vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum conceptum se condo la legge delle XII Tavole . Bologna, 1884. - 112 zione di cose, mancando ancora un'autorità , che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro , il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti ( 1). Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso , sarà anche naturale , che impegnisi una lotta fra le due famiglie , e che associandosi alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far parte . 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità , poichè essi cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me diante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e del consiglio degli anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che hanno una propria familia , un proprio heredium , un proprio peculium ; cosi comprendesi come nel vicus già possano sorgere delle controversie di carattere giuridico fra i diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di parentela , che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano , che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole com ponimento ; il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium , manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia (2). Infatti il carattere esclusivamente patriar cale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa , rendono ( 1) Ciò accade sopratutto, quanto all' adulterio , che cominciò a formare oggetto di un iudicium publicum solo colla legge Iulia , De adulteriis, che fu una di quelle con cui Augusto cercò , ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. V. in proposito l'interessante articolo dell'Esmein , Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , De adulteriis (Mélanges d'histoire de droit, pag . 71). (2) Quanto al vicus e al difetto , che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia, vedi sopra pag . 67. 113 ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia , che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. 90. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia , che appartengono a genti diverse e che più non discendono dal mede simo antenato , nè partecipano allo stesso culto gentilizio : quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'am ministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di ca rattere esclusivamente patriarcale , che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa . Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia , che suggerì l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus (magister pagi), la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed anche da quello di tribunal (derivato cer tamente da tribus), che significava dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che era chiamato ad amministrare giu stizia, e indicava così anche esteriormente la posizione cospicua , in cui egli trovavasi di fronte agli altrimembri della comunanza ( 1). Queste controversie intanto non possono naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto , perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo , che debbono seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza . È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli primitivi la prima forma che giunse ad assumere il diritto fu quella dell'actio , che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrato : atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti (1) La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè « sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens » trovasi soventi accennata dai poeti latini, come indizio della dignità , a cui era assunto colui, che era chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome, III, pag. 14 et suiv.). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cuidovette pas sare l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia . 91. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ricostru zione del diritto primitivo, che ebbe a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza , che le due prime figure di rei, contro cui la giustizia umana abbia dovuto associare i proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione , do vettero essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia , che per il carattere pa triarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli (1), che è il grande misfatto contro le leggi divine ed umane, il quale pudmettere in lotta le famiglie fra di loro , ed anche rimanere impunito , quando l'autorità comune non si mettesse in movimento contro di esso. Nèripugna al carat tere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accom pagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico , e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida ; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvi vono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili (2 ). Così pure dovette essere un processo del tutto natu (1) Questa circostanza , che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamino fratelli, è attestata dal Sumner MAINE quanto al villaggio Indiano: The early hi story of institutions, pag. 238, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica , ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia erano generalmente indicati col vocabolo di patres ; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma primitiva . (2) È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nella L. 9 , Dig. (48 , 9) Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parri cida , virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia ; deinde in mare profundum culleus iactatur » . Qui il giurecon sulto lascia travedere, che la pena del parricidio era stata conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale (more maiorum ). Essa pertanto dopo essersi man tenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ebbe poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis. 115 rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che gettava la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di essa ; co sicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso , che davano al nemico , con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di perduellis. Cið intanto darebbe una spiegazione molto proba bile e naturale del fatto, che fece meravigliare gli stessi Romani, per cui Romolo prima e Numa dopo avrebbero chiamato col nome di par ricidas anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma primitiva avrebbero assunto il nome di quaestores par ricidii e di duumviri perduellionis. Anche qui la legislazione della città avrebbe cominciato dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già avevano cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio , e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appariva necessaria ; madi ciò si avrà campo a discorrere lungamente in luogo più opportuno (1). 92. Ma vi ha di più , ed è che nella tribù , come noi abbiamo visto a suo tempo, già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia , ma già cominciano ad es sere indipendenti dal patriziato , sebbene ancora si trovino in con dizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la conget tura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali ; in quanto che altro dovette essere il diritto , che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto , che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello inferiore della plebe , il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che (1) La questione del parricidium e della perduellio sarà trattata nel lib. II, di scorrendo delle leges regiae. 116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sape vano di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del diritto primitivo, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni pri mitive del diritto romano, quali sarebbero quelle del mancipium , del nexum , della manus iniectio e simili; le quali, a mio avviso, come dimostrerà a suo tempo, sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non aveva dapprima altra garanzia da dare che quella della propria persona, fosse co stretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità , che era propria del nexum primitivo , e che il patrizio insoddisfatto potesse mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo carcere privato , mediante la procedura della manus iniectio ; questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario ; poichè anche questo fu l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano sopratutto per iscopo di gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi ( 1 ). Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario . (1) Lo svolgimento di questa teorica può vedersi in questo stesso libro Capo X , ove si tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. . T 117 - CAPITOLO VI. Il diritto primitivo delle genti patrizie. $ 1. Di alcuni caratteri generali del diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I giureconsulti classici col dire che il ius hominum causa constitutum est, enunciarono una verità , che trova una piena con ferma nei fatti , quando seguasi il processo , con cui il diritto primi tivo vennesi formando fra le genti del Lazio . Credo di aver dimostrato , che finchè trattavasi di persone, che appartenevano al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità pa triarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni, potevano bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro ; poichè in allora , mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, conveniva di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto primitivo, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario , e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto , senza cercarne la causa nelle condizioni sociali, che ne determinarono la formazione. 94. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuri dici, nel vero senso della parola , sorsero dapprima fra i capi di gruppo , anzi che fra i singoli individui, che erano assorbiti ed uni ficati nel medesimo. Di qui le solennità, che dovevano necessaria mente accompagnarne gli atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di quell'individuo ; ma si riferi vano all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato , e così avevano, per usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guido un popolo così eminentemente pratico, come il romano, nella forma zione del proprio diritto ; ma questo , nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e d i finzioni, solo perchè , dopo essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, fu trapiantato 118 in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si erano formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica (1). Nel che se guono un processo, che non abbandonarono neppure più tardi; quello cioè dinon creare giammai una forma novella, finchè quella già prima (1) Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto primitivo di Roma. Si comprende quindi, che gli autori contemporanei se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit , Chap. II, in cui si oc cupa delle finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING , che ebbe a dedicarvi buona parte del III volume della sua opera : L'esprit du droit Romain , da pag. 109 fino al fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi autori, sarebbe,che questo forma lismo del diritto primitivo di Roma debba essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore ; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e proveniente da ciò , che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso i popoli veramente primitivi;ma che esso compare soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli primitivi non si può dire , che essi siano amici della formalità ; perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica , la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata , tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo primitivo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta forme create in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione . Tutte le forme, che si conservano come tali, sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa , che sono trapiantate in un'altra , la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale , nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se diventò formalista, fu perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia del passato e fare entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi rapporti , che erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso ; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme antiche, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova , che si viene alla conseguenza, per cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la parola al concetto; il che non impedisce perd , che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate , la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa . 119 esistente possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo diritto fosse veramente disac concio, dal momento che allora soltanto si usciva da una condizione di cose , in cui il padre rappresentava effettivamente quel complesso di persone e di cose , che dipendevano da esso . Quindi era natu rale, che per qualche tempo il diritto primitivo conservasse quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo genti lizio ; solo cominciò a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto primitivo di Roma, quando al padre si venne sostituendo il cittadino, e più ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo libero. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il padre, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato , per guisa, che esso sia padre quanto ai figli, padrone quanto ai servi, patrono quanto ai clienti, e rappresenti il gruppo da lui governato , ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gliscrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico ; ma gli altri scrittori latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una grande famiglia , custode geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e cieco, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un nu mero grandissimo di clienti ( 1). Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale , che circonda il capo di famiglia , come lo dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio : « Moris fuit,unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico;mentre invece , riportan doci al periodo gentilizio , questa figura primitiva presentasi anche (1) Cic., Cato maior, II , 37. È poi sopratutto nei poeti latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la patria po destà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito l'Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, tome 1er , pag. 347 a 356 . (2 ) V. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V , Friburgi, 1887 , pag. 397 . 120 più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo ; e quindi si può comprendere come l'acceptum , l'expensum , lo spon sum , lo stipulatum , l'actum , il iussum del capo di famiglia si cam biassero in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore (1). 95. Un secondo carattere poi sta in questo , che il diritto primitivo presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse , come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente , che quello di ricorrere alla manuum consertio , la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle tribů , manterrebbe le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione (2). (1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine ; ma cominciò dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. Fu in questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium , che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel ius proprium civium romanorum ; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium ; e da ultimo giunge ad informarsi persino al iusnaturale; concetti questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, vivevano però già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia . (2) Ciò mi conferma in una antica convinzione , che ho già avuto occasione di esporre nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Lib. I, Cap. I, pag . 38 e seg., la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche pri mitive il diritto non confondesi colla forza ; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza . So che questa opinione ebbe ad essere combattuta da egregi giovani, che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri dallo Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano 1885, pag. 31, e dal Puglia , L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, pag. 42, nota ; ma i fatti mi in ducono a persistere nella medesima. Non è già che io neghi, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza : ma quando pre sentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono le esagera zioni e gli eccessi. In questo senso aveva ragione il poeta di scrivere : Nam genus humanum . Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura . Lucretius, De rerum natura, Lib . V , v . 1144-46. 121 Cid è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assu mono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie , che si sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fece quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso , perchè è contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a luogo più opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni dei sin goli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di gruppo . Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto , che governava i rapporti fra le varie genti, dovette precedere la formazione del diritto privato propria mente detto : il che è dimostrato anche dalla considerazione, che negli antichi scrittori si discorre dei iura gentium , prima ancora che si discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum . Infatti: i iura gentiun , i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti erano già rapporti, che si erano svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa città di Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui mercati, ove comparivano i varii capi di famiglia , ed ove, oltre gli scambi, si potevano anche trattare le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di un vero e proprio diritto ; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenevano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto , dovette necessariamente essere dapprima piuttosto un ius gentium , che non un diritto , che - 122 potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadinidella medesima città quelle forme, che si erano prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie ( 1). Si può quindi affermare, che anche quel diritto primitivo di Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trovi sempre la pro pria origine nella forza, come molti sostengono ; ma che in parte abbia avuto invece un'origine essenzialmente contrattuale, come la città , in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento . Il diritto , anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di privata violenza , e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto . Fu solamente più tardi, allorchè la città co minciò ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do (1) Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si formò dapprima il ius gentium , che non lo stesso ius civile , e che il ius quiri tium fu un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appari ranno man mano prove così evidenti , che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece era indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi , dacchè sono nel do minio delle induzioni, aggiungerò ancora , che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia , quae natura omnia animalia docuit ; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura ; poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più tardi sarebbe comparso nell'interno della città . Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in Roma; la quale cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad abbracciare anche l'equità del ius gentium ; e più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza , che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura , e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto ; mentre il ius gentium accolto dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte , a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca , più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag . 179 a 194 , lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate. 123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusi vamente religioso e morale, imponendo un diritto , a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2 . Il connubium e il commercium nel periodo gentilizio . 97. I caratteri del diritto primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium , di commercium e di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente alla formazione stessa della città . Infatti non può esservi dubbio , che tutti questi concetti già avevano un contenuto preciso , allorchè comparve la comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di carattere pressochè contrattuale , che esistono fra le famiglie , le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio , nel suo significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di essere nel buon diritto . Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario . È poi degno di nota, come questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare , che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab biamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra ; nel commercium abbiamo una persona , che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà , addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico; nell'actio infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita sociale . Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può af fermare con ragione che hominum causa constitutum est. Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e compren sivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti ; il che apparirà ancora , allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli, finirà per con chiudere, che : omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania , e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non aveva nè valore storico, nè valore intrinseco . Traité de droit Romain . Trad . Guexoux, Paris 1840 , I, pag. 387 a 404. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classifi cazione teorica di Garo, e i concetti, da cui il diritto quiritario ebbe a prendere le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado i quattordici secoli, per cui durò l'ela borazione di essa , possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice a pag. 390, dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco . Essa invece ha valore storico ed in trinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana ; in quanto che sarà facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non fu che uno svolgi mento del concetto primitivo del connubium ; tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di commercium ; e infine quella , che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle , De exceptionibus in iure Ro mano. Torino, 1873, pag . 13. L'autore , che pose meglio in evidenza la correlazione fra connubium , commercium ed actio , fu il LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13, in nota . Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si pos sono spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consentiva di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una conside razione, che potrà parere troppo filosofica , non dubito di affermare, che nel con cetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine violato affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto personale , il diritto reale e l'azione, che serve a difenderli. 125 98. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di connubium , che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appar tiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di impa. rentarsi fra di loro, mediante quelle nozze , che dalle genti sono rico nosciute come giuste e legittime (1). Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che avevano le genti patrizie dei proprii an tenati e del sangue, che correva nelle loro vene, questo dovesse essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo nomen, fosse questo il latino, il sabino o l'etrusco, avevano fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradi zione, secondo cui, se i Ramnenses vollero avere il connubium coi Titienses, dovettero ricorrere alla violenza ed alla forza ; il che perd non tolse, che il mescolarsi del sangue delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima città . Furono infatti le donne di origine sabina che (secondo una tradizione, la quale se non è vera è certo ben trovata ) si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli nella stessa città , dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripar tita (2). Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che ap partenevano allo stesso nomen e facevano anche parte della stessa tribù , il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui (1) È questa la significazione primitiva , che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di connubium fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. Fu solo nel diritto quiritario, che il ius connubië passò a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae , e venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la fa miglia; la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli ; e infine la stessa successione legittima, la quale si avvera , allorchè , morendo il capo di famiglia , si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. (2 ) Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio : ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone . V. LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 48. Ad ogni modo questa è una tradizione, che se non è vera , è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dovette avere un avvenimento che la rompeva col passato , e rendeva possibile il connubium fra persone, che non appartenevano al medesimo nomen , preso nel senso di stirpe e di schiatta. Fu questa prima mescolanza del sangue latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno in origine rappresentava la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per ac comunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe ( 1). Intanto pero questo connubium , frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze , riducevasi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima faceva parte , per trasportarla in un altro ; il che importava eziandio un cam biamento nel culto gentilizio , perchè essa abbandonava quello dei suoi padri per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della confarreatio, a cui assistevano i capi di famiglia della gente e delle tribù , a cui apparteneva lo sposo e la moglie , e che importava la comunione delle cose divine ed umane (2 ). Di qui la conseguenza eziandio , che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse diventare ( 1) A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'excogamia (V. SPENCER , Principes de sociologie, II, Chap. IV , pag. 225 a 250 ), si dovrebbe rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di paren tela, fra quelle persone cioè, fra cui esisteva, secondo l'antico linguaggio , il ius osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il patrizio per scegliere la propria compagna non poteva uscire dalle genti, che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a me scolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costitu zionale di Roma. Torino, 1881, pag. 46 . (2) Parmi allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio , come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi seguono tale opinione : l'EsMein nella sua dissertazione: La manus , la pater nité et le divorce , pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 ; il Glasson, Le mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180 , e pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto romano , Bologna , 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa origine patrizia della con farreatio si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei dieci testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù , e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate . V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova, 1866 . 127 proprietà del marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito ; e che la medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di famiglia , ed acquistasse la posizione migliore, che poteva esservi nella mede sima, che era quella di figlia ( filiae loco). 99. Viene in seguito il commercium , il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio , ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi di famiglia , appartenenti a genti diverse ( 1). Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura tale , che può essere di reciproco vantaggio per i con traenti. Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo ; ed esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo , ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse . Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco . Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse (conciliabula , fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1) Anche qui la significazione primitiva del vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il com mercium . È solo per opera del diritto quiritario , che il concetto di commercium , applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al ius commercii,il quale poi, sviscerato negli elementi , che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel ius emendi ac vendendi , che in antico operavasi colla mancipatio ; nel nexum , da cui deriverà la teoria delle obbligazioni; e infine nella testamenti factio, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr . Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13. Per tal modo nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la te stamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende dal connubium (V. sopra pag. 125 , nota 1), e l'altra deriva dal commercium . Questa forse è la vera ragione della massima: « Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse , earumque rerum naturaliter inter se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50 , 17). È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta , che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme, il che apparirà più chiaramente altrove. (2) Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine ; vantaggio , che fu una delle cause , per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle popolazioni latine , potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed assimilazione potente ( 1). le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente ; fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che servivano per trattare le paci e per il mercato (Village Communities, pag . 188 e seg.). Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della primi tiva associazione del commercio e della neutralità negli attributi di Mercurio, dio comune alle stirpi di origine aria , che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio , dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si facevano gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, derivò questa importantissima conseguenza , che come in quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguevasi il diritto commerciale , da quel diritto, che ora si chiame rebbe internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium , il che spiega come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non pud però esservi dubbio , che il ius gentium , allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per opera del pretore, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri , ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato dal Fusinato nel suo accurato lavoro : Dei Feziali e del diritto feziale, pubblicato negli atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol., 1884 , Vol. XIII, pag. 451 a 590 , specialmente a pag . 465 ; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una materia , che certo ne aveva grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum et equum , gentium , etc. Leipzig , 1856-76 ; Vol. 4 , dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium . Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ri tengono il concetto ed anche la denominazione del ius gentium , come opera riflessa dei giureconsulti ; mentre per me il ius gentium esisteva nel fatto e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium , e di iura naturalia , mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata . (1) I1 MOMMSEN, Histoire Romaine, I, Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano, pag . 17) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spie gato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale ; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, po teva essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio - 129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a co munanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e vendita , che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta una grande città . Solo deve avver tirsi, che questa compra e vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a comunanze diverse , fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non dovette naturalmente ritenersi perfetta , se non era accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono eziandio queste fiere , che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5 . (1) Non può quindi , a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro , i quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio , che certo già esistevano nei rapporti fra le varie genti, fossero state invece importate di Grecia , per ciò che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex publica , come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram , di facere testamentum , nexum , mancipium secundum legem publicam . Quindi, ac canto al ius quiritium , visse sempre in Roma un ius gentium , che, senza aver rice vate le forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e sopratutto da Plauto, che ne dànno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza , dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle con venzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle el leniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli; ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo dai greci , nè aspettarono ad adoperarlo solo verso la metà del V secolo , come sostengono fra gli altri il MurueAD, Histor. Introd., pag . 227 e 228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte , p.465-470 . Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetrò anche nello stretto diritto civile e fu adottata come forma propria del medesimo. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 9 130 dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste ; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica (1). È qui infine, che dovette prepararsi la formazione di un ius gentium primitivo, che ha dapprima un carattere commerciale , come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensa bile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia , appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium , formatosi sulle fiere e suimercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum (2) : cid però non toglie , che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca , quando si scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse . $ 3 . L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gen tilizio , dovette essersi formato il concetto dell'actio, ma questa non significava ancora un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto , ma era , per dir cosi, il diritto stesso , che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento (3) . (1) Il poco, che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu SCHKE, Iurispr . anteiust. quae supersunt, pag. 5, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che potrà poi servire per tutti i casi dello stesso genere. (2 ) Cfr. sopra , pag . 128 , nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio, nella sua significazione primitiva , l'OR TOLAN, Histoire de la legislation romaine, XI Edit., Paris, 1880 , pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel periodo decemvirale: « Action, sous cette période, est une dénomination générale ; c'est une forme de procéder, une procédure considérée 131 - È a questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto primitivo di tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura , che non come legge , che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa , egli non ha bisogno, che la legge venga a ricordargli quali siano i suoi diritti. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza: quindi, se il medesimo venga ad essere violato, egli non può aspet tare che uno Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ebbe ad essergli arrecato . Come quindi è il capo di famiglia, che vendica l'adulterio , che corre sui passi del ladro , che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno oserebbe ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo , quello schiavo, quel figlio . Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del diritto . Prima esso esisteva allo stato latente , ed ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo . Quest'azione tuttavia, non è an cora la legis actio ; perchè in compierla l'uomo offeso non ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso in timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto , sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta . Quindi è , che se per avventura verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio diritto , dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio ;ma se noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle , La vita del diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse ; mentre facere si adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto , l'occasione non dovrà certamente essere trascurata . Sarà quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria , a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto ; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e dichiarera empio chi non segua quel determinato rito ; ed infine sarà anche il ius , che verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella procedura , e obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis gratia ), per ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta , quasi per attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii dell'anteriore violenza , quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso , l'opinione di coloro , i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel primitivo diritto , e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò , che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della convivenza civile e politica . La causa del fatto sta in ciò , che l'opera della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto , quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui diritto era violato . In questa parte diritto privato e diritto penale seguirono analoghe vicende. Al modo stesso , che le leggi penali non mirarono dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla privata vendetta , e resero cosi obligatoria quella composizione a danaro, che dapprima dipendeva dall'accordo delle parti : cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli primitivi comprendessero più la forma che la sostanza ; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società , in via di formazione, era quello di impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ra gioni ( 1). (1) Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE , La vendetta privata nel diritto Longobardo, Milano, 1876 . Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura , presso i popoli pri mitivi, alla prevalenza , che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions , Lect. IX , ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive « che in uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola , che presenti al giureconsulto filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di agere e di actio , e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato . Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere » , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo (ius agendi cum populo ), ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta , che dovette in quei primi tempi essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed in dipendente non dovette esser così facile il conseguire, che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia , ap partenenti alla medesima tribù , il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che dovevano essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli scrittori latini attribuiscono ai proprii maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la controversia , dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio ; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed idoveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura , che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri. » (1) V. BRÉAL, Dict. étym . latin ., v° Agere. (2 ) Cic., Pro Cluentio, 43: « Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam , sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem , nisi qui inter adversarios convenisset » . Del resto, anche secondo la legislazione decemvi rale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componi menti, come lo dimostra il fram ., Rem , ubi pacant, orato , tavola II, legge 14, se condo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln , p . I, pag. 696. 134 o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito degli ottimati e quello popolare, po terono anche essere scelti fra gli equites (1). 104. La cosa però veniva a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto , trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo , oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cedeva, lo studio della natura umana ci insegna anche ora , che non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis , a cui secondo Gellio fu poi sostituita la vis festucaria , e che si effettuasse cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome dimanuum consertio (2 ). È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, possa anche in terporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sa ranno pronunziate dal pretore nella procedura quiritaria : « mittite ambo hominem » . Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dal l'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza , in cui furono sorpresi (3), chiamano entrambi a testimoni la divinità , che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia mag giore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scom messa , la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di sacramentum . Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in (1) La legge che trasportò dall'ordine dei senatori a quello degli equites la ca pacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dovette però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, Histoire de la législation Romaine, $ 283, pag. 228 e seg . (2) Aulo Gellio , Noct. attic., XX, 10 , $ 8 10 . (3) Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si appigliò alla violenza , trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO , Fasto rum III: « Et cum cive pudet conseruisse manus. » È però a notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa . - 135 - terposta , ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la medesima. Fin qui pertanto , non si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dovette certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi di gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica , e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l'actio sacramento , che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario , e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile , nè di cam biare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo ; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a percorrere l'amministrazione della giustizia , riportandola in quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze (1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una grande autorità , quale è il Bekker, e che fu poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an (1) È già da qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento . Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain , Bruxelles , 1876. Introduction, $ 20, Vol. I , pagg. 59 e 60 ; nel SUMNER MAINE , Early history of institutions, Lect. IX ; nel MUIRIEAD, Historical Introduction , pag. 191 e 192 ; nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa , 1866 , vol. I, in princ. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto XVIII, v. 690 a 705 , descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136 tiche della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio , in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio diritto (1) . Lasciando per ora in disparte la pignoris capio , che ha solo una importanza secondaria , per i pochi casi in cui fu ammessa , importa anzitutto notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale . Havvi anzitutto la manus iniectio , a cui ricorre colui che, dopo aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato , gli pone addosso la propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia , in cui egli si trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio , ma solo un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis actio , consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere privato, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto (3 ). ( 1) BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin , 1874-75 , 2 vol. V. particolarmente vol. 1, pag. 18-74 . Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING , L'esprit du droit romain , Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che egli dà poi alla manus iniectio, come legis actio, una significazione del tutto speciale. Vedi vol. I, § 14 , e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio accennasi nella prima legge delle XII Tavole : « Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino : igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito. , (3 ) Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa es sere considerata come una vera legis actio , in quanto che essa non richiederebbe l'intervento del magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi di esecuzione. Fu questo il motivo, che indusse il JHERING , op. e loco cit., a dare una significazione speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discus sioni, che di recente sorsero intorno alla questione, se la manus iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio , è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd ., Sect. 36 , pag. 201 e seg. Parmi tuttavia , che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di legis actio nell'antico diritto; nel quale esso indicava in sostanza i diversi genera agendi in conformità di una les publica , per modo da comprendere la stessa in iure cessio , allorchè ser viva per effettuare una adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà . V. quanto alla manus iniectio il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 616 . 137 Or bene la manus iniectio , cosi intesa, non può certamente essere considerata , come di formazione anteriore all'actio sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie, per cui passò lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca , in cui non eravi amministrazione di giustizia ; la manus iniectio invece, quale appare nelle XII Tavole , suppone già stabilita una amministrazione della giustizia , in quanto che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi ob bligato colla solennità del nexum , o abbia confessato il proprio de bito davanti al magistrato , o sia stato condannato al pagamento . Nè serve il dire, che la manus iniectio primitiva, essendo un mezzo per il privato esercizio delle proprie ragioni, dovette essere applicata anche in altri casi ; mentre la legislazione decemvirale l'avrebbe circoscritta ai casi da essa determinati, nell'intento di im pedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell' actio sacramento , in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli possa essere profondamente convinto del proprio torto . Fra due eguali, che siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio , e in seguito l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro , e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già esistere da lungo tempo : ma intanto a questo proposito mi fo lecito di avventurare la congettura , che la manus iniectio dovette essere una speciale forma di procedura , che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore patrizio ed il debitore plebeo . Si comprende infatti, comeun'aristocrazia territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi simili di procedura verso una classe , che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato l'o rigine servile . Quindi è, che la manus iniectio deve essere con 138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto , che dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia lottato cosi lungamente per l'abolizione del nexum , il quale forse era ancora un segno dell'antica sua sogge zione servile , come sarà dimostrato a suo tempo. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato corrisponde alla vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette anche esservi un tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza , che l'intento supremo dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di esse cosi la pri vata vendetta , che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza la privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di diritto . Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere termine allo stato anteriore di privata violenza . Fin qui si considerarono soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel diritto , che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più tardi; ora importa cercare invece , quali rapporti corressero fra i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli durante il periodo gentilizio . $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente patriarcale , e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra i varii capi di famiglia . E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra . Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di diritto . Era quindi facile , che fra loro scoppiasse la guerra , ma questa non era però lo stato naturale di esse . Ciò sarebbe come dire, che due per sone che non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto giuridico siano fra di loro in lotta . Potrà darsi che esse siano in reciproca diffidenza , e che stiano in guardia : ma non percid pud dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa , od anche semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra (1) . (1) Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basterà ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre primi volumi relativi all'Oriente, Grecia , Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain , I, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche nella città , a cui esse appartengono ; il che è certamente vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori , ma anche da ciò, che, creandosi una nuova forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra dividere la stessa opinione nel suo lavoro : Dei Feziali e del di ritto feziale , Roma, 1884, « Atti della R.Accademia dei Lincei » , Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche , vol. XIII , Introd ., Cap. I , al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema di questo capitolo. Egli tuttavia già trova, che il popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza del PADELLETTI , Storia del diritto romano, pag . 67, 140 108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra hostis e perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero , con cui non eravi rapporto di diritto , e contro il quale il popolo romano si riservava piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione ; mentre perduellis, nella sua significazione arcaica , come lo indica lo stesso vocabolo , era colui con cui era scoppiato il dissidio , e col quale , per mancanza di un comune diritto , veniva ad essere necessità di appigliarsi alla guerra . Fu solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una significazione più dura e significò effet tivamente il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti: peregrinus chiamasi colui, col quale non havvi nè ami cizia , nè ospitalità , nè alleanza ; hostis quegli, con cuiRoma trovasi in guerra aperta ; perduellis infine colui, che nell'interno dello Stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'in teresse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative , il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli,per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo . Per parte mia ritengo, che i Romani in questa parte si governassero colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenessero in stato naturale di guerra cogli altri popoli ; perchè in tal caso tutte le formalità dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella primitiva significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. 5 , § 2 , Dig. (49, 15 ). Del vocabolo hostis, si discorrerà più sotto, e quanto al passo di PomPONIO , egli, anzichè affermare che gli stranieri fossero nemici, dice anzi espressamente che « si cum gente aliqua neque amicitiam , neque hospitium , neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt » . Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di « aeterna auctoritas esto » , donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave , ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra , ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di di ritto . Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra fosse lo stato naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE abbia potuto scri vere: « nullum bellum esse iustum , nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit , et indictum » , De off , I , II , e De Rep., III , 23. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori, il che certamente non dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica , il vo cabolo di « hostis » , continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto , come lo dimostrano le espres sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e l'altra « adversus hostem aeterna auctoritas esto » . Del resto , che il vo cabolo hostis negli esordii non suonasse nemico , nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo , viene anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente , che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione » ; donde anche i vocaboli di hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte della medesima tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri mitivo ius pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a quella , che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia . Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro . Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., Paris. 1886, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE , allorchè scrive : « Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc peregrinum dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo , qui contra arma ferret, re mansit » . De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V , I (Bruns, Fontes, p. 377). Intanto l'analogia , che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che signi fica e lo straniero ricevuto in protezione » , come pure il fatto, che nelle origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. Fu solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne. 142 zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e quello di pactum ) ; al modo stesso che, accid siano in istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis ac belli già erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza romana , e che la medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e a riti, i quali, prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città . Di qui in tanto, derivd la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale , essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale, acquistò un carattere artificioso , che lo fece talvolta apparire come un ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si facessero per una giusta causa , ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trova . vano le genti primitive. § 2 . - Il ius pacis , ossia l'amicitia , l'hospitium , la societas nel periodo gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si ven gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto , in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I vocaboli, intanto , che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia , di hospitium societas. 143 111. Prima presentasi l'amicitia , che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente amica è quella , a cui si potrà , in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio . L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica , questa non potrà appropriarsela ; il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto . Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al sorgere di controversie . Quindi fra i patti , che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello di reciperatio ; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto , a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso diede luogo. È nota in proposito la definizione di Elio Gallo : Reciperatio est, cum inter populum , reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur. La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio , quando diasi al vocabolo di lex la sua significazione primitiva di con venzione e di patto ; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di « lex convenit » . È evidente infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città , con cui trovansi in rapporto di ami cizia ; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di rerum repetitio , che costituiva, come si vedrà fra poco, uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reci procare, il quale, secondo Festo , significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo , che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e direciprocanza . Ciò infine spiega eziandio , come si chiamassero recuperatores quei giudici od arbitri, che erano chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si 144 viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che fu sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria , pressochè permanente, la quale, mentre decideva le questioni con stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto , in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium , ma piuttosto quei iura gentium , che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei re cuperatores, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carat tere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre , in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro , e alla prose cuzione delle cose private. Se quindi fosse lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca , in cui ancora mal si distingueva la ragion pubblica dalla privata , i recu peratores, che erano persone scelte fra le due genti amiche, potes sero essere arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie , perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo . Allorchè invece , al disopra delle genti, venne a formarsi la città , e per tal modo cominciò a distinguersi la cosa pubblica dalla privata , i re cuperatores ebbero circoscritta la propria competenza alle contro versie di carattere privato . Fu in allora che i recuperatores si man tennero per le controversie di indole privata, e che i fetiales furono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu ilmodo, con cui gli individui res privatas inter se persequuntur, mentre la rerum repetitio di ventò un preliminare della guerra; fu allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimase ad indicare un complesso di norme, che governava i rap porti diindole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città . Anche qui insomma non si fece che applicare un processo , le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere, sacra profanis Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sem . brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro , che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della famiglia ; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia , viene a comparire l'hospitium . L'ospitalità , che diventa un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità , oltre al fon darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas , e se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere ereditario . L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano perfino, se gli ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli verso il cliente : nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag . 97 , n ° 13. Questa congettura , che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius naturale, gentium , etc., II, e dal Fusinato , Dei Feziali e del diritto feziale . Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium , possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd . , Cap. I, § 1, pag. 463 , dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura » , Op. cit ., Cap. V , § 2º, e il SelL ed il Rein da lui citati , che sostengono invece un'opinione diversa . Credo poi chenon possa essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra recuperatio e rerum repetitio , sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra . Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato al Capo V , § 3º. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le di stinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma an’autorità giudiziaria , pressochè permanente, appare da ciò , che essi non erano ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi era chi collocava prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite ; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro ; colla differenza, che la ospi talità importava solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la clientela importava un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto pertanto , si poteva dire che il cliente veniva prima del l'ospite; maquando invece si consideri che la clientela importa subor dinazione e dipendenza , mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro , ben si pud com prendere il motivo, per cui Masurio Sabino concedesse sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato erano in rapporto di uguaglianza fra di loro , il che non accadeva del patrono e del cliente ( 1). 113. Così il concetto dell'amicitia , che quello dell'hospitium , do vettero nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. Fu solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù uscirono le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione , che si operò in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dap prima e del magistrato dappoi servì per accogliere gli ospiti del popolo romano ; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello Stato dalla persona dei singoli cittadini, si dovet tero anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata . Cosi fu un effetto della pubblica amicizia , che il cittadino romano, quando era fatto prigioniero di guerra , godesse senz'altro del diritto di postliminio , appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico , poichè da quel momento comin ciava ad essere « pubblico nomine tutus » (2). Parimenti l'hospitium pubblicum , allorchè fu accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella ( 1) V. sopra il passo di Masurio Sabino a pag. 48, nota 2 . ( 2) L. 19 , $ 3 Dig . (49 , 15 ) . 147 concessione della civitas sine suffragio : il che rende non desti tuita di fondamento l'opinione di coloro , i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al vocabolo di municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità , presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia , ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la 80 cietas fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un acco munare le proprie forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme associata . I patti e le condizioni di questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offen siva delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare origine nel fatto e nella consuetudine ; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il con cetto del foedus, il quale ebbe larghissimo svolgimento e diede luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio . $ 3 . - N foedus e le sue svariate applicazioni nel periodo gentilizio . 115. Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo , che l'essenza del foedus sta nella fides, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio , a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia . Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus , è pag . 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79 e seg . Questa opinione fu di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii , Firenze, 1886, 8 31, Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium , nella prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vo cabolo da Festo , vº Municipium , vuolsi però avere presente che l'hospitium è isti tuzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica . 148 però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dovet. tero avere significazione diversa . Mentre infatti la societas indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere stipulato . Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato : cosi il vocabolo foedus si presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei poeti, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano strin gere tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà : convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di foe dera generis humani, poichè il popolo che vi venisse meno sem brerebbe in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali erano fra gli antichi l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale sarebbe stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non avevano fra di loro comunione di diritto ; tale era eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, acciò i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più , anche nei rapporti fra le genti, il foedus non significava soltanto la confederazione o l'al leanza; ma poteva significare qualsiasi accordo , che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eser citi che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addiveniva alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissa vano le condizioni. Il foedus insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò , che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gli etimologi, non so trattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di ius foeciale, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di ius foederale (1) . (1) Gli etimologi non possono accertare che foedus origini da fides, nè che foeciale derivi da foedus : ma questo è certo, che le parole di fides , foedus, foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza , quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius fetiale. Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus è il rapporto fra le genti e le tribù , che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale . Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità ; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere giuridico , in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica , che le genti latine recarono non solo nelle con venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura ; stipulazione che, a mio avviso , dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato . Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serviva per dargli il carattere di iustum , come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto ; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione . Non doveva quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla formazione dell'alleanza : ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum , per cui chiedevasi la divinità in testimonio del patto , che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto , e simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità avrebbe col pito il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola , che si riferì dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato primitivo di foedus fu presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò le re ligioni, le sepolture ed i matrimonii i foedera generis humani. Il duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud Latinum fuisse in hospitio : ibi Latinum , apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data ». ( 1) Questo è provato anche da ciò , che nel primo caso narratoci di un patto se 150 117. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ebbe certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dovette anche prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il periodo .gentilizio . Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già , anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fece così larga ap plicazione fra il foedus aequum ed il foedus non aequum . Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di trattato , serviva, come ricorda Gellio , per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che stava per vincere, il che costituiva appunto il foedus non aequum e dava origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro , che nell'epoca romana fu poi indicata coll'espressione « at maiestatem Populi Romani coleret » ; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra , si poneva termine alla medesima con un aequum foedus e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato (1). si poneva 118.Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e spon sio, stata invocata qualche volta dai Romani, sembra che la mede sima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica , trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città . È noto in proposito, che i Romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il ius foeciale , che è quello relativo al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo fu solennemente stipulato , e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion ., III, 5. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 99. Ritengo poi verosimile l'opinione del senatore Pantaleoni, ricordata dal Fusinato , Le droit in ternational de la République Romaine, Bruxelles, 1885. Extrait de la Revue de droit international, pag. 18 ; secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è ve ramente nel carattere romano. (1) Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio , XXXIV, 17. Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio , Noc .att., VI, 5 , e nello stesso Livio, XXX, 15 e II, 25. 151 - stipulato coll'intervento del pater patratus e colle cerimonie tutte del ius foeciale, mentre sponsio era la pace giurata soltanto dal generale . Mentre il primo obbligava direttamente il popolo Romano, l'altra invece , quando non fosse ratificata dal senato , obbligava solo a fare la consegna del generale, che aveva giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere religioso , che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo . Quando invece trattasi di una città , tanto più se retta a repubblica , il generale non può più dirsi che rap presenti il popolo e il senato , e quindi egli non può addivenire che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un vero trattato , abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto perd, siccome il generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato ; cosi il senato , che non ra tifica il suo operato , si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei Romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo ef fettivo , e quindi poteva obbligare direttamente il popolo da lui rap presentato (1). (1) Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distin zione, a cui accenna il Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, fra la semplice sponsio del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è di chiarato abbastanza chiaramente da Livio , che tanto il foedus che la sponsio , se siano fatte iniussu populi , non possono obbligare il popolo Romano, Livio, IX , 4 , 5 , 8. Quindi la vera distinzione viene ad essere questa : o la convenzione è opera del solo capitano, iniussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio ; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dovette essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizza zione politica . Cfr. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non credo poi si possa ammettere col Mommsen , che sulla forma del foedus abbia esercitata una visibile influenza la teoria del contratto , in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le obbliga zioni. Ciò è del tutto impossibile : perchè è certo che esistevano già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulavano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fa cessero applicazione alle convenzioni private . Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai Romani nei rapporti colla divinità , nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca . Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato ; la quale deriva da ciò , che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio , che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid è anche attestato da Gaio , che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano ; poichè, se si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur ( 1). (1) V. Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, il quale , secondo la tradu zione Gérard , di cui mi valgo, scrive : « En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la stipulation , parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des obligations » . Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta , e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa . Infatti secondo il MUIRHEAD , Hist. Introd., pag . 227, e molti altri , la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà del V secolo : epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli , aveva già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio fosse romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120. Un'altra applicazione del foedus era anche quella , per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro , stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo ; la cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum , detto anche foedus Cassianum , il cui tenore ebbe ad esserci conservato da Dionisio . È poi notabile , che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo , cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum , secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare : « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint » (1) . 121. Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella , in virtù della quale più tribù , che possono anche essere di origine diversa , societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo , sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale . Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza , non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di confonderle insieme(Gaius, Comm . III, 94). Da questa nasceva l'actio ex stipulatu , mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum , il ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. ( 1) Dion., VI, 95. 154 della città . Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato , che una gente acquista sopra le altre che la circondano ; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù , che entrano a costituirla , accordo, che riveste appunto la forma di un foedus (1). § 4. — Dei mezzi per l'annessione e per il distacco degli elementi , che partecipano alla stessa comunanza . 122. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia , in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale , questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza , che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto , che nel seno della tribù e della città , costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento , o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio , della secessio e della colonia ; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. 123. In virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu , secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio , e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso . ( 1) Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa , che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo ; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr . WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad . Bollati, Torino , 1851, I, S 85 e seg ., pag . 108 ). 155 È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia , la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui ( 1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia , doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose ; perchè la gente , che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia , ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato . Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia . Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum ; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio , nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem , doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum ; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio , allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tri buno (2 ) È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio , e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. 124. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia , in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio , in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il ( 1) Dion ., III, 29 ; Liv ., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain , pag. 25 ; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 34. (2) La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen . 2, 156 : « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret , prius se abdicaret ab ea , in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem , è da vedersi Cic., Brut., 16 , e Aulo Gellio, XV, 27 . 156 nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum . Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale , per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia , i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire , che imunicipia , a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse , che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo ( ). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas , se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città , come accadeva nella colonia , sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria , colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con dire, che le (1) I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla colonia , possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain , Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140 ; la quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia. 157 colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt » . Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città , dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate , comequelle , che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna , che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo ; in quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una tribù , sta bilita sopra un territorio , per trasportarsi sopra un altro suolo , quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia , nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa , raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa . 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso , sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio . Ad ogni modo la secessio , intesa in largo senso , ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza , trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede . Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo , può forse scorgersi un esempio di secessio , ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite , che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana (2 ). (1) Servio, In Aen ., I, 12 ; Gellio , XVI, 13. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Prima scienza nuova, Lib. II, Cap. 42. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir . Rom ., Trad . Bollati, $ 204-212. (2) Quanto alla tradizione circa la gens Fabia , vedi Bonghi, Storia di Roma, I , pag. 418 . 158 Alla secessio , che è volontaria , si contrappone invece l'expulsio , quale fu quella , che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia ; espul sione, che per la intimità del vincolo , che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino , marito a Lucrezia , il cui oltraggio , secondo la tradizione, era stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo , che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia , all'hospitium , alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio , dimostrano abba stanza come la città , la quale era uscita dalla federazione e dall'ac cordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa . Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia , potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio , e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra , e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio . 127. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città , serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città , senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria originaria , otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria . Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le - 159 popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo (1). Solo più ci resta a vedere , se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. $ 5 . - Il ius belli durante il periodo gentilizio . 128. In proposito già si è dimostrato , come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle genti italiche . Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto . Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra . Quanto alle cause , che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli ,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra , come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra . Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe ( 1) A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana. 160 riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio , e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra , erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129. Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo , che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto , che durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum , come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico (2 ). Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo , che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli (1) È ovvio osservare l'analogia ,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym . lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum , così da bis potè derivare bellum . Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores optimi » . - 161 - cato a risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello , in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa . È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante , che non può a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle , che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio . 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra . Per quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo , che essa , ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti (1 ). 131. Questo intanto è fuori di ogni dubbio , che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale . Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza , saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie , ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24 ; e quello per la deditio al cap . 38. Come è notabile la solennità di esse , così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale , Cap. 3 , 4 e 5 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 11 162 esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa , e il capo di essa , che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia , recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua comunanza , quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto , e questo ripete a chiunque incontri per la via , e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum , dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite , egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio ; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum , con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo , di cui si tratta , è ingiusto e vienemeno al diritto ( populum illum iniustum esse , neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso , dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole : « bellum indico facioque » , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo , come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio , dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra , che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze . Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo ; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace , senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza ; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio rerum , accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio 163 deorum , quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del diritto fe ziale , al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di altra indole e natura , affidate alla custodia di un collegio sacerdotale , rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica , che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un carattere alquanto artificioso , e apparvero come forme, vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo , che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale , ed era venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero naturale , che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte , appare sempre lo spirito conservatore del popolo romano , che continuò a conservare e a tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto , di cui essi erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso . 133. Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella , che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento . Siccome però queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero ritenute , ma sono forme tipiche di fatti , che un tempo dovettero seguire nella realtà : cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra due capi di famiglia , i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una persona autorevole , scommettendo di essere dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa , e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium » . Quello è il processo , che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice : questo è il processo , che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra (1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una dichiarazione di guerra , appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro . Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci furono conservate , con cui quel popolo , che faceva delle stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore delle divinità del popolo , con cui era in guerra (2). Una volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in guerra . La deditio era per un popolo ciò , che per un privato il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata , Cap. III, § 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso , potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn ., 3, 9 , $ 8 6 a 13 , il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate , scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp . an teiust. quae sup ., pag. 11. - 165 mancipio , cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità , che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra , e a fare astrazione dal tempo , che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico . 135. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra , che spiegano quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di reli gione , salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione gentilizia , in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto , la famiglia , le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto : dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè la patria , nè il nome, nè l'epoca precisa , in cui siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato ; ora importa stu diare le condizioni della plebe , la quale se non ha per sè il passato , dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della città . (1) La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile : che in essa intervengono anche i Feziali ; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua potestate ( il che prova che un popolo , al pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum , urbem , agros, aquam , terminos, de « lubra , utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem ? – Dedimus. At ego recipio » . 166 CAPITOLO VIII. Le origini della plebe e la sua prima organizzazione. 136. Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città , è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma (2 ). Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa . (1) L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain , pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera , ancora in corso di pubblicazione , del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo : Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova , 1886 , pag. 274 ; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii , il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte, I, § 9, pag. 62 e segg ., -- -- 167 Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri ( 1), in quanto che, durante il periodo regio , la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato ; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro , comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela , che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela , come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio , l’Appio e il Cispio , secondo una osservazione stata fatta di recente , hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee . Anche il Voigt, Die XII Tafeln , I , pag. 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie ; ma che essi costituissero una corporazione distinta , la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa . La corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis ; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri , che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe , che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica , che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19 , e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle curie. (1) Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II , Cap. XXXII, dove scrive : « che le prime repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro ; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini » : Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato ; donde si può argomentare, che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela . Cosi stando le cose , ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico , secondo cui il nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio , prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città . Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il quale , tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso , formasi naturalmente una specie di comunanza plebea ; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia , pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur ( 1) MOMMSEN , Histoire romaine, I, Chap. V , pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15 . (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa . Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato : « La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, tome II, pag. 135 a 174 , mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit ., pag . 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione , pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato . 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata , che il fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti ; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione genti lizia , e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia , e tentarono di fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto , che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso , che è nell'epoca feudale , che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei vincitori ; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico . La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea , che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose , e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato , che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee . Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio , rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo , che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio diritto , cioè il ius nexi manci piique ( 1). Tuttavia , se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza , che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione gentilizia . Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo , vº Sanates , quale è riportato nel Bruns, Fontes, pag . 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia , che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico , che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione , che ha sede contigua allo stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di esso . Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri , ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente , che era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia , che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie , una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono ; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie , che un tempo erano vassalle del feudatario . Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello , mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco . gliere tutti coloro, che , per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo , dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia , venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze ; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato , o che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio , religione e famiglia ; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse ; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio ; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8 , ebbe a scrivere : « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis , sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum , perfugit ; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit » . 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto , che le fu dato , corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia . Le genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa , che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro , che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie , nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato , che la diri gesse , nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus » , e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche ; dualismo, che per essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia , se ne hanno di quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato , come sarebbero le città etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento novello , che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia , dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi nei comizii tributi ; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero, quale era la romana . 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe nella clientela del patriziato , e incaricato i padri di farle assegnidi terre, a titolo di precario , non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia , come era Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla , che aveva seguito l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato , era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale , ma è costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium , che non è poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa ; anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città . Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia , che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie . Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento , che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento . Quasi si direbbe che , collo svolgersi della città , l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata , venne a rompersi affatto . Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia gentilizia , colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello , che guadagna e richiama a sè tutto ciò , che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero , e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito . Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe , poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante , a cui avevano affidato i proprii auspicia , lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù , per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo , dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus ; il quale provvedimento produsse l'effetto , che la plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius ; ma in tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città . L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco , e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2 , 9 : « Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit ;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset disposuit : patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep ., II, 14, secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri , II , 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm . R. G., I , pag . 63 ). Ciò tuttavia pon toglie , che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente . - 175 - stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen , e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana : ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre , cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse , o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione ( 1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi ; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re , piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero. 142. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti , ed (1) PLUTARCO, Numa, 17 : « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per artificia distributio ; haec vero fuit: tibicinum , aurificum , fabrorum « tignuariorum , tinctorum , sutorum , coriariorum , fabrorum aerariorum , figulorum ; « reliquas artes in unum cöegit , unumque ex iis omnibus fecit corpus ; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore , che sembrava porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN , De collegiis ac sodaliciis ; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 11 ; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse . L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia ; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium , che pur appartiene al capo della famiglia patrizia . A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa , dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto , che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates , cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso , in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione , cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune ; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza , le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento , la cui origine era analoga a quella del patriziato , e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento , che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina ; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale ;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio, portò forza , organizzazione , tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente , e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento . 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura , importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra . Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze di villaggio , ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella , che riusciva vittoriosa . Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le sorti della guerra (1) . (1) Questo intento della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento Metto Fuffezio : « Quod bonum , faustum G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta , ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere : senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza dell'esito del duello fu , che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores . Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa , cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine , e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo punto pertanto , che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco , e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere : unam urbem , unam rempublicam facere » . (1) Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib . I, cap. 6 , pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico , mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio . Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione regia , Lib. II, cap . IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri , raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si trovava ; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica . È da questo punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto , che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo elemento , aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro ; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica , ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato , meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva , in parte di origine servile , è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile , Le elezioni e il bro glio , pag . 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova , quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella cittadinanza , a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la conseguenza , a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana , eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica , immobile nella mano di pochi » . - 180 CAPITOLO IX . La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato . 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di carattere negativo . La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia ; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia . Essa è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia . Al modo stesso , che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium ; cosi alla domanda in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere , che essa è quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso , consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa . Ora e sempre sarà questo il punto di vista , a cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto , sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto , e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo , secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X , 21, 5 . - 181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre . dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo , chiuso in sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa , facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò , che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium , dopo che già comprende va la plebe , vide una folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli , che non erano compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita , che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto , implica eziandio la deffinizione negativa di quello , che ne costituisce il contrapposto . 147. Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto , ne verrà comeconseguenza , che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare , sotto questo o quell'aspetto , nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto . La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto , e che si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto . Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo » . Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza ,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana : mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico . Qui, comenel resto , il processo della logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città , e che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città . 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto : ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia , anche considerate sotto questo aspetto , le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un ' analogia , che possa paragonarsi con quella , che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica . Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi non tanto la pro prietà , quanto la possessio , che dapprima tiene luogo di essa . In fine sarà eziandio , mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo di famiglia plebea , i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO , Comm ., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto , è da ritenersi di origine plebea , e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo, per cui , allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza , perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica . Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico , avevano almeno un carattere religioso e morale ; in una comunanza invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa , priva di tra dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus (1). (1) Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione , perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza . Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui : < Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii » , senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali , che non la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie , che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium . Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica . Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea , che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio , accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo , emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia , il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa , che deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in essa , che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate , e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti , come l'emptio venditio, la locatio conductio , e simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 49 ; COGLIOLO , Prefazione, pag. XI, alla traduzione del GOODWIN , Le XII Tavole , eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia ; il che dimostra , che dovette essere determinata da comuni necessità , in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea , perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella . Si spiega pertanto il largo uso , che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza . Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO . 185 - semplicissimo di fare testamento , che ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram , per cui il plebeo , che muore senza figliuolanza , affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto . Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante , che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico , che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare , perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso , che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano , fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo , perchè popu lare erat (1) . Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie , e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente ; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia , un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102 , ed anche Gellio , XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam , id est patrimonium suum ,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet » . Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram , fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso , che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm . II, 285, scrive : « ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre : haec fuit origo fideicommissorum » ; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo , di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO , I, 5 : « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei » . È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid . et judic., I, pag. 411 e segg . 186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto , acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo . Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento , che era nata e si era svolta fra capi di famiglia , che sentivano la loro superiorità ed indipen denza ; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio , ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie , ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia , l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un adulterio ;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso , che era così fermamente stabilita presso il patriziato ( 2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO , Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio , essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica , che vi attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. ( 2) Questa varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse , può essere facilmente compresa . Il patrizio sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva , che consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno) : che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso ; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza . Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore , che non hanno una storia nel passato , ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento , che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea . Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia , che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso ;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse , che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto , che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano , fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium ; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze , che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta , negli inizii è forza ed energia , che spinge, come direbbe il Vico , l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam . Basta questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio , che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere , come usi, da un'epoca ben più antica . Cid serve intanto a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa collettiva ; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 434. 188 mercio per un popolo , le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai progredito . Qui intanto , per non spingere questa ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del diritto privato , che sono la famiglia e la proprietà . 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia , quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici matrimonia , quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia , che la congettura possa spingersi fino al punto , a cui la spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca , abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse stato , ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo , che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità . Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto , la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia , cosi non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento , che veniva ad essere necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo. Era quindi naturale , che la plebe , non avendo l'organizzazione gentilizia fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd ., pag. 34 e 35 ; e il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità . Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale ; ma solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia . 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo , male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia , fondata sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita , abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città , in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri ; che quelli avevano una posizione di diritto , e che questi erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario , che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum , si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca , in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea . Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente , quello di appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto : disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata , la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1) . Insomma la conclusione ultima sarebbe questa , che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea ; che tuttavia questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato ; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza , perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario . Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento , perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie , e che col tempo , col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato . 154. Per quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia . Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti , sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique , quia non mancipatione sed usu ( 1) Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 35 . - ! - 191 tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico , ma anche di possessioni di carattere privato , e furono queste , che do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive : occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ( 2), indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee , lo dimostra l'importanza , che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili ; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi altra autorità , che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal possesso , e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione cae pisse , Nerva filius ait ; eiusque rei vestigium remanere de his , quae terra , mari, coeloque capiuntur ; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di quelle immobili ; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones ( Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411). (2 ) V. Festo , Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns , Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 95 . (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig . (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto . Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato ( possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium , e intanto , appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario . Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto . 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia . Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato , porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto , che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana , anche per afforzare l'esercito della città patrizia , dovesse sorgere naturalmente l'idea , attuata poi da Servio Tullio , di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia , e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia . Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà , che la privata , o meglio quella , che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica : « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam , fides quaedam in ea, firmamentumque erat » . Fu questo , aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia , non aveva agro gentilizio , e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio ; cosi ne derivò la conseguenza , che l'unica proprietà , che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata . Cid può servire a spiegare il fatto , che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium , dei praedia censui censendo, e dell'ager publicus . Questi sono l'unica proprietà della plebe ; mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato . Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum , piuttosto che alienarla, e la lotta , che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio , che derivava da essa , erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato : così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile , e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium , come meglio apparirà più tardi. 156. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente , quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro , che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea , che doveva di necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato ; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla , la quale ha bensì una esistenza G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato . Di qui il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù , viene a costituire il gran dramma della comunanza civile e politica . In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto , ha la città , ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto , più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento , che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso , che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia , che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa ; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica , senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio , deve essere riguardato come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto , a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero , come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie , I, pag. 105, 4.ed . — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom ., Prol., Palermo, 1886 . 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato , mentre l'altro , per le speciali sue condizioni di fatto , non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto , e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città , senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose , giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso . La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia ; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica , che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia . Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia ; mentre tutto ciò , che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel diritto , e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea . La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia , che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica , per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente . Solo resta a spiegare , come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso , che suol essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza , che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo , come l'opera esclusiva della forza . Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium : vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza , che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro , che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro , che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium , di nexum , di manus iniectio , che non solo si ispirano al concetto della forza , (1) È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico ; il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli . V. in proposito : VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, 1886, pag . 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura , a cui manca non solo quell’aureola religiosa , da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia , che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio , e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù ; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit ; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer . tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro , sopra un piede di assoluta eguaglianza . Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium , a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa , debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa . 198 160. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata ; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo , sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico , che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium , che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle , che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto , che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non svolto . Il medesimo consiste in ritenere , che la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia , dovette essere analoga a quella , in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla legislazione decem virale . È un magistero eminentemente romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i forcti ac sanates . È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti ac sanates ; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto . Ciò era necessità , perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe ; e intanto spiega eziandio , come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium , i quali perciò , al pari di quello del commercium , al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una popolazione circostante alla città , con cui non poteva a meno di essere in commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique, che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 - poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto dell'urbs, quel diritto , che prima governava i rap porti, che intercedevano fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello , che era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza dello svolgimento del ius quiritium . Certo questa non è che una congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo. Intanto , come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare condizione giuridica. & neaco (1) V. sopra Cap. VIII, n . 138-39, pag. 170-171. Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è di Festo , ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d . XII Tafeln von den Forcten und Sanaten . Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole , a cui Festo accenna , vº Sanates (Bruns, Fontes, pag . 664), fosse così concepito : mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto » . Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire , quale potesse essere la speciale posizione giuridica . Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733 , Tab. XI,6 , ricostruirebbe invece la legge in questa guisa : e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium , forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN ; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto » ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium ,ma non aveva ancora il connubium . Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns , Fontes , pag. 365 ; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto » ; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di . la quale 200 161. Del resto , checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium , il quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa , in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia , se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza , in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso , che i ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo : così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium , in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria , per usare l’es pressione del Vico , le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam . Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà , quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum , pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili , che poteva nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore ; ma bensi un diritto rozzo e violento , che risentisse in certo modo della lotta , da cui esso usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva , in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo periodo , la manus, armata di lancia , pronta da una parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra , e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione più , naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu . ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno , la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano , non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie , figli, clienti e servi? Non era essa , che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne ? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato , poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto ( 1) Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico ; na è avvolta in una forma fantastica , proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica , che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea , che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856 , pag. 14 e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607 : « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes : ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae , unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali , si quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat » . 202 posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione , dovette prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della famiglia ; perchè la causa , che determino questo irrigidirsi della famiglia , non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna , ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza . Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella , che lotta nella manuum consertio ; che rivendica nella vindicatio ; che trascina il debitore nella manus iniectio ; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit) ; che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium . Essa quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla , da cui sono circondati. Però almodo stesso , che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite . Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da curia , come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie , ed ora costituisce un esercito . Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae ; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii ; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città (1) . 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione della città , e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è circondata . Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di condizione, in cui si trovavano le due classi . Il plebeo , che non ha una posizione giuridica , e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio , quando voglia entrare in rapporto con esso , non può avere altro mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum , per guisa che, se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio , assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza , che i durissimi concetti del mancipium , del nexum , della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del diritto quiritario , in cui presero poi una significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza ; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro inerente . Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello , in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa , cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium , di nexum , di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva ; ma conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta . 164. Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse , che però riduconsi a due essenziali ; a quelle cioè per cui significa : - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù ; poi indica eziandio tutto cid , che può essere preso e assogettato colla manus : quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis ; infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo , in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù ; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata , per cui essa designa il potere del capo di famiglia , tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium . Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera ; come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo ( 1 ). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes , pag. 214. Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio , colla quale egli direbbe , che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor . Introd ., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo ; parmi eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva , la quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa , che non il potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum , habere potestatem , habere dominium , i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò , che è soggetto al capo di famiglia , ma indica eziandio il trasferimento , di cui possono essere oggetto le cose , che entrano a costituirlo . Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium , facere nexum , al modo stesso, che direbbesi facere testamentum . Or bene non vi ha dubbio , che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato . Facere mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex eo , quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore (1). Cid però non tolse , che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio , od anche a persone, che dipendevano da esse , come accadeva nella noxae deditio . Che anzi è molto probabile , che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio . Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia , anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il significato , che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio , nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur » , BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio , noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo , con cui il vinci tore afferrava il vinto , in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù . Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza ; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio : manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata , rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità , non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto . Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato ; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato . La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio debitore ; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè : contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi) ; contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria ; mentre quella, che riguarda il nexum , ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza , il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota ; ma (1) V.sopra , Cap. VI, § 3, n . 105-6, pag. 135 e seg . - 207 si può affermare con certezza , che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso . Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò , che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato . Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe , e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento di questo « ingens vinculum fidei » ; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente spiegato , quando si cer chino le cause , che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che , non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio , anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto , non aveva altro mezzo , per trovare protezione o credito , che o di dare a mancipio se o la fa miglia , o di vincolarsi col nexum . Quello era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria persona . Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso ; cosi in parte si comprende che il diritto del creditore sul debitore , sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili ( 1). 167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio , che esso ebbe ad assumere significazioni molto diverse. ( 1) Liv. VIII, 28 , in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt » ; e più sotto : « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom ., III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum , come pure del mancipium , si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile , che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo ; ma che poscia dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica . Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum . Del resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium , significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium , dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario , che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro . Al modo istesso , che i concetti di connubium , di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario ; così i concetti del mancipium , del nexum , e della manus iniectio , dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario . Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città , che si vennero ricostruendo a poco a poco , noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia ; - 209 quello di un elemento aristocratico , che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento , di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re , al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium , del commercium e dell'actio sacramento , ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica . Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea , fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità , più libero da ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica . Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto , che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio , ed aveva dato origine ai concetti del mancipium , del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario . È quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso , viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale , assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee , finirà per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium ,della societas, e del più importante fra tutti , che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica , militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città . Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia , della concessio civitatis sine suffragio , del municipium , pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero . I materiali quindi erano in pronto : solo rimane a vedersi il pro cesso , col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò , che in essi eravi di vigoroso e di vitale , e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato , sarà la distanza stessa , a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della città . Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero . Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico , dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento , il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica . Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo , che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa , che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia , che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva ; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia , essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG , ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già , o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere , mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale . A ciò si aggiunge , che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si , che esso , modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova formazione. Di qui la conseguenza , che quando si riesca a penetrare il processo logico , stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e il modo , con cui furono costrutte le sue mura ; ma eziandio la serie di quei concetti fondamentali, che , preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto , come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la formazione della città . Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia , o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa , che si introdusse nell'organizzazione sociale ? 172. Le teorie, che furono escogitate in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in numero e diverse nei risultati a cui giunsero ; quindi per noi sarà necessità di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia ; essa sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre sul medesimo modello . A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente , e che le genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù ; cosi l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita , ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza civile e politica . Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella famiglia , e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù ; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes , per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo , che appartenga ad una di tali gentes ; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano , e con tutte le fa miglie , che entravano a costituirle ( 1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire , che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia , e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto , il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano , e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare im perium , destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito , e percid accompagnato dal ius gladii ; la curia da conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta , che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante ; il populus romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia ; e infine le gentes stesse , in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza , ma già raffazzonati secondo le esi ( 1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad . DeGuerle. Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv . (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad . Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag . 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad . Berthelot et Didier, Paris, 1885 , pag . 37 . 214 - genze di un esercito ; donde quel numero fisso di trenta curiae , in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes (1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria , così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la proprietà , la gente e la tribù, sarebbe pur quella , che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù ; mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen zialmente religioso ( 2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio ; ma intanto ciascuna di esse , collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente , la quale non può altrimenti essere ricostruita , che riportandoci nell'ambiente stesso , in cui essa ebbe a formarsi . È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia , senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive , a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica . Or bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista , apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima esistente ; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo ( 1) V. IHERING , L'esprit du droit romain . Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, pag . 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER , Rö mische Geschichte, I, pag . 523. ( 2) FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv . III, Chap. IV , p . 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva . Cfr. pag. 147. 215 . compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei momenti di pericolo , e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi proprii armenti in un'epoca , in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto , a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di provvedere alla co mune difesa . Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti ( fora ), a cui le genti convenivano per scopo di commercio , e dove, occorrendo, si tratta vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità , non propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti ; e fu anche in questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto della città non sboccið di un tratto , ma ebbe ad essere provato e riprovato in varie guise sotto forma di arces , di oppida , di fora, di conciliabula , di comitia , e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita , assunsero un (1) Questa idea , che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib . I, ai numeri 5, 14 , 66 , 99 . - 216 - carattere sacro e religioso , per modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose . L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia . Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si viene sceverando ed isolando tutto ciò , che si riferisce alla vita pub blica . Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica , fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo ( forum ) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia , il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse ; donde la curia , il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si riuniscono . Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che entrano a costituirla , essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù , nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù , che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica ; di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo , coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza , e parteci pano alla stessa vita politica e militare . 175. La città latina pertanto , e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica , frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare , quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando : mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia , la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città , dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla , dalle comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia , e sopratutto di quelle gradazioni di essa , che prima compievano eziandio una funzione politica , quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela . Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale , sono i due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica ; e la città dall'altra , poichè essa , essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle forza e con sistenza . Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti, negli inizii della città , vengono ad essere il pater familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento , prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia , e prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico , che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio . 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com piutamente diversa , e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia , in tutte le sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello , che è quello della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione , ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale , come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento giuridico , po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale . Di qui derivano alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia , per quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro duzione naturale , come quella che è composta di gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto , della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia , comprendendo persone, che si suppongono derivare da un medesimo antenato , tende a mantenere una proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella discendenza , per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica , appena essa compare , viene ad essere quello della capacità e dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della città può 219 . già ritenersi compiuto , e quindi le cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso . È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città . Tuttavia la Roma Palatina , finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città ; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii ; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù ; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza , come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città . Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium , che mutasi nella fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel sito , che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo il rito , dovevano trovarsi nel cuore stesso della città . Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto , che secondo la tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero ( 2) (1) Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86 . « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae » . Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag . 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa , che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia , se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente . Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin . colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine , da cui trovavasi circondata . Essa infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi una casa , circondata da un orto . Per tal guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio , e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia , aveva posta sede permanente dentro la città , o in prossimità di essa. Fu in questa guisa , che Roma diventò ben presto , secondo l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato , al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze , cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano , la cui vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio , Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della città , 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie : consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza , che Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento , che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine . Essa riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata , l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla vita rustica , la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con essa . Di queste varie distin zioni, quella , che cominciò ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto gentilizio , fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba forense . Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa . Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un tempo ; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età , in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva ; gli atti stessi più importanti della vita , quale sarebbe, ad esempio , il testamento , possono farsi in guisa diversa , secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace , o di soldati in procinto di venire a battaglia ; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo , e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata ; in quanto che fu questo il grande intento , a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata ( 1). È questo il dualismo veramente fondamentale , che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto , che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum , che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica . Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica , il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città , ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti ( 1) Per dimostrare l'importanza , che nel concetto romano ha la distinzione fra il pubblico e il privato , basti citare il Trinummus di Plauto , questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato . 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel diritto , che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città , viene col tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico , ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso . Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato : poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione politica della città . Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento . Ciò ci è dimostrato dal fatto , che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città , e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge , che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm . I, 3 ; II , 104 ; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo : Leges publicae populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata , secondo che il danno, che ne deriva , e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza ; distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia , i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata . A queste si potrebbero aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie del suo passaggio . È in questo senso , che le proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus ; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia , l'hospitium , il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati . Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private , e se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita , co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico . 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita , se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento . Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione ; ma se questa potè accadere colla fondazione della città , mentre prima non erasi avverata , la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò , che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata . Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata , è da vedersi Festo , vu Publica sacra ( Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3 . Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata , è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad . Girard . Paris, 1887, I, pag. 101, cogli autori ivi citati in nota . 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città , che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra , e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa , e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota , e costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile . Fu essa ancora , che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione , diede origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città , da cui doveva poi uscire la storia ; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla , a cui si indirizzano . Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham , appartiene, quanto alla sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica . Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso , le quali tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , nº. 34, pag. 94 e segg., e alla dissertazione : Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica . Torino, 1878 . (2 ) Pelham , vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica , ninth edition . Edinburgh, 1886 , vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato . In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile , lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità , da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente esercitato , e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato , e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali , nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista , che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana , Milano, 1879, pag . 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato , come nella formazione primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella , che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica . Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella , e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta , sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa , che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città , dopo essere stata lungamente preparata , presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende ; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio , tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo , che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò , che si riferisce alla vita politica , giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola , e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii : Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione , che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato , sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto . 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù , viene ad essere collocata in un sito , a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata , l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città , la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa , potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento . Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo , di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città , era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep ., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea , e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum , neque ut in cunabulis vagientem relictum , sed adultum iam pene et puberem ? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia . Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città , tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo . I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città . Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere « quod bonum , felix , faustum , fortunatumque siet populo Romano» , e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio . I concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente , possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta : ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico , fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo , di cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore , ma il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito , e quindi non è meraviglia , se la nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito , e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta : cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico , che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente , i quali però, mirando ad un intento novello , ricevono uno svolgimento compiutamente diverso . L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo ; il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente ; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica , e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città . 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata ; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione ; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu , atque legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia , ut capere eum eamque oporteat, et statim , certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare » , Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta , che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium . - 231 individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città . Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa , che sembra ancora circondare la formazione della città ; maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente ; essa non è nè il fondamento , nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges ( 1); ma è soltanto una consacrazione dello scopo , che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2 . Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae) . 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di quelle , che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali ; ma se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più . Così è certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu ; ma è evidente , che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza , non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio . Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica , ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali ; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra ? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5 , 6 , 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio . La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù , se non di diritto , verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale , e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale , a quello della discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto ( 1). 190. La distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle curiae , e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto , che esse non fossero , che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso , che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia . Essa , al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad un tempo ; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto , che fa parte dei sacra publica ; un proprio santuario ( sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata . L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale , e miri a uno scopo preordinato , che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling . lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù , come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites . (2) Niebhur , Histoire Romaine. Trad . Golbery. Paris, 1830 , II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib . I, cap . III, al nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni ( foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro , e che essi, come attesta Aulo Gellio , siano anche tratti ex generibus homi num (1) ; ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età , e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto , salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle . È quindi incomprensibile , che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età , né al sesso . Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto : o in rapporto colle famiglie , colle genti, colle tribù , da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles ; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte , e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio , che non debbono avere altro pensiero , che quello della res publica . 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio , essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur ; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix , ad Quintum Mucium , e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti : « cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia ; cum ex censu et aetate, centuriata ; cum ex regionibus et locis , tributa » . Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes ; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza , mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo , e quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù , a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori ( patres) ed i cavalieri (celeres , equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie , e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum , o di un magister equitum ; mentre il senato , nella concezione estetica ed armonica della città primitiva , rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio , e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia ; donde il con cetto , che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie : mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione in tribù , qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito , cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale , che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò , che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui corpo , secondo OVIDIO , Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium , Ramnium , Lucerum fiebant » ( V. Festo , vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia , dei quali si sa , che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152 ; e il Bloy, Les origines du Sénat romain . Paris , 1883, pag . 102-105 . 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari ; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò , che Cicerone disse più tardi della famiglia , che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie . § 3. — Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium , patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere , ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta , poichè il potere in genere viene ad essere indicato , ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium ; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico , che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi , che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città , presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili , eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù . Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico ; nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città ; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso . Il re infatti non è più tale per nascita , ma è creato dall'elezione ; il che deve pur dirsi del senato , e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine, ne una folla , in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea , debitamente organizzata , di uomini di senno e di consiglio . Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di imperium . Dei due vocaboli tuttavia quello , che a mio avviso appare più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale , per la propria ge neralità , può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del magistrato (potestas regia , consularis, censoria ); quello del popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato , al modo stesso che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato . Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie , che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium , possa anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi ( 1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm . R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN , secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga , e quello di impe rium la più ristretta ; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano imperium . Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato : « Cum imperio dicebatur apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium ; cum potestate est, dicebatur de eo , qui negotio alicui praeficiebatur » . Le droit public romain , I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva , che quel vocabolo di imperium , che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo . Questo potere infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas ; ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui figli. Ciò significa , che i vocaboli presentansi dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione ; ma quando poi questi concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi , così ben presto nella indeterminazione primitiva , compariscono i vocaboli, che esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli di imperium , che applicasi di prefe renza al potere del magistrato ; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas, che, applicato al popolo , indica il potere di esso , in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente , che renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito . 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium , che indica di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita , nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa miglia , alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di imperium . Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium , è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est » . De le gibus III, 12, § 28 ; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive : « vidit singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas » , nel qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep ., JI, 8 . (2) Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo ( Le droit public romain, I, pag. 8 ) ; e aggiunge poi a pag. 10 , che il magistrato , quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro la città . Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen , che il re non riceva il proprio potere dal popolo : tanto più , che gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa , dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia , e non poteva perciò essere negato al capo della città . È tuttavia degno di nota, che questo imperium , formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno , appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori ( fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale , mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno ; e che se il magistrato ordini al littore « col liga manus » , il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato , non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita , trattandosi di una città , che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e diversi ; né si può aspettare, che un popolo , il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia , possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta ; è potere religioso, militare, politico e civile ad un tempo ; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen , per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali sono il console , il pretore, il dittatore ed il censore ( 1). Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale . Tuttavia , anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima ( 1) Mommsen, Op. cit., pag . 5 e 6 . 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas , presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata , e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato . Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia , che si arreca o si assume per un determinato atto . Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium , dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit ; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra auctor fit , cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro ; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio , e le delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità , mediante la sua approvazione . Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato ; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità , essenzialmente consultiva , riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo : « Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus » . De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo , perchè non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza , ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag . 47 . 240 solo opera della fortezza del suo popolo , nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa , fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas : col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato ; altri invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica , quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse . Durante il periodo regio , il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie . Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo , ed aveva ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain , 5me éd ., Paris 1883 , pag . 208 e dal Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag. 16 , nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia , 1884, pag . 297 a 395. Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op . cit ., pag. 42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza , che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto , che il senato aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio , dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò , che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt » . Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita , l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione ( 1). ( 1) Nella gravissima questione, che è tuttora aperta , gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum , durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio , relativo all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17 , ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al senatus ; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6 ; IV , 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano : nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ; 3º Che oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da Livio , ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex , o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40 , 55 , 59; IV , 7, 17, 42 , 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa , accid ritenesse sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della costituzione primitiva , secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato . Ciò che è accaduto dell'auctoritas patrum , si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed anche della proposta dell' interrex , che pure appartengono all'assemblea esclusivamente patrizia , quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione , e aveva così cessato di G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro potere . Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia , che essi considerano come una specie di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium , il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum , la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa , ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva , in cui ogni organo politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex , e di quello dell'interregnum . Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, op . cit., pag. 42 a 48, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno , poichè la nobiltà plebea , che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto » , dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü ; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum , la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit ; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato , allorchè nel discorso de lege agraria 2 , 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia , curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto , e quindi al modo stesso , che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia , di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia , che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento , da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia , che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno , gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie , as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare , quando si trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso . Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia , è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato , che debba succedere nell'imperium , come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium , fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur imperium » . Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd . au cours de droit romain . Bruxelles, 1876 , nº. 6 , pag . 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio , che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità , riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità » . 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero , ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio , anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà , che servirebbe ad obbligare il popolo , ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è , che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato , che prima di entrare in ufficio rogat imperium , ed havvi il popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato , in quel fatto di Valerio Pubblicola , che in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto , che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto , di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto , che il potere supremo risiedesse nel popolo , non poteva in nessun modo affievolire l'imperium : poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in ufficio , e tanto meno esercitare l'im perium , prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice : « consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora : « sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse » ( Ibidem , II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium , non si comprende come il Mommsen , Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e meno an cora , che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito l'imperium . Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep . II, 10, 17, 18 , 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi , che questa lex entrò in azione solo colla costituzione Serviana ; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium , e a cui ritornavano gli auspicia . - 245 da lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva , che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo , per cui il potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione . Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni (logica , che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della medesima. § 4 . Il re ed il regis imperium . 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex . Tutti i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator , di praetor , di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium . Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del potere , che eransi avverate nel periodo gentilizio , e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo repubblicano , saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa pubblica ; nė vi ha costituzione scritta , che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso della città , accanto al sito , ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica , che si conserva nel tempio di Vesta . Che se, per provvedere al pubblico interesse , debba abbandonare la città , dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato , che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re , che provvede al lustro esteriore della città , che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia , e che non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città . È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re , ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello , che aspird alla tirannide . 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo , che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso ; è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica , allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex sa crorum ; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è , che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso , nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri : « inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam » . - - 247 sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche , internazionali delle genti e delle tribù , da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa , che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città , che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum , dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis ; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati . Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato , che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato , salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis (2) . È quindi vero , che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio , e da esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico , che dovrà poi operarsi nella città . 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis , indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica , più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò , che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città , che non da una precisa e particolareggiata determinazione del ( 1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva , mi rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV , § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto , come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino , quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi , che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae . A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii , allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse , cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata . Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri , ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità , se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città , e vollero che i consoli, entrando nella medesima , facessero togliere le scuri dai fasci , e facessero abbassare anche questi , allorchè concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo , allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito ; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra . In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria , mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi : ra duna il senato ; amministra giustizia , non nella propria casa, ma all'aperto , in cospetto della cittadinanza ; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain , I pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia , e del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit ., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag . 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri , i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti , in base a un numero determinato , dall'assemblea delle curie . I primi scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio ; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo , che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres , col numero delle curie ; correlazione , che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites , i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli ( 1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone tasse , distribuisce terre , costruisce (1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre, pag. 672 e segg. È poi Livio , I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato ; sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del senato (Mem . Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii . Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re ; ma ad ogni modo, quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della città , si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a quell'elemento , che era chiamata ad unificarle . Allorchè trattasi della formazione di una città ( e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto , allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato , che potranno svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come quello , che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature diverse . Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre : ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo ( prin ceps), è il duce dell'esercito , e il magistrato della città . § 5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato , quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia , come lo è certamente quello di patres , che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio , che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente . Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto , che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò , che tanto il regis imperium , quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero di un ritegno in quell'autorità , che viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età (1). Di qui conseguita , che la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità , i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica , che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza , che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che , in base al proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città . Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio , in cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo . 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia , ha per sua natura una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere ; così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato , che dipenderà dall'influenza effettiva e reale , che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica . Possono esservi dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur » ; al modo stesso , che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza , contro cui non sia consentito di appellare . Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato , pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe , abbia potuto , senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi ; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto , a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II , 8 . 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe , al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio , occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione del censo , cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console ; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato , e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe ; finchè da ultimo il potere tribunizio , che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare , mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso , e quanto è l'appoggio , che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa , in uno scopo di difesa , siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato . Potere consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi ; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento , questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta , che la nomina attribuita al re era più libera di quella , che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia ; il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato , non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte ( 1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato , gli autori, e fra gli altri Dionisio , non potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta , dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il periodo regio , furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore , e quando ad essi viene affidata , almeno secondo Dionisio , la punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato , fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re , che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata , per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio , non abbia potuto esercitare tutta quella influenza , che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo , V ° Praeteriti senatores ( Bruns , Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2 , 12 , 14 , il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5 . 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a vita , che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe , la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto , almeno di fatto . Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato , consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte , divenuto così custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica , di cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente patrizio ; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre il processo logico , che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine; quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento , che sembra appunto essere il numero adottato per le altre città latine , e per gli stessi municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano ( 1). Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè stessa ,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire difficoltà , finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui , che appartenessero alla plebe . Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in guisa tale , che poteva accogliere , senza difficoltà , qualsiasi nuovo elemento . Di più (1) Liv. I, 8 ; Dion., II, 12 ; Cic ., De Rep ., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò , che essi talvolta erano perfino chiamati centumviri. Cfr . Willems, Le droit public romain , pag. 535 . 255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie si possano stabilire . Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento . Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie , che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele , siano in condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio , mediante la cooptatio , e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a costituirle , non fossero ammessi a far parte delle curie . Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia , le curie costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato ; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento , e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie : ma, una volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie . Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso , poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento : così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città . 210. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta , non è bene atte stato . Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero , che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses , e gli altri infine dai Luceres : la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco , al quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile , allorchè non fosse contraddetta dalla tradizione , che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto , allorchè una nuova tribù veniva aggregata , non si comprenderebbe come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza , che la spiegazione più verosimile del processo , che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa , che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono Roma primitiva , non potevano essere tali da offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto , che il numero del senato primitivo fu di cento , per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente patrizia , contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta , deve piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario , a cui si rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano (3). In quella circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878 , I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du Sénat romain , Paris, 1883, pag. 43 e 55 ; i quali pure accennano alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi Sabini. De Rep., II, 8 . (3 ) V. sopra , lib . I, Cap. VIII, nº 144. 257 tradizione narra , che la parte povera della popolazione latina entrò a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto , che così accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era , che i capi di queste genti dovessero essere ammessi nel senato , il che non avrebbe potuto essere fatto , senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero simile il supporlo ; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare espressamente alle proporzioni di tale aumento , attestano però che esso dovette aver luogo . Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali cittadini d'Alba ; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia ; e di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un contributo dal nuovo popolo . Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato e nel senato all'epoca di Tullo , in occasione della distruzione di Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento , il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero , che il secondo centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense ; ma ciò non può essere ammesso , in quanto che l'ordinamento politico della città , per opera di Romolo , era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù , come lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle donne sabine ; inoltre , cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo aumento , la tradizione e concorde nell'attri ( 1) LIV., I, 30 ; Dion., III, 29. ( 2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres legit » ; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant » . ( 3) PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag . 645 a 672. G. CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato . Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta , il qual numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane : ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio , siano rimaste tutto questo tempo senza rappresentanti nel se nato . Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo avviso , deriverebbero il proprio nome da Lucer , che in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1) ; ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes , ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica , che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza ; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca , come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio , che non la leggenda di Tanaquilla , comemaiTarquinio , appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle ( 1) PANTALEONI, op. cit., pag . 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio , in Aen ., V , ove scrive: « nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium , a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu ; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est » . Del resto anche Livio , I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia . Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli , che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium ; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza . È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso ; al modo stesso , che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu , e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu . Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il principio : « prior in tempore, potior in iure » . 213. Le genti insomma, che, a nostro avviso , si vennero ag giungendo , escono da quelle stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele , che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento ; il quale , essendo in correlazione con quello delle curie , non ebbe ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa , e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata , all'avvenire della sua città . Bene è vero , che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente Claudia : ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato , perchè bisognasse aumentarne il numero , e poi trattavasi di una gente soltanto , la quale, per quanto numerosa , non poteva occupare tanti seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi , che si concilii più facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro . La medesima intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo , il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie ; e cid fra gli altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum gentium , denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità . A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie . Ritengo quindi in proposito , che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella , che l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie ; poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera : Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain , pag . 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes , ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio : ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita , poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto . Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum , e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie ; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali , anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia , appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale , che può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose ; ciò però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un carattere religioso , militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300 , come quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota , che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo ( 1). Essi, nella costituzione politica della città , corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo , per accordarsi con esso intorno alle cose , che possono interes sare la comunanza . In questo però le curie già differiscono da quella , che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza , alla vita pubblica le varie tribù , la cui confederazione è concorsa a formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta , che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante ; nè l'etimologia può dirsi inverosimile , quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata , è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING , L'esprit du droit romain , $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V , 32 : « comitia curiata , qui rem militarem continent » , e da un altro di Cicerone, De lege agraria , II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata , non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare : poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia . Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia , come lo dimostra la nomina dell'interrex , la quale viene ad essere loro affidata , in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi auspicia , e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines, Paris, 1886 , pag. 6 e 7 , e il BourgeaUD , Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag . 39. ( 3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag . 617. 263 quali, il Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium , città sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso , con cui sarebbero indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites, più che l'origine, sembra indicare l'ufficio , il compito , a cui essi sono chia mati di fronte alla città , poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire il vocabolo da ciò , che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia , esprime pur sempre il medesimo concetto , poichè è la lancia , che è il simbolo del potere di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia , che sono i membri delle curie . I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali , in quanto hanno partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica , mentre nei rapporti esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra corrispondere, sotto un certo aspetto , a quella indicata coi vocaboli domi, militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones. In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro ; intervenire i patres , quali moderatori del populus ; e tenersi anche orazioni (conciones), le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai personaggi della loro storia , dovettero però essere ispirate alle circostanze , in ( 1) NIEBAUR , Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero , che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites : « Quirites autem , dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum , comunionem et societatem populi factam indicant » . ( 2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 29. Inering , L'esprit du droit ro main , 1, $ 20, pag . 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata curia . 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta ; ma allorchè il periodo delle trattative è finito , più non occorre che una interrogazione ed una risposta , so lenni, ed allora : « quod lingua nuncupassit, ita ius esto » . È in questo senso soltanto , che deve essere inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio , che ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro ( 2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si palesasse favorevole , o non alla delibera zione, che si stava per prendere ; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum ; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra comitium e contio , vedi il KARLOWA, Röm . R. G. I, pag. 49. È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono : « Contio significat conventum ; non tamen alium , quam eum , qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur » . Ciò pur conferma Liv., 39, 15 . (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v . fra i recenti Karlowa, Röm . R.G., pag . 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il carattere del populus primitivo ; il quale, composto di capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio . Da una parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola : quod bonum felis , etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola : velitis, iubeatis, quirites ; e dall'altra vi erano i membri delle curie , che rispondevano affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie ; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva , ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia , in cui non si può comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo ; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina del voto . I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza ; disciplina questa , che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria , e la tribů . Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen ) ; donde la denominazione di curia principium , che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali . sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati ; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato . Secondo Dio nisio , il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra ; sarebbe essa , che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes , mediante la cooptatio ; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia , ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta ; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale ; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo ; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio ad populum , che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata , secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio , uccisore della propria sorella . 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie ; la quale , sotto un certo aspetto , è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie , e del loro culto , e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della città , deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù , ( 1) DION ., 2, 14 , scrive in proposito : « populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset » . (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia , e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso ; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto » . Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse , sonvi i comitia ca lata , convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia . Nei primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il magistrato ; si assolvono o condannano coloro , che appellarono al popolo . Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso , i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines ; come pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia , e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto , per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum , che è la rinuncia al proprio culto gentilizio , per causa di adrogatio o di transitio ad plebem ; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio : cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla . È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum , che vien detto appunto in calatis comitiis ; il quale , secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello , che alterava le norme relative alla successione genti lizia , e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra . Cid è provato dal fatto , attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium , nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità ; donde l'espressione popolare , che occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris , per significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista , sotto cui debbono , a parer mio, essere considerati i comitia calata , ci spiega quel carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie cose per testamento ; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo , e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto pubblico . Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo . Riterrei invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto , e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza , che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia : quindi questi atti continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica , ma ancora i sacra privata . Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere provato dalla formola , conserva taci da Aulo Gellio, relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio , Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra , in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. ( 2) Vedi libro I, cap. IV , $ 4 , nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio , Noc. Att., V , 19. Ivi si dice che a adrogatio per rogationem populi fit » , ed è riportata la formola , che è quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis , iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo » . 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto . Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento , ma solo prestare la propria testimonianza . Ciò è dimostrato dal fatto , che il testamento in calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram , in cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote). Intanto però , anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato di cose nel concetto , ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota , che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa competenza , per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano l'organizzazione gentilizia , e sopratutto , quanto all'adrogatio. Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio , i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle curie ; ma ( 1) Papin., L. 4 , Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa , che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia . Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio , Comm ., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra , che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza . Fu questo il motivo , per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram , ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm ., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del diritto pri vato ; premettendo però fin d'ora , che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie (1 ). $ 7 . Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale della primitiva assemblea curiata : ma intanto per scoprire certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate , quando non fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità , ritengo opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse , ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello , che si riferisce ai comizii. Roma patrizia , e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio , non conosce altra assemblea del popolo , che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium , di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium , già inteso in senso più largo , che è la centuriata . Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento , che non partecipava al culto gentilizio , che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e ( 1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro , cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico . Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa , dirimpetto alla centuriata , un' assemblea di patres , perchè com prende coloro , che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie ; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie , continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto , a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio , sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im portanza , e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora regolarmente : ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento , che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius honorum . È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato , poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza , che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum , questo stesso capitolo, § 3º, n° 198 , pag. 240 e seg . colle note relative . 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto , che non di diritto : ma che intanto , fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato . Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio . Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole , che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza , e che, ricorrendo ad una secessio , potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città ( 1). L'unico partito pertanto , che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta , è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare , per quanto sia possibile , nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa : in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo , come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale , nel 283 U. C., dopo lunghe lotte , ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii ; ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa . Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il patriziato , il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia ; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano però , come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto , pacionem , quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln , I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n . 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio , 39, 15 : « ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis , censebant maiores debere esse » ; ed è questo forse il motivo , per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex , i varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1) . 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie , si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state introdotte , senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa , più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso , cioè la nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio carattere primitivo ; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di curio maximus ; al modo stesso , che i pochi discendenti delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa , e poterono essere presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti ; quelli serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1) Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente § 2º, n ° 232 e seg . dove si discorre del concetto romano di lex . Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag . 593, ove parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia , a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso , e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato , e nei quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota , che la trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe , diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente . Questo è il solito processo , seguito dai Romani, nello svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico , che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad un tempo , e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella compagine romana non scomparirà , se prima non siasi ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò , che contenga di vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a costituirla , importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine , III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium tributum . Il Mommsen invece (Römische For schungen , Berlin , 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute : l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta , ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo , quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo , elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa , i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag. 57 a 76 ; Karlowa , Röm . R. G., pag. 118 ; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris, 1886 , pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima . e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia , si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica , recò nella medesima il movimento e la vita , rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia , la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio , che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie , si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro , di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto , mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza . Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza , e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia . Essa è un vero organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione : ma che tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo , ma questo non potrebbe esercitarla , se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato ; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium , e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano considerati nel loro movimento ; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di Roma ha fatto dire a Polibio , che essa appariva mo narchica, aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ( 1) ; ma se altri poi la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo . L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante concezioni logiche , destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo , di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi ; donde l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio , la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse , in quanto che tale intercessio , o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio, Histor., lib . VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain , pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud 277 damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo , ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia , secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale . 227. Intanto quando trattasi della res publica , ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex , interrex , tribunus celerum , praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato ; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta ; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace . E invece al senato , che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al magistrato , o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo , « ne res publica detrimenti capiat » ; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex , sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto , cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura , interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato , e l'amministra zione della giustizia ; dai quali poi discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum , alla rogatio , ed al senatus consultum , il quale, se colpito dall'intercessio , non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum , perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op . cit., (1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu col titolo : L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino , 1886 , pag. 13 . pag. 317. 278 del potere sovrano nella città antica , che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti , che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico , che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2 . Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum . 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo . Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà , e viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata , che significa una convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica , che significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di convenzione o di contratto , quello di lex publica continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo . Parlasi infatti di una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae , agri adsignandi e simili ; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato , o almeno il conferimento dell'imperium , spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue così da qualsiasi de liberazione , relativa ad una persona o ad un fatto particolare (1). Ciò ( 1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi dello Stato , viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata ; donde la conseguenza , che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum . È in questa guisa , che 279 vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione : ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento . Tale significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo , la quale perciò non indica tanto la forma scritta , assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex , secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto , di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo . Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza , che la forza obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si vuol dire , che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso , e impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro , lasciando perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti » . ( 1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere , suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66 : leges, quae lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie , non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym . latin , vº lego , che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex . Così si potrà anche compren dere la lex privata , la quale certo non pud essere derivata da ciò , che i contratti fossero scritti; ma da cid , che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym ., vº lex . Un passo , in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio : Iura , magistratusque legunt, sanctumque senatum . (Aen ., I, v. 431). - 280 vece , che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana ( 1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii ; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto , che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit) ; come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città , deve essere considerata come una « communis rei publicae sponsio » . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina ; ma il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici : « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante , iubet atque con stituit » , può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio ; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia . Vero è , che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica ; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza . 230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città , ed anche la necessità , secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo ( 1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap . XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag . 91 e segg . Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito ; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica . Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres ; donde la conseguenza , che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato , votata dal popolo , e poscia ancora approvata non solo dal senato , ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa , perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato ; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca , in cui erano già scomparse e l'una e l'altra ( 1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più difficile , allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum , che costituiva in certo modo una lex inauspicata . Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo , perchè è l'opera soltanto di una parte di esso ; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al senato . In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa , allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo . È in questa occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto , conservatoci dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita ( 1) V. sopra capitolo II, § 3 , n ° 198, pag . 240 e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent) ; ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio , essere supe rata , quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato . 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia , dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la legge nol dica , questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere , allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse ( 1) Così si esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin , 1888 , pag . 107. La bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo , in cui la differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa , che ne prendeva l'iniziativa , secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato . Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il motivo , per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent » ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati , e quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio , III, 55, come proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen , I, pag . 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta , sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum : tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale . 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento , che potesse obbligare tutto il popolo ; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a plebisciti , come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora . Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa desiderato . Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate , ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa , perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe , sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per ottenere , che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus auctoritas . Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit ., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, pag . 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione : Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia » , Torino, 1884 , pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio , III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta . Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò , che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag . 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento , finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio , uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola ; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem esset ( 1) » . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge ; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso , non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa . Con essa infatti l'antico concetto di lex , quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito ; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici dello Stato ; poichè d'allora in poi anche un solo elemento , la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo . Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia : ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso , che fu da questo tempo probabilmente , che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie , e che il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù . Da questo momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2 , 8, Dig. ( 1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive : « pro legibus placuit et ea plebiscita observari » , e aggiunge al $ 12 : « plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum » , con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio , Comm ., I, 3 : « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin ., Instit., I, 2 : « sed et plebi scita , lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges, coeperunt » . Lo stesso confermano Aulo Gellio , Noc. Att., X , 20 e XV, 27 ; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15 , 10. — Cfr. ORTOLAN , Histoire de la législation romaine, pag. 161, n . 178 et suiv. e il Madvig , L'État romain , trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore , ed attivo nell'organizzazione dello Stato . Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae , o di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis : ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del senato , poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria pretesa . Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse » ; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno impunemente : cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore ,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum , che viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain , I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap . III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex , e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato . (2 ) ULP., L. 8, Dig . (1, 3 ). 286 grande , perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato ; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa . È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa , durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia , si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche ; così l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso , quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato , che, per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un solo , la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo , legis habet vigorem (1) . Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per donato ; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento . (1) Ulp., L. 1, Dig . ( 1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem ; utpote quum lege regia , quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex , che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo ; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo ; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO , allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo : « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit ; aut sunt legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum ; aut est magistratuum edictum , unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum , quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur » , L. 2 , 12, Dig . (1 , 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex , l'interregnum , e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia , consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia , nè l'imperium , indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re , auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia , proporre il proprio successore; è questo infine , che può somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum , non che la procedura solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore , il Bouchè Leclercq , ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re , « un capo lavoro di casuistica , in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani » (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume teologico e giuridico . Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo , come in altri casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità , come tali, ma intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti , che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero : ma provano sol tanto , che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa , che prima avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, pag . 15 . 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato , per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza , dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato . Ciò stante , anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un indizio , che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re veniva a mancare . 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum , ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un naturale processo , che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza primitiva , uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia : processo , che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio , formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato , era na turale, che, mancando il capo comune, il suo potere religioso , civile e militare dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato , e da questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che venivano dopo , in base all'an zianità , accið non venisse ad essere offeso il senso geloso , che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza , e non potesse neppur nascere il timore, che uno di essi « regni occupandi consilium iniret » . Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti patrizie . Maturata così la proposta , è l'interrè , che deve farla ; le curie, che debbono approvarla ; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla ; e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di accordo , che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo , e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro , che concorrevano alla formazione di essa . 238. Ad ogni modo il caso , di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium , agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re : ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita . Il partito non prevale fra il popolo , il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo , e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina . È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create : deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio , che è descritta in modo particolare da Livio ; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio , la quale, non ri cordata da Livio , è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re , quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio , che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo , non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta » , cioè esclusa la violenza , a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re ( 1) (1) Livio , I, XVII; Cic . De Rep., II, 13, 17, 18 , 20 ; Dion ., II, 57 ; PLUTARCO , Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle , Le origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro ; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato , ed assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta ; quindi è l'antecessore , che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte , l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva costituzione ; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo regio , l'interres era uno dei patres del senato , ai quali redibant auspicia . Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa , questo è certo , che il senato, divenuto patrizio -plebeo , non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della città , e ai quali redibant auspicia . Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia . Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex , come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum » , « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto , secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199, pag. 244 , in nota , consentire col Karlowa, Röm . R.G., pag. 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio . 291 interregem produnt» e simili, e ciò perchè l'interrex , facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia , durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est » (1). Come sia accaduto questo cambiamento , se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico , che governo tale modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza , che sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex , accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato . Tutte queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres sunt» ; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato , nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato , senza l'intervento dell'ordine patrizio , il quale, di fronte al nuovo popolo , corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia , tantum auspiciorum causa , remanserunt » , come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però , anche coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat) ; il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat) ; il senato , che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit) ; e da ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14 . ( 2) CICERO, De lege agraria , II, 11, 27 e 28 . 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano , non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur , seguìta anche dal Becker , Röm . Alterth ., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio ; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain , pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex ; sonvi il Rubino , e fra i recenti il Karlowa, Röm . R.G., I, p . 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex . Vi banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia , Torino, 1884, pag . 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana . 293 cato (1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex ; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori ; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione , che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie . Per noi la cosa può sembrare singolare : ma pei romani era un processo regolare e costante , in quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città , così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie , prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX , 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato ; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag . 593 e segg . Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa , poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa è una prova , che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi ; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio . § 4. – L'amministrazione della giustizia , la distinzione fra ius e iudicium , e la provocatio ad populum nel periodo regio . 241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione fondamentale , intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo . Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale , sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio , e delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri perduellionis ) ( 2). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito , mi limito unicamente ad osservare , che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio , sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re ; la distin zione fra il ius e il iudicium , per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices , gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale ; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà quello , che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie . Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor . introd ., Sect. 15 , pag. 59 . 295 - sintetica del regis imperium , sebbene non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium , è cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio . Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto , che sembra essere general mente adottato , secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto . Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città , e dell'imperium regis. Almodo stesso , che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie , ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali ; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza , che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie ; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio . Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica , che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla . Questo concetto consiste in cid , che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi , in quanto sono quiriti , cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica . Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse ; ma è il custos urbis , ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica , a cui addivennero le varie comunanze . Nel resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia , (1) V. Maynz, Introd. au cours de droit romain , n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio , come lo dimostra , fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private , che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia , potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia , così civile come penale, fra il ius ed il iudicium . Sono note le discussioni, che seguirono in proposito , e non mancarono anche coloro , che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora , fra il diritto ed il fatto : cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto , mentre il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto . Una simile distinzione non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius ;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città , che condussero naturalmente a questa distinzione (2 ). Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto , che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre , fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz , op. cit., n. 20, pag . 60, e MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 187 : « Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium , sed etiam pagoram , societatum , vicorum , collegiorum , equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V , n ° 88 , pag. 109 e nota relativa . ( 2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845 , vol. I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5 . 297 custode della città . Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia , consisterà nel decidere , se il fatto , del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico , che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto , del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica , che debba essere applicata . Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella , e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam , o se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica . Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio , il quale, secondo Livio : « concilio populi advocato : duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » ( 1). Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere , se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica , e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge . Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam : oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia , questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi particolari , in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto , che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione ; ma soltanto si deve dire , che il diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione , se in quel caso determinato dovesse , o non , essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato ( in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere : ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio , si ricava , che la questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio , e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii , o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale , od anche ad un iudex e perfino ai recuperatores , se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato . Questo è certo , che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici ; ed è anzi probabile , che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori ; come lo dimostra la testimonianza di Dionisio , ed anche il fatto, che fu così anche dopo , e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio , che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium ; come ap pare dal fatto , che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum exercebat » . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile , sembra che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana , alla quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo . 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere seguita negli esordiidella città , così nei giudizii civili come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza , che deve essere amministrata giustizia , come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II , 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis ipse cognosceret ; leviora senatoribus committeret ; donde si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., pag. 54 . (2 ) Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto , sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa , e se si tratterà invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale : mentre un tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù , venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità , che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium , che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione pubblica , accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam , conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia ; donde l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò , che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di procedura , senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di famiglia , pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una medesima città , hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate legis actiones , in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era ( 1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib . I, n . 104 . (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm . IV , § 12 , sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197 , e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum . Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra , di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire , che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio , ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum , accordata da Tullo « clemente legis interprete » , parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum , che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore . Si aggiunge , come appare dalle cose premesse , che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto , che non posteriormente , allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo , e della plebe ; di una classe dirigente e di una classe , che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva , secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium , veniva ad essere naturale e logico , che se il ius dicere apparteneva al re , il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la provocatio . Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent : si a duumviris provocarit, provocatione certato » . Era poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio , venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic ., De Rep., II, 35 : « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales » , 301 legale , che viene appunto ad essere descritto da Livio , a proposito del giudizio dell'Orazio , in quanto che ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere politico , quale era la perduellio , poteva anche passare sopra alla questione puramente giuridica , per giudicare invece ex animi sententia , e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, «admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto , il quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis) ; ma allora le circostanze erano cambiate , perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs , e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria , a tutto il nuovo populus quiritium , comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum , solennemente consacrata , doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale , in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo . Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo interrotto , allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu ( 1) Liv ., I, 26 . (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm . R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum , vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium . 302 allora , che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa , sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali , e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia ; ma di aver provato eziandio , come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare , sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva , che la costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum , nec una hominis vita , sed aliquot saeculis et aetatibus » , era tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità : nam , dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset ; neque cuncta in genia , conlata in unum , tantum posse uno tempore providere , ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate ( 3). Veniamo ora alle leges regiae. ( 1) Cic ., De leg . 3 , 4 : « De capite civis nisi per maximum comitiatum ne fe runto » , disposizione questa , attribuita alla legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia plebis. ( 2 ) Cfr. Esmein , Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris , 1886, pag . 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep ., II , 1. -- 303 - CAPITOLO IV . La legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio . $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa , era naturale , che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente , che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo proposito , un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza ; la manus ed il potere del marito sulla moglie ; il concetto per cui  « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi il diritto , sarebbe dovuto all'influenza latina : « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio , il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente ;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamente negarsi , che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura , quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu zioni : e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia , con tutta la reverenza all'opinione di un insigne , crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata , neppure come ipotesi e congettura , perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero . 248. Non credo anzitutto , che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe . In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina , la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente , che non può essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà sce ( 1) MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome, Edinburgh. 1886 , pag. 4 . (2 ) In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche » . A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome alle città , ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4 , pag. 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham , Encyclopedia Britannica , XX , vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso Romolo ; nè tutto ciò , che si riferisce all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2) . Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione , questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione stessa della città , e quindi sarebbe anteriore all'epoca , in cui, secondo il Muirhead , si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe ; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato , una causa naturale in ciò , che in questa condizione di cose , gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità , che ora direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica . Infine non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al concetto , che il diritto scaturisce dalla forza , debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus quiritium ( 1) Dion. II, 25 (BRUNS , Fontes , pag. 6 ). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli , che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe , nelle varie opere sue , e di recente dal Leist , Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale , lib. I e II , seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 20 306 nelle sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono ; come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della forza , e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead , che io qui intendo di fare ; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire , che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale , le istituzioni fondamentali del di ritto privato , salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso ; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale ; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia , e gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza , dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio . La stirpe tuttavia , che diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti , fu anche, quanto al diritto privato , la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città ; il che punto non tolse , che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità , patrona comune della città , e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare , che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine. Per verità , anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano quelle , che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive , e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli . Ciò è tanto vero , che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato , e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso ; l'elemento sabino fu quello , che , essendo ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia , si dimostrò il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città , entrò anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe operosa e battagliera , che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche , combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà ; mentre quanto ad Alba , la considerò come sua madre patria , e anzichè estinguerla e soffocarla , dopo averla vinta , pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima , continuando quel processo nell'organizzazione sociale , che da essa erasi iniziato . Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra , vi fu pressochè una guerra di sterminio , sopratutto fra le due prime , mentre fra Roma e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza ; perchè due città foggiate sullo stesso modello , come Roma ed Alba , non potevano coesistere l'una in prossimità dell'altra ( 1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ . e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca . Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione : che l'organizzazione gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma , la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria , devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso , egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del diritto Romano , dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca , ed è ancora questo il concetto , che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse recare il proprio contributo , anche alla formazione di un comune diritto , e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte , che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero , che alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto , che il diritto quiritario primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche primitiva , e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta , come ho cercato di dimostrare , che Roma è una città formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo , costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia : che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale ; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città , che potrebbe chiamarsi corpora tiva . Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione : poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata ; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. (1) Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD , per esempio, allorchè a pag . 50 parla del. l'opinione di coloro , che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così della città , come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. 309 sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica , sia poi venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva , che essa aveva data al suo diritto . Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato ; nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa . § 2 . Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo regio. 251. Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella , che, ci verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti , dopo aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di regia , e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze , in cui continuavasi la vita domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale : quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento , ed è questo appunto , che dovette compiersi durante il periodo regio . Ne ripugna il credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato , come le genti, che fondavano la città , erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del di ritto : ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa , che era il più urgente bisogno per una città , che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città , che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente , e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re , senato , sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee , allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città , do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus , malgrado la loro ori gine diversa : e quindi non è punto probabile , che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto , che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa , che era una con seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN , Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg ., in un'epoca , in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op . cit ., pag. 309 ; il KARLOWA, Röm . R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag . 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio : « vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re , praeterquam legibus, poterat , iura dedit » . Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza , formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri , pontefici , auguri e popolo fossero continui , e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò , che potesse esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia , siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte , e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età , e la loro disciplina domestica spiegano la solennità , con cui essi votavano nei comizii , e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando ; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo , che senti con tanta energia la vita pubblica , e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale : ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica , quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre , come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO , XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae , tribunis plebis ferentibus, accepta sunt» . Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare , si comprende che egli potesse iura dare ; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. 312 253. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera , ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico . La qualità , che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace , costante , e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi ; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica , che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza , che tanto nella politica , quanto nel diritto ,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio edificio . Roma nella storia dell'umanità rap presenta , per cosi esprimersi , un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio , e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico , e questa selezione e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso ; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità , che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti , doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza . Si aggiunge, che questa carattere religioso , finchè Roma fu esclusivamente patrizia , era co mune a tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato , a cui si giunse in Oriente , di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico (1 ). (1) Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente patrizia , in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza . In questo secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi : l'una, poco numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche ; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza , ma che è nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato , il quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse . È solo allora che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e della elaborazione di esso ; mentre quest'arcano e questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città , allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella , che suole generalmente essergli assegnata ; ma per riuscire in qualche modo a determinarla , importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto . l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera : « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale » , pag. 92 , n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion . 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo . 255. La caratteristica di Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata , cosi anche la re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e delle credenze proprie delle varie genti ; ma fu an ch'essa il risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico , il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto , che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il fondatore stesso della città , e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca (1). 256. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio . Questo concentrasi dapprima nello stesso re , il quale è augure sommo e pontefice massimo ; ma poscia il re stesso , pur conservando gli auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali , i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente religioso ,ma anche una vera importanza civile e politica . Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio , compiono ad un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle tra ( 1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca , ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni , che in Grecia furono lasciate ai poeti , i quali in antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale , in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali , i cui membri sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile e politica , e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive , a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare , così sembrano pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un posto facevasi vacante , il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio , mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio . Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali , essi erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano concorse alla formazione della città ; e potevano col re , che era il loro capo , contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo . Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù , ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium , di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato (1) . (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera . Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato ; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit .,pag . 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24 . 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati : come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales , in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza , e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro , egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica , che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum , ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista , per modo che gli auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia , il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico interesse ( 3).Era poinaturale , che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 ) Ciò è attestato da Cicer ., De div., I, 16 , 28. — Cfr. MOMMSEN , Le droit public romain , I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta in senso così largo, da com . prendere non solo l'avium inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde l'aruspicium . Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ . e cost., appendice III , relativa ai Luceres. (3 ) Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag . 119 . 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente , allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie . La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum » , e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito , con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso . 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale ; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto , che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio , ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio , ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato . Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di naturale formazione , durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis , che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, pag. 139 a 166 . 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco , che sacrificavano ; anzi con tanta più forza , quanto era la forza di lui » ( 1) . Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace ; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo ; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico , e potranno talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca , nè almerito delle cause di guerra , ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura (2). I feziali sono in numero di venti ; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio ; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno ; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio ; indica lo stadio più pro gredito , a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù ; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole componimento , prima di addivenire alla guerra ; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della parola , ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile , e l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città , il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79 . (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO , Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale , comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina , già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia , l'hospitium ,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii , che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo , e in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum , la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium , singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra , e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione , graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è ( 1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib . I, Cap. VII, nº 118 . ( 2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo : « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat , ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset ; neque hospitia modo cum primoribus eorum , sed adfinitates quoque iungebat » . (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema stesso , che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra , Lib . I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale , essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio , poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio , come il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva , che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1) . 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto , quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re , e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa . Cid appare da questo , che il pontefice massimo, durante la repubblica , e quindi anche il re ,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito ( 2). Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa , ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum , compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro ( 1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua dissertazione : De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ , Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871 ; Ma nuel des Instit. romaines, pag . 510 a 533 . 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata , per mezzo dei proprii cala tores . Quindi è pure col suo intervento , che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii , che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum , i quali , durante il periodo della città patrizia , dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella , a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio , relativa all'adrogatio , la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del testamentum . Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato , e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo . Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra . 262. Tuttavia l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il diritto , che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet ( 1) Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio , I, 20 : « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo, turbaretur » . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum , è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma . 21 322 tero essere in questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium , e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle varie tribù , ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse . Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re , dovette essere un cooperatore potente di quell'unificazione legislativa , di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo , i cui componenti prima quasi non conoscevano altra autorità , che quella del fas, che anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio . Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia , le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano : ma intanto non escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città . Si aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re , viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa ; sebbene sia vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile . Intanto però , cosi l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione decemvirale , durante il quale sono i - 323 - pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica , che sarebbe stata impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse . Sipud quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici ; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio , da Valerio Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi ; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium ; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro ; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto , essendo una magistratura sacerdotale , erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa scienza del diritto , conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del diritto pontificale , sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di diritto sacro ; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza , mentre quella , che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur ( 1) Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della Repubblica , è attestata da VALERIO Massimo, II, 5 ; Livio, IX , 46; Cic ., pro Mu rena, 11 ; De legibus, II , 8 , 9 ; De oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier , Introd . histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea , furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium , come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp . anteiustin . quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo , che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum , e fu in questa guisa che alla separazione , che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato , venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della repubblica , venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe : il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta , circa quella legislazione , che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae » . § 4 . Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra ; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli ; anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo , il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN : Die Quellen des römisches Rechts , Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae , mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2 , l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR , dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan . dosi di persone educate a tutt'altra scuola ; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a genti patrizie , memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere , come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina ; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città , la no mina del suo re , la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse , di adottare la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato , approvata dalle curie , poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio , allorchè ci dice , che il popolo romano era cosi composto , che « nulla re , nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset » . Era solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario ; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose , che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia . Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia , la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse , fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici ; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso , che , secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re : ma in man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose , e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di cose , la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento , che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e politica . Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium , che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente » ; cosi esso non potè formarsi di un tratto , nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore : ma il fatto stesso , per cui essi erano trapiantati in terreno diverso , dovette far sì, che essi mutassero  carattere . 266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo , con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città , crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali : ( 1) Liv., I, 8 . - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città , dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium , diventarono proprii del ius quiritium ; cosicchè il commercium , il connubium , l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti ; donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire , poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido , e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius quiritium . Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium , nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento , che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù , potè conver tirsi in una procedura fra quiriti , e siccome eravi un magistrato , a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium , così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò , che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente , in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli , in cui prima erano trattenute , e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento , a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta ; e potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino ; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia ( pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie , sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose ; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore . Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche , e poterono essere portate dapertutto , perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo processo ; che i Romani poterono essere per il diritto ciò , che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione della propria città , e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito , ma non insegnato . Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione , per opera di una logica istintiva e naturale , sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio scopo , e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze . 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine : ma che intanto non merita punto di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori ( 1). Essa porta in sè un'impronta efficace di verità , in quanto che si presenta con un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia , e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa ; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5 . – La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia . È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia , che viene ad essere portato nel seno della città . Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia , in cui erasi formata , e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise , da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi . Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo , e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice , che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito : « uxorem , quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica , che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva , anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum » . Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo , esclusivamente patrizio , accom pagnato da una cerimonia religiosa ; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù primitiva ; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito ; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico . È al marito , che appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie ; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte : ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico , il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale , stretto coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile , in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso . Di qui una legge, che Dionisio chiama dura , la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito ;ma intanto questi può ripudiarla ,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole , la sottrazione delle chiavi e l'adulterio . Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere : che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio ; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio ; son fissati i casi per il ripudio ; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da Dionisio , II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag . 6 . (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium , è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium , nel senso vero della parola ; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu , e poi si concretò in una istituzione giuridica , che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, pag . 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro , la quale è cosi concepita : « paelex aram Iunonis ne tangito ; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito » : la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da Festo , secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ), significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa , ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze ; in caso contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio , e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto ; alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre , che abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo . Devono poi i padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato , nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato ; disposizione questa , che richiama ancora le consuetudini proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri chiamarsi quella , attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse estratto il feto : alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta verisomiglianza , quel passo di lex regia , conserva toci da Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1) Festo, v ° Paelices ( Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig , 1876 , § 2º, pag . 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà , sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15 ; II , 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO , L. 2, Dig. (11, 8) : mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta . Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8 13, pag. 75 . 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas , in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora , che venga a cattivi trattamenti verso la suocera , mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto all'età , incorrono nella capitis sacratio ; la quale è pure la pena, in cui incorre il patrono , che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1) . 270. Per quello poi, che si riferisce alla proprietà , nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima ; ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla clientela , e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio , e che in questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata . In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle varie tribù , viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio heredium . Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin ., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria , e si introduce così la terminazione fra le proprietà private . Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine ; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro , sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ) . ( 1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7 , nota 6 , una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum , sacer estod ; si nurus, sacra divis pa rentum estod . » Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7 , pag. 41. (2) Dion., II , 9 ; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74 ; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag . 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna , che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse , le medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative , elaborate dai pontefici , pro poste dal re, appoggiate dal senato , ed approvate dalle curie . Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente , se si tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae , il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra . Solo ci resta a vedere quali siano le traccie , che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia , alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto , dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica . Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto un'offesa contro la divinità . Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum ; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire , che il concetto gentilizio del delitto e della ( 1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia , è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della città . Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le leges regiae ; in quanto che non parlasi nè del furto ,nè dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente , che questi misfatti fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti : ma soltanto, che le leges publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione la repressione di essi ; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione dell'offeso , che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi nelle tribù , le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa ( 1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae , già può introdursi una distinzione ; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie , comprendendo anche fra questi quello contro la proprietà , consistente nella rimozione dei termini; altri , che sono contro la religione , quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica , in quanto che, fin dagli inizii della città , sonovi autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico ; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso , comela capitis sacratio e la consecratio bonorum . Quanto ai reati contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici ; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo , avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem , pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem » . Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD , Histor. Introd., pag . 54 a 55 . 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà , di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto , che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale , nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte , e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la città . Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici ; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale ( 1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto ; perchè è con esso , che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale . Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii ; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia . Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità , compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio ; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis ; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 187 . (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26 , relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re , mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis capitalibus quaererent » . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro misfatto , donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella , Tito Livio parla invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti ; esa minare le opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura ; e poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico , che dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium , i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium , nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium , il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis hominem liberum ,dolo sciens,morti duit , parricidas esto » . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa , tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio ; quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica , tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio , il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » ( 2 ). Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion ., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum ; Livio , I, 26. ( 2) Liv., 1, 26 ; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg . 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio , ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium , ed ora quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti : quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium , cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale (2 ) ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ) ; e da ultimo quella sostenuta , fra gli altri ,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale , Parte speciale, vol. I, pag. 137 , $ 1138 . (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae , vol. I, pag. 64, § XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova , e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania . Di recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità : Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag .57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA , Princ. di diritto penale , III , pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto » , cioè condannabile a morte ; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466 ; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux parricidii » , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea : « De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto , che per sua natura sia tale da chiamare la pub blica vendetta , e da eccitare una ripulsione universale ( 1). 275. Or bene con tutta la riverenza , che deve certo aversi per un autore cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo , quale è il Voigt, non ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita , secondo cui parricidium significherebbe il paris excidium . Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica , in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più , ed è che, mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium , ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium , quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro ; il che certo non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza , mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico diritto , vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di fatto , come accade dal furtum manifestum , nec manife stum , conceptum , ed oblatum , ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale , o da una concreta ad un astratta , di quello che non accada il contrario . Quanto al fatto , che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal ; quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò , che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal WALTER , Storia del diritto romano . Trad . BOLLATI, 8 766 , vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz , Introd ., $ 18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin : Die perduellio unter der römischen Königen . Tubing, 1841, pag. 10-14 . 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium . Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo ; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis , siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium , ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela , e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino , anche per quella specie di parentela , che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità , quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola , in quanto che , come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium , che non quella di parricidium , in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre ( 2 ). Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco : singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam , omne homicidium appellavit parricidium . Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig ., X , 225, il quale scrisse : « parri cidium et homicidium , quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares » ; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua . Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium . Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit ., § 10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio , e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione della città , la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è , che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo ; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro , ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa ; poichè, per formare la figura del parricidium , si riguarda alla persona dell'offeso , mentre, per formare invece quella della per duellio , si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava nemico . Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità ; mentre nella per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva , la quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu . rezza, scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città , e perciò lo qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico , con cui trovisi in aperta ostilità . 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva , possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto , che la città risulto dalla confederazione delle tribù , e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù , vennero a trapiantarsi nella città , colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen tilizii , per cosi esprimersi , diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa , per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato ( 1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium , che quello della perduellio ; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa , che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia , e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia o di una gente : la quale uccisione costituiva l'unico misfatto , che non dipendesse dalla giurisdizione domestica , e che dovette per il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di guerra fra le genti ; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza , tanto più che i partecipi di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio , mentre prima significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia , ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò , che ci attesta Plutarco: che Romolo , senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium : in quanto che quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città ; al modo stesso , che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città . Solo potrebbe notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad un'altra : ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad un altro ; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium , a misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto , ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium , potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia . La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato : ma intanto , se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto . Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto , dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela , e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale . Fu allora , che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto , il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia , che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië , e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum » . Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine : ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr . al riguardo il Villems, Le droit public romain , pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia , per il vocabolo di parricidium , alla significazione più ristretta , che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica , ma piut tosto oratoria , per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria , l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità ( 1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto , per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella , abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo , che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso . Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera , e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa ; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa , allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui inflitta , come pena contro coloro , che piangevano la morte di un nemico della patria . L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis , come una persona , che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium , viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto , che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia ; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude : « duum viros, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio » . Dura era la legge relativa al perduelle , in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il capo , essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER , Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium , e scrive : « sacrum , sacrove commendatum , qui clepserit rapsitve parricida esto » . Cfr. CARRARA,Op. cit ., § 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium » . Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo , il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto , e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla , che la propria figlia era stata iure caesam . Tuttavia l'Orazio , anche assolto , fu costretto a passare sotto il giogo , donde l'erezione del tigillum sororium , e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza . Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio , che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto , e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario ( 1). 281. Tuttavia , a mio avviso , la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo , che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo conquistato , e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto , di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta : « Horatium , quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset , eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur » . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria ; altra prova , che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio , ma in parte anche la pena, con cui essa era punita . Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza , diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis . 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato , ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita , che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato , e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca , che comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico ; ed è fin d'allora , che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio , diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale . Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata , che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione gentilizia , le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa . Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione gentilizia . I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare ciò , che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico , che di diritto privato . - 346 CAPITOLO V. La condizione dei clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia , in quanto che si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento , ed a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti , la loro posizione giu ridica , in questo primitivo stadio della città , non viene ancora ad essere modificata , in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più alla gente , che alla città : perciò essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio , continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà , ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii ; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato della città , ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran numero di autori (2 ). Le curie sono ( 1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib . I, Cap. III , § 3º, pag . 46 a 52. (2) Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain , pag. 46 e seg . e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg ., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata , anche per il semplice motivo , che, quando così fosse stato , il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto , avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso , di quello che dipendano direttamente dallo Stato . Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana fu quella , che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio della loro indipendenza politica ; donde la conseguenza chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni di essa . 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva , è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del diritto privato . Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi ( 1) Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati , appare dal seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit ; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius » . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa . Essi quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito , cioè inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia , malgrado quest'attestazione concorde, dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo della città patrizia . La loro opinione trovò favorevole accoglimento ; ma in questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato , che vi fu un tempo, in cui dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il dubbio , che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie . Che anzi, siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione, vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città . Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle fonti le origini della città , come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una città esclusivamente patrizia , ed alla esclusione della plebe primitiva dal far parte dell'assemblea delle curie ( 1). 285. Non è qui il caso di entrare in discussioni erudite sull'argo ( 1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg .; dal LANDUCCI, Storia del diritto romano, pag. 357 , nota nº 2 ; dal Peluam, Encyclop. Britann ., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare , che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera , col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini , sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento , come può scorgersi quanto alle origini della famiglia , della proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia , donde pro ceda . Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo , che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento ; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo , che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile , che la plebs abbia potuto essere ammessa , fin dagli inizii , alla civitas e quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive , perchè un elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza , in guisa da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche , erano anche corporazioni strette dal vincolo di una religione , chenon era ancora accomunata alla plebe . È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè cliente , potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo , che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro vincolo , che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla , da cui si trovavano circondati. Questa pa rità , secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato , nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo , fondatore della città , volesse per generosità accordare spontaneamente cid , che era ancora in condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile , in quanto che la curia , come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria ; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente , da cui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi ; ma l'ammet terlo fin dagli inizii , è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa ; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso , ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie , che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo . Le cause , che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti ; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato ; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria , che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato , in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato . Del resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche ; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe , finchè questa non faceva parte della città , cosi doveva comprenderla , allorchè essa , in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato ; il qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium , allorchè giunse al suo completo sviluppo , mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum , che entrambi, a nostro avviso , furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii . Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con certezza , che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col patriziato ; il che però non significa , che essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte ; ma ora il processo logico , che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di ogni informazione diretta , mi conduce ad affermare, che non dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra , è quello stesso diritto , che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium , nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium , suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro bisogni : così non poteva dap prima essere il caso , che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium , ossia quello di avere una proprietà , che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE , Histoir. intér. de Rome, I, pag . 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum . Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse ; ma intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute . Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città , il nexum ed il mancipium , come accadde anche in tutto il resto , cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava , per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri (1) . Non può dirsi pertanto , che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile , ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie , che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium ; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda , il quale si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare , che influi potente mente su tutto lo svolgimento , che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato . ( 1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib . I, Cap. X , nº 160 , pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente , quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO III. Il diritto pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII Tavole. CAPITOLO I. La costituzione di Servio Tullio . § 1. – Cenno degli avvenimenti che la prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria . Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città , avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo ; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re , nè forse avevano avuto nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la gente Tarquinia , di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio , ne guadagna per modo la fiducia , da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono , mediante il suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri : « eum , scrive Livio , ingenti con sensu populus romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia , che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città , e il capo di esse , chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità e di forza , che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche , durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi famiglie , vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte , per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei pubblici edifizii , sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca , cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il seguito , che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata , ed il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile , come lo dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii ( 1) Liv., 1, 34 ; Dion., IV , 2 . (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr . PANTALEONI, Storia civile e costituz .di Roma, pag . 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra , relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib . II, cap. II, § 5 , nn. 212 e 213, pag. 258 e segg . 355 Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio , un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi intorno al foro , accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura ( 2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di carattere territoriale e locale . Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio , osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire : lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses , e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium ; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis , i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale , che sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica , ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24 , il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv ., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la cinta , che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv ., I, 36 ; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron ., III, 67; IV , 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination , Paris, 1882, IV , pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886 , pag. 545 e segg . 356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento , ma in proposito fu giustamente osservato , che la religione, importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1) ; il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca , potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe stata Corinto ( 2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito , e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della città , anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato , poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città . Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio ; altro re , che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero a ( 1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p . 149 . (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia , sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio . (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung . Leipzig, 1884, I, pag. 32 e segg . 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio : mentre la tradizione latina , unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina , una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca , e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa , o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla , essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città . Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio , in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo , in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo , finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico . Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga , come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra , che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo . Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide ; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed . V , p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca . Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag . 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE , Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV , chap. 4me, pag. 137 a 216 , come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica . - 358 al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città . L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso , a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico , ma ancora quella del privato . Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso , ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla . 291. Fu abbastanza dimostrato , che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente ; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia , e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto , in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza civile , politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro . era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia , e il solo inte resse , che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città : quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento , che era escluso dalla città patrizia , finisce però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica . Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso , l'organizzazione gentilizia , e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio , viene ad essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito , e più tardi anche della medesima assemblea , in base alla sola considerazione del censo , e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società , in cui ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo , il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse , che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii , ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo . In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta ; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello , che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo , per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa , anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe ( 2). Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale , mentre riteneva ciò , che era esclusivamente suo proprio , trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città , di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa , ancorchè sulla base esclusiva del censo , veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio , XVI, cap . 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea , firmamentumque erat » . Il paragone poi della comunanza quiritaria , in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p . 193. (2 ) Il diverso apprezzamento ,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep ., II, 22 ; Liv., 1, 42, 43; Dion ., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto , che quando trattasi di un'aggregazione sociale , il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo , per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto , che non di diritto ; tantoque consensu , quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima : interesse, che si ritiene dover essere misurato dal censo . Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie ; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra , dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii , aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio , a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze , le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate . Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado ; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente , e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio . La città intanto , chiusa e fortificata nelle proprie mura , difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato , assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce ( 1) Liv ., I, 46 . 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento , che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa ; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio , il Gianicolo , ma anche l'Esquilino e il Viminale , alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare , che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale , ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura ; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe ; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre ( 4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario , che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia » , 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib . I, cap. I, nº 10 , pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg . « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della città , e che aperse la via ai suoi futuri progressi o . Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio , IV , 9, allorchè scrive: « agrum publicum di « visit civibus romanis , qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa , ser viebant » . e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza , e per fissare il tributo , a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina , Collina e Palatina : mentre le rustiche continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie , quali sarebbero l'Emilia , la Cornelia , la Fabia, la Galeria , l'Orazia , la Menenia , Papiria, Pollia , Sergia, Romilia , Voturia , Voltinia , ed altre ; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località . Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto , ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio , le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero , che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio , che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù , fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò , che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale , si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere ( 1) Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio , IV, 15 , invocando la testimonianza di Fabio , gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di 20 soltanto . Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena . Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca , in cui si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain , pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de Rome, Paris, 1886 , p . 71 e segg . 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi ( 1). 295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del censo ; poichè è in proporzione del censo , che vengono ad essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente , che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa miglia , quelli cioè , che per non essere soggetti a potestà altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia , ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice , cioè comprendere tanto le persone quanto le cose , che da lui dipendono ; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose, dipendenti dalla stessa potestà , si presentarono come un tutto indistinto , che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium . Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo , deve dichiarare anzitutto , ex animi sententia , il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del padre o del patrono , la tribù a cui trovasi ascritto , l'età , il nome della moglie , il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio , che a lui ap partiene in proprio ; non quello cioè, che appartenga alla sua gente , ma quello che è collocato in suo capo , che gli appartiene ex iure quiritium , che fa parte del suo mancipium , il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio , oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV , 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio , IV , 15 , il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù , ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent » ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr . il Morlot, op. cit., pag . 57 e seg ., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo . Sarà poi in base a questo censo , che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto politico , militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto . Per la città serviana la formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la determinazione del contributo , che altri deve arrecare alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza . In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato , e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo serviano , non è la proprietà gentilizia , che apparteneva al solo pa triziato , ma è la proprietà famigliare e privata , che era la sola , che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza , che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la circostanza , che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose , che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo . Cid non accadeva già , perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona . Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV , 15 , verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag . 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota 8 , ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100 , nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria , che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium , perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio , e se il medesimo non giunga ad una certa misura , altri non potrà essere censito , che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città , si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo , che gli assicura una posizione giuridica , militare, economica per sè e per i proprii figli , quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum , che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento storico , in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della ' città . Quando si pensi tuttavia , che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato , e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo , si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo , a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze , che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto . Ciò spiega intanto l'importanza immensa , che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo ; le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato ; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio , il quale, secondo la tradizione , ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi) ; l'opportunità , che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la sola for mazione del censo , e di affidare poscia la formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori in imperio , manessuna che fosse superiore in dignità . Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia , e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo , reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa , e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva , che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città . 298. Infine è anche il censo , che serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già , come alcuni credettero , che coloro, i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù ; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio , « honestior aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit » . Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito , perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse , che essi avevano a combattere per essa , nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio . Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva , sia per la sede fissa , ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) ( 1). (1) Il criterio , che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie , ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen , che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio ; e sembra anche corrispondere all'intento , che si propone la comunanza serviana , che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa . Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito , ma tutta la popolazione di una città ( 1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito , di cui venne ad allargarsi la base , in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza , ma unicamente al censo . Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità , e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio , e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet » . (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom ., I, cap. VI, e col Peluam , v° Rome, « Encych . Britann.., XX , pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum , vel bello » . 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria , che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico . Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe . Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe , in numero di 20 per ogni classe , le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie , reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo . Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli ( fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate . Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe , il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri (1) . (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio ; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera , e in de terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio , che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre , argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom ., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15 , 369 Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites . Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla na scita , e costituiscono i sex suffragia ; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium , quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che , pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città ; trapasso , che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo , che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello , che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio ; ora importa di vedere lo svolgimento storico , che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri , e quello della quinta a 2 iugeri incirca , ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm . R.G., I, pag . 69-70 . Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op . cit., pag . 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo , e il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum , Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna , 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites , e la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag . 233 e 234 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio , e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere : ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane , e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto stesso , a cui era stato interrotto . Ad ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica , quale si rivela negli avvenimenti , si può affermare con certezza , che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia , combinati perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana . 301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella , in virtù della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium . Questa espressione (1) NIEBHUR , Histoire romaine, II, pag . 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém . de l'Acad. des Inscript. et belles lettres » , année 1866, vol. 25, pag . 107 a 223: Herzog , Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig , 1884 , I, § 5 , pag. 37 a 48 ; KarlowA, Röm . Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12 , 13, pag. 64 a 85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie , venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites , che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus romanus quiritium , prendono il nome di patres o di patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli cioè di populus e di plebes ; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città , i ritentori degli auspicia e dell'imperium ; quello di plebes, che designa l'elemento , stato di recente ammesso nella medesima ; e quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col Mommsen , che uno dei significati di populus sia stato quello di leva plebeo-patrizia ; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione primi tiva del vocabolo ; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano , che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling . lat., VI, 86 a 95 , sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram , di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV , § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib . II, nº 198 , pag. 240 e seg. e le note relative . (3) È questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X , 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis , omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt » , il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm ., I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2 . 372 uomini validi ed armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia , e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana ( 1) . Questo populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo ; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre , che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto ; ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose , che da essi dipendono ; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium , che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo (2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale , che anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così accade appunto del senato , il quale accompagnando lo svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre , i quali per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres , donde la formola patres et conscripti , finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento , che siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non accadde del magistrato , poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische Forschungen , I, pag . 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8 , colle note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta , anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo ; mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un rappresentante imparziale del popolo . Di qui la conseguenza , che anche le lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen ziali della costituzione politica , e quindi si trasformano a poco a poco le loro principali funzioni, che, come si è veduto , consistono nella formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della giustizia , tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento , di cui potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale , come già si è accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo , mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo senatorius ; abbiamo gli equites , che perdono il carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris , e costituiscono una specie di aristocrazia del censo , ( 1) V. il cap . IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà , la quale, dopo aver lottato coll'an tica , finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag . giunto certi limiti nel censo , il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate , che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie . Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato , che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli auspicia , debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città ; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia , che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium , il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città , viene il riguardo all'età , in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain , trad. Morel, Paris 1882 , tome 1er, pag . 135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto . Viene poscia la considera zione del censo , in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza , senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente ; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate , l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie . Qui parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones ; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente , perchè erano una semplice imitazione dell'antico , senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città , continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato , come le leggi Valerie-Orazie , la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia ; sono essi parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium , che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad populum , che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie ; il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE , De leg., III, 19 , 44 : < descriptus enim populus censu , ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus » ; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22 . (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie , è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. ( 3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al popolo , il quale venne cosi ad essere direttamente investito della giurisdizione criminale ( 1) . Intanto si comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di Servio , con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte ; poichè quei clienti , che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto , allorchè il censo loro assicurò una indipendenza , mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel censo , ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana , che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento , che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita . 306. La tribù nella costituzione serviana non era che una ripar tizione locale , fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo , per fare la leva militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii ; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246 , pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo , in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo , ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere . Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale ; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca ; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica , finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti , quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano convocati da un magistrato , a cui questi appartengano, e sono convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales , I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo , parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent » . Husche, Jurisp . antijustin ., pag. 11. 378 nome di tribus principium . Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim , e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù . Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione , in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti , secondo l'autorità che li propone (1) ; il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica . Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224 , pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg . Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti , allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita : « tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit » , sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge : « Tribus principium fuit , pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit » , il quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata : « T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit ; pro tribut Sex ... L. F. Virro primus scivit » . Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum , ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii : mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum , ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio , che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset » . L. 2, 8 , Dig . 1, 21. - - - 379 pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo . È a notarsi tuttavia , che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece , che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà , ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale , le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa , per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città . Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio , al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero è , che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate ; ma conviene dire che « spiritus intus alit » , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata , che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma , sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. ( 1) Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, Milano, 1885, pag. 9-16 . 380 CAPITOLO III. La costituzione serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium . 309. Se fu agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita , ma non meno importante , che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato . A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio , che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti ; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati ; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato . Tut tavia è certo , che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti , in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato , e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram , i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium , la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV , 9 , 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza , che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto . Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce , quando siansi collocati nel sito , ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo , le sue istituzioni politiche , il suo metodo di serbare i vocaboli , cambiandone anche il contenuto , ed il criterio informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso . 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura , la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che , procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto , finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium , che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius quiritium , che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento , non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana . Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium ; ma quelli non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen tilizio , che erano proprie del popolo delle curie , e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia , la proprietà , il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag . 329 e segg. 382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie , prendono il nome di quirites , così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium , in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore , da cui esse erano circondate , ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati ai rapporti , che erano l'effetto della nuova condizione di cose . Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di terre ; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario ; quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli , che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata , vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium , comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium , di commercium e di actio , che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium , venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario . Fu in questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra , che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum , del manci pium , della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg . (2 ) Cfr. a questo proposito ciò , che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle circostanze sociali , in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo , che servi ad isolare l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere diverso con cui trovasi confuso . Il diritto perdette cosi alquanto del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o sintetico sul concetto del mio e del tuo ; esso inoltre assunse un'im pronta di rigidezza pressochè militare , quale poteva convenire ad un popolo , che presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano l'asta come simbolo del proprio diritto , e « ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent » . Il censo viene in certo modo a misurare il contributo , che ciascuno reca in questa specie di società , e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico , facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate . Per tal modo il quirite , come tale, non è più nè patrizio nè plebeo , ma viene ad essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii ; si considera come un caput ; conta come uno nel censo , e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da esso dipendono . Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà , che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium , e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche , che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere considerato (1). ( 1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del proprietario sopra una cosa ; ma siccome persone e cose figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o della stessa familia . 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione , ma la medesima risulta da diverse circostanze , le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen , che una delle significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata quella di indicare la « leva patrizio plebea » , leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium , di iura gentilitatis, di ius gentilicium , che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium , e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium . Cosi pure non vi ha dubbio , che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium , che vedremo a suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium , quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune : come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del diritto quiritario , che il populus assunse un carattere essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium , tribunale essenzialmente quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta , che si infiggeva davanti al medesimo ( 3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1) MOMMSEN, Röm . Forschungen , I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium , e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV , cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla . Per ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo : « festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii , quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent ; unde in centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur » . Parmi infatti di scorgervi un nesso, se non storico , almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò , che conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista , sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso , venne facendosi la scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario . Di qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia , di negozii , che si com pievano secundum legem publicam , espressioni tutte , che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico , in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria . 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile : lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio , che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ) ; 3º di determinare le forme pubbliche cium . Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra , questa è certamente l'epoca serviana ; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta , della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium , che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor . Introd ., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK , Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag . 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta , che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero ; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia . È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota , e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta appunto all'epoca serviana . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura , che debba essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale iudicium ) . Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana ; ma si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario , e come queste acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium ; come l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium ; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali ; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario , e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico , che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium . Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi , che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del nexum , del mancipium , della manus iniectio , che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius quiritium , che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana , in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella , in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre . Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza . Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo , che al punto di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie , che si frapponevano fra la famiglia ed il popolo , quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel patriziato ; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della parola , in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose . Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere essenzialmente militare . Quella distinzione pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio , ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi differenze , era quello della comune difesa , e forse anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium , al culto gentilizio , agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato : quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere mercantile , quale era appunto l'atto per aes et libram , il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario . A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista , a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo , che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i capi di famiglia come altrettanti capita , ed il complesso dei loro diritti come un manci pium , ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in questa guisa , che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva essere applicata quella iuris ratio , elaborazione propria del genio romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi affini. Fu questo il processo , mediante cui il diritto potè essere sottoposto a quella logica astratta , per cui le per sone perdono in certa guisa ogni personalità concreta e diventano dei capita ; le fattispecie si riducono ad una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più rigida , più esclusiva , fu certamente l'epoca serviana , perchè in essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo , quale sa rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più , ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa , che nel suo genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà , ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti , le cui linee son dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente , che ci rende così difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente persuaso , che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del diritto quiritario . Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio , mentre la sintesi primitiva del diritto quiritario , le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe a governarla , possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo . Lo studio di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente lavoro . Per ora intanto , onde non essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso , credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione decemvirale . 390 CAPITOLO IV . Il patriziato e la plebe nel periodo dalla costituzione serviana alle XII Tavole . 316. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono , che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale , sovra cui potè misurarsi col patriziato , ed una assemblea , in cui potè impegnare la lotta . Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto , tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito , nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto (1 ) ? Finchè durd il regno di Servio Tullo , la lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui introdotta . Egli quindi rinnovo a più riprese il censo ; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo ; distinse i giudizii pubblici e privati ; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore impor tanza , e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola , e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori ( 2). Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica , ed . Bekker. Lib . V , pagg. 1301 e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE , De rep ., I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium ? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica » . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto ; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant » . (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion ., IV, 22, 4 , 10 , 13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto , che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius ( 1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune , che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato , non curandosi di convocare il senato , nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti ( 2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana : sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo . Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad essere naturale , che l'evoluzione si ripigliasse , ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo , e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a vita , il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo , dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum , ex locis superioribus opprimerentur » . Bruns, Fontes, ed. V , pag. 351. (2) Dion., IV, 25 ; Liv ., I, 49. Cfr . Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60 ; Dion., V , 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio , colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile , in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum , o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro . Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro , tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore , e nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum , conservando il concetto ed il vo cabolo , che erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano ; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion ., IV, 72-75; in CiceR., De rep ., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica , mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p . 8 e 9 ; e il Willems, Le droit public romain , pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium , comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso , che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa , continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex , la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia . 393 mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo ( 1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città , e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta , che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle . Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata , la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia , parte da un'unità e sintesi potente , a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale ,mentre è determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di imperium . Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5 ; Herzog , Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg ., e ciò che si disse in proposito al nn . 201-204 , pag. 245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv ., II , 21, 6 e da Sallustio , Hist. fragm ., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza , che prima era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum , che Livio chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria , proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245 , pag . 300 e 301 . >> 394 onori, e la plebe povera e minuta , che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii , e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza , accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta , che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo , cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato , finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto , che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo , anche di natura diversa , e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale , che ha governato la formazione della città ; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera , e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa , che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città , minaccia di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una sola , cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini ; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato , ora (1) Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom ., pag . 24 . (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam , la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta » . Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo, 20, 53. Festo , vº Satura . Cfr. WILLEMS, op. cit., pag . 184. (3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig , 1883 . 395 dalla ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto , ed ora infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe , che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita , si contenta di chie . dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e politico , ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe , ma piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto privato . È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito , sono del tutto contradditorie . Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia , e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima ( 3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà , che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi . (1) Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta , fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd ., part. II, sect. 17, pag . 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p . 271 e segg .; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg .; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag . 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2 ; Pomp., Leg. 2, § 3 ( Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto , che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico , dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia . Di più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium , comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere mercantile , che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes et libram . Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù , rimonti all'epoca di Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione del jus qui ritium , come quello che anche più tardi appare chiamato a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di stato (2 ). Infine è ( 1) Quanto all'istituzione dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente , nº 312, pag . 384, nota 3 . (2) È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio , III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK , Römische Processgesetze, Leipzig, 1888 , pag. 139 a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato . Cic ., pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller , Il processo civile romano ( Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio , come giudici per le cause 397 pur probabile , che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere , e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia , lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica , come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium , come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile ( 1). Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium , che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa , che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel diritto , che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg . colle note relative. Si occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm . R. G., 1, $ 43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm . Literatur , Leipzig , 1882, SS 70-76, pag. 114 a 119 . 398 il console , chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio , il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio , poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò , che essi chiamavano col nome di diritto e di legge ( 1). Fu solo nell'anno dopo , che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge , così pubblica come privata, dovesse essere codificata , e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa . L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale . Qui non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi ( 2) : mi basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia , che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum , di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum , poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo , del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte : ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum , ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum , ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto , il che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo , in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato ; dei quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima città (2 ) . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata , nè rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta , il che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio , L. 2, § 5 , dig . 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING , Esprit du droit romain , III, pag. 142 e segg . (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse » . Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris , ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa , ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER , Introd . Histor., Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio , III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe : « finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari » . Di qui rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico , e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il debitore ( 1). Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale , la quale , senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica , lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze , di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza , in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano ; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati , ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale , consiste in questo , che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto , esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano . In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie , il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente ( 1) Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra , fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic ., de leg ., 19, 44 . (2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum , del mancipium , del testamentum , senza che occorra di indicarne il contenuto . (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava , e procurarsi invece una posizione di diritto ; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium , che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum , del mancipium , del testamentum , dell'atto per aes et libram , nei quali tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge : « uti lingua nuncupassit ita ius esto » ( 2 ) . 322. Questi varii elementi di origine diversa , che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg ., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg ., cap . IV , § 3, trattando della mancipatio cum fiducia . ( 2) V. cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium . ( 3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole . Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza , che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana , o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina ; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr . Voigt, XII Tafeln , I, pag. 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento . Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto , pag. 179 a 194 . 1. CARLE , Le origini del diritto di Roma , 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum , in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium . Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio , se condo cui tutto quel diritto , che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale , mediante la iuris interpretatio , la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato , havvene una parte , che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium , iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale ; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium , elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2 ) . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale , e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato , già procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo . È a questo punto pertanto , che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium , che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo . ( 1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig , 1886 . (2 ) POMP., Leg . 2 , SS 5 e 6 , Dig. ( 1-2). LIBRO IV . Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè universalmente adottata , che il primitivo diritto di Roma porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata , determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del ius quiritium , nel momento in cui per opera della costituzione serviana comincio ad essere comune alle due classi , mi conduce a conclusioni alquanto diverse. Questo ius quiritium , se nei vocaboli può ancora portare le traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium , e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche oltre gli stretti confini del ius quiritium . Il motivo è questo, che anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata ; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica di fatti , che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata . 404 - che potevano accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli altri punti di vista , sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace ; i suoi concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche , in cui esso si manifesta ; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro negozio giuridico ; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica , di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle scienze fisiche , chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un giureconsulto , preparato da una lunga edu cazione giuridica , stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale , guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica , che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi , di cui esso si vale ; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica astratta , che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii atteggiamenti , sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite , in quanto si considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche , deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola . Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto , che egli conta nel censo serviano , ed è come tale eziandio, che esso si presenta nel primitivo ius quiritium . Esso inoltre è anche un'astrazione sotto un altro aspetto , in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto , e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza , e in quanto è tale , gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose ; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo , se concorra con altri creditori ; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa , come il magistrato del proprio imperium , ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore , come padrone ; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium , è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta . 325. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro , cosicchè, quale padre di famiglia , esso apparisce come un proprietario , e per essere proprietario deve essere un capo famiglia ; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). ( 1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 10 e 11, note 5 e 6 , ove son citati varii passi da cui risulta , che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium , il quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero , cittadino, in dipendente nel seno della famiglia . Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo : cosicchè anche la proprietà , che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia , sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città . Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà , sotto il punto di vista giuridico e politico , non hanno confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato . Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento storico , in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli schiavi , quello del marito sulla moglie , quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere ripudiate , nel fatto non conoscevano il divorzio ; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium , di cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio , secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie , che il vocabolo familia significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium , e delle sue varie significazioni. ( 1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap . 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94 , pag. 119 . 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del quirite . Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , se per una parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente astrazione giuridica , compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non diverso da quello , che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà , che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo , in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite , che è soldato ed agricoltore , capo di famiglia e proprietario , individuo e capo gruppo , il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà , e sono due ruderi dell'organizzazione gentilizia , nel senso vero e proprio della parola , salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia , quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo , ma è un capo famiglia , considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono ; cosi l'aureola del buon co stume , del consiglio domestico , del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio , della religione, di cui il padre antico era il sacerdote , viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto , se si fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa , e trasmessi col medesimo atto . Anche ciò non deve ritenersi come indizio , che per i Romani la potestà del padre si confondesse colla proprietà : ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo , venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo . Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il diritto romano , che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà , in quanto che non eravi certamente altro concetto , che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità , mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva essere capace , e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e crudele , ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente . Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto , per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia , giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo , che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare , che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria , che nel costume si ritiene della famiglia , e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò , che acquistano gli altri membri della famiglia , a lui solo appartiene ( 1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale del quirite , quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato , abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello . Il quirite infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere concepita , e come tale può essere considerato : – o in quanto sta , ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta , ossia in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite ; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium ; un mancipium , il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario . È poi degno di nota , che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica , concreta ed astratta ad un tempo . Cosi, ad esempio , il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri ; e quello infine di mancipium da ma nucaptum , mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica , in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg ., $ 6 , ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium . 410 Questi varii elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente ; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico , la manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium , da cuideriva , si può dire, tutto il diritto , che si riferisce alle persone; al commercium , in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose ; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto : vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio , perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio , della manus per indicare il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette ; come pure in esso , già si erano preparati i concetti di connubium , di commercium e di actio . Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria , ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che mentre questi concetti un tempo avevano una significazione , che era determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso , si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il naturale processo , in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg ., pag. 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266 , pag. 326 e seg. - 411 CAPITOLO II. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus , mancipium . 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium , consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio , in cui erasi formato , e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus , mancipium . Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos ( 1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e della mo rale ? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus » , siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti ? Son note in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo , sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo , per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo , fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali , in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria , (1) Il carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib . I, cap. V , pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270 , pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio . 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia , nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii , ma bensi con quello di ius nesi mancipiique ; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico , giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola , dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie . Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2) ; ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento , a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium , allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe ; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale , che dominava il periodo gentilizio , e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria . Se non che , anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola , non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla condizione della plebe, il lib . I, cap. IX , pag. 180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160 , pag. 198 e 199 , come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia , fu dimostrato nel libro II, cap. IV , SS 1º , 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro . Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della comune difesa , così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un carattere più esclusivamente militare , che prima non avesse . Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia . 331. Di cid è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza . Da una parte eran vi i membri delle gentes patriciae , i quali ancorchè fossero i fondatori della città , continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie , genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae , le quali erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia , fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre . - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela , o immigrati da altre città , o traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie , le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib . I, cap. IV , e quanto alle condizioni della plebe, il lib . I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata , la quale era designata col vocabolo di heredium . Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia , ed era a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium . Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia , ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto , essendo già intestato al capo di famiglia , cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata . Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia , non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia , o che loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla medesima accordato , più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium , come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio , vedi il nº 56 , pag. 70 ; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium , nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium . - 415 censo , dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita ; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri ; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte , quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per capita , attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare , che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie , si sarebbe dovuto prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie ; ma volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe , convenne di necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium , e ai plebei sotto quello di mancipium . Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo di here dium , il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium , il quale , oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso , e di esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed individuale , che veniva ad assu ( 1) Gellio , XV, 28, 4 . 416 mere quel patrimonio , che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto fu questa , che nella comunanza quiritaria , formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio , in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra ; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium . Così pure la comunanza quiritaria , avendo una base economica , venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche , che si adattino per la formazione del censo , l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium . Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di famiglia , e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età , della tribù locale a cui appartiene , la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo , di cui egli è capo , sulle persone cioè , che siano in manu , in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il mancipium , ossia il complesso delle persone e delle cose , che costituivano il vero patri monio del quirite , in quanto egli era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente ; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones , che si possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante , il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo ; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà , che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola , nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo , che quel mancipium , che doveva figurare nel censo , quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa . Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia , il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia ; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni , dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera , o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile , che nella formazione del censo , dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire questo man cipium , anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia , di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium , perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo , § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma . 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio , che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia , veniva ad essere questa , che le res mancipii , come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria , costituissero come una specie di proprietà privilegiata , che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere , mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium , e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa , che fa parte del mancipium ; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare , da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid , che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento : ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite , non entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria , e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola : essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio . Può dirsi pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio . Può dirsi pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista quiritario . È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata . ( 1) Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90 . 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius quiritium , mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium , abbia anche cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius , e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia , la quale venne in certo modo ad essere senza base , allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo , ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito » , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel periodo gentilizio , sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole , secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet , arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione del quirite , non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria , sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello , sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium , VII, 30, 2 ove scrive : « Cuius (Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu , contentus « isto sum . Id enim est cuiusque proprium , quo quisque fruitur atque utitur » ; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una significazione diversa , come nel bel verso di LUCR., III, 969 : « vita mancipio nulli datur, omnibus usu » , ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa una cosa , che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium . Cfr. BONFANTE , op. cit., pag. 92, nota 2, e pag . 96, nº 2 , e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16 , della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito . Che se egli, pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie , abbia tut tavia qualche sostanza ( 1500 assi) ed una prole , che può crescere a benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito , almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al mancipium , egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium . Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito , dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto ; proletario, iam civi, quis volet vindex esto » ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio , « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita est » ( 2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo , che come capo di famiglia e proprietario . Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni generali del capo gruppo , trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris , di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere create dal censo , furono tuttavia nel medesimo delineate , e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. ( 1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10 , $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta . ( 2 ) Gellio , XI, 6 , 10, 8 . - 421 336. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium , ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava , ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo . Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius. quiritium , che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa , che circondava le istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta , che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa , da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare , che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium , siano stati creati dal censo , poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano ; ma solo di provare , che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa ; a separarli nettamente gli uni dagli altri ; a fare in guisa che ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire una sola individualità giuridica . Fu in questo modo , che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo ; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata , ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro ; che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre , e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari della co munanza quiritaria , quale si formò nell'epoca serviana , e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium , in quanto fu in parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti ; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città , avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso . Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo , e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne dipendono . Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso , verrà ad essere un capite census ; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so . pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius ; se infine abbia una sede fissa , e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium , non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples ( 1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo , conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia ; come lo dimostra il fatto , che se altri abbia un figlio , che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona , cioè col proprio figlio : « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel censo , ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale , ancorchè ricavata dalla realtà , può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria . Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta , il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo . Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio , che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato , sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo , vº duicensus ; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog , Gesch . und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino , che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio , la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde ; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni ( 1) Gaio , Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger , op. cit., pag . 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio , che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny , Traité de droit romain , trad . Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio ; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status permutatio » , la quale era anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio . Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile , per la ragione appunto detta da Gajo , Comm ., I, 158 : « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest » ; distinzione questa , che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium , a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln , I, pag . 299 e 300. 425 - iuris , le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio . Che anzi, una volta adottato questo metodo , si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius latii , e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium , quanto eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives , erano invece collocati nella condizione di latini iuniani ( 1) . Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto ; ma intanto è con Servio , che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico , che de terminò poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias , del filius familias , della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli , essere tenuto come figlio , ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico , sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). ( 1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa , che il concetto pri mitivo è sempre sintetico , mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO , Comm ., I, 10 . ( 2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195 , § 2 , dig . (50 , 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur , quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus » ; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 25 e dal Juering , Ésprit de droit romain , IV, p. 295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium . Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva , e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica , che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent » : donde la co struzione delle persone giuridiche ( 1). Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata , o in quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica , in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica , che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio , secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico , che ne dipende , potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia , e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero ; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris , e viene (1) Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona , la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris , attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica , ma limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica , che poteva avere una base nella realtà ; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain , II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo , § 5 , discorrendo del dominium ec iure quiritium . 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia ; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero ; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù , finchè durò il Romano Impero , fu una istituzione comune a tutte le genti ( 1). Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica , la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3 . Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose , ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto , o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre , nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta , che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite : cosi l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose ( 1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm . Rechts ( in HOLTZEND., Encyclop ., I, pag . 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero ; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia , poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus (1) . È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio ; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio : se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario , abbiamo la manumissio e la emancipatio ; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio . Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria , che trovasi simboleggiata nella vindicta , la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta , sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium . Questo potere giuridico , sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli , che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà , sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose . Egli è certo a questo riguardo , che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium : ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose soggette al potere , che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum , e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona . Cfr. Voigt , XII Tafeln , II, $ 79; BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, pag. 100 , nota 1 ; Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, pag. 3 , nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così pure , sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie , nè i figli, né i servi , e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo . Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio ; che se alcuno si ribellerà al suo potere , gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis ; e se alcuna delle persone , che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta , egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato . 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie , nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium , che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa . Quest'ultimo vocabolo tuttavia , più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite ; come lo dimostra la circostanza , che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum , potestatem , dominium , non occorre però mai l'espressione habere mancipium , ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium , derivando da manu-captum , significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium ; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium , fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa , che ne forma l'oggetto . L'unico passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6 , 9, ove si parla della mater familias in manu , mancipioque mariti, ma anche questo dimostra , che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario , esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio , che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette , sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate , in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa , allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra (1). § 4. – Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata , in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium . Mentre i concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia , ma non mai quello di mancipium , che allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano , che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum , tuum . (1) Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo , secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium ; in quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa , e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva . Non vi ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum ; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra , veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore . Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium , al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium , e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium , che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio , di cui fa parte , a compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto . È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium , come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia . Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag . 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò , che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio ; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, pag . 45) e nella lex Acilia repetundarum , del 631 di Roma (pag . 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia , il che poi spiega come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio , l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium , è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105 , col quale tuttavia non concordo in questo , che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium , fondendosi in certo modo coll'heredium , sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, pag . 414 . 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa persona ; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone , che dipendono dal medesimo capo . Siccome però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso , che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe , di cui entra a far parte ; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico , in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium , che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento . 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio , un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo , può cambiarsi in un documento prezioso , quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto , a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto , che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto , che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare , in cui è concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia , come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via , che questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari , ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo , con cui concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo , Comm ., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio ; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio . 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente negativo , cioè comprende tutte quelle cose , che non appartengono alla prima ca tegoria . Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose , che erano comprese nel mancipium , e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta , lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium , le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium , non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium , e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di loro . Per verità mentre i vocaboli di he ( 1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium . Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte mia , siccome mi propongo di fare la storia del concetto , anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella , che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa , il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio , alla circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza , dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca , in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo proposito , che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e di cose , in cui si comprende il capofamiglia, la moglie , i figli, il bestiame, la terra coltivata , e la cui importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia , di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio , che si intitola al padre , ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo , for misi naturalmente una distinzione congenere a quelle , le cui traccie pur compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una parte fissa , sostanziale , che comprende tutti quei beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare . Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola ; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza . Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla . Quindi piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal ( 1) Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56 , pag. 70 . 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto , che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura , che chiamasi palliata . Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata , le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto , che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia , senza però mettere a repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato , in quanto che possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte del patrimonio . Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo , che costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale , sarebbe ad esempio , la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta , la conseguenza im mediata di questo fatto sarà , che quella distinzione, che stava for mandosi , perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per assumere un significato preciso , il quale , mentre corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche del popolo , di cui si tratta . 345. Or bene un avvenimento di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio , il quale , essendo stato posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium , non potè a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia , che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa 436 miglia , colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece , che si facevano alla plebe, erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus , mediante le così dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù rurali di pas saggio e di acquedotto , che erano del tutto indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium . Che anzi è anche probabile , che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo dimostra il fatto , che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario , che si considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium , che doveva essere consegnato e valutato nel censo , e che costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite ; le altre cose invece non gli erano tenute in conto , o perchè non appartenevano al quirite come tale , ma piuttosto alla gente , di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante , di cui non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata , pag. 318 a 348 e pag. 835 a 869. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo man cipium . Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite , al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite , cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta , purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium , avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium , trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1) . Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità remota , e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto , che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo , ed ai bisogni di una famiglia agricola , la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium , non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo , ma è un praedium instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù , che sono necessarie per la sua coltivazione (2). Una casa in città , un tugurio in campagna, circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà tipica del quirite ; quella proprietà cioè , che lo rendeva adsiduus, perchè ne accertava la residenza , e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo , I, 120 ; II, 14-17 ; Ulp., Fragm ., XIX , 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op . cit ., pag. 340 , che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi » , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di servi , che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può raccogliersi . dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste comprendevano ; lº i praedia , così rustici comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico , il quale mediante la concessione del ius italicum , poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium ; 2° le servitù rustiche , che sono il naturale compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura ; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur , veluti boves , equi, muli et asini. Invece le altre cose tutte , che esorbitano da questa cerchia , comprendendovi la stessa pecunia , le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo , che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium , quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile , esente da qualsiasi vincolo . Era solo questa forma di proprietà , che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes , e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa . Non fu quindi la pecunia , che ebbe ad essere tenuta in conto , perchè questa , anche consistendo in greggi ed in armenti , poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia , macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario , ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium , essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo . 348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite , come capo di una famiglia agricola , all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano , il quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti questo mancipium , che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite , e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium , che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta , di esclusiva e di irrevocabile . Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium , come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35 , che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico . I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo ; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del tempo , ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava , anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio ; poichè questo carattere militare, inerente anche almancipium , è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium ; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia , siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68 , al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia . 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose , che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite ; ma in questa parte , come nel resto , i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica , si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium , come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del primitivo mancipium , in quanto che esso continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più . Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito ; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium . 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto . Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche allargamento , che corrispondeva al concetto informatore del primitivo mancipium , e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio , che i giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium , o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico , che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche ; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento indi ( 1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium , che erasi sovrapposto a quello di heredium , tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque , e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose , che costituivano in certo modo un avitum mancipium . In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura , anno 1886 , 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op . cit., p . 93 . (2) GAJO , Comm ., II, 16 ; ULP., Fragm ., XIX , 1. ( 3 ) GAJO , II, 17 ; ULPIANO, loc . cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via , aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili , le quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto . -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro , e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio ; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria , allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate , costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram , di cui si parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia , ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p . 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig, 1875, IV , pag. 561). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata ; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru mentumt fundi» . Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op . cit., pag . 111 , non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia , intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II , 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium , finchè dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta : mentre l'eredità , riguardo a colui che vi ha diritto , costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium , nè la familia . 443 350. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium . Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i praedia , che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico , quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col Puctha , che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere , che fossero in potestate , in manu , o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è notato , qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia , le quali persone si dicono « alieni iuris , quae in manu, potestate,mancipio sunt » , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio , ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che è l'atto per aes et libram , e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto , perchè si trasferiscono me diante la mancipatio ; ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose . La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri ( 1) Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo , allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio . (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op . cit., pag. 15 . 444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium , il concetto cioè di una proprietà tipica del quirite , che compren deva uno spazio di terra e quelle pertinenze di esso , che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di una famiglia agricola . La formazione di questo mancipium , che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica del mancipium , pose le cose , che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose , che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria , perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et libram , mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es . sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai giureconsulti , quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto . Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie ; ma esso non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii (1). ( 1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio , riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella , che si introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium , e quelle invece che le appartengono solo in bonis ; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto , quanto ai modi di acquisto , e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre . $ 6 . La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium . 352. L'analogia , che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium . Fino ad ora si è sola mente dimostrato , come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà , che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di heredium . Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia . Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium , in base alla considerazione del censo, la sola proprietà , che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa , che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium , ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo ; come lo dimostra la circostanza , che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm ., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta . Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op . cit., pag . 73 e seg ., e BONFANTE , op . cit., pag. 115 e seg . 146 dominio quiritario all'espressione meam esse : « aio hanc rem iure quiritium » . Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium , resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium , la quale doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium . L'Ortolan, ad esempio , trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium : « aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus erat , aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure quiritium , non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di possesso ; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che entrarono a costituirlo . Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso , che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto , che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium . Questo pertanto non governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle ( 1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 40. . 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa città , e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium . Questa non comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo quella parte di essa , che loro appartiene nella loro qualità di quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium , che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium , e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto per aes et libram , e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento , in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium » . Questa infatti era l'unica proprietà , che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario . Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium , aut non intellegebatur dominus » : il che non vuol già dire , che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista quiritario . Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man cipium , il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite , ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Questo infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium , per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria . fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso : lº quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia , ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium ; 2° quanto ai modi, con cui si acquista , che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio , eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata , quanto alle persone , alle cose , ai modi di acquisto ; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria , che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium . Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella , che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium , il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis ; ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium , dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella , che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium . Esso è una forma di proprietà , che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso , che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta , concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , ed (1) Non è qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex , e dell'adsignatio viritana , che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium ; poichè lo stesso Gajo , Comm ., II, 65 , parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio , come costituenti un ius proprium civium romanorum . 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti , cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo , che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio , furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così , ad esempio , al modo istesso , che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum , quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii , la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium .ex iure quiritium ; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato , che lo rende suscettivo di dominio quiritario . Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum , il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà , se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1) . Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium . Così, ad esempio , finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia , anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium . Quando poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum : di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum , nella « Nouvelle revue historique de droit français et étranger » , annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium . Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero , perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà , che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto , le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio . Il che deve pur dirsideimodi diacquisto , i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto , che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti ; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio , civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva : gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium : immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne , anche abusando di essa . In questo diritto del proprietario , che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano : poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale , dopo essere stato una istituzione gentilizia , fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica , furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p . 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo , sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti reali , comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà , di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità , chementre il giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) (2); noi troviamo invece , che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium , ed è solo molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica , protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa ; ciò sarebbe smentito dal fatto , che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas , ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza , che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium , che era venuto meno nello stretto ius quiritium , e ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia . Il testo infatti, secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10 , sarebbe il seguente : « Qui sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto » . ( 1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi , fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1 , Dig . (41, 2 ). 452 proprietà , ma una specie di possesso a titolo di precario , che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò , che anche in questa parte il ius quiritium , essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà . Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium , il quale , implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti , che al quirite spetta sul proprio mancipium , nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa : è un fatto ed è un diritto ; è una proprietà originaria , ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata ; esso anzi de signa perfino una proprietà , che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi , la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti , ma in parte eziandio come una res iuris ; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ) ; quindi, per la protezione di esso , il pretore , non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola , ma sol tanto interdicere , cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto , del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter . (1) Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154 , pag. 190 e segg . (2) V. in proposito Savigny, Dela possession , Trad. Staedtler, sulla 74 ed . tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25 . 453 dicta , con cui si protegge il possesso . Siccome poi questo possesso , du rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso , oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica , protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo , mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium , quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium , il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo ; così tanto il dominium , che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità . Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti , i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà , ed ora dicono invece , che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto , fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista , sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem , e del possesso ad inter dicta . Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium , e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio . (2 ) Cfr. Savigny, op. cit., § 12 , pag . 170-177. (3 ) V. i passi in proposito citati dal Savigny, op . cit ., § 5 , pag. 21 e segg ., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12 , § 1, Dig . (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione» , ed altri analoghi, L. 1, $ 2 , Dig . (43, 17). Cfr. JHERING , Fondement des interdits possessoires, Trad . Maulenaere, Paris 1882, pag . 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa , il concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto ( 1) . Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa , come al solito , non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti ; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso , che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius » , in quanto che ogni fatto , che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione del Niebaur , Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12 a , pag . 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta , Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento ; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa , sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis , destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op . cit., $ 6 , p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa . (2 ) Senza voler qui prendere in esame le molte teorie , che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso ; di cui una è quella del JHERING , Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata , e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm . und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI , Archivio giuridico, XV, pag . 3 e segg . Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò , che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà , e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig . (43 , 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est , plus iuris habet, quam qui non possidet » . Parmi che, assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio : « ex facto oritur ius » , si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium , dopo essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo , che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia , fini per essere isolata dall'ambiente , in cui si era formata , e si cambiò così in una costruzione logica e coerente . Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà , ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico , in cui si erano for mati ; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta , che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella , che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti . Le loro analisi, le loro fattispecie , le loro costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca ; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della privata proprietà . In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata ed individuale ;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica , e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta , come al possesso ad usucapionem . Secondo il Puglia , Studii di storia del diritto romano, Messina 1886 , pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una controversia , per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio » ; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr . PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom ., pag . 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento . ( 1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad . Courcelles Seneuil, Paris, 1874, p . 244 . 456 il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium , con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium , a tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio . Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale , non dissi mile da quella , da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno ; ma a differenza di questa , quella fu ben presto isolata dall'ambiente , in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica , strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag . 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886 , in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886 , la descrizione degli ulteriori stadii , per cui passò l'evoluzione stessa . Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia , i vicinalia , i vicanalia (SCHUPFER, pag . 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità , il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium , e presso i Germani è quello di alodium ; il quale eziandio , secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità , e passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER , Op. cit., pag . 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium , che finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata . — È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà : poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum , di heredium , di praedium , di mancipium , i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen , Allod , Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto non cito » . Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER , pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum . — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata , presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto , un assegno ( pag . 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag . 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra , che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba , di sedimen , i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza , che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium . Che anzi, come già notava lo Schupfer , p . 78, anche l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium » . Infine questa proprietà si acquista , si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà , sonvi anche le differenze , che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica ; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio , e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita , o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad . Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884 . - 458 CAPITOLO III. Il ius quiritium ed i concetti di commercium , connubium , actio . 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto , fummo condotti ad una con figurazione giuridica del quirite, la quale , ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello , e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica . Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre lo status del quirite , ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto , sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata , determinata sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle vestigia , che a noi pervennero dell'antico ius quiritium , mi hanno profondamente convinto , che il medesimo, anche in questa parte , che potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di elaborazione e selezione potente , (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo : Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica , Messina, 1886 . 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti , la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica , non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto quiritario . Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono fissate , pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano ; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario , che si riferisce al negozio giuridico , fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata , la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe , e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo , con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium , risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico , il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium , del connubium e dell'actio , i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio , anteriore alla fondazione della città . Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici , ma compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza civile e politica . È in questa guisa, che un solo atto , quale sarà , ad esempio, l'atto per aes et libram , finirà per servire alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium , nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale , intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio , che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio , che è il matrimonio cum manu ; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram ; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento . Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano ; - 460 - ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale , che è quello del quirite . È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua naturale formazione, cominciando dal cercare : lº quali siano i concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius quiritium ; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi subiscono en trando nel diritto quiritario ; 3º l'ordine progressivo , con cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione del ius quiritium . 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del connubium , del commercium , dell'actio . Cid pud inferirsi anzitutto dalla circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale , che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria , li applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite , pur essendo un individuo , continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del quirite , quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario di terra , i quali due caratteri, nella sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium . Era quindi naturale , che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si riducevano alla famiglia ed alla proprietà , così le varie manifestazioni dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del connubium , da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella del com mercium , in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la circolazione e lo scambio della proprietà . — Le une e le altre ma nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio , che serviva a tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto , non essendovi ancora la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto , trasportati nel ius quiritium , si cambiarono, per così dire , in altrettanti capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività giuridica del quirite ; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium , del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato , sembra metter capo al concetto del connubium ; quello invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium ; e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio , che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium e del commercium , somministrandoci così, almeno questa volta , una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium , non può esservi dubbio , che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio , il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo ( 3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti , cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium ; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium ; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones , che è parimenti proprio della comunanza quiritaria . Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo , come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm ., I, 8 : « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones » . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm ., V , 3, quanto al connubium , e XIX , 5 quanto al commercium . Quanto all'uno e all'altro concetto cfr . il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 244 e. 274 , coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib . I, cap . VI, SS 2 e 3, pag . 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium , e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum . Cosi, ad esempio , il connubium nel periodo gentilicio , era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen . Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium . Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas » , ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium , e di godere cosi di tutti i diritti , che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze , cioè : della manus sulla moglie , fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano ; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium , come una dipendenza del connubium , considerato come un ius proprium civium romanorum . 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium . Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem potestas » ; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium , esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium , ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum , che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario ; 2° il facere mancipium , che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria , consistente appunto nel mancipium , colle forme riconosciute dal diritto quiritario ; 3º e in fine il facere testamentum , che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità , mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario , donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium , viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una sola forma tipica , che è quella dell'atto per aes et libram , e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello . Basta perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il testamentum , sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto , che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie cose , viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza , che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio : « uti lingua nuncupassit » , o quello analogo : « uti legassit, ita ius esto » . 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia , il cui diritto fosse disconosciuto e violato , e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento ( 2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium , essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia , ma intanto già si compie in iure , cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della città . Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa . Essa cessa perciò di essere ,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio , e viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium , che al commercium , accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 13 , in nota , il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib . I, cap . VI, § 3 , pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato , nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario . Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica , che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio , senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato , le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario : poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità , da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium . Anche qui ci mancano le testimonianze dirette , perchè i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro (2) ; ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto , che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium , e quindi viene ad esser naturale , che l'elaborazione di un ius quiritium , comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al commercium . Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal fatto , che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94 , pag . 117 e segg. e sopratutto nella nota 1a a pag . 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering . ( 2) Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà , che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa , pervulgari artem suam noluerunt » . 465 mercium . Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza , che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum , il mancipium ed il testa mentum ; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente , che le leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo , che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram , ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili : il che significa , che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium , relativa al commercium , fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano , allorchè scrive : omne ius consistit aut in acquirendo , aut in conservando, aut in minuendo ; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve essere riposta nel fatto , che la parte del ius quiritium , relativa al commercium , fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta . Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium , si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà , e quindi anche il diritto del marito , del padre , del padrone furono model (1) Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium , che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum , da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm ., XI, 14 . ( 2) Ulp., L. 41, Dig . (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà . Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di tuo , si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio . Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium , non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà , ma bensi da ciò , che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto di proprietà , anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta . Ciò è anche provato dal fatto , che nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio ; cosa del resto , che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al censo . 366. Noi possiamo invece affermare con certezza , che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum ; poichè fu soltanto colla legge Canuleia , che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe . Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca , la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia . Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti , e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito . Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora , che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato , e l'altra l'usus, propria della plebe , venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per coemptionem . Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium , comune ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero deferite , in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario ; donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo , che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium , deve ritenersi essere quella , che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti : ma, secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza , che questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie , spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica , e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario , l'actio sacramento , la quale può essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della procedura quiritaria : come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle fattispecie , che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione qui professata , secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium romanorum , sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti, sembra ( 1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V , ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium , che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium , la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum . La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum . 168 contraddire alla opinione oggidi molto seguita , secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario ( 1). Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto , che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio , il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium . Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta , e che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà , a lui spettante; poscia gli attribui il connubio ; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia : donde la conseguenza , che il ius quiritium , essendo già un'opera riflessa , accolse talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza , in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine stesso , che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium , si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli , di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino , 1885, pag. 105 e segg . (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , pag . 40 . (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto al cap . VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV . Il ius commercii nel diritto quiritario . $ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram . 368. Se havvi parte del ius quiritium , che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica , integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello , che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario . Il quirite infatti , quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti ( facere mancipium ) ; quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona ( facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio , dimenticando anche di avere de' figli . Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium , sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto , che, quanto al nexum ed al mancipium , viene enun ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto » , e quanto al testamento, colle parole : « uti pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto ( 1) » . E questa la parte , in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen , seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione : « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit , ita ius esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto » , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole . - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio , o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium , viene anche ad essere provata dal fatto , che un medesimo atto tipico , che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita , intorno all'atto tipico del diritto quiritario , sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece , che le poche vestigia , che a noi pervennero dall'antico diritto , conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex , come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia , Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex , nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228 , pag. 278. ( 2) Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln , II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, è un tentativo in questo senso . Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis , e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram . Quanto agli atti di diritto privato , in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag . 256 e segg ., discorrendo dei calata comitia , e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario , debba essere riposto nell'atto per aes et libram ; cosicché la nexi datio , la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium , in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo , che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo , o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento : trapasso , che trova vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram . Ed è questo concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto per aes et libram , e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito : « omne quod geritur per aes et libram » . Lo stesso è a dirsi del facere mancipium , in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio , consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram ; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram , il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram . Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium . Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium , mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro , osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà . Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram , il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor ; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola , ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). ( 1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium , compievasi per aes et libram , col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo , e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum , il mancipium , il testamentum ; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via , ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte , la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium , nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio , ed una trasmissione con corrispettivo , tanto nel contratto , in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento , mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum , il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram . « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia » . Varro, De ling. lat., 7, 5 , § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin ., pag. 6 ); « Nexum , est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur , idque necti dicitur ; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne quod geritur per aes et libram » , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio : « Nexum , Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur » , la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII , 105 , il quale aggiunge : « hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram , neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns, Fontes , pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum : « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu , quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5 , 28 : « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu , aut in iure cessio » . Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln , I, pag. 197, nota 7 , e II, 482 e segg . (1) La successione legittima non prende le mosse dal commercium , ma dal con nubium , come sarà dimostrato nel seguente cap. V , $ 5 . - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra . Di qui la conseguenza , che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium , vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram , cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium , e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato , che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo , che ha del matematico , e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora , la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo , che non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram ; poichè in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore , che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità , in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum : ma intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium , e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca , in cui era veramente neces saria la bilancia , non abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico , e della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in contraccambio . Questo è certo , che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia , che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto , che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve ( 1) V. ZELLER , La philosophie des Grecs, trad . Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8 , pag . 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è , che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto , sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale , al pari dell'antico atto per aes et libram , con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo , salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento , che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto , che prese il nome di ius quiritium , era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti ; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria , donde l'intervento nel medesimo dei classici testes , corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane ; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale , che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator , incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni ( 1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium , parmi di poter annoverare l'HÖLDER , Istituzioni di diritto romano, $ 28 , trad. Caporali. Torino, 1887, pag . 82. (2 ) Cod . civ. it ., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram , quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram , dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg . 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , il quale , mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità , poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia ; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto , le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio giuridico , che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram , non solo ai negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium , esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza , anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa , in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium , la quale con sisteva nel mancipium ; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio , noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario , poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di ( 1) L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet , mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram , descrittici sopratutto da Gajo , Comm ., II, 104-5 e da Ulp., Fragm ., XX, 9 . - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa guisa . Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso , anche questo linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli dell'hasta , della vindicta , e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di classici testes : la quale , sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel testamento , può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni dell'atto per aes et libram ( 1). Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità , in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia , è però sempre probabile, che anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il carattere quiritario , e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto , che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato ; ma questo è certo , che quando quest'atto compare nel ius quiritium , esso viene già ( 1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur » . La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio , pag. 83 e segg ., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire , che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm ., II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe : ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram , con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso , che ancora in base alle XII Tavole era stabilito : « adsiduo adsiduus vindex esto » . Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59 , il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico , che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una imaginaria venditio , senza neppur far cenno di un'epoca , in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario , è opinione generalmente ammessa , che esso siasi prima applicato alla mancipatio, poscia al nexum , e più tardi al testamentum per aes et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano , che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere , che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata come la più antica . Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto , che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca , in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà , mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum , poichè in un'epoca , in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio , era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito ; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario ; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem . (2) Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln , II, § 84, pag . 125 ; del MUIRHEAD, Op. cit ., pag. (3 ) GAJO , Comm ., II, 102 ; ULP., Fragm ., XX, 2 . 58 e segg . 478 dell'atto per aes et libram , non solo per eseguire il pagamento del prezzo , ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa , è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio » . Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne quod geritur per aes et libram » , mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo : « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » : argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto , quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto , che prima erasi formato a quello , la cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica , dal fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita , il che accadde per mezzo della lex Paetelia , nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la conseguenza , che il nexum cadde pressochè in dimenticanza , mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario ; perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium , e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò , che compievasi per aes et libram , necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram » . La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et libram fit » , ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla soltanto ; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita , e fu allora che si chiamò nexum , « quod obligatur per libram , neque suum fit» . Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che compievasi « per aes et libram , necti dicebatur » , mentre più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram ; trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium , di manus e di mancipium , i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga , finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto . A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra , per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario , che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum , ossia , come un vincolo , che intercede fra due quiriti . Ciò è dimostrato dal fatto , che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum , poscia della mancipatio , e da ultimo del testamentum per aes et libram . $ 2 . Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria . 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto , che contraevasi mediante il nexum , deve essere cercata in quel (1) Non parmi pertanto , che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE , L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà , e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo . Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum , ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona ; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 250 , dove, premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum . Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg . 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo , che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio , ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio ( 1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria , il nexum , questa obbligazione rozza è primitiva , che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della obbligazione quiritaria , ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario . Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram , colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio , quella della nexi liberatio , la quale, essendone naturalmente il contrapposto , pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio , per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due parti, cioè : (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum , ricorderò soltanto l'Huschke , Ueber das nexum , Leipzig , 1846 ; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd ., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita , il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta , autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum , che ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram , per contrarre il nexum , probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag. 67 . (3 ) La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm ., III, 174 , sa rebbe la seguente : « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum , me eo nomine a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et libram , non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator ; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio . Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum , il che implicava una specie di condanna , che il debitore pronunziava contro se stesso , al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento , e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio , senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato . I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum , sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum , ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale . 374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum , alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam » . Essa è per noi molto preziosa : 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura ; 3. perchè infine ci attesta , che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam , e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col nexum , ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem . Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium . (1) La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum , in conformità appunto della sua teoria , se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi ; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò , che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta , che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium , secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium , lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via , informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse coll'altro . Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum , nella sua significazione primitiva , designasse in genere il vincolo giuridico , che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium , e i due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale , e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità ; quello cioè di alienare il proprio mancipium , o quello di vincolarsi col nexum . Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro . Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum , non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà , il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio . Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder , secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio , II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis ; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus » . È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum , potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono , che la primitiva obbligazione quiritaria , la cui forma tipica fu il nexum , costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo ; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze , allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum , fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile , a cui un tempo era ridotta la plebe ; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum , mentre il patrizio , anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe , e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori , come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum . Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva , poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad . Caporali, pag. 225 e segg . Cfr . eziandio l' Esmein , L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique » , 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano , che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa ; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò , le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum , e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato ( ). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram , qual mezzo di sottomettersi al nexum , come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio , che è ancora ricordata da Gaio ; ma intanto il nexum , sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium . 376. Accade qui , in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella , che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium . Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio , VIII, 28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum , ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur ; poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum , ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona , mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum , introdotta dalla legge Giulia , fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio ; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio , come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium , quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium ; così al nexum , forma primitiva dell'obbligazione quiritaria , sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum , al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale , e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso , che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium , si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio ; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio , si vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum , mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram , mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa ( tuum de meo fit ): e della nuncupatio , mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento , e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur verbis , a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum , che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium , sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum , quali sono la mutui datio , la sponsio o stipulatio , e la acceptilatio : ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio . Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris ; si ap plica dapprima alla credita pecunia , e poi si estende a tutte le cose quae numero , pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae , oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato , del deposito , del pegno (1) . Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum , è sopratutto la sponsio o stipulatio . Questa , sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio , che già preesisteva nel nexum , salvo che essa, liberata di quella forma rigida della damnatio , che era propria del nexum , venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una risposta , congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di essa , che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum fit » . Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista , ritengo invece assai probabile questa etimologia , tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum , e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione , la quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio , di manci pium da manucaptum , e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post factum , sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid , che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo . In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum , allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio , la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole ; altri infine la ritengono di origine greca , donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi ; ma il suo carattere non è più artificioso , come quello dell'atto per aes et libram , nè così rigido come quello della damnatio , propria del nexum , ma sembra essere desunto dalla natura stessa delle cose . La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso , viene colla stipulatio ad essere conchiuso , in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo favore, di interrogare il promettente : « centum dare spondes ? » , e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio , poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio . Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento , come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio ; ma questa , quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum , propria del ius quiritium , e modellata probabilmente dal ius pontificium , nell'intento di serbare le tradizioni del passato ; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum , come lo dimostra il fatto , che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva : « spondes? spon deo » , la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso , che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio . Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag . 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio , pag. 47) ; ma non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia , dal momento , che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius quiritium , il che probabilmente dovette accadere , quando cominciò ad andare in disuso il nexum . ( 1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di un negozio , in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula , e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum . Essa è duttile, pieghevole , come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso ; è un materiale, che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi trattativa ; può servire per un'obbligazione principale ed anche per un'obbligazione accessoria ; sebbene unilaterale per propria natura , si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale . Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris . Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio , che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia , il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere . Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero , che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto , come quello , che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito , che doveva restare a mani del cre ditore (cautio , chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente g : eca , donde la cautio chirographaria , che pervenne fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium , sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto , poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta , doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio . Di qui ne venne, che essa , come contratto stante per sè , comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria , che era quella assunta col nexum , allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo , abbia cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum , quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER , nella « Enciclopedia giuridica italiana » , vol. I, pag. 175 a 180 , vº acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti ; accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati ; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione ; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data , e un'altra , che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto , a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum , con cetto , che viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit , ut aliquod corpus, nostrum , aut « servitutem , nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid , vel faciendum , vel praestandum » (1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del trasferimento della proprietà , non meno radicale e pro fonda, di quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e quello del facere mancipium . È questo il motivo, per cui la genesi dei modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio . $ 3. – La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio quiritario . 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese più tardi il nome di mancipatio , deve considerarsi come la forma primordiale , che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, ( 1) Paolo, Leg . 3 , Dig . (44 , 7). ( 2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura . Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition , Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30 , pag . 131 a 149 ; il Voigt, XIl Tafeln , II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram , come lo dimostra il fatto , che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram , e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa . Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito ; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio , consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens , che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium , per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio , isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice , se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo , che questi, essendo presente all'atto , e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo , riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88 ; il Longo, La mancipatio , Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium ; donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem . Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite ; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium , mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium , o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto . Di qui la conseguenza , che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram , in quo sine mancipia » . VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata , nei Comm ., I, SS 119 a 123 . 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria , aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto , che era l'acquirente , il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa ; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità , che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio , secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium , costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa , in cui si formd il concetto del manci pium , e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium , in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria , quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica , dal censo attribuita al mancipium , che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium ; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa , continuarono sempre a considerare la mancipatio , come un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino , che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio , Comm ., I, 119. Sono da vedersi , quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata , se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum , come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134 , nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano , Fragm ., XIX, 3 , i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü » . Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg . 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium , vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium , così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio , la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo , poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium . Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica , la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium , la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium , il quale restringeva di troppo il novero delle cose , che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria , cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria , ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium . Di qui ne derivo , che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium , di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia , quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag . 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm ., XIX, 3, e 7 ; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii » ; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium . Quello cade sotto il diritto civile , e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio , Comm ., II, 65 . 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio , mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa , durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria , e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio , la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio , ma la medesima, essendo nata col mancipium , continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato , se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria : ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza , che prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo , quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium , negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto , che producevano l'immediata traslazione della proprietà , e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio : « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » , e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium , sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze , e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse , che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans , pur alienando la cosa , potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di ( 1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm ., XIX , 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto , poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale , che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole , più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium ; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta , apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso , le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio , dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1) . 385. Sopratutto , fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae , od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium , dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum fiducia , che doveva poi acquistare un così largo ( 1) Si può veder raccolta nel Voigt, op . cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. ( 2) Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86 , pag. 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa , che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana , riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. ( 3) Le ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149 , pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale , e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia , in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro , che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio , che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà , che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa , accanto all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio , cosicchè il man cipio accipiens non affermò più , la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece : « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio » ; colla qual formola già si lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia ( 1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio , con un amico nella manci patio familiae cum fiducia , che fu una delle forme più antiche di testamento , mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico ( familiae emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa , che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica , ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico , mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà ; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse , come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto ; ma (1) Cfr. il MUIRHEAD, op . cit., pag. 140 e seg . e il Voigt, op. cit., II , pag . 172. (2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23 , 24 , riportato dal Bruns, Fontes , pag. 406 , in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca . Della fiducia egli scrive : « fiducia est, cum res aliqua , sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur » . (3) Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg . 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa , ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum . Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio . È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria . Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio , perchè essa , al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta . (1) ; l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal cessionario , non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa , che forma oggetto di negozio , la quale si compie davanti almagistrato , e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo ; la seconda invece fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra cosa , finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla . Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente legale e giuridico , in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato ;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto , che trasformasi in diritto , ossia l'uso od il possesso , che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium , quando abbiano durato per un certo spazio di tempo . Queste considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto , ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie , presso le quali tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato , l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale , avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto , dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione , che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur » . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm ., XIX , 10 « In iure cedit dominus ; vindicat is , cui ceditur; addicit Praetor » . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 32 498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato , il quale era ricavato dall'ordine patrizio , e dall'altra il patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus auctoritas » , che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di CICERONE, Top ., 4 : « usus auctoritas fundi biennium est ; ceterarum rerum omnium annuus est usus » . Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe collocata al n . 6 , della Tavola V , e sarebbe così concepita : « usus, auctoritas biennium , cetera rum rerum annuus esto » . Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo , che incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si tratta . Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris, cap. 8 , pag. 215 ; Lugd., Bat. 1638 , e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola . A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà , ove tutti gli antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas » , e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà , allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio , non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò , che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top ., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19 , sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium » ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola , cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso . Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio , in Cic., Top ., loc. cit ., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive : « Plurima « rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem ; fundi vero usucapio « biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero : ut, quoniam ususauctoritas fundi « biennium est, sit etiam aedium . Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag . 400). Che se altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto » , gli è perchè ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano l'usucapio , che non l'in iure cessio . Di questa infatti dice Gaio , che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato (1). Di qui ne venne che , sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio . Così, ad esempio , Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la cessione della eredità , che consideravasi come una cosa incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto . Quanto a quest'ultimo tuttavia , egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa , riservava per sè l'usufrutto della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la proprietà , non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto . Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di fatto ad una posizione di diritto , per cambiare cioè la semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa , che determinò la formazione della teoria del possesso , accanto a quella della proprietà , e che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio , e non mai della durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium , ceterarum rerum annus esto » ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. ( 1) Scrive infatti Garo , Comm ., II, 25 , discorrendo della iure cessio per le res mancipii : « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere » . (2) GAIO, II, 33 ; Ulp., Fragm ., XIX, 11 e 12 . 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio . Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio , il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto , ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii : « ne rerum dominia diutius in incerto essent » . 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario , cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri proprietarii ex iure quiritium . Quest'effetto era già stato ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia , proprii della plebe , in altrettante proprietà ex iure quiritium , facendoli consegnare nel censo ; ed il medesimo processo venne ad essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas , la quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e proprio diritto . Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie , e quale mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di un'eredità , come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non si richiedono condizioni di sorta , perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente , che i giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p . 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter . ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 48, e l'Es sin , Histoire de l' usucapion nei « Mélanges d'histoire du droit » , Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso , perchè possa dar luogo all'usucapione (1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto , fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto , proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii , che alle res nec mancipii , ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti , che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile : come lo dimostra il fatto , che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). ( 1) Questo carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein , op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm ., XIX , 8 : « Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii » ; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio , che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag . 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla , che sarebbe il pos sesso ad usucapionem , ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo , e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n . 357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem , e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia , è attestata in modo concorde da Gaio, Comm ., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm ., XI, 27 . (3) È naturale infatti, che l'usucapione in una società , che si forma, sia un modo di acquisto , e che in una società invece, che si è formatn , si converta in un mezzo di difesa ; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto ; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm ., II, 46 : « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt » . (5 ) Mainz, Cours de droit romain , I, SS 111 e 112 , pag. 745 e segg. 502 389. Intanto ,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium , accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà , che prende il nome di proprietà in bonis . Questa dapprima non è che una proprietà di fatto , ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà , il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium , ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) » . Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio ; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium . Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium , che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium , mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento . È tut tavia notabile , che prima della fusione delle due proprietà , quella in bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza ; come lo dimostra il fatto , che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium , e fosse stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà , che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto , accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile ; lotta , che Gaio ebbe a riassumere scrivendo : « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea , quae traditione alienantur ; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » ( 3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, ( 1) Gaio , Comm ., II, 40. ( 2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm ., XIX , 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto . (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique » , 1885, pag. 481-526 , e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro , ed allora si consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria , che si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium , poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium , finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata . È solo allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio , che un tempo avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1) . 390. Infine anche qui deve essere notato , che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso , che più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum , non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra . Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum ; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium , fra il facere mancipium ed il facere nexum , si mantenne per tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra prova della dialettica co (1) Giustin., Cod ., VII, 25 : de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4 : de usucapione transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod ., II , 3 (Dioclet. et Maxim .). (3 ) Gaio , Comm ., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del ius quiritium . Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo tutto ciò , che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso . Chi poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium ; avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente . Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram . $ 4 . La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario . 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium , il testa mento è certamente quello , di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la storia primitiva , e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi anzitutto , che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla fondazione della città , perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio , della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie , riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città , le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto . Si è veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia , ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto , e un proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale , che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede , che continuasse in certo modo la sua personalità , e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico . Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum : due istitu zioni, le quali , ancorchè in guisa diversa , mirano in sostanza al medesimo intento , cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto . Intanto però , siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia , cosi egli è certo , che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di famiglia , di sua privata autorità , ma dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia , che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio , conviene inferirne , che anche il testamento , in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie , e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; ( 1) Ho già toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg . Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique » , 1886 , pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese , nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta . Paris, 1880 , pag. 96 e segg . ; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico . Torino, 1886, pag . 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO , L. 4 , Dig . (28-1) : testamenti factio iuris publici est. Cfr . quanto ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg . 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto , e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito » ; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria . Quanto alla plebe , non avendo essa la organizzazione gentilizia , non poteva certamente possedere un simile testamento ; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo , quando rimaneva senza figliuolanza diretta , non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose , che quello di ri correre all'istituto della fiducia , affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato ; modo questo di far testamento , che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento ; un testamento cioè, di origine patrizia , fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie , coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro , di origine plebea , che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso , che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia , e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo , in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento , comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento , cioè: di un testamento , che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm ., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag. 184 e seg . Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 45 e seg. e p . 166 . ( 2 ) GAIO , II, 101 a 108 . 507 testamento in procinctu , che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » ( 1); ma intanto non dice , se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie . Sembra tuttavia ovvio l'osservare , che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento , comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie , ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito . Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio , non è più il testamento proprio delle genti patrizie , che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento , già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie , che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte , come ebbe a dichiararlo espressamente la legge decemvirale ; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario , più non intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza , secondo la ( 1) GAIO , II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27 , 1 e 2, parlando dei co:nitia calata , scrive : « eorum alia esse « curiata , alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari ; « centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V , 19, 6 , parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie , salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr . Cuq, art. cit., p . 539 . 508 formola , che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram : « et vos , quirites, testimonium mihi perhibitote » . Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile , che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge , che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive . 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie , nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità , in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento ,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio . Si comprende pertanto , che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia , che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea , salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram , e ac compagnato dalla fiducia . Era quindi un testamento , che era facile a celebrarsi, ma che , al pari della fiducia iure pignoris , aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia , che il testatore aveva in lui riposta . Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio , di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram , e modellarono così quella forma di testamento , che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum , e che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram , quale è descritto da Gaio , II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op . cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram . 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium , e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram , nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo , in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento , secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram , compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze del testatore ( familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor ; nel testamento invece per aes et libram , quale appare modellato in questo secondo stadio , il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza , che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario , ricorrendo alla formola seguente : « familia pecuniaque tua endo mandatelam , custodelamque meam , quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam , hoc aere esto mihi empta » (2). ( 1) Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag . 565, verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica , che era andata in disuso ; mentre invece è evidente, che le parole della formola : « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam » , mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica . Una prova di cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem publicam » , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice : « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram , come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo . (2) GAIO, Comm ., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum , novis curis auctum , Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio , della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » . La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore , in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale ; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa , in quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie , dichiarando solennemente , che queste contenevano la sua ultima volontà : « haec ita , ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor : itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto . 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole : qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del nexum , o meglio dell'atto per aes et libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva ( 1) Gaio , loc. cit. e Ulp., Fragm ., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram , allorchè scrive al $ 9 : « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti » ; e dopo viene senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella , che veramente importa . (2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511 . l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto ; il testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile , quale era l'atto per aes et libram , lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo ; nel testamento invece per aes et libram , la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento , che anche il testamento per aes et libram , quale compare nel ius quiritium , deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi , ma anche per causa di morte . Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede : tanto più , che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano , il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non dice già , che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece : « accessit deinde tertium genus testamenti » . (1) Cic ., De leg., II , 19 , 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag . 555 , il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2 . (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea , e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta ; poichè il testamento per aes et libram , anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium , e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram . Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica , ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario , figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario , esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie , senza che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio , il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto , che è richiesta nel testamento , e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo ( 1). Cosi pure il testamento, nel suo concetto primitivo , aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen tum testamenti» ; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza . Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore costituiva legge , e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso ; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio , secondo cui la volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram , per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è chiara . mente attestato da Gaio , Comm ., II, 105 a 107 e da Ulp., Fragm ., XX, 3 a 6 . Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO , Instit., II, 10, $ 10. (2) È nota la distinzione fra i legati per vindicationem , per damnationem , sinendi modo, e per praeceptionem : in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm ., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà , a lui consentita dal primitivo diritto , e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia testamentaria , è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte , che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio ; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram , ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo . Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti , secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile : dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo , che è di origine pre toria : e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie , che anche Giustiniano , per imitazione dell'antico , continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile , poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto , prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris , 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin ., Instit., II, 10, $ S 3 e 10 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento : 1 ° Il testamento in Roma è un atto , in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu , non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano ; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario , che era stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario , dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento , la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento , che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione , e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento , in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium . Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid , che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima ; ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso , che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta . Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore apposito ( praetor fideicom missarius). V. Justin ., Instit., II, 23 , ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest , al seguente capitolo V , $ 5 ; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la legittima. 515 CAPITOLO V. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana . $ 1. - Sguardo generale all'argomento . 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa . Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla ; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà , l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa : « pater familias in domu do minium habet » ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio paterno : « vivo quoque parente , quodammodo condomini existimantur » . Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto , e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a questo contrasto , fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55 ; il JHERING , L'esprit du droit romain , trad . Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37 , e specialmente da pag. 190 a 214 ; il Gide , Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885 , cap . IV e V ; il Voigt, XII Tafeln , II, $ 92, pag. 241 a 256 ; il MUIRHEAD, Histor, introd ., pag. 24 a 34 ; il Brixi, Matrimonio e di vorzio , Bologna, 1886 , parte 1“, passim , e specialmente ai SS 21 e 22 , pag . 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER , La famiglia secondo il diritto romano , vol. 1°, Padova 1876 ; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna, 1881. ; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti ; ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica , che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella , che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo , in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate , proprie delle genti patrizie , e le istituzioni appena ab bozzate , proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale ; dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia ; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose , era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale , unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa , e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane ; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna , fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1) . (1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º , pag. 28 a 34 ; quanto a quella della plebe, lo stesso lib . I, cap . 9 , pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte , il più elaborato , il più coerente in tutte le sue parti , era certamente quello delle genti patrizie ; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle genti patrizie . 402. Ne consegui pertanto , che l'ordinamento domestico , adottato dalla comunanza quiritaria , fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie , e che anche in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica , che già preesisteva nel periodo gentilizio ; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale , in cui erasi formata , il quale serviva a temperarne la rigi dezza ; la riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia , nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio ; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze , di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia , che ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa , che ogni famiglia , nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo , e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia , per entrare in un'altra , cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu ; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia , poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo , il quale univa imembri della famiglia , non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia . Se poi tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico , appariscono unificati nel proprio capo , viene pure a conseguirne logicamente , che tutto quello , che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa, quando trattasi di persone , che appartengano ad un gruppo diverso . Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio , venga ad uscire da un gruppo per entrare in un altro , sotto il punto di vista giuri dico , cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia , in cui entra , quel posto , che le sarebbe spettato , quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria , la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia , ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente , mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium . Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano , che i diritti del padre sulla moglie, sui figli , sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro , suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, pag. 6 e segg ., a proposito della domus fami liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico , in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà , cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium , poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium . Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia , e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale . Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum , salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica , organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse , che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città , e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto ; ma il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia , come un gruppo separato e distinto da tutte le altre , fu dimostrato nel libro III , cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu , fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu , accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito . 520 vantaggio di isolare ciò , che havvi di giuridico nella famiglia , da ogni elemento estraneo , e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza , pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente , poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica ; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare ; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa , che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium , cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto . Quel connubium infatti , che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi , che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen , trasportato nel diritto quiritario , venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium , ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia , organizzata ex iure quiritium , con tutte le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium : ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium ,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum ; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum . Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü , i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio , II , 40), trattandosi invece della manus (Id ., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum . 521 – quiritium , al pari del dominium ex iure quiritium , venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum , in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra : quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto , che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium , ha eziandio un fondamento nella realtà ; perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia , la quale poi si esplica nella figliuolanza : il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone , allorchè scrive : « prima societas in coniugio, proxima in liberis ; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza , che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica , fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci , l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare, cioè : lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse ; 2 ° nel suo svolgimento , ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono ; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo , scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica , che era propria soltanto di una minoranza , e che per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale ; cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario , e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto , che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu ( 1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu ; in quella fra l'agnazione e la cognazione ; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria ; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio . Sono queste lotte , che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e consolidato , se ne contrapponga costantemente un'altra , che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie . § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato , che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico , dovette incominciare da un concetto tipico , che è quello del matrimonio cum manu . Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu ( 1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario , stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia , fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio , la quale importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1) Questa è la conseguenza , a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto : La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain , nei « Mélanges d'histoire du droit » , Paris 1886 , pag . 6. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie , quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE , Top . 3 , il quale scrive : « genus est enim wor ; eius duae formae : una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum , quae tantummodo uxores habentur » . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6 , 9 , ove dice : « matremfamilias appellatam eam solam , quae in maritimanu mancipioque erat » , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes , pag. 390. Sopratutto è degno di nota , che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio , V , 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag . 71, e il Brini, Op. cit., pag . 37. 523 comprovato dalla circostanza , che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio , si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem . Così, per esempio , Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio , e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito , che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo ( 1). Tutto ciò significa, che le genti patrizie , fondatrici della città , presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio , e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale ; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di farro , ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie , in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito , sembra pure essere probabile , che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium , ma soltanto al repudium , il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio , in (1) Dion ., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268 , pag . 329 e seg . ( 2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio , X , 15 , 23, e di Festo , vº Flammeo, dalle quali risulta , che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio . Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite , Firenze 1885 , pag. 12 a 15 . 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso , che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto , e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso , fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo . 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso , di cui una era forse importata dall'antico Oriente , mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura , che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione decemvirale , e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio , come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale , corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso , allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile . È questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio , collo stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu , accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi , che avesse voluto sottrarvisi , doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln , I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV , e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire , quotannis trinoctio usum interficito » . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe . Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia , si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram , che era la forma solenne propria del negozio quiritario , e si diede cosi origine alla coemptio , quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu , e neppur quella , che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito . La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto per aes et libram , e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ). ( 1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio . Anche secondo il BERNHÖFT , Staat und Recht der römischen Konigszeit , 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio : mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa , Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata ; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico , con cui queste varie forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente , cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii ; poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe ; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN , Op. cit ., pag. 8 e 9 . (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori , che la coemptio fosse di origine plebea , e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito . Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano, I, pag. 94 ; Voigt, XII, Tafeln , II , $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio , pag . 50 e segg . La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram , e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del marito ; 20 e della nuncupatio solenne , le cui parole non ci sono perve nute , ma la cui sostanza , secondo Servio e Boezio , consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia , e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio , sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito , e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant) ( 1). È poi probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio , cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio , fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito , e di attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia , sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65 , e sopratutto l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B , pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio , in Aen ., IV , 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice : « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $ 24 , 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram « is emit mulierem , cuius in manum convenit » ; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti , e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit ., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso , che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia , come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso , e l'origine di essa , che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto , che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso . Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove , di Marte e di Qui rino , i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio ( 1). Per contro può affermarsi con una certa probabilità , che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe , in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus , quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio , quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium , e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu , essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto , quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa , fin dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat » . Cfr. Esmein, Op. cit., pag . 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio , che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia , essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria . Quindi al modo stesso , che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia , così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile , che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio . Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso , in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu , pud anche spiegare le sorti ( 1) GAIO, I, 114 a 116 . (2) GAIO , I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu , e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem , il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio ; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu , e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu ( Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura . Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem , venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem . Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium , anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem , parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio, . I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia , dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie : « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest , atque si ei nun quam nupta fuisset » . 529 diyerse , che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano . Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire , poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» ( 1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe , che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente ; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso . Questo è certo , che Gaio parla della confar reatio , come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio . Noi sappiamo tuttavia da Tacito , che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio , e che le matrone ottennero in quell'occasione dal senato , che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo , sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum manu , e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio ; cessazione, che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge , stante la prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 ) . ( 1) Gaio , I, 111. (2 ) GAIO , I, 36 ; Tacito, Ann. IV , 6 . (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone , console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS , pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu , a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò , lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito , dimostra che un fatto G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 34 530 411. Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu , come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece , che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana , debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia , perchè da una parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata invece nella città , ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe , poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa , contro il potere dispotico del proprio marito . Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto , ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or . ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia , si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito . Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium , venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu . Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto , di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium , che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu , simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata . Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia , negli « Studii e do cumenti di storia e diritto » . Roma, 1880 , pag. 17 . (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 703. -- - -- - 531 - di fronte a quello cum manu , presenta una singolare analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium . Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis :i venne a poco a poco modellando su quella ex iure quiritium , così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico , che ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu . Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu , come lo dimostrano la maritalis affectio , e la perpetua vitae consuetudo , di cui parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti : lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica , distinta da quella del marito ; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile , poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica , quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium , e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio ; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa ; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla moglie . 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio , nè la remancipatio , ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie ; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu , questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio , non potè svolgersi che col matrimonio sine manu ; poichè un simile concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente , che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col matrimonio sine manu , abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito , e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello stesso matrimonio cum manu . In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu , V. fra gli altri PADELLETTI, Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo , Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio , e la dote in questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu , come lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln , II , pag . 486 . dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV , 3 , il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga , seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato : Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » , 1887, pag. 1 a 20 specialmente pag. 17 e segg. 533 corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis . simo concetto del matrimonio . $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia , sotto il punto di vista giuridico , costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo , il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium : dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso , cioè la moglie , i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium . Il padre è quegli, che è padrone nella casa , che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria ; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia , sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio , che i romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose ; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia , si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile , che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo , il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone , e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie , quello invece di po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium , esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di famiglia , e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine , siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio , ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù ; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco habentur » ( 1). 414. Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri , ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso . Di questi poteri, quello , che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città , ove non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu , dopo essere stata la regola , sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in disuso . Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia , ma (1) Secondo Gaio, I , 52 e 55 , il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium ,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone , quae in causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1) . 415. Così invece non accadde della patria potestas . Questa non ha più bisogno di essere volontariamente accettata , come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita , e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della nascita . Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie : donde la conseguenza , che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli ; può rivendicarli, se gli siano sottratti ; può dargli a mancipio , se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire . È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano , pur serbando integro il concetto della patria potestà , venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa , che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia , ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata , che quanto agli effetti della patria potestà . 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita , venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio , viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu , nn. 411 e 412 , pag . 530 e segg . (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94 . 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà . Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et libram , salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è notabile eziandio , che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza , che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio ; poichè sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre , si viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio , che i peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium , che era quel piccolo patrimonio, di cui il ( 1) Gaio , I, 135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per l'emancipazione del figlio . Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più forte vincolo , con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. PADELLETTI, Op. cit., pag . 86. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto » . Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris interpretatio . Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio , II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag . 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit ., II, $ 73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28 , note 12, 13 , 14 . 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio ;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento , poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra , quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali ( peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti , che appartenevano al padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio , con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio , con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale ( 1) L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione ; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica . Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia , cfr. MUIRHEAD , Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI , Storia del dir. rom ., ediz . Cogliolo, pag. 187, nota 4 ; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota , quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE , L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto . Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio , come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto , per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia , dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia , o degli anziani del villaggio ; donde la conseguenza , che quando fu poi trasportata nella città , essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento , dovevano es sere compiuti in calatis comitiis , coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà , suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio , applicando al solito l'atto per aes et libram , e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato , me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio . 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia , perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto , che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti , che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali ; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio , finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg . 11, § 2 , Dig . (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert » . Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25 , pag. 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio , V , 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto ; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio , e che essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto , che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria , ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo , che potesse bastare a se stesso . È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria , esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza , ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium , e costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio , senza derogare alla sua dignità , ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva , chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia , anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita , che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I , 52 , dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln , II, pag . 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152 ; ULP., Fragm . XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta . Giuridicamente parlando , il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio ; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero , e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose , cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente : nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio , a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità , e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico , di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo , che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia , viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato , la quale deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò , questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta , censu , testamento , ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER , Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa , non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà , che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo , per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse , e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà , che era accor data ai servi (1). Fu in questa guisa , che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore , secondo che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana : « pessima itaque, conchiude Gaio , eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto , aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere ; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines , sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia , trova la sua causa in ciò , che i Romani, anche in ( 1) È notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto . Ciò viene attestato da Gaio, III, 40 , 41 , il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 ) Gaio , 1 , 26 ; Ulp., Fragm ., I, 5 . (3 ) Gaio , I, 141. 542 questa parte , trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al diritto ; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica , ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo ius quiritium . 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà . Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii) ; che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie : « sui quidem heredes, dice Gaio , ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di comproprietà , che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, ( 1) GAIO , II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., pag . 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain , Paris, 1880, pag. 63 , e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle : nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique » , 1886, pag. 457 e segg . 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città , ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata . La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di loro ; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre , il che la rendeva unita e compatta per la lotta , che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata ; e quello di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla . In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone : « una domus, communia omnia » . Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii : che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio ; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens ; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento , nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia , che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è , che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte , e il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica , che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo . Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli ; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo : in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse , quasi olim hi domini ( 1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib . I, cap . 4, § 3º, sopratutto pag. 70 e segg . 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur . Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur , sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1) . Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità . 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà , a cui accennano i giureconsulti , sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza , per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto , come pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale , che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza , all'epoca della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa , che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione ; mentre è solo per il caso , in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge , chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur , cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto ; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura , che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium ( 1) PAOLO, Leg . 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER , Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201 . (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto . Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre , e li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio , I, 157. - 545 romanorum , e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato , che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio . Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti , che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza , che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia ; come lo dimostra la circostanza , che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia , e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1) . Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono : lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile , tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di famiglia ; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto ; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro , i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum , hanno però comune la discendenza da un medesimo ( 1) Che la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero fatto altro , che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm . XI, 3 , e XXVII, 5 . Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra , pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta , quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di successione legittima , che le consuetudini avevano già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a succedere . Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia , tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità , ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes sui et necessarii) : non potevano essere spogliati dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede ; infine succedevano per stirpe , ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati , il patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro : quindi la legge, per impedirne la suddivisione soverchia , si limitava a devolverlo allo agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola . Egli quindi ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità , e può vedersi usucapita l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità , questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 ) Gaio, III, 1 a 8 ; Ulp., Fragm ., XXIV, 1 a 3 . (2) GAIB, III , 9 a 15 , Ulp., Fragm ., XXIV , 1. L'enumerazione , che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto, che ho svolto nel lib . I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento » ; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità , e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia : ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium , come di cosa andata da lungo tempo in disuso (1) . Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia , trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto , che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur , cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum . Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto . Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei , « id est fratres et sorores ex eodem patre » ; poscia , quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae , (1) Gaio , III, 17 ; UlP ., Fragm ., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità , dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto , in cui dice che gli oratori delle parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure » . Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere . (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig . (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt, I, pag. 705 , questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, pag . 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima ; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono , la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota , che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti ( 1): ma la prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro , che avevano il vantaggio della successione : « ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae » ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela , che la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia , da cui furono desunte , e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi , fosse affidata agli agnati ed ai gentili ; come le donne, anche perfectae aetatis , cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite , quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere , la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione della persona , la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare (2) . i 426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia , che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie , esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di ( 1) Ulp., Fragm ., XI, 3 . (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit ., pag . 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo . È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto , ma di vere iuris iniquitates ; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio , introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria , e creando , accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto , e vennero creando essi stessi degli espedienti giuridici , quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia , per liberarle da una tutela , le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale ( 1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria , e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro . Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò , che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato , così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso , non potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima , quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia ; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto ; è confermato dalla massima : nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest ; ed è provato eziandio da quella specie di ripugnanza , che avevano i Romani a morire senza testamento : ripugnanza , che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza ; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso , come lo dimostra la varietà grandissima di opinioni e di congetture , che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia , che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium . Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium . Mentre la successione e la tutela legittima , le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune , sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia , ispirate al concetto di ser ( 1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta , malgrado la ricchissima letteratura , di cui fu argomento . Fra autori, che la esaminarono di recente , citero soltanto il RUGGERI, nei Do cumenti di storia e di diritto , 1880, pag. 147 a 168, e 1881, pag. 31 a 51; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886 , pag . 449 a 474 ; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico » , vol. IV ). Anche l'ESMEIN , La manus, la paternité , ecc., pag . 4 , nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima , dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva : poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione , per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato , verrebbe alla conseguenza , che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria , do vevano comprendere l'intiero patrimonio ; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii ; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò , che anche il testamento dapprima era una vera lex , e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente , che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis , non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram , che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente ; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium , non è più il testamento delle genti patrizie , ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram , che si ispira al prin cipo : uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale : mentre in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere ( 1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria , nella struttura organica del ius quiritium , muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso . Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii , ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio : « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso , che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria , che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso . Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo : « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse , earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap . III , § 4 , in cui si discorre della successione testamentaria , ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato , ancorchè solo di passaggio , da Cic., De orat., I, 57 , § 245 ; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana . (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto , il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium , avesse pui consentito , che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro . Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria . Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi ( 1). Mentre ritengo , che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio , nel quale il testamento non dovette essere , che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece , che essa non sia con forme all'evoluzione storica , che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium . Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole , mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria ; il che indica appunto , che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium , mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale . Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186 . 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe ( 1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole , che la successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente , come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium , mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire , fu il primo ad esservi accolto , come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica , che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium . (1 ) ULP., Fragm ., XI, 3; XXVII, 5 ; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum , tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17) ; « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex iure quiritium . 429. Quella tecnica giuridica , di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium , appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo , e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause , che contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio , dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto , relativa alla procedura delle legis actiones , ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa : ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista , a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN , Traité des actions, trail . Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG , Der röm . Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones ; BEKKER, Die Aktionen d . röm . Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag . 18-74 ; KAR LOWA , Der röm . Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen , Berlin 1872 ; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag . 15 a 86 ; JHERING , L'esprit du droit romain , tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd ., pag . 181 a 235 ; Zocco-Rosa , Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887 ; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta . Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale ; egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio , segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones , è molto imperfetta ; poichè lo stesso Gaio , che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento , e quindi si limita alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice , circa la introduzione della legis actio per condictionem . A ciò si aggiunge, che Gaio , discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio , ed alla condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis actiones . È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura , che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono , secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo luogo , che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto , secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali , di cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg . 2, § 6 , Dig. (1, 2 ) ; Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem , e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem . ( 3) Gaio , IV , 12 , scrive : , lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al magistrato , e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal magistrato . Mentre in iure si decideva , se in quel determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio , e si dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti , in base alla configurazione giuridica , che la controversia aveva assunto davanti al magistrato ( 1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso , in quanto che vi erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura , che potrebbe chiamarsi processuale o contenziosa ; e quelle invece , che miravano all'esecuzione del giudicato , e costituivano così la procedura esecutiva . Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio , alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem ; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio , che è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso , poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio (2). ( 1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò , che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia , per essere deferite alla giurisdizione del magi strato . Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare , da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia , o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium . Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto , fra il ius ed il iudicium , non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto : ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam » . (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones , che esse , ad eccezione della pignoris capio , si compievano in iure , cioè davanti al magistrato ; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu . tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem , 557 431. In questo stato di cose , la questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria , sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio , cosi nei giudizii penali come nei civili , si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium , che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones , e che dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram , siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di carattere quiritario . Le prime origini di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza , mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo , che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro , che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag . 19 e 20 . (1) È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı , Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè : 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum ; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole ; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur , mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse ; ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva . 558 - nale quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio ; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium , e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia , che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole , non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale . Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata , dovette almeno essere rimaneggiata , in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento , che la parte del ius quiritium , relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores , al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium , e che, ciò stante, questa parte , per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate , non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile , che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica , e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite , ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores , trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche , riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium , e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria : cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza quiritaria . Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro , quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure , analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche , in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa , che si riuscì ad una procedura, la quale , mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo , quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia (1) . 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo , come già nella stessa organizzazione gentilizia , e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia , ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con ( 1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro , possono conciliarsi fra di loro , quando si accetti la teoria , svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica , e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia , ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile giustizia ; ed è la seconda , che potè invece essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO , IV , 11 ; POMP., Leg. 2 , 8 6 e 24 , Dig. ( 1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria (1) . Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia , uguali fra di loro , che nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato , il quale , anzichè giudice diretto della controversia , lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione . Questa è quella procedura , che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento , le cui traccie trovansi non solo fra le genti italiche , ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3). L'altra invece fu una procedura , la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio , ma poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica spettante a una persona , come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium , e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso . La prima fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti : come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente . La seconda invece fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito . ( 1) Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò , che si è detto nel lib . I, cap. V , § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib . I, nº 104, pag. 135 , nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX ; e lo Zocco- Rosa , Op. cit., pag . 209 e seg . (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib . I , nº 106 , pag . 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano , Napoli 1878 ; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116 ; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali ; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo : sono le persone, fra cui si discute , che recansi dinanzi al magistrato . Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi , secondo il valore della controversia ; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa , che forma oggetto della controversia . Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente , e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso . Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege ; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa , della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse ; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV , 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam , che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili . (2 ) Gaio , Comm ., IV, 21 a 26 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto , di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una lotta : quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza , allorchè invece essa è finita , il vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo , per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio , venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto . 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello , che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario . Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte , che compievasi « dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato , ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso ; cosi anche nella procedura primitiva , miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale , la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura , con cui si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla . Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione , se trattisi di immobile ; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa ; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio , dalla mutua provocatio , e dal sacra mentum . Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza , col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta , inerente alle legis actiones, e di affermare che : « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo , che, più di qualsiasi altro , seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed attuosa , e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum , verba concepta , certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore , e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario , e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva . Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria . Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero , indipendente , geloso del proprio (1) Co., Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio dell'antico, allorchè scrive : « Nam si quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris , et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. ( 2) A mio avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio nell'atto per aes et libram . Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto , finchè la sentenza non sia pronunziata ; umile , sottomesso , pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria . Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre , che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento storico , così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem . Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura , e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella , intorno a cui ci pervennero maggiori notizie , è certo l'actio sacramento . Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura , si trattasse di agere in rem , od anche di agere in personam . Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam ; il che però non impedisce , che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam . Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate . Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso , e quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum , utrius sacramentum in iustum sit) ; cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite , corre anche il rischio di perdere la scom messa (1) . Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario , le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium , ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ) . Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento , e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium , in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale , fra attore e convenuto , fra la provo . catio e la litis contestatio . Si comprende quindi, che la mimica , che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia , fra i capi di famiglia , e che essa , trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario . Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più antica , sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium , cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario , sia per il modo, in cui era composto, sia per le controversie , che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo , e quindi anche nello Stato ( 3). (1) GAIO, IV , 13 a 17 : Cic., Pro Caecina, 33, ove dice , che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso , che il suo sacramentum era iustum . Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere , iniustis sacramentis petere. ( 2) La necessità della legis actio sacramento , per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium , è dimostrata dal fatto che , secondo Gaio , IV , 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa : a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit » . È poi lo stesso Gaio , IV , 14 , il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33 . (3) La competenza del centumvirale iudicium , per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello , che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem . Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo , mentre da Valerio Probo si ricavo la formola , che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro : iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento , e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia , piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri ( 1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze , che la contraddistinguono dall'actio sacramento . Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella del conve nuto ; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata , in cuiil magistrato procede alla designazione del giudice ; conduce alla risoluzione diretta della controversia ; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa . Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale , come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum , nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro , secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie , che ne formavano oggetto , le quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri , sono quelli relativi al regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato » ; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25 ; ORTOLAN , Expli cation historique des Institutes de Iustinien , Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum , tuttavia occorrono passi di autori , in cui i centumviri sono contrapposti al privatus iudex , come in Cic., De or., I, 38 , 39; in Quint., Instit. or., 10 , n ° 115, ove scrive : « alia apud centumviros , alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio » . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4 . 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo ; cosicchè, di fronte al iudicium directum , asperum , simplex , che era istituito col l'actio sacramento , essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum , mite , in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium . Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio , colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro , è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex , sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter . Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale , la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium , la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone (1). 437. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla con clusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà , che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò essere considerata come una procedura di carattere patriarcale , trasportata nella città . Essa invece dovette già formarsi sotto l'in fluenza della vita cittadina, e dovette probabilmente essere una con seguenza della stessa formazione del ius quiritium . Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso , che corrispondeva al concetto del quirite , e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il ricono scimento di una lex publica : cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi ( 1) Cic. , Pro Mur., 12, osserva, scherzando, che i giuristi non si erano ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium , fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium , è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER , Op. cit ., § 17, pag. 59. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium , mi rimetto ad una mil vecchia dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano » Torino 1873 , pag . 28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario , relative al caput, alla manus, al mancipium , all'atto per aes et libram , ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum , mancipium , testa mentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiri tario , potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacra mento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto , che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo . Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice , non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento , in quanto che le parti contendenti potevano anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto : quindi è probabile , che siano state ap punto queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario , ave vano minor importanza, che Servio Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le prime controversie di ca rattere veramente quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia (1). Siccome poi col tempo una parte di quel diritto, che in certo modo esisteva allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium , fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del diritto quiritario ; cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis postulatio , che dap prima aveva un carattere sussidiario , abbia potuto entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolse la iudicis arbitrive postulatio , come lo dimostrano le controversie, ( 1) L'opinione qui svolta , circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis po stulatio , si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm . Civilprozess, pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al magistrato di addivenire alla nomina di un giudice , o di uno o più arbitri. Da quel punto la iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura civile romana ; costitui ancor essa una legis actio ; che anzi, per il minor pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis postulatio , che alla stessa actio sacramento (1). Questo svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella stessa iudicis postulatio , fra il iudicium e l'arbitrium , il quale ultimo, accompagnato dalla clausola « ex fide bona » , fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società , la fiducia , il man dato , la vendita , la locazione e simili . Questi negozii infatti , negli inizii, erano ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium , e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso Cicerone : uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem (2 ). 438. Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva pro ceilura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze , dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento della me desima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di reciperatio , ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella ca tegoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recu peratores. Si è veduto in proposito , che nelle consuetudini delle genti ita liche era indicata col vocabolo di reciperatio quella clausola , che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio , cosicchè i cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro . Era con ( 1) Il Voigt, XII Tafeln , I, 586-589, assegnerebbe alla iudicis arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove apparterrebbero agli arbitria , e il rimanente ai éu dicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd ., pag. 199 . ( 2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 - questa clausola , che la protezione giuridica , in base ad un trattato ( foedus), cominciava ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli di un altro , con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa , e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente , e abbia col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto , che gli antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di actio , e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio, discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib . 1', capo VII , § 2º, nº 211, pag . 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio , nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di di ritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato , a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio, come nei tempi moderni la reciprocanza , concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà il nome di ius gentium , e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col nome di comunanza di diritto , la quale, se condo il grande fondatore della scuola storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale privato. V. Savigny, Traité de droit romain , trad .Guenoux, tome VIII, § 374. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium , e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio lavoro col titolo : La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern . privato, Napoli 1872, pag. 25 , come pure all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera 571 439. Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario ; l'altra invece, applicabile ai rap porti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita . Sic come perd uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che erano invece proprie della reciperatio . Di qui una scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continud ancora, allorchè l'accre scersi delle controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor urbanus e di peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano. Fu questo il motivo per cui, a quelmodo stesso , che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rap porti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite , per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma (1). Che anzi la coesistenza di queste due procedure dovette , a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e furono i modesti pre paratori della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma, vedi KELLER, Il processo civile romano, pag. 28 de segg.; ZIMMERN, Traité des actions, pag. 45 e segg. ; JHERING , L'esprit du droit romain , I, pag. 235 e segg. ; KarLOWA, Röm . Civil prozess, pag. 218-230 ; Bouché-LECLERQ, Instit . rom ., pag. 421 e segg . ; MUIRHEAD, Histor. introd ., pag . 111 e 112 , 123 e 225 , quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. ( 1) Il Keller, Op. cit., pag . 41; nota a ragione: « che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata ». Noi sappiamo anzi da Gaio, IV , 31 , che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nominava dei recuperatores , anche per cause inter cives ; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recavano davanti al centumvirale iudicium , non potevano essere che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini , o dei peregrini , a cui fosse stato esteso il ius quiritium . 572 avviso , servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avve nimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente deli neando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circon davano, il concetto più largo di un ius gentium , il quale, una volta formato , doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo . Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia , il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo doveva poi essere accolto dal ius civile ( 1 ). Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella « legis actio per condictionem » , che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata , mediante una condictio , in quanto che i contendenti condicebant diem , ossia fis savano di comparire fra trenta giorni, avanti il magistrato , per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste » , il quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tut tavia , che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives ; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di com parire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio , era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). ( 1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'Editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson, Étude sur Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg. Cfr. Carle, L'evoluzione storica del diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag. 18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 697 e 698, la legge 2. Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste . Cfr. quanto alla « condictio cum hoste » il MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem , sembrava accennare alle origini di essa . Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ri cavare : lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio , o meglio nella denuntiatio , che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra trenta giorni ad iudicem capiendum ; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum , appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia , deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena ; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa res : leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa , per cui la condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che per le controversie di questa natura po . tevano servire le anteriori legis actiones ( 1). Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto , che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto , che la condictio non era del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza , e non è punto improbabile , che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi fu accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res: quindi, riguardando obbliga zioni relative ad un certum , essa dovette restringere il dominio della (1) Gaio, IV, 17 a 20. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio , relativo alla legis actio per condictio nem ; ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò , che egli dice altrove, IV , 13 , che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis faceva parte dell’qctio certae cre ditae pecuniae propter sponsionem . Ora l'actio certae creditae pecuniae, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem : quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico , e richiama sott'altra forma la scommessa del sacramentum , dovette certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio, IV , 20, che accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis actio. 574 actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale era propria delle controversie di carattere indeterminato . Per tal modo la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu ; abolisce tutta la parte mimica del sacramentum ; sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum , il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri; infine sur . roga alla scommessa , che andava a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis , che va invece a benefizio del vinci tore delle lite ( 1 ). 441. Quanto alla causa storica , che può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum , essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della lex Silia e Calpurnia , quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture ; ma è possi bile di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbli gazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo , che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium fu quella del l'atto per aes et libram , che pigliava il nome di nexum . Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio , per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la lex Poetelia tolse di mezzo gli effetti speciali del nexum , negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessò di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima era, e cominciò a cadere in disuso ; ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia , o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o stipulatio, la ex pensi latio o litteris obligatio , o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle cose « quae numero, pondere acmensura constant » . Per tutte queste obbligazioni di un certum , non essendo più consentita la immediata manus iniectio , che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller , Op. cit., pag. 62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom ., 1, 52 e segg . 575 sentita per il nexum , non poteva più esservi altra procedura, che quella dell'actio sacramento , la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non poteva a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa , il cui credito risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile . Si comprende pertanto, che prima la lex Silia , per una certa pecunia , e poi la lex Calpurnia , per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis actio per condictionem , in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano ogni istituto , che riesce a pene trare nella compagine di esso , ben presto si rivendica il posto , che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace; così la condictio , appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice , più spedita , meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un certum , mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie , che hanno il carattere di una vindicatio , intesa in largo senso . Di qui consegui col tempo, che il vocabolo di condictio , nel linguaggio giuridico, divenne pressochè sinonimo di actio in personam , mentre l'actio sacramento finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio . Ha quindi tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso , che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam , poiché l'essenza della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre la condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in (1) V. il cap . prec., $ 2 , relativo al nexum , n ° 376 , pag . 484 e sogg ., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso. Anche il MUIRHEAD, Op. cit ., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per condictionem . Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi. 576 personam , e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione stessa della città , sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura , che fu accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario , e quindi negli inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium , nello stretto senso della parola ; questa invece si applicò nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella città di Roma era continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra ; cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio , allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto , potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato , che chiamavansi piuttosto iurgia , accanto all’actio sacramento , che continuò ad essere l'a zione tipica del ius quiritium , cominciò a svolgersi la iudicis po stulatio , la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guisa le controversie, che hanno per oggetto un certum , si trattano coll'actio sacramento ; quelle invece, che riguardano un incertum , dånno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini ( 1) Gaio , IV , 18 , dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condi ctionem consisteva nella denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie con dictionem dicimus actionem in personam , qua intendimus dari oportere ; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit o . Egli aveva ragione dal suo punto di vista , perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi stava non più nella denun tiatio diei , ma nel dari oportere ; ma storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum . · 577 per subire una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sa cramento, penetrd la condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attirò a sè tutte le actiones in per sonam , che avessero per oggetto un certum , e divenne quasi si nonimo di actio in personam . Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetrd in parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè essa potė dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità . Intanto però , mentre si avverava questo svolgimento storico, è probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, abbiano imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti inter cives et pere grinos . Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones , che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio ; fra l'actio in rem e l'actio in personam ; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae ; fra l'actio nes in ius conceptae e le actiones in factum . Si può quindi conchiudere , che anche in tema di procedura tutte le varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica , che è quella dell’actio sacramento , la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico diritto ; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della condictio. Fu poi eziandio in questa procedura, che doveva essere applicata dal praetor peregrinus, che cominciò a prepararsi quel concetto del ius gentium , e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. $ 3 . Lo svolgimento storico della procedura esecutiva nel sistema delle legis actiones. 443. Mentre nella procedura contenziosa l'antico diritto cerca di mantenere la più rigorosa imparzialità fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la G. CARLI, Le origini del diritto di Roma . 37 578 lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di proce dere all'esecuzione contro il soccombente . Anche il linguaggio giu ridico sembra allora richiamare un'epoca di privata violenza , in cui ciascuno era vindice del proprio diritto , e noi veniamo cosi a tro varci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la per sona del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione privata contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere , che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nell'antico diritto il modo generale di esecuzione per le ob bligazioni viene ad essere la manus iniectio , che è diretta appunto contro la persona ; mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium , e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi , che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito (1 ). Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente , che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa perd viene già ad essere regolata dall'impero della legge ; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. 444. Incominciando dalla manus iniectio , noi troviamo che la medesima, nel primitivo ius quiritium , compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui poteva appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo , di cui rimasero le traccie nella vindicatio in servitutem . Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del nexum , in base a cui il debitore, che non pagava a sca denza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato , essere trasci nato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito . ( 1) Vuolsi qui aggiungere , che Gaio , IV . 29, accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi in giorno nefasto. 579 Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore della primitiva obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram . Questa fu quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, diede origine a quelle dis sensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la lex Poetelia nel 428 di Roma. Essa però non era ancora una vera legis actio , in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria , assunta colle forme del nexum , nella quale la volontà manifestata dalle parti co stituiva legge, ed implicava la condanna del debitore . Havvi infine quella manus iniectio , che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro , che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso , è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio , e che egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura della (1) Gaio , IV , 21. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est » , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando dalle XII Tavole,avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione . Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura , di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum ; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la lex Poetelia aveva tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum . Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto potevano ritenersi compresi negli aeris confessi delle XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse ; poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum , le disposizioni delle XII Tavole erano state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio:« in iure confessus pro iudicato habetur » . Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero compren dere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op . cit., p. 205, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come il Voigt, I, 626, e il Cogliolo , nelle note al PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag . 328, il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt. 580 manus iniectio, fu probabilmente una delle cause , per cui la me desima col tempo diventò oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali ebbero cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali delle XII Tavole a questo riguardo (1) . Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio debito , gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava trenta giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse , il creditore poteva porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato , e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio ; né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex , che facesse valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore po teva condurre il debitore nel suo carcere privato, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di mercato , compresi in questo spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento , il creditore poteva ucciderlo 0 venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat) ; ed anzi, se più fossero i creditori, veni vano le famose espressioni conservateci da Gellio : « partis se canto : si plus minusve secuerunt, se fraude esto » . (1) L'autore , che ci ha serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nell'antico diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge , è Gellio , Noc. Att., XX, 1, $ S 41, 51, dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del primitivo diritto : interessante discussione , poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore dell'antico diritto , e dall'altra abbiamo il filosofo , il quale, a nomedella ragione, viene combat tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, IV, 21, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio . 531 445. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al creditore, abbia lasciati increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente del Voigt di interpre tare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si rife risse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore (1) . Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consen tire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge at tribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè lette rale : ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento , che vi diedero gli antichi, e questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio , che il giureconsulto Sesto Cecilio , pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione; ma dice invece , che i primitivi legislatori, nell'intento di tutelare la fede nei negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la propria immanità non poteva essere applicata , come in effetto non lo era mai stata (2 ). ( 1) Voigt, XII Tafeln , II, pag . 361. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge 8 della Tav. III , aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio : « Tertiis nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes sunt » : il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano , in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa ; ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa rebbe quella di Gellio, possa restringersi ad un caso abbastanza speciale , qual sa rebbe quello posto innanzi dal Voigt. ( 2) Questa interpretazione letterale della legge, di cui si tratta , non sarebbe solo attribuita alla medesima da Gellio XX , 1 , 50 , ma eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6 , 84 , e da TERTULL., Apol., 4 ; ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta ,pur fatta da Gellio, loc. cit., $ 51, che la storia non ricordava alcun caso di sectio corporis: «dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi,neque audiri » , Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto » ; ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui, che ha subìto un danno per colpa di un altro , una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ebbe pure ad essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler , das Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884 , pag. 17 e segg. , il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD , 582 Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significa zione diversa da quella , che vi attribuirono gli antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri abbiano potuto giungere ad una disposizione di questa natura . Tale spiegazione , a parer mio , non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del ius quiritium , e sopratutto nel rigoroso con cetto, che questo diritto ebbe a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trat tandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa , oggetto della proprietà , colla persona a cui essa appartiene : così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione , vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il de bitore al suo creditore (nexum ), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto primitivo non si appiglierà all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore, ma procederà diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di coazione contro il debitore che non paga,nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento . Che se le coazioni di carattere giudiziale od estragiu diziale non bastino, questa logica primitiva, fissa nel carattere esclu sivamente personale dell'obbligazione, potrà anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di uccidere il debitore, al modo stesso , che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gli appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che l'antico diritto , accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo , quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura op. cit., Appendix a nota 5, pag . 446 e 447. Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel « Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz » , Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella « Nouvelle revue historique » 1886 , p. 226 a 240. A compimento di questa notizia ricorderò anche la interessante dissertazione dell'ESMEIN, Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit », pag. 244 e 266 , ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non ne abbiano pagato il debito . Qui la coazione adoperata s'appoggia sull'opinione po polare, che l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il suo corpo non riposi nella tomba . 583 della manus iniectio , dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato , dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debi tore ; ed è questo il concetto , che ebbe ad esprimere, presso Gellio , il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis poenam , sanciendae fidei gratia , horrificam atrocitatis ostentu , novisque terroribus metuendam reddiderunt » . Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione delle XII Tavole, nella parte , che si riferisce alla spartizione ; del corpo del debitore , essa appare perfino di im possibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta , il che confermerebbe eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur » . Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta , propria del diritto primitivo, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del de bitore trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro: talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino (1), non poteva essere più fa cilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo , ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trovava dei temperamenti nel pub blico e nel privato costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro mani (2); ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius quiritium , essendo il frutto di una elaborazione giuridica , la quale mirava ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo , fini per essere governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. (1) Dice infatti Favorino presso Gellio , XX , 1 , 15 : « praeter enim ulciscendi « acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam , cui mem « brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero , an « efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium ? in qua re primum ea dif « ficultas est inexplicabilis » . (2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola , quella cioè che gli antichi Romani siano stati degli antropofagi. 584 . 446. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium , nella sua procedura di esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio , si comprende, che esso , nella sua perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad abbandonare la via , che aveva prima seguito . Noi tro viamo infatti, che nel posteriore svolgimento della procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del debitore, fu invece il ius honorarium , il quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio . Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato , ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due , non impediva che il debitore potesse manum a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere all'opera di un vindex . Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un giudicato , o contro una per sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà : del che, secondo Gaio rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò , che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » ( 1). Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove , che l'introduzione della bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio , il quale dovette essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio , che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello , che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ). Fu solo più tardi, che anche il diritto civile , per mezzo della lex Iulia de (1) Gaio, IV , 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore . (2 ) Gaio, IV , 35. Quanto a questa procedura contro i beni , vedi KELLER , Iі processo civ . rom ., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr . Montluc, La faillite chez les Romains. - - - 585 cessione bonorum , accordo al debitore il mezzo di evitare l'esecu zione personale , ricorrendo alla cessio bonorum : ma anche allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi tore , e costitui in certo modo un benefizio , che gli venne accordato per cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia , da cui questa era accompagnata . Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa . 447. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium , equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio , in dapem ). Un solo caso di pignoris capio lascið traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o cen soria , a favore degli appaltatori delle imposte, sui fondi che erano gra vati dalle medesime : privilegio di carattere fiscale, che ha un'ana logia incontrastabile col privilegio generale sugli immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto , che nel diritto primitivo di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obliga zioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore . Che anzi è degno di nota , che anche questa procedura sembra negli inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto , che noi la troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de Gallia Cisalpina ( 1). Una ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum perpetuum , pag. 340. La lex Rubria , XXII , 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 ) attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor , « isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus ius deiicito , decernito, eosque dari bona eorum , possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm . Processegesetze, pag. 94 e segg. 586 dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ebbe ad essere modellato sul concetto fondamentale del quirite, in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico , la cui parola dava origine al nexum , e la cui volontà costituiva una legge , cosi nei negozii tra vivi come nel testamento ? Non abbiamo anche in questo una conse guenza dal punto speciale di vista , a cui eransi collocati i model latori dell'antico diritto ? § 4 . Alcune considerazioni sulla influenza delle legis actiones sulla formazione del diritto civile romano . 448. Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della pro cedura romana e metterle in movimento ed in azione, per compren dere come il sistema delle legis actiones , anzichè essere , come vorrebbero taluni, un complesso di solennità , escogitate dallo spirito sottile e formalista dei Romani, sia stato invece il mezzo più po tente ed efficace ,mediante cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones furono, per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di purezza , che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto , per poter affermarsi in giudizio, doveva passare per lo strettoio della legis actio : cosi ne veniva , che con questo sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones ; poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia ; quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere giuridicamente concepita ; infine i giudici, che dovevano di necessità restringere la loro decisione al punto di que stione che era loro sottoposto , attendevano tutti ad un medesimo lavoro , che era quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata , per ridurla ad una configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica . Siccome poi i giudici della controversia , o erano tolti dalle varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri, od anche scelti in parte fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gli ordini e tutte le classi, e che poteva perfino sentire l'influenza del diritto e della procedura , che applicavasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato e coordinato per opera del magistrato , che sovraintendeva all'amministrazione della giustizia , ed era poi assecondato dall'opera dei giureconsulti , che venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici ; cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trovo sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il quale mirava ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagli elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in forme determinate e pre cise, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. Fu in questo modo, che poterono scomparire i conten denti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali ( Aulus Agerius e Numerius Negidius nelle formole processuali, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quelle contrattuali) ; che le contro versie particolari furono tutte richiamate a certe forme generali ; e che intanto i concetti primordiali , da cui aveva preso le mosse il diritto privato di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedì costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dai pontefici, passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti, e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali, trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un diritto tipico , esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius quiritium , venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e nell'amministrazione della giustizia , le quali si sforzarono dapprima di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse , allorchè esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium civium romanorum ; poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium , il quale pur derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa guisa , che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila storia , ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considera zioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventò tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione fossero dapprima inconsapevoli, come gli inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione della città , e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa ; ma egli è certo eziandio , che essa non tardd a cambiarsi ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici secoli con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio, salvo forse nella storia delle grandi religioni della umanità . Così, ad esempio, dell'importanza delle legis actiones già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto , continud tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione delle legis actiones, e la cambiò in un segreto di professione e di casta ; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, avrebbe resa di pubblica ragione le primitive legis actiones (1 ) 449. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione delle legis actiones e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte almagistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie , e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondavano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si (1) Pomp., Leg. 2 , § 7, Dig . (1, 2 ); Liv. IX , 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di tribuno della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, le norme, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia ; che accanto ai iudicia legitima si svolsero quelli imperio continentia ; che , accanto alle actiones legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, quae a praetore dantur. Da quel momento il pretore potè essere considerato come una lex loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia ( 1) . Tuttavia l'abolizione delle legis actiones e la sostituzione del sistema delle formulae debbono essere intese alla romana , il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell'actio sacramento , come preliminare del centum . virale iudicium e di quello damni infecti nomine, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema delle formulae già potesse esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos , nella quale non potevano essere applicate le legis actiones , e che in tal guisa una procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium civium ro manorum , almodo stesso , che più tardi l'actio sacramento potè ezian dio essere proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi, per esprimere tutto il mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole fosse in certa guisa già contenuto in germe nel sistema delle legis actiones . A quel modo, che la stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum , la quale , liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram , potè essere adattata alla varietà dei negozii ( 1) Gaio, IV , 11, dice espressamente, che, negli esordii di questo sistema di pro cedura, edicta praetorum nondum in usu habebantur. Era quindi naturale, che quando questi furono introdotti, accanto a quella parte di diritto , che fondavasi direttamente sulla legge, e che perciò dava origine alle denominazioni di actus legi timi, actiones legitimae, iudicia legitima, si svolgesse un diritto, che fondavasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, imperio continebatur, il quale finì poi per essere compreso sotto il nome di ius honorarium . È poi Cic., pro Cluentio, $ 3, 146 , il quale ebbe a dire, che siccome le leggi sono al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, « vere dici potest magistratum legem esse loquentem ; legem mutum magistratum . » . Quanto ai concetti di actio legi tima e di iudicium legitimum , vedi WLASSAK, op. cit ., $$ 3 a 5 , pag. 31 e 57. ( 2) Sall'influenza del praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, Étude sur Gajus, $ 12 , pag. 112. -. 590 giuridici: così la formola consiste essenzialmente in quei concepta verba , che già occorrevano nella legis actio , salvo che questa verborum conceptio , liberata dalla parte mimica , da cui era ac compagnata, e da quel rigore di termini (certis verbis), che era propria delle legis actio , potè acquistare una duttilità e pieghevo lezza, che la prima non poteva avere. Noi trovammo infatti , che già sotto la veste ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi aveva finito per abbracciare diverse azioni particolari, e che queste azioni già avevano cominciato a distinguersi nelle actiones in rem in quelle in personam , in quelle, che avevano per oggetto un certum od un incertum , e in quelle , che davano origine ad un iudicium o ad un arbitrium . Or bene tutti questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio , si trovarono in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico , una propria formola ed un proprio contenuto , e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola , che sarebbe stata peri colosa negli inizii della elaborazione giuridica , venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza pro gredita ; poichè le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina delle legis actiones e del ius pontificium , indica vano abbastanza la via , in cui doveva mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per cui i pretori, malgrado la libertà apparente, che loro appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute , procedono in cið molto a rilento , ed amano piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme ricono . sciute dal diritto, che non di alterare le forme, che già furono ac colte dal diritto civile . Per tal modo il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico , anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce , che una parte di quel diritto, che viveva fluttuante pelle consuetudini, ac canto al vero ius civile , si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium , che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva dei pretori succedentisi gli uni agli altri, potè manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium , che passava ai succes sori, e serviva cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordi 591 nati costituirono poi l'Editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto , o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una ecce zione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile . Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole , a cui accenna Cicerone, allorchè scrive : « sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit : expressae sunt enim , ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria , publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur » (1). Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, che già erasi iniziato sotto l'impero delle legis actiones. Esse si accomoda rono alle varie fattispecie ; isolarono l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gli elementi essenziali del fatto umano dalle cir costanze accidentali : accolsero quelle aggiunte , che erano rese ne cessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunsero le varie fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio . Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla pro cedura: ma all'epoca stessa , in cui penetrarono in questa , si vennero eziandio esplicando nei contratti , nei testamenti , nei legati , e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dap pertutto l'esattezza e la precisione del linguaggio giuridico , non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei ne gozii giuridici (2 ). È quindi facile il comprendere come pontefici , pretori e giureconsulti, non abbiano creduto indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'in venzione di una formola abbia reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto . Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che ( 1) Cic, Pro Roscio, 4 , 5 a 9. Cfr. WLASSAK, op . cit ., pag. 67. (2 ) Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso il LABBÉ, Préface all'ultima edizione da lui curata dell'Or TOLAN , Explication historique des Institutes de Justinien , Paris 1883, pag. vii e segg . - 592 ricevettero le clausole « ex fide bona » « quando aequiusmelius » « ne propter te fidemve tuam fraudatus siem », le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali ser virono a far penetrare nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede , e a dare forma concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giu ridica del popolo romano. Era infatti per mezzo di una piccola ag giunta in una formola contrattuale e giudiziaria , che le aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini veniva ad ot tenere la tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria (1). 450. Quest'ultima considerazione intanto mi porge opportunità di conchiudere questa trattazione, spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Credo che questo tentativo di ricostruzione del primitivo ius qui ritium abbia quanto meno dimostrato , che il diritto civile romano, anzichè essere stato il frutto di una incorporazione qualsiasi di con . suetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato , fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale , che non venne mai meno a se stessa . Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre cipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere , che questa dialettica fondamentale , la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go ( 1) Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ebbi ad espri mere, molti anni or sono, in un breve lavoro « De exceptionibus in iure romano, Torino 1873, pag . 13 , colle seguenti parole : « neque vereor dicere, omnia quae in < iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fue « runt ad corrigendam , producendam , emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse » . 593 vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è , che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma: ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governd la formazione. Era questo disordine apparente degli scritti dei giureconsulti, che tornava grave alla mente filosofica ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primigrandimaestri avevano cercato didissimulare la propria arte (1); ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto fu un monopolio delle genti patrizie , o meglio dei pon tefici, custodi delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto fu aperta a tutti coloro , che volevano consultarlo , e anche i plebei furono ammessi al collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza . Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio , che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione , che presenta l'elabo razione della giurisprudenza romana, ma piuttosto nel modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa . A questo riguardo vuolsi aver presente , che i modellatori del pri mitivo diritto di Roma (veteres iuris conditores ) non ebbero mai in animo di insegnare una scienza , ma piuttosto di professare un'arte (iuris prudentia), che formò solo più tardi argomento di scienza . Essi quindi, nei loro scritti , non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza : ma si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche, poichè erano i casi, che si venivano presentando , che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' actio, che predominava , poichè era con essa, che il diritto sperimentava se stesso ; così ne venne, che dap prima furono le legis actiones, che costituirono il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica , e determinarono l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della legis actio venne ad essere disciolta , e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'ammini strazione della giustizia, furono eziandio le actiones, gli interdicta , (1) Cic., De orat., I. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 88 594 le exceptiones e simili, che costituirono il punto centrale , intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è , che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale , trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama; co sicchè i loro scritti appariscono come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro (1). Di qui la conseguenza , che la costruzione giuridica romana non seguì il processo dei concetti fondamentali, da cui partiva, ma venne seguendo invece l'ordine prima delle XII Tavole, e poscia dell'Editto . Nè questo disordine apparente poteva recare imbarazzo agli esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda ; ma poteva invece riuscire grave agli altri, i quali, come Cicerone, cercavano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale diverso . Fu soltanto , allorchè la ricchezza dei materiali cominciò ad ingom brare il campo, che si senti il bisogno di introdurre distinzioni siste matiche, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta , quali sono quelle dei elassici giureconsulti, ma soltanto nelle opere di carattere didattico ; donde la spiegazione dell'ordine diverso , che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette . Siccome poi anche l'or dine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trovava, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa ; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, dånno talvolta come contemporanei degli istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente di. versa . Ne consegui, che la giurisprudenza romana, quale a noi per venne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata , che venne operandosi in essa , e la dialettica, che ne governò la for (1) Ciò appare sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei Commentarii di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta , che al tera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, saranno sempre un mo dello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico. Cfr. Huschke, Jurisp . antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti. 595 - mazione; ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa , tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse , e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passd la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione , ri tengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto , che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica , che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. CONCLUSIONE. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo , che più tardi fu denominato italico, dovette avverarsi un periodo di forza e di violenza , non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno , che dovette sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, fu quello di uscire da quello stato di privata violenza. Fu allora , che le genti sopravvenute , memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico Oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia , cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti furono orga nizzati nella classe inferiore dei servi , dei clienti , e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunse pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo : essa venne cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato , le quali risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus , mentre il territorio da esse occupato era ripartito in heredia , in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche 596 presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città . Questa ebbe sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. La città cominciò dall'essere un sito fortificato (arx , oppidum , capitolium ) per servire di rifugio in caso di pericolo ; poi diventò un sito per il mercato (forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni (conciliabulum , comitium ); fu posta sotto la protezione di una divinità , comune patrona; finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciarono eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però erano pervenute al medesimo stadio di svolgimento , nè tutte avevano seguito il medesimo indirizzo nella formazione della città . Mentre gli Umbro -Sabelli aderivano ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gli Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa e fortificata , i Latini invece si trovavano in uno stato in termedio : essi erano pervenuti alla città di carattere federale, con siderata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio . È al buon seme Latino, che deve attribuirsi l'origine del grande nome di Roma. Essa cominciò dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati (viri, quirites), staccatisi dalla città di Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenevano. Le lotte di questo nucleo di uo mini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia , tendevano a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico Septimontium , lo condussero prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Da quel momento Roma primitiva nella sua progressiva formazione percorse due periodi compiutamente distinti, cioè : il periodo della città federale, in cui essa è una città esclusivamente patrizia , ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie : e quello in cui la città esclusivamente patrizia associasi anche la plebe cir costante, già pervenuta ad una certa agiatezza , nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa , e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio , che entravano a costituirla . 597 Nel primo periodo i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa , e la loro città , posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, ri specchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i vil laggi, collocati sulle alture, che lo circondano . Essi infatti trapian tano nella città , centro della loro vita pubblica , le proprie istituzioni gentilizie , salvo che le medesime, assumendo un intento essenzial mente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale , e ricevono cosi uno svolgimento com piutamente diverso . La città esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres ) e dei loro discendenti (pa tricii) : ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo ; gli auguri, che modellano gli auspicia publica sugli auspicia , a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti ; i feziali , che serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città servi ad operare la selezione della vita pubblica , che cominciò a spiegarsi nella città , dalla vita dome stica e patriarcale, che continuò a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio . L'urbs infatti designa l'orbita sacra , in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia ; la civitas non com prende ancora i rapporti di carattere privato , ma quelli soltanto che si riferiscono alla vita civile , politica e militare : il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della me desima, che possa giovare alla res publica col braccio (iuniores ) o col consiglio (seniores). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo fu quello di sceverare la vita pubblica dalla privata (publica pri vatis secernere), di modellare il concetto della res publica , in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar chitettarne la costituzione politica , la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel populus ; ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'in teresse comune viene ad essere rappresentata dal senatus , che è già elettivo ed è nominato dal rex ; il quale alla sua volta è l'eletto del populus e unifica in se medesimo l'imperium , che il medesimo 598 gli conferisce . Tutto cid , che riguarda l'interesse comune, deve essere deliberato col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo ; cosicchè la legge assume la forma di una pubblica stipulazione (communis reipublicae sponsio ). Per quello invece , che si riferisce alla vita domestica e privata (res familiaris), essa continua a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del pagus, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di compascua, soli eccettuati gli heredia , assegnati dalla gens od anche dal re , i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia . Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale , e le pene conservano quel carattere religioso , che avevano nel periodo gentilizio : solo assumono carattere di delitti pubblici, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad po pulum , il parricidium e la perduellio , di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Quanto al diritto privato , esso continua in gran parte ad essere governato dal costume (mos ), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa ( fas) ; cid tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne siano di quelle , che vengono sanzionate da una lex publica , la quale è preparata dai pontefici, proposta dal re e votata dal popolo ; donde la formazione delle leges regiae, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche ser bano ancora quel carattere religioso , che era proprio delle istitu zioni delle genti patrizie . Nel frattempo quell'elemento plebeo , la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città ; poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'orga nizzazione gentilizia , vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi plebes, non entra ancora a formare il populus, nè è ammessa alle curiae della città patrizia , ma abita nelle circostanze di essa , e tiene cosi una posizione più di fatto che di diritto . Ai plebei, che la compon gono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia , il ius nexi, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il ius man 599 cipii, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie . È sotto l'influenza etrusca , che la città comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie , che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città . La trasformazione , iniziata da Tarquinio Prisco , si compie , allorchè con Servio Tullio la città viene a com prendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed ob blighi civili, politici e militari determinati sulla base del censo . Da questo momento quel dualismo, che esisteva negli elementi, che entra vano a partecipare alla medesima città, penetra eziandio nelle istitu zioni politiche di Roma. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni della plebe ; accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formarono i concilia plebis, i quali col tempo si trasformarono in comizii tributi ; e da ultimo accanto alle leges si svolsero i plebiscita . Di qui lotte , che condussero a svol gere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si è ingrandita ; nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica , ma anche la vita domestica e privata : quindi la grande opera , che si inizia in questo periodo , viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo, cioè dell' « ars iura condendi» . Gli elementi, che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, erano due, cioè : il patriziato ,onusto di tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe la quale era un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello aveva l'organizza zione gentilizia fondata sul vincolo civile dell' agnazione, e questa non conosceva che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale della cognazione ; quella aveva tante forme di proprietà , quante erano le gradazioni dell'organizzazione gentilizia , e questa non aveva in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600 ziata (mancipium ) ; quello aveva il fas, il ius, l'imperium , gli auspicia , i mores veterum , mentre questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiuta mente diverso , in fatto di religione e dimorale, che resero necessaria la elaborazione di un diritto , comune ai due ordini, il quale facesse compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne , poichè la medesima dovette prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e costumanze ; ma la convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei quotidianiinteressi finirono per determinare una specie di precipitazione delmateriale giuridico , fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores veterum ), o di costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile se lezione dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità ; selezione, che da una parte obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i custodi delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una vera tecnica giuridica . Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro prietario di terre, quale appunto compariva nel censo . Il quirite viene cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un agricoltore ad un tempo ; ed il punto di vista , sotto cui si riguardano i quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi ogninegozio riducesi ad un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per aes et libram , e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di reci proca scommessa . Questo diritto , costituendo un privilegio dei qui riti, viene ad essere denominato ius quiritium ; i suoi concetti fonda mentali sono quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium , commercium , connubium ed actio ; esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo , che si vien precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchen dosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel ius pro prium civium romanorum , il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius quiritium . Sono le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile : quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a costituirlo . Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giure consulti chiamano proprium civium romanorum , può scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium , e due laterali, di cui una suole essere di origine patrizia , e l'altra di origine plebea . Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la confarreatio di origine patrizia e dall'altra l'usus di origine plebea , mentre la coemptio sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiri taria ; fra le forme del testamento , le più antiche sono il testamento in calatis comitiis, propria del patriziato , e la mancipatio familiae cum fiducia , propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello per aes et libram ; infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio , il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della manci patio , attorno a cui si vengono poi accogliendo l'in iure cessio e l'usucapio . Intanto perd questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un ius civile, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il ius honorarium , il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi , facendoli perd entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal ius civile . È con questo meraviglioso processo , che il diritto privato di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la selezione più rigida dell'elemento giuridico , che ricordi la storia , ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fonda mentale , da cui era governato , finchè divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter essere accomu nato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi 602 venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una co struzione eminentemente dialettica , la quale riunisce da sè gli op posti ed i contrarii; esso è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano ; sotto un aspetto è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione ; esso obbedisce ad una logica fondamentale , e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore ; mentre è una produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti ; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato , come ben diceva il giureconsulto , ad una vera e propria filosofia, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in con cezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani saranno sempre dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di la voro, che si operò fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il modo e il campo , che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello della città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia ; così i concetti , che le servirono di base , furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità , le cui vestigia si vengono ora disco prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chia marsi preistorico , essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà . Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto . Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stavano a base della sua grandezza, furono anch'essi 603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la grande idea della uma nità civile, e le sue leggi poterono servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo , pud personificare in se stessa quella legge di con tinuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria , e le nazionalità moderne furono preparate da essa ; essa fu l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio , e intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede esclusiva del potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile: quando si credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire ; perchè Roma fu sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa essere la sede del potere religioso , e che dall'altra sia la sede del governo civile ; già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile (sacra profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa continui ad essere la città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine stato ; essa ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splen dida passeggiata archeologica , e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuova mente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia . Solo sarebbe a deplorarsi, che mentre il potere religioso cura te nacemente le proprie tradizioni, lo Stato invece non cercasse di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità ; noi studiando fra i ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile , che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo , studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia ci vile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi; ma deve essere parte dell'i struzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, 604 che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro , allorchè lo studio della storia del diritto romano fu opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nelle Università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere con traddetto , che nessun nuovo insegnamento provocò nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento , gli istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso , con cui non solo l'Italia, ma tutto il mondo scientifico partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano poneva le fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna. L'im portanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del Codice Civile Germanico, il quale farà si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un grande po polo ; ma la sua importanza storica verrà per cið stesso ad essere accresciuta , perchè si tratterà pur sempre di determinare la parte , che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo ge pere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia delle Università ; poichè, tanto in Italia che in Germania , la scienza è nata e si è svolta nelle Università , ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nelle Università , che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di con cetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.

 

Carlini (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.  In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” ( Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. Armando Carlini. Keywords: Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost, spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei, aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.

 

Caro (Roma). Filosofo. Grice: “Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say – ‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma.  Si occupa di filosofia morale, di libero arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta " naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista di Estetica  e Filosofia e questioni pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La Repubblica, La Stampa e il manifesto.  È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal  al . È vicepresidente della Consulta Nazionale di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo RAI dedicato alla filosofia.  L'asteroide 5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete. La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari, Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi); Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una vicenda filosofica” ( Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le altre tradizioni (Roma, Carocci).  Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi, . Quanto siamo responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice, . Biografie convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine, Mimesis).  Cos’è il nuovo realismo [“What is the new realism”], Mimesis, Milano , forthcoming.2)    Azione [“Action”]  , Il Mulino, Bologna, 2008.3)    Il libero arbitrio. Un ’  introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza, Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition 2011.4)    Dal punto di vista de ll’int  erprete. Il pensiero di Donald Davidson [ “ From theInterpreter  s  Point of View. Donald Davidson  s Thoug ht”],  Carocci, Roma 1998   8 5)    Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”]  , Doctoral dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli) of  La libertà umana: storia di un’id  ea , Carocci,Roma, forthcoming.2)   Editor (with A. Lavazza  –   G. Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,  Codice, Torino, 2013.3)   Editor (with M. Marraffa) of  La filosofia di Ernesto De Martino , special issue of  Paradigmi , 31, 2013.4)   Editor (with L. Illetterati) of a special issue of Verifiche  on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition” ,46, 2013.5)   Editor (with S. Gozzano) of a special issue of  Rivista di filosofia   on “T he philosophy ofconsciousness, ”  104, 2013.6)   Editor (with M. Ferraris) of  Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione , Einaudi,Torino, 2012.7)   Editor (with S. Poggi),  La filosofia analitica e le altre tradizioni , Carocci, Roma,2011.8)   Guest editor,  Naturalismo , special issue of  Rivista di Estetica , 44, 2010 (with C. Barberoand A. Voltolini).9)   Editor of The Architecture of Reason. Epistemology, Agency, and Science , Carocci,Roma 2010 (with R. Egidi).10)   Editor of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio ,Codice, Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza and G.Sartori).11)   Guest editor of  E’ naturale essere naturalisti? , special issue of  Etica e politica , 9,2010 (with C. Barbero - A. Voltolini).12)   Editor of Scetticismo . Storia di una vicenda filosofia , Carocci, Roma 2007 (secondedition 2007; third edition, 2008) (with E. Spinelli).13)   Editor of  La mente e la natura , Fazi, Roma 2005 (Italian version of  Naturalismin Question ) (with D. Macarthur).14)   Editor of the Italian version of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy , Fazi, Roma,2004.15)   Editor of  Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata, 2003 (essays by G.H. vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De ll‟ Utri).16)   Editor of  Logica della libertà [ “ The Logic of Free dom”],  Meltemi, Roma, 2002(contains the Italian translation of essays by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17)   Guest editor of “ Libertà e Deter  minismo”  [ “ Freedom and Determinism ” ], specialissue of  Paradigmi , 3, 1999.  11 3)   “Presentazione” del numero speciale di  Paradigmi  (25, 2013) dedicato a  La filosofia di Ernesto De Martino , pp. 4-7.4)   “Machiavelli e Lucrezio ”,  postface to A. Brown,  Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento , Carocci, Roma, 2013, pp. 113-126.5)   “Metafisica e naturalism o: una entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti , 25, 2013, pp. 84-94.6)   “Galileo e il platonismo fisico - matematico”, in R. Chiaradonna (ed),  Il platonismo e le scienze , Carocci, Roma 2012, pp. 119-138.7)   “Introduzione” (with R. Chiaradonna) to R. Chiaradonna (ed.),  Il platonismo e le scienze ,Carocci, Roma 2012, pp. 13-21.8)   “  Naturalismo nel mirino: ma quale intendiamo? ” , Vita e pensiero , 94, 2011, pp. 84-88.9)   Autonomia della filosofia e neuroscienze ,”  Rivista di Filosofia , “ Libero arbitrio e neuroscienze ,” in A. Lavazza, G. Sartori (a cura di),  Neuroetica ,Il Mulino, Bologna 2011, pp. 69-8311)   “ Filosofia della mente ,”  in  Dizionario della mente Treccani , Istituto de ll EnciclopediaItaliana Italiana, Roma 2010, pp. 391-394.12)   “Ne uro-mania e natura lismo”  (commento, su invito, a ll articolo target di CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di psicologia , 2,2009, pp. 319-323.13)   “ Il migliore dei naturalismi possibili  Etica & Politica / Ethics & Politics , XI, 2009, 2, pp.179 − 191 (with A. Voltolini).14)   “ Psicologia, intenzionalità, scopi: un punto di vista filosofic o,”  (invited commentary to atarget article by C. Castelfranchi and F. Paglieri), Giornale italiano di psicologia , 35,2008, pp. 785-789.15)   “ Libertà e responsabilità mora le,”  in  Enciclopedia del Terzo Millenio , Istitutode ll Enciclopedia Italiana, Roma 2009, pp. 151-159.16)   “ Le neuroscienze cognitive e l'enigma del libero a rbitrio,”  in M. Di Francesco  –   M.Marraffa (a cura di),  Il soggetto. Scienze della mente e natura dell  ’  io , BrunoMondadori, Milano 2009, pp.147-165.10) “  Neuroetica e libero a rbitrio,”  in S. Bacin (a cura di),  Etiche antiche e moderne , Il Mulino,Bologna 2010, pp. 101-118.11) Introduction to the Italian translation of John Dupré,  Human Nature and the Limits ofScience , Laterza, Roma-Bari, 2007 (with Telmo Pievani).12   ) “ Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero a rbitrio,”   Quaestio , 8,2008, pp. 25-37.13   ) “ Gazzaniga, Hauser e la fallacia dei cromosomi mora li,”  Micromega  ( “ Almanacco di scienz e” ) 2, 2007, pp. 143-149.14   ) “ Filosofia, musica e asc olto,”    Rivista di storia della filosofia , n. 1, 2007, pp. 69-73.  15   ) “ Il ritorno dello scientismo ,”  in M. Failla (a cura di) “B ene navigavi ” . Studi in onore di Franco Bianco , Quodlibet, Macerata 2006, pp. 69-74.16   ) “ Il naturalismo scientifico contemporaneo: caratteri e pr  oblemi,”  in P. Costa - F. Michelini(eds.),  Natura senza fine , EDB, Bologna 2006, pp. 85-95.17) Causazione mentale e plura lismo,”    Iride , 18, 2005, pp. 623-629 (with MassimoMarraffa).18   ) “ Due concetti di libero arbitr  io,”  in R. Calcaterra (ed.),  Le ragioni del conoscere ede ll’agire . Scritti in onore di Rosaria Egidi , Franco Angeli, Milano 2006, pp. 258-266.19   ) “ Scienza e libertà: due comuni fraintendimenti, SISSA NEWS, October 2005.20   ) “ Quattro tesi su filosofia e scienza ,”   Sistemi intelligenti , 18, n. 2, 2005, 203- 211.21   ) “ Frankfurt, Harry Gor  don”  (vol. 5 p. 4464), “ Teoria de ll az ione”  (vol. 2, pp. 987-989),   12 “ Scetticismo moderno e contemporane o” (vol. 10, pp. 10115- 10119), in  Enciclopedia filosofica di Gallarate , Bompiani, Milano 2006.22   ) “  Nozick, Strawson e lillusione  della libertà ,”  in G. Pellegrino - I. Salvatore (eds.),  Nozick  .  Identità personale, libertà e realismo morale , LUISS University Press, Roma2007, pp. 25-52.23   ) “ Questioni metafisiche: Dio e la libertà ,”  in A. Coliva (ed.),  Filosofia analitica. Temi e problemi , Carocci, Roma 2007, pp. 403-440 (with G. De Anna).24   ) “ Davidson sulla libertà umana ,”  Iride , 17, 2004, pp. 347-355.25   ) “ L'inscindibilità di fatti e valori in etica, in economia e nelle scienze natura li,” in troductionto  Fatto valore. Fine di una dicotomia (Italian translation of H. Putnam, The Fact/Value Dicothomy ), Fazi, Roma 2004, pp. vii-xxi.26   ) “  Naturalismo e scetticismo: il caso del libero a rbitrio,”  in R. Lanfredini (ed.),  Il problemamente-corpo, Guerini, Milano, 2003, 141-153.27   ) “ Responsabilità e sce tticismo” in Egidi - De ll Utri - De Caro (eds.),  Normatività, fatti, valori , Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 31-39.28   ) “ Olismo e interpretazione radica le,”  in M. De ll Utri (a cura di), Olismo , Quodlibet,Macerata 2002, pp. 17-36.29   ) “ Il naturalismo fisicalistico: un dogma filosofico? ,” in P. Parrini (ed.), Conoscenzae cognizione , Guerini, Milano 2002, pp. 179-193.30   ) “ Teorie de llint erpretazione e criteri di correttezza ,”  in C. Montaleone (ed.),  Parole fuorilegge.  L’idiotismo  linguistico tra filosofia e letteratura , Cortina, Milano 2002, pp.49-72.31) “ Liber  tà,”    Paradigmi , 58, 2002, pp. 67-84.32   ) “ Forme dello scetticismo e interpre tazione,”    Fenomenologia e società , 24, 2001, pp.31-42.33   ) “ Contro la centralità delle regole: l esternalismo di Donald Da vidson,”  in  Atti della Società Italiana di Filosofia del Linguaggio , Novecento, Palermo, 2000, pp. 73-83.34) Sui presupposti sociali della responsabilità, «Filosofia e questioni pubbliche ,”  5, 2000, 183-203.35   ) “ Per un connessionismo non eliminazionista, ”   Sistemi Intelligenti , 11, April 1999, pp.145-151.36   ) “ Varianti de llolismo. Aspetti della teoria analitica della traduz ione,”   Colloquium Philosophicum , 1999, pp. 69-84.37   ) “ Libertà metafisica e responsabilità mora le,”    Paradigmi , 51, 1999, pp. 519-546.38   ) “ Prese ntazione,”    Paradigmi , 51, 1999, pp. 453-456.39   ) “ Determinismo e filosofia della mente contemporanea ,”  in M. Cini (ed.), Caso, necessità, libertà, Cuen, Napoli 1998, pp. 167-195.40   ) “ Monismo anomalo ed epife nomenismo,”    Il Cannocchiale, II, 1997, pp. 255- 267.41   ) “ Il lungo viaggio di Hilary Putnam,”    Lingua e Stile, XXXI, 1996, 4, pp. 527- 545.42   ) “ Epistemologia e interpretazione: l esternalismo di Donald Da vidson,”    Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp. 315-341.43   ) “ Il platonismo di Ga lileo,”  Rivista di filosofia, LXXXVII, 1996, pp. 25-40.44   ) “ La discriminazione tra la scienza e l'arte: un problema per il relativismo epistemic o,”    Paradigmi, XII, 1994, pp. 533-560.    Review of S. Nannini,  Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente ,in  Iride , 21, 2008, pp. 505-507.3)   Review of L. Fonnesu, Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica ,in  Iride , 20, 2007, pp. 257-258.4)   Review of A. Massarenti,  Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima , in  Bollettino della Società filosofica italiana , January-April 2007, pp. 100-101.5)   Review of M. De ll Utri,  L’inganno  assurdo , in  Epistemologia , 29, 2006, pp. 512-514.6)   Review of Carlo Montaleone,  Don Chisciotte o la logica della follia , in  Bollettino della Società filosofica italiana , May-August 2006, pp. 91-93.7)   Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a  cura di),  Pluralismo e libertà fondamentali , in  Iride , 2006, pp. 456-457.8)   Review of Giacomo Marramao,  Minima temporalia ,  Iride , in  Iride , 47, 2006, pp. 214-216.9)   Review of Donald Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective , in  Iride , 17, 2004, pp. 436-437.10)   Review of Massimo Marraffa,  Filosofia e psicologia, in  Epistemologia , Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in  Epistemologia , 26, 2006, pp.484-486.11) “ Wittgenstein su mente e linguagg io”  [Review of R. Egidi (ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in  Rivista di filosofia , 1998, pp. 155-158.12)   Review of Mark Pickering (ed.), Science as Practice and Culture, in  Archives Internationale  s d’   Histoire Des Sciences, 1995, pp. 169-171.13)   Review of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding ofScientific Development, in  Archives Internationales d  ’   Histoire Des Sciences, 1995, p.189.14)   Review of M. De ll Utri,  Le vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary Putnam, in  Physis, XXX, 1993, pp. 578-580.15   Review of “ Il naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ”  [review of: W.V.O.Quine,  La scienza e i dati di senso , Roma 1987], Tempo presente, 124, 1993, pp. 78-90.16   Review of “ Scienza e relativismo: un ossimoro? ”  [review of: R. Egidi (ed.),  La svoltarelativistica nell'epistemologia contemporanea, Milano 1988], Tempo presente, 1989, pp. 103-105.17) Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte ? ”  [review of: H. Belting,  La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte , Torino 1990], Tempo presente, 109-111,1990, pp. 88-90. 19 June 6, 2006: Università della Calabria, Conference of Italian Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim Crane.May 16, 2006: participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology of the Se lf,” Roma, Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of L  Aquila. Lecture on “ Free Will and Causal Determinism ” . March31  –   April 1, 2006: Ravenna Scienza, “  Neurobiology of Free Will: Is Our Will Free? ” .Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery of Free W ill”.  January 22, 2006: Roma, Auditorium “ Parco della Musica ,”  Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will”  (with Rebecca Goldstein).January 20  –   21, 2006: Reggio Emilia, Istituto Banfi. Conference “  Nature and Free dom”; invited spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A. Benini eS.F. Magni). Paper: “  Nature and Free dom”.  December 2, 2005: University “ Ca   Fosca ri,”  Venice. International Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ” ; invited speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ” . November 17 2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “ Freedom and Scien ce” .October 27  –    28, 2005: “ Vita  –   Salute “ San Raffae le”  University, Cesano Maderno (Milano),  First Meeting of the Italian Association of Philosophy of Mind  ; organizer and chairperson.October 19-21, 2005: University of Genoa, International conference, “ Mental Processes ” ;relatore invitato per la sezione “ Action and Rationality ”  (discussant of Jennifer Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “  Neurophysiology and Free W ill”;  invited speaker. Paper: “ Etica e libero arbitrio ” .June 9  –   11, 2005: University of Trento, International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ” . Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “ Vita e Salute - San Raffae le”  University, Milano. International Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”. Discussant di ChristopherHughes.May 12, 2005: University of Florence, International Conference “ Philosophy, Neurophysiologyand Free will”  (invited speaker). Paper: “ On the compatibility of philosophy and scienc e” .March 21 - 22 2005: Istituto di studi americani, Roma, International Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac tions”  (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.  January 31  –   February 2, 2005: University of Piemonte orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on  Freedom and Nature.   November 26, 2004: University of Florence - Department of Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism . November 16, 2005: University of Pavia  –   Giason del Maino College. Lecture on TheContemporary Debate on Free Will  . November 15, 2004: University "Vita e Salute  –   San Raffae le,”  Milano. Lecture on  Freedomand Nature .October 22-23, 2004: University of Piemonte Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “ Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”.  September 23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee).   20 May 11-12, 2004, Rome. International Symposium "Questions on Naturalism" (Organizer anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “ Davidson on Human Free dom”.  Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy, Università Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003, Rome. Discussant of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence. Paper: “ Metaphysical Libertarianism ” . Conference on Robert Nozick   s philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15, 2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ”  [Logic and Rhetoric].Department of Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer). May7, 2003, Siena. Paper on “  Naturalism and Free dom”.  Workshop on The Free   Will problem . Department of Philosophy, Università di Siena (invited speaker).May 5, 2003, Sassari. Workshop on Skepticism and the Reemergence and the Self  ,” Department of Philoosophy, Università di Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “  Naturalism and Intentionality ” . Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture:  Memoria e identità [Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6, 2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries orIllusions? ” . Department of Philosophy, University of Florence (invited speaker). February7, 2002, Rome. Lecture  La teoria della conoscenza nel Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on  Il fondamento filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights]. Conference “ The Question of HumanRights Today ,”  Università di Roma “ La Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on  Responsabilità e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality: Some Criticisms of Strawson and Frankfur  t”]. Department of Philosophy, Università di Pavia (invited speaker).October 30, 2001, Cosenza. Lecture on “ Ragioni e ca use”  [ “ Reasons and causes ” ],Department of Philosophy, Università della Calabria (invited speaker).May 27, 2001, Padua. Lecture on “  Freedom and Naturalism ,”  Department of Philosophy,Università di Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and Criteria of Correctness ” .Conference:  Interpretation and Correcteness , Università Statale di Milano (invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on Causality and Naturalism . Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper on  Forms of Causation . Annual Meeting of the Italian Societyof Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What P.F. Strawson Hasn ’  t Proved  . Annual Conference ofthe Italian Society of Analytic Philosophy (spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “ Freedom and the Self  ” . Conference: The Nature of theSelf, between Philosophy and Psychology , Università Roma Tre (speaker).   21 April 16, 2000, Rome. Paper on “ Van Inwagen  s Consequence Argument ” .Workshop:  Freedom and Necessity , Università Roma Tre (organizer andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “ What we should mean with the Word Pe r  son”   (withS. Maffettone). Conference  Le ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci (invited speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes ” .Workshop: Talking with Donald Davidson , Università Roma Tre (organizer and speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the presentation of the book M. De Caro (ed.),  Interpretations and Causes. New Perspectives on Donald Dav idson’s P  hilosophy , Università Roma Tre (speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation of Kripke  sSkeptical Argument ” . Conference:  Facts and Norms , IV National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 14-16, 1999, Palermo. Paper on “ Davidson on Following a Rule ” .Conference: The Linguistic Rule . Conference of the Italian Society of Philosophy ofLanguage (invited speaker).April 16-17, 1999, Rome. Paper on  Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable? . Conference:  Determinism and Freedom , Università Roma Tre(organizer and speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic Skepticism ” .Conference: Science, Philosophy, and Common Sense , III National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna (speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture on  Freedom and Necessity . Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology (invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the Mind-Body Proble m”.  Conference The Study of Mankind in George Henrik von Wright  , Università RomaTre (speaker).December 5-6, 1994, Rome. Paper on “ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”.  Conference:  Perspectives on Holism , CNR Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994, Rome. Paper on “ Galileo  s method ” . Conference:  Philosophies of Nature from the Renaissance to the Twentieth Century , Università Roma “ LaSapienza ”  (speaker).April 2, 1993, Rome. Paper on “ Davidson on skepticism”.  Conference  Donald Dav idson’s   philosophy , Università di Roma “ La Sapienza ”  (speaker and organizer).January 7-10 1993, Lucca. Paper on  Logic and Philosophy of Science: Problems and Perspectives . Triennal Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy ofScience (speaker) . November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza ”  (speaker). November 20-22, 1989, Rome. Paper on “W ittgenstein and the Philosophy of Mind ” .Conference: Wittgenstein on Mind and Language , Università Roma Tre (speaker). Mario De Caro. Keywords: Davidson, Putnam, “derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice – Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it! Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and Events --.-  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.

 

Carravetta (Lappano), filosofo.. Note  Peter Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera  iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa Frasca on Saturday, February 14,  at Sidewalk Cafe NYC  IAWA’s Open Reading Series Featuring Peter Carravetta & Marisa FrascaFebruary 14,  Filosofia Letteratura  Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX secoloPoeti italiani del XXI secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The Swimming-Pool Library. Tractatus semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Carulli (Bari). Filosofo. Grice: “I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford, such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural – ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures – ‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’ della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus semeiotico-philosophicus”.Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova, Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni” (Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico” (Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento.  La sua filosofia, centrata ossessivamente sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice, volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro” (Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano, Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti “tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani, Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro, Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier Francesco Corvino,  Religio Medici. Andrea Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com. alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore,  in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro, “impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro, filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio, Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com, Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Carulli. Keywords: critica della cultura, Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione, Aligheri sulla mestruazione, ente, essente, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli” – The Swimming-Pool Library.

 

 

Casalgeno (Torino). Filosofo. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!”  Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci,  Verità e significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci,  (P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in  Politeia. Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice H. P. (1975). Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina 2003, 221–244. Il libro che vi presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del linguaggio.  I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa Paganini e Marco Santambrogio.  I testi antologizzati consentono al lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e i concetti chiave che emergono dalla sua opera.  Apre il classico Senso e significato di Gottlob Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi  Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue Ricerche filosofiche del 1953), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di Willard Van Orman Quine, Nomi e riferimento di Saul Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Hilary Putnam, Interpretazione radicale di Donald Davidson, Logica e conversazione di Paul Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice - è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata . A tale fine , bisogna che ciascuno si attenga a quattro “ massime ” che possono ...  Introduzione alla filosofia del linguaggio  Paolo Casalegno 1. Significato e condizioni di verità Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein:  “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus, 4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi wittgensteiniana?  Un  modo  può  essere  questo:  usiamo  il  linguaggio  per  descrivere  la  realtà.  Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.  Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere  che  il conoscere  le condizioni di  verità di  una  proposizione equivalga  a  sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera.  La tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste.  Le obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità.  [Nota metodologica. Al termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false.] La prima obiezione  si basa sull’ovvia  constatazione che esistono  espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attri-buibili  condizioni  di  verità.  Ci  sono  espressioni  sintatticamente  ben  formate  che  non  sono  frasi complete, parole singole  o espressioni come  ‘valigia  pesante’. Che  queste  espressioni abbiano  un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere un’evidente for-zatura. In  secondo luogo,  ci sono frasi  complete come  le interrogative  e le  imperative. Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve ricorre a nozioni  diverse  da quella di verità.  Sembra  dunque  impossibile  che  proprio  su  questa  nozione  si fondi tutta quanta una teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con la verità.  Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più com-plesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH).  Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si ren-de conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘è partito il treno per Udine’)corrispon-dono in modo ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene ri-flettendo sui casi delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione,  e  delle  frasi  imperative.  La  centralità  della  nozione  di  verità  sembra  così  essere confermata.  Della  seconda  obiezioni  esistono  più  varianti,  potremmo  perciò  formularla  come  segue.  Concen-trando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul  loro ruolo di  veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci tro-viamo,  delle  informazioni  di  cui  i  nostri  interlocutori  già  dispongono,  delle  loro  aspettative  ecc.; inoltre, ci sono regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò  che si può comunicare con un dato  enunciato varia enormemente con il variare dei contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica.  Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta metodica feconda.  Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle condi-zioni di  verità degli enunciati  svolga un  ruolo essenziale anche  quando sono  coinvolti fattori  che non sono riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo  2 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.   5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di studiosi.  Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi  sono  “costituenti  psichici”.  Usando  le  parole  di  Wittgenstein  si  può  continuare  a  dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?).  Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie.  Una proposizione che rispecchi fedelmente  la struttura del  pensiero espresso è  detta da Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata.  I nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti del senso comune  è il requisito  della  semplicità.  L’oggetto  deve  essere  semplice,  ma  di questa semplicità  il Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus,  si scopre che una preoccupazione ricorrente di  Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché  ne avesse in mente esempi specifici, bensì  sulla base di considerazioni logiche astratte e generali.  In effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione elementari siano immagini.  (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un  dato nome corrisponda davvero  qualcosa. Un’entità complessa  consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.   5 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! (III) Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso. Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde davvero qualcosa,  e quindi che P  ha senso, solo se fossimo sicuri che  C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV) Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.  (V)Conclusione: devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio.  NB. In questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa consta appunto degli oggetti”.  La proposizione (I) non è dunque un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente analizzate.  Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.  Vediamo  ora cosa Wittgenstein  sostiene  riguardo  le  proposizioni complesse. La  sua  idea  è  che  le proposizioni  complesse  siano  funzioni  di  verità  delle  proposizioni  elementari  che  figurano  come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione, congiun-zione, disgiunzione, condizionale…).  Per visualizzare il modo in cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein propone un arti-ficio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’.  Tavola di verità della negazione:  P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1) 6 Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva):  Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un  linguaggio artificiale: ad esempio, le  tre tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,( P ^ Q),(P Q). Se si seguisse questo suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente ingombrante.  Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logi-ci. Per Frege ogni connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgen-stein, invece, i connettivi non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi.  A queste considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la concezione witt-gensteiniana della logica.  Né Frege né Russell avevano saputo spiegare  che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione  complessa  come  determinato  dai valori di verità dei  suoi  costituenti  elementari,  si  può constare che ci sono due casi limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’.  Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni.  Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle  proposizioni complesse questa nozione di  senso non  può essere  applicata senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni complesse sono funzioni di  verità dei loro costituenti proposizionali ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP QTTTTFTFTTFFF 7  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA( alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera)-FRAINTENDIMENTI POSSIBILI:*1.CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O FEs: l’uomo + alto del mondo è bruno= NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES : Napoleon was defeated by Nelson=E’ VERA ,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’*2. CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA-PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f)=ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO ,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’ : espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE ,ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”,FRASI INTERROGATIVE-ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI2.LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la descrizione della realtà , ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI  NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F *parlando dobbiamo tenere conto della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo   2.QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE=cose pertinenti    4.MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele        La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI  AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:  -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo   2.QUALITA’= non dire cs false    3. RELAZIONE=cose pertinenti    4.MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna  -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele        La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York  *descrizioni definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE  es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da rappresentazione=  E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti!  FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, MedioevoPREMESSAPARADIGMA CLASSICO DEL 900FregeRussell WigensteinTarskiQuinePutnamFREGESENSO E SIGNIFICATOENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B)TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALITAUTOLOGIECONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀLA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.TARSKILINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIODEFINIRE LA VERITÀCONVENZIONE VCOSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE)SIMBOLI AUSILIARISODDISFACIMENTOPARADOSSIVERITÀ RELATIVA AD UN MODELLOCARNAPDESCRIZIONI DI STATOESTENSIONE e INTENSIONEPOSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHEKRIPKEVERITÀ LOGICAMODELLO KVERBI DI CREDENZADEISSI (o INDICALI)QUINEDUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICORIDUZIONISMOREGOLE SEMANTICHETEORIA DELLA VERIFICAZIONE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! - il significato non può essere ridoo ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia e quindi non gli si possono aribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu gli studen che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enuncia ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentava risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Rifleendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogave ed imperave dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è suciente per un’analisi adeguata del significato degli enuncia. Concentrando l’aenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enuncia possono essere adibi per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due movi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informavo degli enuncia dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contes.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammeere che gli enuncia abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la disnzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre dei segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribaere che tuo ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semanca sia giusficato. Soolineiamo due pun:- non si è tenu a rendere conto di tu gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere ridoo ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia e quindi non gli si possono aribuire CDV. Tra di esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu gli studen che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por il conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle espressioni che non sono enuncia ha a che fare con la verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea argomentava risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni complesse. Rifleendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interrogave ed imperave dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è suciente per un’analisi adeguata del significato degli enuncia. Concentrando l’aenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli enuncia possono essere adibi per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due movi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informavo degli enuncia dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col variare dei contes.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV- ammeere che gli enuncia abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la disnzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre dei segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe ribaere che tuo ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo modo di circoscrivere la semantica sia giusficato. Soolineiamo due pun:- non si è tenu a rendere conto di tu gli usi possibili del linguaggio Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! - è legima la disnzione tra semanca e pragmaca e, anzi, la pragmaca presuppone la semancaQuesto secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’avità cooperava alla quale i partecipan devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si aenga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pernen4- MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è legima la disnzione tra semanca e pragmatica e, anzi, la pragmatica presuppone la semancaQuesto secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’avità cooperava alla quale i partecipan devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si aenga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose pernen4- MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità

Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casalegno” – The Swimming-Pool Library.

 

Casanova (Venezia). Filosofo. Grice: “It is fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.  Benché di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato "casanova".  A questa sua fama di grande conquistatore di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle élite d'Europa.  Fra corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte  opere enciclopediche o letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.  Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del Casanova.  «Addì 5 aprile 1725  Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador. Lev. Regina Salvi.»  (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.   Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei confronti dell'esoterismo.  All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova). Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.  Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il carattere.  Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.   Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla sua.[E 9]  Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo, avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse il vero padre di Giacomo.  Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E 11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori.  Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto.  Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della descrizione.  Il caso più clamoroso è quello che riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova romanziere.[E 15]  Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione, Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di procurarsi utili appoggi.  «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve guardarsi dalle amicizie pericolose.»  (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti casi, epistolare.[E 20]  Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio.  Sui motivi reali dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero.   L'arresto di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto socialmente pericoloso restasse in circolazione.  Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi.  Dalla fuga dai Piombi al ritorno a Venezia (17561774)  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il 1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte, attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi fulmineamente con una gondola.  Si diressero velocemente verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli appoggi non gli mancavano.   Illustrazione da Storia della mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici.  Il 28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV.  Molto fantasioso, come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una missione segreta nei Paesi Bassi.[26]  Al suo ritorno fu coinvolto in un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese, Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate.  Casanova si prodigò per darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria, Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse dall'incomoda situazione.[30]  Gli anni successivi furono un intenso continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera, dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31] Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver ragione.[31]»  In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33] Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII.  Nel 1762 ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34]  Nella capitale inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37]  L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi delle capitali.  Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.  Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di famiglia.  Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente (gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il 3 settembre 1774.  Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.   L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra la classe reietta e quella privilegiata.  In questo stesso periodo iniziò una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52] utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di cambio con discrete somme di denaro.  Il nome della calle deriva dalla presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata 13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione, spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare fondata e verificabile[54].  Negli anni successivi pubblicò altre opere e cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti, col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano Giustinian.[55]  Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso, era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo, esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita, di Giacomo Casanova".[56]   Ritratto del 1788  Annotazione della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per sempre.  Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia. Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.  Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie. Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac.... Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10 Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue. 1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara , traduzione Giancarlo BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II (1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani. 1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli. Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux), Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie par Francis Lacassin.  2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova. Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria,  Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,  88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Histoire de ma vie, tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi.  Histoire de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.  Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice, ,  978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera casanoviana  Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico, Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore.   Disegno di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel 1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava della sua vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo, Casanova, non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva.  Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel 1787.  Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro irripetibile.  Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto, acquistato[73] dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu pubblicata, dal 1826 al 1838, però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore, facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva affatto alla verità storica, perché di Casanova si può dire che era ribelle e trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova esprime chiaramente il suo punto di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca, taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare come la pensano.[75]»  Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un cinismo assolutamente impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo sarà considerato, due secoli dopo, modernità e realismo.  Casanova è già uno scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni, inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore, fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale. Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]  Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana. Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive testualmente: ... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta ... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79]  Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi fece riferimento nella prefazione:   «J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.»  Certo dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in francese.  L'autobiografia del Casanova, a parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno.  La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era protagonista.  Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito, Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla scrittura[91]  Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.  L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e soprattutto reale.  Mostre 1998 Praga, Palazzo Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo: Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998.  88-317-7028-4  Francia "Casanova for ever, 33 expositions Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille (dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre  al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, .  978-2-7177-2496-7 (BnF)  978-2-02-104412-6 (Seuil)  Stati Uniti d'America "Casanova: The seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston.  978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia, 1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell, Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova (Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G. Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori 2001,  II pag. 925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi, Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in bibl.).[95]  Note Esplicative   Casanova visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.)  Il cognome Casanova è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero  Casanova afferma che dalla città spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona, potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont , pag. XL , op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune.  A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda: E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25.  (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero 122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20 gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in “Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)  Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone.  Sull'ubicazione esatta della casa natale di Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.) un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui) Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele.  Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in quello in uso precedentemente.  Si è mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui, come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto "Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno  pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont,  I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del Casanova.  Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente nell'Histoire allorché Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che Casanova abbia costruito il personaggio di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes, Genève, Année 2003 XX.  Marco Barbaro (19 luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert Laffont cit. in bibl.  I pag. 997, che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano)  Marco Dandolo, patrizio veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento"  (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.29 nota 104).  L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs  (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996), che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786). Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del Casanova stesso che consenta l'identificazione certa.  Molti studiosi hanno tentato l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti T. CXLII (1983-84) pag. 235-266.  Sul rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova Michele Mari, pag. 237 e seguenti, cit. in .  Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques Casanova, Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note 1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni)  Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier Vincent, Casanova il contagio del piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota 35).  L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno Mondadori, 2005).  Nel novembre del 1750, Casanova ricevette i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Malgrado la diuturna applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il francese di Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori).  L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755 Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)  Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi, 22 marzo 1755. ...Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista Manuzzi, 12 luglio 1755.  Secondo il casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 1065. Bibliografiche    Giacomo Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon, 1960-62.   Giacomo Casanova, Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, 1788-1789127.  Carlo Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.  Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  G.Casanova,Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I, pag. 502 cit. in bibl.  (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani)  (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia)  (Fonte: P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova n°25, 1992)  Aprile, maggio 1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva occuparsi della questione.  Si veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti.  Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche : una cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.  cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl,  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl.  Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl.  Riguardo alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami, Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des casanovistes  XI, 1994, pagg. 17-23. Il mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998, cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, pag.68-71  Marino Balbi (1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ).  Si trattava di un certo Andreoli, custode del palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316.  Sentenza di condanna a carico di Lorenzo Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83.  Jeanne Camus de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  II pag.1634 nota)  G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2, Volume 5, Capitolo 3  Molti commentatori hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001 cit. in bibl.  II, Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993 cit. in bibl.  II, pag 21 nota 4 (con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.), pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963, pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198).  Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode (1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal 1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.  Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel 1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.).  La lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes anno 2003 pag. 25)  «...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...»  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Edizione 2001,  II, pag. 394, cit. in bibl.  Histoire, volume 15, capitolo XIX  Nous avons ici une espèce de plaisant qui serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837,  II pag. 91)  Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, , Chronologie, pag. 221.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  II, pag. 1508 cit. in bibl.  Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.117 nota).  Un riscontro del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the Private Papers of James Boswell, London 1953,  IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi, Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick, Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag 41).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma senza alcun risultato.  Franciszek Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia".  Anna Binetti (cognome di nascita Ramon) celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,  III pag.1183 nota)  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  III, pag. 285 e seguenti, cit. in bibl.  La vicenda sollevò un clamore notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag. 203.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288.  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.)  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre 1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti, numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie .anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40  Piggionanti  Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni 46  L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.)   Si è a lungo discusso circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle vicende di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità.  Il viaggio da Trieste a Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana” , Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia , pag. 221-223).  È da osservare che la notorietà del personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer, rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik,  Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006).  Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo, Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier.  L'elenco completo dei sottoscrittori è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.)  Delle lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano, Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna , Grenoble, Antonio Trampus, Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è oltremodo toccante.  A.Ravà, Lettere di donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del canone: A.Ravà,  J. Marsan, Sui passi di Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in bibl. pag. 347  Fonte: G. Casanova, Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).  Foscarini morì il 23 aprile del 1785.  Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le persecuzionia suo diresubite.  Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14) ...Ma il Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei sensi.....  Il casanovista Helmut Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII, 2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda, 1805  I parte seconda, pag. 172) fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova, fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento.  Edizione in tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione critica di riferimento.  Archivio Alinari, su alinariarchives.  Archivio GrangerNew York  Opere di LonghiCasanovaUbication: Firenze  Miti e personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori, : «Nell'arte. Di Casanova esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici)  Il quadro, conservato un tempo nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse ...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in .  Emblematico a questo riguardo è il caso del romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).  Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario  di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in bibl. pag. 105,106.  Il brano, un ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi 1828).  Su come Casanova esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive: ...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto, Alessandro replicava: ...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.  La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340  Alla morte di Casanova, il manoscritto originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio , il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France.  Molti studiosi hanno analizzato, parola per parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo).  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori 2001,  I pag. 733, cit. in bibl.  A questo proposito de Ligne scrive ...le sue memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio, difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti, pag. 189, cit. in bibl.),  Illuminante, a questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.)  Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in bibl.  G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio, cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di diffusione.  Stendhal fa, nella sua opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari cit. in bibl. pag. 383.  Foscolo, durante il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente inventate.  Balzac si ispirò largamente alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962  Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al padre: ..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE).  Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi) e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).  Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989) che fu pubblicato nel 1906.  Márai scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero veneziano.  Salvatore di Giacomo "Casanova a Napoli" in Nuova antologia 1922.  Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942. "Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano il 21.5.92.  Piero Chiara curò per Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti articoli sull'argomento.  Scrive Casanova in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).  Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni, ed. Mondadori (1950), citata in .  La tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X).  Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo di Giacomo Casanova, pag. 187, , ed. Marsilio 1998, citato in bibl.). Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione (Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki 2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per puro passatempo.  Sull’argomento si veda lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano.   Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà , Il mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova, la passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert Abirached, Casanova o la dissipazione, Palermo, Sellerio, Louis Jean André, Memoires de l'Academie des sciences, agriculture, arts & belles lettres d'Aix. Tome 6. Aspects du XVIIIe siecle aixois, Aix-en-Provence, Ed. Académie d'Aix, Maurice Andrieux, Venise au temps de Casanova, Paris, Hachette, 1969. 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Casanoviana. Rivista internazionale di studi casanoviani (), Antonio Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo.  Libertino (personaggio) Storia della mia fuga dai Piombi Manon Balletti Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova Gaetano Casanova Giovanni Battista Casanova François-Joachim de Pierre de Bernis Zanetta Farussi Michele Grimani Charles Joseph de Ligne Andrea Memmo Louise O'Murphy Giustiniana Wynne Pietro Antonio Zaguri Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giacomo Casanova Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua francese dedicata a Giacomo Casanova Collabora a Wikiquote Citazionio su Giacomo Casanova Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giacomo Casanova  Giacomo Casanova, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Casanova, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  (IT, DE, FR) Giacomo Casanova, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Giacomo Casanova, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giacomo Casanova, su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo Casanova, su Find a Grave.  Opere di Giacomo Casanova, su Liber Liber.  Opere di Giacomo Casanova, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Opere di Giacomo Casanova, su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Giacomo Casanova, su LibriVox.  di Giacomo Casanova, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giacomo Casanova, su Internet Movie Database, IMDb.com.   Manoscritto originale dell'Histoire de ma vie su Gallica, su gallica.bnf.fr.  Sito della BNF con notizie sul manoscritto e iconografia, su expositions.bnf.fr.  Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e' significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this page Fausto Bertolini · 2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si ... – Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione e conversazione” – The Swimming-Pool Library.

 

Casati (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casati; he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance man of a philosopher, as he should!”  Studia a Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza).  Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza).  Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo.  Tra i suoi principali contributi si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati,  la regione spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato"  nella metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura normativa, in un contesto di democrazia partecipata.  La sua Prima Lezione di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia, che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia. Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza); Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere, Laterza);  Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia, Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria della somiglianza   Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica. Riferimento e generalità.  La teoria che Grice e Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4 . Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati. 4  La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero dell'arte.) 5  Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da Casati 2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot 2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza, "Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza, "Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo". Roberto Casati. Keywords: “la conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati” – The Swimming-Pool Library. 

 

Casini (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di natura”.   I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero, non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in tale contesto Kant.  Insegna a Trieste, Bologna, e Roma.  Le sue ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al darwinismo.  Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza);  Introduzione all'illuminismo, Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino).    La lista di autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.   Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni storico-archeologiche  e alle strumentalizzazioni politiche del Sette-Ottocento.  Giuseppe Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj - Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio, Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order   Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia 17 261. 1980. Like Recommend Bookmark Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di Filosofia 13 109. 1979. Like Recommend Bookmark  21 The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia 100 (1): 157-178. 2009. Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia 75 (3): 457. 1984. Like Recommend Bookmark  9 Kant e la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia 95 (3): 377-418. 2004. Kant: Philosophy of Science Like Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma (1738-1748).« Rivista di Filosofia 18 354-381. 1980. Like Recommend Bookmark Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia 84 (2): 265. 1993. Like Recommend Bookmark Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia Italiana 14 253. 1960. Like Recommend Bookmark  9 L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia 22 (1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy, Misc Like Recommend Bookmark L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia 61 (3): 239-262. 1970. Like Recommend Bookmark Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend Bookmark Il mito pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia 85 (1): 7-33. 1994. Like Recommend Bookmark Newton, Leibniz e l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark  13 Francesco Bianchini (1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science and Medicine 12 (1): 109-111. 2007. History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza Italica Cronistoria di Un Mito . 1998. Pythagoreans Like Recommend Bookmark  16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista di Filosofia 102 (3): 381-404. 2011. Voltaire Like Recommend Bookmark  7 La filosofia a Roma Rivista di Filosofia 94 (2): 215-284. 2003. Like Recommend Bookmark Vico's initiation into the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia 51 (4): 865-880. 1996. Pythagoreans Topic   Order   Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia 61 (2): 213. 1970. Like Recommend Bookmark Il problema D'Alembert Rivista di Filosofia 1 (1): 26-47. 1970. Like Recommend Bookmark  5 Semantica dell'Illuminismo Rivista di Filosofia 96 (1): 33-64. 2005. Like Recommend Bookmark George Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della Filosofia Italiana 383. 1967. Like Recommend Bookmark  1 Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  1 Diderot and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie 38 (148): 35-45. 1984. Denis Diderot Like Recommend Bookmark  6 "Magis amica veritas": Newton e Descartes Rivista di Filosofia 88 (2): 197-222. 1997. Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la metafisica Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark  9 Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444. 1998. Like Recommend Bookmark  6 Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend Bookmark  1 Il metodo di Foucault e le origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend Bookmark Diderot « philosophe » Revue Philosophique de la France Et de l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1): 137. 1987. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like Recommend Bookmark The Newtonian moment in Italy: A post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like Recommend Bookmark  6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista di Filosofia 93 (1): 65-88. 2002. Sigmund Freud Like Recommend Bookmark  1 Stanley Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana 2 (n/a): 147. 1970. Like Recommend Bookmark Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di Filosofia 21 (3): 372-91. 1981. Like Recommend Bookmark  14 Newton: the classical scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this work 15 citations of this work Like Recommend Bookmark Diderot et le portrait du philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark Morte e trasfigurazione del testo Rivista di Filosofia 83 (2): 301. 1992. Like Recommend Bookmark L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  10 Zev Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers, 1991. Pp. xviii + 588. ISBN 0-7923-1054-3. £103.00, $189.00, Dfl. 300.00 (review) British Journal for the History of Science 27 (2): 229-230. 1994. Like Recommend Bookmark Éléments de la philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. Isaac Newton Like Recommend Bookmark  6 The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology Rivista di Filosofia 99 (1): 51-80. 2008. Political Theory Like Recommend Bookmark  9 Il momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark  10 Rousseau e l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau Topic   Order    5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia 91 (2): 251-282. 2000. Isaac Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark  27 François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, 1992. Pp. xxii + 850. ISBN 0-7294-0374-2. No price given (review) British Journal for the History of Science 26 (3): 360-361. 1993. 17th/18th Century French Philosophy. Paolo Casini. Keywords: “antica sapienza italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool Library. 

 

Casotti (Roma). Filosofo. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo.  Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana.  Motivazioni personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo aquinista.  Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto.  Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà del contesto.  Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero,  Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani.  Appello per un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica,  Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica»,  Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni»,  Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale , in « L ' Educazione Nazionale » , 1920 , n . ... L ' Idea Nazionale » , 18 , 20 , 21 e 22 aprile 1920 ) vedere M . Casotti , Dopo il Congresso Nazionale , in « La Nostra Scuola » , 1920 , nn .   1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la ... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti , il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare ...  Casotti Mario , La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna , Vallecchi , Firenze , 1923 . Mazzoni Elda , L ' idealismo ... GENTILE GIOVANNI , Il Fascismo al governo della Scuola , Sandron , Palermo , 1924 . SGROI CARMELO . Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his "anthropological" writings, he defends personalism against idealism and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later became more widespread among Italian philosophers.  AQUINOSaggi di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi  più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico  LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di pedagogia generale MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore BRESCIA, Editrice “La Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * * PREFAZIONE  Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino.  Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo.  Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano  lavorare dopo di noi.  Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.  Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!  Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano.  La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da  quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse.  A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti : L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino  Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze.  Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza  desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere.  Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso.  Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. * * *  Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II  Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica.  Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica.  Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco  devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6].  Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro.  Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza.  Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e  scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III  L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda.  Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due  casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo.  L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo.  Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà  della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico.  Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna.  Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si  sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro di S. Tommaso. IV  Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche.  Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a  risplendere in tutta la sua chiarezza.  Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)].  Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur transfundere  scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V  Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.  Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica.  La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,  infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna.  E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.  A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra  «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam  scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare.  Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala.  Giacché proprio questo è, secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »].  L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI.  Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S.  Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale.  Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit].  Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così : «Cum  autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.  Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. * * *  Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto ?  Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica.  E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro.  In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII  Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura.  «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure  nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze].  Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua?  Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti.  Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione.  Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono.  Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni  tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no.  È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam, quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle  cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore.  È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.  L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * * VIII   Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto  evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente.  E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione.  È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio.  Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla.  Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una  vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura.  E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»].  Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura:  anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo.  C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima.  Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa.  Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa.  Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella  delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. * * *  Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione.  Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco.  Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato.  Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927)  In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche.  Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari.  Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato.  Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto.  Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II  Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi.  Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma  respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III  Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva.  Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta  canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate!  Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV  Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,  sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via.  Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole.  Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna  costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa.  Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica?  Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V  Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo?  E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.  Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della  finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male.  È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali.  Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI  Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità.  Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo?  In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa?  È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È  la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta.  Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.  La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale:  utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione.  Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia.  (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.)  Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare  nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico.  Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie  alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria?  Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti.  Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico  che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione,  «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli.  La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo  lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire.  Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è  parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola  neoumanistica ?  La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista ?  No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito  cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.  Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne.  Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per  fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli.  Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione della libertà umana,  la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”?  Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati  esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio, l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare,  quando la burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare, è altamente significativo.  Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie" nelle scuole medie  L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e formazione religiosa.  È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver male risolto il problema filosofico che  della questione stessa sta al fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa — si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e vuole avere, per sempre superato.  E, poste queste premesse, ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo.  Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze, la moltitudine.  Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. I.  Cominciamo con l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di concepire la religione.  Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta.  Ecco dunque le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché,  chi crede tutti i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto, colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”, “tomista” e filosofo.  Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove  della sua asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.  Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie.  E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a memoria un libro.  Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo  scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce.  Ma che cosa fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola, l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare.  Accusa alla quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono d'insistere.  Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina  proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o scettica.  Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano.  Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il pensiero  sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. * * *  Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica. III.  Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità delle  filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali si presentano al pubblico.  Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per forza esser false.  Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a “crearne” delle nuove.  E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è un campo o un orto, bensì un atto  immateriale del pensiero, e in quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo: ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza della verità.  Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria?  La risposta a questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di  vedute è finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo.  La libertà, dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono effettivamente il potere.  Così la storia della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza sia sempre quella.  Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur questa realtà la sola storia) e  mediante essa vi assumete il diritto di giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono, parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia scolastica?  Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte, la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così via.  Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora, dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico. Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e  progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni, colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire.  In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * * IV.  Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e dell'eclettismo.  La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il  cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non intendiamo occuparci.  Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è  libero di seguire le proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse.  Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli” intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo.  E dunque la difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a  “storia d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale rivelazione.  Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di “moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito.  Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità e  della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica  Credo che a parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti alla congiura del silenzio!  Noi, per conto nostro, diciamo subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore.  L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente lievito d'una personalità vivissima,  aperta a tutte le voci dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze che maturavano nei nuovi tempi.  Tanto basta, e ne avanza, a giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano, risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi” e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia, delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai “laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita.  Si direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo, grande importanza a tutto il complesso delle doti  spirituali che, pur non interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è, secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto, condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna, dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia cagione e valore» (p. 14).  Ora, in qual modo realizzare siffatto programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della virtù” , definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non impossibile sterminio di tutte le umane passioni  e tendenze sulle cui rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme, per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità, dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio, l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro, ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali. Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato innanzi alle minacce di Don  Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore dovrà dire : “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi, seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé, soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio. Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare, facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò già in sé stesse «passionali».  Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui il  rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo... cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della «ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo, se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole. Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà.  Questa introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere automaticamente l'uomo eccellente in tutti i  campi della scienza, dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio» pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. «Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo, lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale, filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni; così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento, pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante un pò dappertutto nella vita spirituale.  Qualcosa di simile al già detto per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica, secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana: della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo, necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di vita.  Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui  nel parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini, delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia. Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p. 132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni.  Ma queste piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il  pensiero moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna, cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo, «come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore» (p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività.  Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta» (pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se, invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione. Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa  sono in ultima analisi concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare  incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI  Non è ancora spenta l'eco delle discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia - dalla Rivista romana.  Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma «poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola», molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse  al cuore del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri. Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico, anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve) dalla lettera dei sacri testi».  Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata, quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i «misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile 1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio 1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma con molta fermezza, «I Diritti della scuola».  Ripetiamolo ancora: sarebbe ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le  persone di più difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici, sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione. Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo «intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là da venire!  Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo montessoriano.  E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene  l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita.  Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo" condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta, costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo, la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani, le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di poesia, e perciò armonica ai  fondamentali bisogni dell'animo infantile, sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento genuino della Chiesa.  Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse "co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si "tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale, non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia «tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade! Mario Casotti. Keywords: sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casotti” – The Swimming-Pool Library.   

 

Castelli   

 

 

Castrucci (Monterosso al Mare). Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena.  I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo, le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso della sua ricerca  ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento.  Accade in questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del diritto.  Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.  L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare, seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura, una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla "nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci, la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste, l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas, nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un mito politico nell'età del nichilismo compiuto.  Hanno suscitato polemiche alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre  col quale si riferiva a figure storiche naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del 'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica,  15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);  Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè). Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica. ; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Catalfamo (Catania). Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del "personalismo storico o critico".  Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina.  Il suo pensiero si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo".  Catalfamo è stato fondatore e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al 1988.  È stato anche Prorettore dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo.  Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M. Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" a. IV,  246–248, D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.

 

Catena (Venezia). Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist – consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’ an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale e indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei.  Pubblica a Venezia “Universa loca in logica Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones” (Impressi Paduae, Giacomo Fabriano); “Oratio pro idea methodi” Patauij, Grazioso Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita, & marauigliosa città di Venetia, per Euangelista Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo breue de gl'illustri et famosi scrittori venetiani, presso gli heredi di Giouanni Rossi; Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject Catena wrote two works , in one of which , Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas , Venice , 1556 , he tried to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Pietro, in Dizionario biografico degli italiani. PETRVS CATHENA ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR , PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO , SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis Ariſtotelis nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO , LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati, M D L XI . > PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur , ob id autem illis con tingit , quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem , alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto( latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium ,ničí Reuerendus domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca . rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit , quod fi minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit ; neque enim quæ omni . bus videntur accipit, neque quæ plurimu i ,neque qnæ fapientibus, & his neque omnibus neque plu . rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit ,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet , vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo. metrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris , & funibus reliquerunt Ariſtotelem , vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine , vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos , legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö fuit , ficut in cæteris ipſe Ariſtoles , hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim , quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur re cta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c , & ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d , illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d ; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ lineæ ad h contactum , & intelligatur Triangulus d he , quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt æquales , duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h ,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta , ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau . cem vitium non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris , & immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus eſt ,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes , fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac , &db , rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g , &a centro fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta , tunc triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam , fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione , fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum ,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g , illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho , qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo . Situs eft . CAPVT CAPY T SEPTIMVM. SIMILITER vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem ,effe magnitudinem duorum cubitorum , &quid , quando dicit magnitudinem , et quantum , quando dicit,cubitorum duorum , hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum , quomodo vnum accidens,vt duorum ,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta CAPVT DECIMVMTERTIVM, QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem , acuto , obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem , # US Angulus accutus rectominor & contrarius eft obruſo , &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium , quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit ? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan . titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta , fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile , nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria ,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum ,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur , potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem , quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ , quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim , incommenſurabilitas autem relatio eft ; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta ,ad diametrum & in diainetro ad coftam . CON SIMILITER autem et acutum ,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox ,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum , a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum , ſed pro ſono , qui quidem fita cordulis inſtrumentorum , nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula , fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam ,diapaffon, fi fefqualteram , diapente , fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha . gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur, CAPITE DECIMO VARTO, ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero , nam vtrun . que eft principium . PRÍNCIPIV M lineæ punctus , principium autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis ,punctus eſt ex cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat , LIBRO SECVNDO CAPITE SECVNDO. 2 VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum ,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum , fed quando non facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis æquales , ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein , dico quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius , quam efſetrigonum , id autem inanifeſtum eſt de pentagono , cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera , id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis ,conuertitur cum effe trigonuir . Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera , habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu . li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium ,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum ,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun . dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum , perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele , quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens , fic vt hæc predicatio , Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem , per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus , primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum , per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum ,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. LIBRO QVARTO. CAPITE PRIMO SIQVIS infecabiles ponens lineas , indiviſibile genus earum dicat eſſe , nam linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum ſpecicm , indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ affequendam , me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum ,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id , quia ,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien . tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit , vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur ( fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter contradictionem , CAPITE SECVNDO. ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem ,vt im par quidem numerum , Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia autem , neque fpeties, neque indiuiduum , manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia , quare neque imparopetieserit , fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro ; titur in numeruin imparem , &in numerum parem , vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia ,eodem modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta , & nora Ariſtoteles cíle vo . luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem , non enim neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo , continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur per punctum , qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas , velinter duas partes linex , quod & de partibus ſuperficiei , quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico , quod alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus , concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia , per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu : antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem ,non tamen fequitur , primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera , igitur continuum eſt cum nona iphera ,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui , igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur , quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui ,vel aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas , vel etiain cirotececontiguantur , & ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur , ne vacuum daretur in natura , 7 CAPITE TERTIO . CONSIDERAN DV M autem eſt , fi quod translatiue. dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam , confonantiam , nam omnegenus proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia ,non proprie,fed translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium vocum acuti gra . uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat , non quidem a ſo no , quæ eft aeris percuſsio , fed illa quidem eſt , quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia , quæ nil aliud eſt , quam coeleſtium motuumdiuerſorum ,in vnam munditotius conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin . no Scipionis nomen indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles , ... CAPITE QVARTO. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus , vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om . nia fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant , vt duo, cenarius eſt abundans , quia 6,4, 3 , 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario , de quo quidem abun . danti, qui eſt fimilis centimanugiganti , non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem , & ſuperparrienrem , abundans præterea ,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis, dicitur ,duplum igitur triplum ,quadruplumque cummultiplun lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum ,neque etiam duplum , itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft . 1 era CAPITE SEXTO, QVONIAM autem muſicum , qua muſicum eftfciens,elle muſica ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit , nõ quathenus cantorem , qualitas eſt de prima qualitatis fpecie ,quathenus autem ſcientia eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in prædicamentis determinatum . NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero conuenit, non tamen omni numero , ſed numero tantum pari,impari autem ob vnitatis interuëtum nequaquam , Veletiam melius erit dictu , diuifibilitas in duo æqualia , numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur , fic vtdiuiſibilitas in partes integrales cuilibetnumero conueniat , non diuiſibilitas in partes aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili . bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in plus igitur ideft ,quod diuiſibile eft, quam id ,quod numerum eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum , quod in partes aliquotas &in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum ,ſequitur igitur recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo , vt diui fibile eft , igitur numerus, LIBRO QVINTO, CAPITE PRIMO. LOGICV M problema . PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio ,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam , ſem per enim problema verſatur circa praxim ,quapropter, problema Geometricum ,eftpropofitio practica , Theoremavero Geometri. cum ,eſt ſpeculatiua propoſitio ,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem, dixit problema logicum , &non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim , logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, & bong CAPITE SECVNDO . ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium , vt qui,qui dixit humidiproprium , corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium , o non plura ,erit fecundum boc bene pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum ,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit , ſuſcipit quan cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit , in illo vaſe locantehumidum , accipere igitur hocmodo figuram a re locante , proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile extra ſenſum faftum ,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc ,in his, quæ non ex neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium , aštrum quod fertur fuper terram lucidiſſimum , tale vſus eſtin proprio ( ſuper terram in , quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol , si adhuc ferratur fuper terram , eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium . CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem ,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol occiderit , & fub orizonte conditus fuerit , definit ſenſus percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis , illo deficiente, ( quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio , & Sol , effe defficeret , quod quia abſurdum , non igitur proprium eft folis eum videri ferri fuper terram , licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam , haud folis proprium eft , cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat , id autem quod proprium eſt , conuenit omni foli & femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram , & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum ,perceptibile,vel intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum , ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero , fi tale aßignauerit proprium , quod non ſenſu est manifeſtum , aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium , vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt , ſub . ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum ,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum eft coloratū , extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur ſuperficies eft , in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium ,non ex natura ſu perficiei profluit , fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei , quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas , fed cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit ſuperficiei , fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. CAPVT TERTIVM. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium ,quod pofitum eſt elle proprium , vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium , non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra primo poſteriorum ,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit , fed vtera quelocorum mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed linguæ ſæpe etiam contingit , quis enim id in feipfo non eft expertus . vt quan doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet ( vt interiusprius mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin ,non tamen id proprium eft Geometræ ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat , ſed raſo etiam vni accidat. LIBRO SEX TO . CAPITE TERTIO, SIMPLICITER igiturnotius , quod prius eſt poſteriore , vt punctum linca, o linea ſuperficie , & ſuperficiesſolido , quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea contenta : pro cuius loci huius &illius intelligentia , fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere , tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum , & fuperficies per lineam , & tandem libro 11 , corpus per ſuperficiem deffiniuit , quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur , quo nam modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea , &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe, vtduplum , line dimidio. ID notandum euenit hoc loco , quod Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri , vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem , vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem ( qui incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole vei neceffe eft , acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea , quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur , id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare , fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia . PRETER eas quas Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít ,qua in comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi que at , & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par , vnitatem imparem feptem ſuperet , & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur & non abfolure , SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur , name bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus tamen fa . cilis eſt , ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio , neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro numerato , vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius inferioreſtad numerum parem ,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu . meri paris vtitur bipartiri , ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore , CAPITE QVARTO . AVT rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra . TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi ( quod in traſparenti aericone tingit ,) ſed impediuntur a parte terræ , quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens , fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio , quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi , fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui , vtputa noctis , ponitur poftiuum , vtputa terra , quod etiam in multis eft aduertendum , quia non ſolum ponitur pofitiuum ,fed etiam priuatiuum , vtly pri uatio lurninis, CAPITE QVINTO, Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum , quæ comple & tuntur ora tionem , fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non ,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis , cuius medium ſuperaditur extremis , ſi finalis linca ratio est ,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem , le gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis , vbi legi debet , cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu . lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă , recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna , cæ , terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio , fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo , nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale , &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum ,) planum efle infini tum ſecundum longitudinem tantum , finitum ſecundum latitudi. nem , quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis ( ſecundum latitudinem ) fines ,cuius ( quidein finis) medium non relultat ab extreinis ,hæc particula, fi nes plani habentis fines , in definitione pofica recte conuenit lineæ finalis, fed hæc particala , cuius medium non reſultat ab extremis , nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta , velly linea , quia non conuenit niſi recrę lineç finicę , & non infi nitę, quęinfinita , vt fupponebatur, non habet medium , neque ex . trema,ideo deffinitio ipſius totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti , non fic reliqna particula deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem differentia terminum alignauit confiderandum , fi eg alicuius numerun comunis est aſſignatus terminus , vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit , deter minandum est , quo pacto medium habentem , nam numerus qui dem , comunis in vtrique rationibus eſt , imparis autem coaſſum pta eſt oratio , habent autem &linea & corpusmedium , cum non fintimparia, quare non vtique erit deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa vnitasıncdium eft , linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem punctum medium , quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur , & fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media ,vt nec punctum lineam ,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea , quoruin media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium interduas partes æquales,vnitas eſt , & non de pari, ficut etiam Ariftoteles ait in textu , CAPITE SEXTO . ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex fiant ; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur , vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt , non tamen idem prouenit per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum. LIBRO SEPTIMO. CAPITE PRIMO . Avr fi eodem ab vtroque ſublato , quod relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi , co multiplum dimidij idem dixerit elje , fublato enim ab vtroque dimidio , reliquu oporteret indicare, non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud conſiderandum eſt, quod a nega . tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum multiplum ipfo duplo , vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, & duplum ad dimidium , &multiplum ad ſubmultiplum . LIBRO OCTAVO. CAPITE SECVNDO . . VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum , non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea ,fimiliter diuidit &lineam &locum , definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea , eft autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele , definitū eft ly linea fec cās planum , definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct , fic enim Jittera ordi netur , linea quæ ad latus ſeccat pla num , eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta , fieri enim non po teft , vt linea ſecet planum terminatum linea , quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea , id autē manifeſtum g eft ex fecunda , tertia , & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum , & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco , vbi ait, oautem : deffinitio eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam , inodo cum linea prior fit plano, manife , ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum , pofitis qui dem definitionibus ( vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa media , ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco ,non ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur , quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa , quæ proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum , & folum perilla media videlicet definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio , & animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere , fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe nt ; non igitur latere oportet , quando difficilis argumenta bilis eft poſitio ,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem , atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum , fiue linea ſeccans planum ad latus , id totum complexum eft,atque compoſitum , & licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam demonftretur , quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum , quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio ,ly linea leccans ad latus planum , nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio , quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum , ita vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores intelligunt orationes, fed oratio , pro quodam intelligatur comple xo indiſtantitamen , hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa , pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio , non intelligitur pro petitione, feu petito , quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per argumentum probabile,neque difficile, ne facile , cum ſit primum principium &non probetur , fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ probanda venit , ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando inter probandam ipſam ,contingit aliquod deffiniendī , quod com plexum fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio , & fortaffe omnino inpoſsibile , quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda eſt . 1 CAPITE TERTIO . VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium , quod octaua pars milliaris eft ,pertranfiri non polle, inter genera menſu . rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. CAPITE QVARTO , OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit ; quod concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft , & non debet effe dubia,contentiofa , & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam , vt primo poſteriorum declaraui , vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia latera , quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum & demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis , quantum autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū extremis,&aliquomodo diuerſum , vt in 10 clemë torum de diametro , &cofta eftmanifeftū ,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur , ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria , fieri vt paria fint imparia, & maius fit æquale . SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam , quinque faciunt , ſecue autem fi coniunctim , &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium , & binarium , quia due ſpecies numeri , non componunt terº tiam fpeciem numerorum ,ſed quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum . IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum ,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis putet proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum , & non duplum , duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum . CVM dederic eiufdem ad diuerfa : vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft ,no autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia , quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft , id autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum , Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1 : 6 CAPITE ÖVINTO. NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei . velfigură ,del primum ,vel principium eſſe dicit;quod velfigura , del primum , vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium , ſed quatbenus triangulus demonftratio erat . TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea . sum prima eſt,ita vt fic & figura , & prima, & principium ,vt qui buſdam placet omnium figurarum rectilinearum ,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum ; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit , ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales , ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura ,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle , arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto , Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem ,elle flauum of melse album ege cygnum ,quod autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum , viſifit album ſecundum accidens , nam &nix cygnusalbedo idem ,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe , &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere ,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium ,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa phus , primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft ,igitur album eſt, & econuerſo ,album eft ,ige tur cygnus eft ,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum , a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim habere , vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam , attamen, non eft factum , quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim .comune eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle , in tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis , Tertio loco , aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo , &æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo 'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus triangulis eft , fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam ( quæ duabos lineis ali comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi idem , vipatet, in 1 . . tertia primi, Elementorum ,cuin de longiori æqualis breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio , ne 11.propoſuit probandum ,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt equalia , non propoſuillet illud in quinto eile probandum ,quod Ariſtoteles confiderauit, CAPITE OCTAVO. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt &veræ quidem ,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet efle , nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar , guitur ab Euclide lib , 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin , per illam demonſtrationem , quæ ibi adduci . tur,quæ demonftratio ,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con . trarium , fic vt pro declaratione huius textus fatis fit , quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus , " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei , quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit , fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita , vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia ,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur , & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus , vt fi quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico , hic Ariſtoteles Intelligatur , & non de Geometrico , vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit declararā , quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft , quod in prioribusde prima figura dictum fuit , quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li . neis contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura ( qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs , vtoninesanguli pentagoni,cu . ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo , quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum , no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares , fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima , fed fecunda confequentia interris matur , fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian , tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa , & les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin , & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam falſum eſt . CAPITE DECIMO , NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram , ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt ad cir . culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad exagonum , & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo , & fic preudographus factus eſt , Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo & infcribens circulo quadratum ,vterque fo phiſtice proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia , & quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice , tamen non fecun dum rem , vt non per principia propria , neque per deſcriptionetti diagramatum ,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum ,nec ex neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera ,vt quæ Brilonis, non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra . cis ,vti Ariſtoteles inferius in hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam , namex eiſdem , diferendi modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte pſeudographa facit ,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem , quæper lunulas non contentio Sa , Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis & theorematibus Geometriæ ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria , fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft, pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat principium Geometriæ , quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis , & negat etiam li . neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe curuum , & cur uum rectum , & dari duo puncta inmediata in linea circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea , CAPITE DECIMOTERZO . VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario , & ſenario, in his igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in his quæ ad aliquid dicuntur , vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium . Sed numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum . LIBRO SECVNDO. CAPITE PRIMO , ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus , vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM, penthagonum , & cæteras figuras re . etilineas reſoluimus in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ , vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris , quod non ea facilitate idem componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea in triangulos refoluatur, fecus autemin Arithmeti ca de mente pythagoræ , tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies , componitur ex præcedenu fpecie et triangulo ,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum , vt illis declaratur locis, FINIS. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI ,COLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO EPISCOPO NONENSI, · AC PATRONO S V O COLENDISSIMO . S. P. மரா NTER munera ,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes , ad poftremum haud quaquam adducitur ipſa ratio , nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ aduerſari , atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt, quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat , hac de caufaconſiderans hominum mentes eodem effe quo arua fato , quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala perfe runt germina,uidiſſem multos , qui philofophi nominari uolunt prepoſteris imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra , quibusuellicandisne unus quidem Herculesſatiseffet , uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis , fimiles factifunt oculo , qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires ,etiam fi exignas( nam apprime noui quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro , id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem , quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam , ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur , hortabaturque me ille , ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa , autoppoſita his effent que interpretati ſunt . Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur , curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci , qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs , eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem ; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum : Vale præfulum decus . ed RE agat , ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris , uel inmatricem , { OTS PORPHYRII DE GENERE PE T R I C Α Τ Η Ε Ν Α PRESBITERI VENETINOVA IN T E R P R E T ATIO . IcetVR & alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus , tam ab co, qui genuit , quám a loco in quo eft quiſ piam ortus . Dicitur quòd locus , os pater cauſe funteffè &trices genis ti , diuerfimodetamen ,quippe pater aétiua fit caufa , locus uero conſer uatiua tantum ,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur ,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod , & locusnedum conſeruatiuum prin cipium est , fic ut genitum folummodo conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum ,ſed etiam adiuuin principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones , folis igitur , e planetarum aliorum lumine, ac motu , affectus locus, aštiue agit hoc pacto adgenera = tionem , atque parentes , fi fecus quis audiuerit, tunc sol, & pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae étis alterando aerem agatin ipſum , ca in contentum , quo autem pacto age quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia , o interræ fuperficie plantas . 6 PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies , debita parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur. , ut Facies priami dignaeſt imperio , ad cuius fi militudinem , ill . est , quefub aßignato generepoa nitur , curus pulcritudo , est differentia fpecifica , qua pulcritudine informe genus contrahitur , atque pulcrumfit. Et Trianguluun , figuræ fpetiem ſimili modo ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum , non figura in uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam , que una clauditur linea , & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est , claudi tantum tribus reftis , qua etiam differentia pula crum redditur figure genus . Indiuidua funt'infinita . Non intela ligas hoc uelim , niſi potentia ,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur ; ſed modo quodam diverſo , numerus enim , quicunque fit , aexiſtat , finitus eſt , terminatus ,ſic pariter indiuidua on nia , quæ exiſtunt finita funt, ſed que preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu , o deſcenden do ,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita , unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS DE O V A N TITATE. ENARAI numeri partes , ut quinque, & quinque . Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuitAriſtoteles., cum dixit quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium , oquinarium denarium numerum compone re , quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis , ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis o quinis D DE VANTITATE * que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis , Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes corporis copulantur . Punctum eſſe lincæ terminum , or lineam ſuperficiei , e ſuperficiem corporis nemo neſcit , niſi qui Euclidis doctrina dignus est ,ſed illud unum maiori egeret indagine , quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus ,ne id Ariſtoteles aſſerens , quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elemen torum inquit ille , corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem habet , folidi uero terminus fuperficies est , uide ergo quod ſolidi terminusnonſit linea ipfa , ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea terminusfit corporis manifeſtum est , fi idquod Euclides ait deffinitione nona undecimi elementorum non ignores ,folidus(inquit) angulus est , qui ſub pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano,ad unum ſignum conſtitutis , plurium linearum igitur contactus ( nulla ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus , terminusest illius folidi, ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium , quin etiam inmediati terinini funtillius corporis , cum linea continentes illos angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi Elementorum , & in fequentibus quatuor problematibus idem uit ,in quibus docet conſtruere corpora regularia , queſuis angulis tangant ſu perficiem concauam circumſcribentis pheri , qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus continentur , &punctus ille , nedum est linearum terris minus, fed etiam regularis corporis finis ,cum ſit terminus omnium linea rum , quo termino tangit fphærum ,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem habere , ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie , quòd non tantum lineis , ſedetiam ipſis pun tis terminata fit,fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur , hocquod dictum est in telligatur . Adid uero , quod Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima , refponde , quod uerum 8 DE OVANTITATE. dicit , figura rectilinea , inquit, contineturfub lineis reftis , enon die cit contineturfub pun£ tis , agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis . Ariſtoteles hoc uidens , dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum . Vel etiam reétè dices , fi ita fenferis , quòd figura in uniuer. ſali , linea claudatur , neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur , neque itidem una aut pluribus , o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam ,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum ,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel di cas , quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe rit , in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum , statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis & Ex * clides non dixit quòd punctus , ſed quod angulus tangat fphærum . Rurſus in pago quidem , multos homines , Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures , & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo funt illis plures .Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos & multos dixiſſe , comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt , non habens rationens hominum ad homines , ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca , @mule ti in crumena , fi in crumena eſſent tantum fex , decem in arca , DE HIS QV Æ AD ALIQVID . VADRATIONIS enim circuli , & fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non ignoraſcet eam ,habuiſſet illiusſcientiam , o non dixiſſet (niſi forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit , nequecitra ad hanc ufq; horam ,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu ,et ipfa non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio ,fedquidper iftud exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit , illud effe puto , ut ammoto fcibili, oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt , ut putacaufa nunquam cauſante nuſquam effectus erit , quadratio igitur circuli cum non ſit , nequefcientia de ip . fa quadratura circuließepoteft . Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur . DE QUALI ET QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma , & in fuper rectitudo , & curuitas, & quicquid eſt hiſce fimile . De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente ,ueluti in fubie & o, idem de forma, rectitudine , atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit , à ſimpliciori ad magis compoſitum . Primo enim defi gura ,quæ linea , uel lineis clauditur , fecundo de his , quæ ſimplici bus lineis , aut ſuperficiebus uniformibus , nempe uel tantum re tis , aut tantum curuis , uelſolummodo conuexis ,aut etiain tantum concauis continentur , modus iſte ſecundus à primo non nihil differt , in hoc differentia est inter utrumque , quia primomodo de co quod planum eft , ueluti ipſa papyrus , ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons , ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat , quod autem eft ualde craſſum , corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ , non uidens tur talem rationem ſubire . Ariſtoteles parum ante dixit , que: nam ſint et , quæ magis, minufue ſuſcipiunt , ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis ,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum ,qualia ſunt , fed quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter , aut circuli ſunt oinnia . Senſus huius eft , quòd triangulus. quilibet , uel omnia que triangula ſunt, niſi id quod tribus clauditur lineis ,aliud non eſt, a circuli omnes , nil aliud funtquam und çlaudi linea , in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft , neque utrunque aliquid unum eſt , licet utrunque figura ſit ,ſed hoc æquiuoce , & non uniuoce eſt. Neque te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo , « quadrato propoſuit,c finit ſena tentiam de triangulo , e circulo , & non de triangulo , quadrato , quia de triangulo o quadrato dicens , ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero , quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt , quippe cum neu trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit comparatio rationem , alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur . Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt ,cum igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat , neque quadratum circulus eft ,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est , idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito Ariſtot.ſententiam hanc eſe , o ſi quadratum , &altera parte longius circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum , atque circulus, non eft qualis tas , fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id , quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate , quo loco ait quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum , dicas figuram capi uno , atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque , cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quartoqualitatis genere ,alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat . NequeMuſica , cuiuſpiam muſica , niſi generis ratione ad aliquid , & ipſa dicatur. De uniuerſali Ariſtoteles,& non para ticularimuſica loquens , ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur , biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt , primo modo ad fubie &tum quod genus uocat , tan quàm ad effectricem caufam reffertur , ut ad ſonum numeratum , non due tem ad Platonem in quo recepta est , relatiue dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris , ut quatenusfcientia adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONT SRATIVIS ſcientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt . Scito elementa , ut deffinitiones , petita , animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs , id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio , quam expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur , hancdeſignationem ( que beneficio petia torum tantun fit) determinatio , determinationem demonſtratio , ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa ,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia ,utdeffinitiones,petita , & conceptiones animi, reſpectu propoſitionum , que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ , quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur , dicuntur elementa , hac de caufa , quidam uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa , alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa ,ſed quia fingulis libris fua affiguntur principia , ut apud Campanum , ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia , quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones,petita, Oʻanimi conceptiones ,ut iſti ,neque prou pter hoc , quòd alique prime propoſitiones , que demonſtratæ funt , fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis principia , &elea menta ,ut illi dicunt , quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam , cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa , atque principia omnia illa dicuntur , reſpectu omnium propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros.. Bij 12 IN PREDICA MENTA DESPETIEB.V.S. MOT V S. i bЬ & CRET 10 ' , alteratio non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co ( quod etiam multis modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem ,ut in fecundo clementorum deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum ,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente circa diametrum , « ſuplementis duobus , quefigura ab Euclide primo elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6 , quam fi huic addideris quadrato a , quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis , ſic ut in hac figu ra ab , quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non uariet fpes tiem ,exempla plus centum in tabule Pythagora , apud Nicomachum , Boetium ,in numeris inuenies , ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato , quod fit, quadra = tumest ,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus , fex , vbis quatuor, ut ofto , ſexdecim exoritur ,qui etiam quadratus eft , pari modo ,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem ,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i . 13 est , que intelligas uolo ex in ateria primi quadrati , atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus , ego non de numeris tūlis formaliter fumptis , cum prius corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati , qui ex illis oritur , acretio . igitur ubique facta eſt , nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati , licet e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio . Aduertas tamen , ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum , ſic , utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio , in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet , fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie ſubalternāte ,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties ſubalternata , oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim ,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim , fit impariter par, uidelicet triginta fex , quorums uterque , o fifit quadratus , diucrfarum tamen fpetierum funt , ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft ,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati , quatenus quadratum eft ', Apetie , hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum , non de quadratiſpe= tie ppetialifsima . vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter , hoc oft non in omnibus difciplinis . 11 14 : IN PRIM VM LIB . IN PRIMO PRI O R V M AN T E SEC V N D V M S E C.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin , ſintadcentruin ductæ a ,b , fi igitur æqualem accipiata , c , d , angulum , ipſib , d , c ,non omnino exiſtimans æquales , qui ſemicirculorum , & rur. fus c, ipfi d ,non omnem aſunens eum qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus , totis Angulis , & ablatorum, æqua les eflc reliquos e ,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus æqualibus demptis ,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis ,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum ,peripheria eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur , quod duo anguli a , c , d ,cb, d , c , ſemicirculorum eiufdem circuli a , b , c , d , ſint ad inuicem æquales , hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat æquales , qui ſemicirculorum , rurfus inquit c , ipſi d , angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd , quod ſic perſuadetur, árcus c, d , eiuſdem est peripherie , que unir formis eſt, c , d , eſt unice, om eadem re&ta ,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos , quod demonſtratum fuit ,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia aufferantur , reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECT V M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere , ut de bono ,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque , funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem ,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ , acceptis enim apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c . Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft , propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina , prima principia hiſtoria data , &dereli Eta ſine probation funtpofteris , quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis ( hiſtoriæ enim proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat demonſtratio ,illam « impro priain , a poſteriori, feu à ſigno eſſe , nemoeſt quineſciat . ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM . On oportet autein exiſtimare penes id, quod exponimus , aliquid accidere abfurdum nis hil cnim utimur eo , quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra , pedalem , & rectam hanc , fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam , fub fenfu fuerunt ? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe , intelligit intellectus , quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit . Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem abſtraftam , quætamen kon eſt , niſi indeterminatis , ſingularibus hominibus , fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit , que tamen non ſunt , niſi in linea atrd . mento picta , o ſuperficie , in corpore naturali , IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod propofitum eſt , contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi ,a, monftretur per b ,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita ratiocinantes ipſum a ,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt poſsibile monſtra : re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque , ſed ita omne erit per feipfum cognoſcibile , quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare , quod e ſit a , &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus ( e est b , beſt a , igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc , e eſt b , fit per hoc medium f , ut in hoc Syllogiſino ( e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b) Cuius minor , uis delicet hæc , & eft c ,fiprobetur . Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a ,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c, oper a , propoſitio uero que probanda proponebatur , hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b., perc , & per a , probatur , ſimiliter errant illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales duobusreftis , quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a , b , c . cuius latusbc, ſi protendatur ,caufabitur augulus d, c, d , exterior equalis duobus angulis a , b , intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis , ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis , à punéto c , parallela dua catur ipſi b , a , quæ fitc, e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum , - quòd triangulus a , b , c , habebit tres duobus re&tis æquales . Si aus tem fumatur probandum quod b , a , uc , e , fint parallelæ , per hoc medium , quia triangulus b , a , c , habeat tres duobus re&tis æqua . les , ideo ipſe parallelæ ſunt , ſic , exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis , qui exterior angulus a , c , d , in duos pars titur angulos in a , c , e ,we, c , d , , c , e æqualis eſt b , a,, ere, c , d , eft æqualis a ,b , c ; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam primi elementorum ,feques retur igitur , quod a ,b ,oc, e , parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b , a ,oc, f , parallelæ funt,quia triangulus a , b , c , habet tres duoc bus rectis equales , fed a , b , c , triangulus habet tres Angulos duos bus reftis equales , quia a , b , & c,e, parallelæ ſunt,igitur a, b ,a col, parallele ſunt , ,quia parallelefunt, quod uanum eft , oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius , quod pofterius æget illo priori adſui probationem . Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d , queſit parallela ipſi a , b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e , c , d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea ,quod d , 0,4 , ſit æqualis angulo b , a , 6 , quod eſſe non poteſt, niſi b , d ,egu c , d ," parallele fupponantur , fic b connectatur inductio , quia Trian gulus a , b , c , habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a ,b , c,d, &quia paralellæ funt , ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis , igitur paralella funt , quia parallele fit . a : í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue niens , ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco , & fi triangu lus haberet plures rectos duobus . Quod autem parallela a , b , c, d , coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e , 8 , 6, maior eft angulo intrinſeco g, b , d, (quod quidem ſummitur falfum , pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam igi tur communem fententiam , ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi protrahantur . Et fi triangulushaberet plures rectos duobus . Duo Anguli g , h, k ,68, k , h , ſuntmaiores duo . bus re&tis , multo magis igitur b , h , k , d , k , h , ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a , h , k , k , h , ſunt minores duobus res a. h b & is , quia omnes quatuor 6 , h , k. a , b , k . d , k , h . @c , k , h . og ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam ,igitur b , a , d , c , f adpartem a , c , protracte concurs rent, per illam animi conceptionem ,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte neceſſario concurrent . ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT SECVN DVM SVSPITIONEM. ELVTI fia , ineft omnib , buero omni c , a omni c inerit , fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni , cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b , triangulus,in quo uero c , ſenſibilis triangulus , fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c ,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit idem . Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea , quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur , omne b eft a , omne c eſt b , igitur omne ceſta , uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales , qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus , igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres : duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis æquales , omnec fen . fibiletriangulum eſt triangulum , igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis . Cum teneret quis hanc uni uerfalem , omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat , quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi , quòd han beret tres , uidelicet duobus re &tis æquales , niſi potentia , non autem actu ; quàm primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore , statim intua. lit , «cognouit , quod ſenſibilis triangulus , tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis , non eſſec , non eft intelligendum , ſic ut Græci , o omnes exponunt , quaſi quod ignos retur an fit c , fed hoc non uult Ariſtoteles dicere ,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c , hoc intelligas modo , quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales , licet non ignorauerit c effe , fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa , quod habeat tres duobus rectis æquales ; ſcietigitur po tentia in uniuerſali propofitione , Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto ,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi . Cij 20 IN SECVN. RIO. ARIST. mulſcire , ignorareidem ſecundum diuerſa , ut ſcire potentia iniſud uniuerſali , & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter , ut pus ta in particulari. DE A BDVCTIONE. VT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb , c , nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e ,re etilineum , in quo uero z circulus , fi ipfius é z ſolum eſſet medium ,hoc , quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum cognofcere . In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem , e de quadratura fuſius in fragmena tis noftris , fuper Logicis , multa declarabo , quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum , cuius minor , cumſit dubia e oba ſcura , dicit unum eſſe medium ad probandam illam , arguit e, rectilis neun , d quadratur , ſed z , circulus fit reetilineum , igitur circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho , Hypocrates chiusprobare per id medium , quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs , alio enim mos do tentauit Antipho , o aliter Hypocrates chius , qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum , eo artificio , quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum , oſyllogiſmus connectatur ſic , ut fimul dicam characteres , me terminos Ariſtotelis , e , rectilinea figura , d quadratur , fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d , quadratur . 21 IN PRIMVM LIBRVM POSTERIO RVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO . TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere , alia nanque , quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft , quod dicitur intelligere oportet, quædam autein utraque , ut quoniam omne quidem , quod eſt , aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt , Triangulum autem quoniam hoc fignificat ; ſed unitatem utraque , & quid ſignificat, eſt quia eft , non eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis . Græci omnes , pariter & Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem , nedum qui ſcripſerunt , fed etiam recens tiores , quihac tempeſtate eum interpretantur , & priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis bus prebuit . Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus , ſuper hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis ſententiamfcripſit , qua decaufa , ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ logicorum utilitati conſulens , lucidum , facilein , atque clarum Aris stotelem in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan rißimiPhilofophilabefactetur , ſcito in primis , tres eſſe modos pres cognofcendi, quos Aristoteles ponit , in hoc Textu , unicuique hos rum modorum aptißimum ,atquefacilimum exemplum poſuit , feruans exemplorum ordinem cum ordine modorum precognofcendi, ſic , ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet ,ſecundo modoſe cundum , atque tertium tertio . Nequete perturbet , quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB . ait , dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego , primo autemmodo , opus eft præcognoſcere , quia eſt tantum, alio autem modo , quid eft id , quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos , in tertio modo in unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans . Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim , reliquus uero in totum , oin parte quidem biffariam . Vnus tantum quia eft ,reliquus uero tans tum quid ſignificet , in toto uero ille eft modus , qui horum utrunque in ſe comple &titur . Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt , qui ab Apoline reprehenfi , &fpreti à Platone , uagantes fomniauerunt , hoc in loco , tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla , in ſcientijs diuerſis . Nempe Methaphiſica ,Geometria , O Arithmetica , quod chimericum eſt , ex ipſa uunitate magis uanum , fi enim ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie , & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim , quod artificio , id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est , tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis , &uniuerſalißimis attuliffe , ſic , uttandem concludant in ſua expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere , &uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere , ut tandem tria formoſa , &pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione , datum eſſet unitas , queſitum triangulus , e principium Methaphiſicum , ualeat pereatque cim ins terpretibus hæc interpretatio . Non est Ariſtotelis confuetudo , exeine pla afferre ( aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi ,ut do&trina , que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura , atque diffi cilis , fole clarior , atque perfacilis omnibus reddatur , quid rogo cons fufius, quàm in una re logica explicanda , tria exempla mutila , o tim diuerfa afferre ? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid ,c . in tertio exemplo , ey quia , &quid , ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico , omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte ; uel diſciplina Geometrica , quicquid Niphlus fentiat & fequaces , ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu , neque uerus fenfus , qui ad Ariftotelem faciat preter hunc , quem fubfcribo , uelint nolint omnes atque uniuerſi , qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum , quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. 23 1 Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia ,uel in terſe nonſunt æqualia , uerum est dicere quia eſt ,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum , cum Similiter alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum , &hoc est uerum , quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum , ut adinuicem ſintequales , « prima ani mi conceptionis ,utſiab æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est ,quid hæc uox , Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi. primi Elemen torum , ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam ,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit,Quatenus tamen quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem ,quæ quidem unitas , a quid ſignificet , quia eft ,utrunque habet . Hanc ego unitatem contra oma nes loquentes , « ad Ariſtotelis ſententiam aio , eſſe non eam , qua unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate , quæ eſt principium numeri dicitur , nempe una linea recta data ſuper quam triangulum collocare oportet , ſiue ille fit æquilaterus , ut Euclides proponit , uel iſoſcelesaut gradatus, ut Aris ſtoteles querit in uniuerſum , quod quidem Proclum diadocum ,& Cam panumfuper primum primi Elementorum , non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi Elementorum , tàm quàm queſitum , in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur , quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis , de qua lineæ unitate precognoſcitur , quid , utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum , precognoſcitur etiam , quia est ,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum . Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio eft , alia , ut dixi nulla , fomnia igitur quæcunque diluantur , putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium , nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo ? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio ? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam , 24 IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas . De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere , ſicut docet Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum , fi unitas numeret quemli bet numerum , quoties quilibet tertius aliquein quartum , erit quoque, pernutatim ,ut quoties unitas numerabit tertium , toties ſecundus quar tum numerauerit , datum inquit Ioannes , eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid , & quia eft , o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere , licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit ,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri , fit datum ,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum , fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem , quem numerat , eſt datum , que = ſitum autem eſt , ut ipfa tertium numerum numeret , ut ſecundus nus merus numerat quartum , quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum , que probatur per precedentes , onon eſt immediatum principium ,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem , quæ non procedit per immediata prin cipia , quod non eſt imaginandumin hoc propoſito , preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ , quia ibifit deductio per immediata principia ut per xv.deffinitionem ,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis . Die co igitur datum , eſſe unam rectam lineam , quæſitum , ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur , &quod , id conſtitutum , ſit trigonum , probas tur per decimamquintam deffinitionem , vprimam animi conceptionem primi elementorum . TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem . Aliorum vero , & fimul notitiam capientem , ut quæcunque , con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem ; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit , quòd uero hic , qui in ſemicirculo cft , triangulus fit , fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM A R IST. 25 ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles , primus , qui eft per reminiſcens tiam,de quo nondubitarunt antiqui . Alter uero, es ſecundus est , quo de nouo aliquid ſcimus , qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo , ſit noſtra expoſitio . Ioannes Grammaticushanc para ticulam , fimul inducens cognouit, interpretatur fic ,ut per inducen tem intelligat eum , qui habens triangulum in ſemicirculo pićtum , ofub penula abſconſum , oftendat eum triangulum eſſe , quaſi abijciens penus lam , ey aperiens manum obijciat ipfum triangulumoculis uidere uolens tium , &Latini omnes fimiliter ,& Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione . Non poſſum non mirari hominisiftius alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium ,que quidem interpretatio, fi ads mitatur,statim uidetur , quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus , id do ceat , quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti textu,Nemoaccipit talem propofitionem ,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle triangulum ,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd neſciebant eameffe parem , quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas . Ioannes &omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus fit , fimul inducens cognouit ;cognouit quidem quodfit triangulus , per induétionem , id eſt per oſtenſionem ad oculum , aperta manuin qua abfcondebatur , ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul , quod ridiculum est , o uſque ad hæc tempora , falfum pro uero habitum ,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam ; non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit , neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit , quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium , ſed has bita , hac uniuerſali ,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis , dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus , &qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi , utputa , quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis , quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem , quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus , ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam , que à particularibus ad uniuerfalem procedit , ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui , quifit ab uniuerſali ad particularia , rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles , quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam , aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes Grammaticus intelligat , dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D 26 IN PRIM VM LIB . couptatur in Syllogiſmoſic , omnis triangulus habet tres angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo , eſt triangulus, igitur hic qui in ſemicirculo , habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua , quia ponitur illud pronomen oftenfiuum , isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes , putant eniin quod illud pronomen , &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum , quid igitur dicendum erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic Apolini coronam Papus , iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum ; ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat , non ne omnia ifta pronomina oſtenfiua , funt ad intela lectum , & ſi quandoque per accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua ? ideo pronomen in iủa minori , ſiper accidens oftendatad ſenſum , oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum , aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere , quòd manifefte falfum eft , ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes ,quod ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris , fed hic qui inſemicirculo est triangulus , fub illa uniuerſali nota , omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis , illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra &modo , uocant inductionem , hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis litteram ; quia ante quam inferatur concluſio , neſcitur de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia , poſt quam autem illatafuerit concluſio ,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula ,habet tres æqua, les duobus rectis . Agamus igitur & nos ,o . Ariſtotelis litteram prius diſponamus , ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis , &hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam ,reliquam ſyllogiſticam , quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis ,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus , quæ duo uerba, non ſunt fynow nima , ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum , inductum ſit , uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis ,neque Ariſtoteles multiplicat uoces , terminos ean dem rem ſignificantes . Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox ,fyllogiſmus,ſignificat , non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT.. 29 prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit , relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio . Ila autem huiufmodi est , fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum , Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis , &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum , totus igitu * cbe , eſt æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis , igitur angulia , cum eodem c b a , funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit , quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet , unum eſſe fyllogifmum ? quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari , neque enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft , quòd neque Topica , inductio , patet ; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum ,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto . Neque mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior , omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis , quia illa fumiturin inductione fyllogiftica , in inductione uero Geometrica , fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum , in utraque induktione cumGeometri ca ,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna , pero expoſitione Tex .clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum , & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis ,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo , ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur , quod qui in femicirculo eft triane gulus , ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia , quod qui in ſemicirculo eſttriangulus , duo bus rectis tres habeat pares ,licet nefciat, an qui in ſemicirculo ,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem , o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem , quæ ſemper ex ueris, primis , caufis ila latiuis conclufionis , ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper , nequc ex cauſis quedant eße , fed ex his tantum , quæ dant propter quid iŪationis , tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia , fed plures , ut plurimum , neque per immediatafemper procedit ,fedalternatim per immediata , oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem , uoco propoſitiones per fe notas , etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes , de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit , nifi per particulas illas , utſupra commemoratas , ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut de enthymemate , quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum ,ſed ad pluresfyllogif mos , neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum cognofcitur , ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam . Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur , primus eft , quod interpretatio non est ad propofitum , fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis , inquiunt enim , quod per medium , ſcitur ultimum , hoc est , quod ultimum . Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate minori . V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue loquitur . Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt , per medium ultimum cognofcia tur , aduertendum quod medium in propoſito intelligit Ariſtoteles ,quod non tantum fitu ,medium intelligas, quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam , quodquid eft ipſius rei , ut POSTERIORVM A R IST. 29 fparfim in primo poſteriorum , e in ſecundo manifeftuin eſt , in pri moenim , Textu 201. Juxta partitionein philoponi , uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem ; ait Ariſtoteles , quod uniuerſale mon ſtratur per medium , &non particulare ; uerbi gratia ,hic non per mea dium ,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi bilis , ly enim hono , non eft quodquid est , ſed eſt ſubiectum , hic uero per medium , omne animal rationale eſt riſibile , omnis homoeſt aniinat rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium , fi inftes fic ,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale ,igitur Socrates est riſibilis . Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate , quòd fit animal rationale , nec etiam riſibile per ſe , & immediate,argués igitur fic ,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis ,fed qui in ſemicirculo , eſt triangulus , igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis . Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum , feu genus , ibi igitur non eſt demonſtras tio , licet fit fyllogifmus , &fi adhuc inftetur ,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo , ha beat tres equales duobus rectis , igitur ei qui in ſemicirculo eſt , non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum . Dico quod in inductione Geometrica , qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam ( uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus , fed ut trian . gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum ,fecundoautem , &per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto , quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo , ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est , non per medium , ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori ,fedhoc non permedium , id est non per quod quid est . Si vero non eft ita ,quæ in Menone contin . get dubitatio , aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa . Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre diendo ; tunc , quæ in Menone eſt, contingit dubitatio , particuld illa : Non enim iam . Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens 30 I N P R IM VM LIB . ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo ,quod id addiſcimus , quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac , eo modo , quo illi nitebantur foluere , fed eo palto ut predocui , it de omni dualitate fciens quod par ſit , de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia , quodſcit par . Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt . Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo ,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos , qui dices bant quod de nouo fcimus , &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem ,hoc argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe parem , nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire , ita eſſe , ſübinde atulerunt Platonici dualitatem dicentes , igitur fciebatis etiam hanc dualitatem , quam manu tegebamus eſſe pas rem , quod tamen effe non poteſt , quia nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio , prius fatebantur ſeſcire omnemdualitatein eſſe par rem , &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe , quod manifeſtum contradictorium eft , reſpondebant autem illi , qui dicebant nosfcire de nouo , quod interrogati de omni dualitate, an par effet, reſponderunt non de omni dualitate abſolute , fed de dualitate quam utique dualitatem effe ſciebant , modo de illa , quæ abfconfam tenebant , oque non erat fibi nota , ut eſſe dualitas , non fatebantur illam eſſe parem , quia neſciebant illam effe dualitatem , ita ut hec expoſitio, eotendat , ut Ariſtoteles res prehendat illos , qui dicebant nos ſcire de nouo , quia male foluebant Argumentum Platonicorum , xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expoſitio autem mea , e directo opponitur , huic omnium expofie tioni , ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo , & contra hos dicentes , quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles . Pro cuiusfententia declaranda, Queritate , est in primis aduertendum , quod in hoc textu , quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes , quòd de nouo nos fcire contingit aliquid , quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes , quòd ron ſcimus quippiam de nouo , quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum , peccant og errant in perſuadendo id , quod probare nituntur , quem errorem , &peccatum dicentium nos de nouo ſcire , non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas , altera est , quia eft adeo manifeftus , ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil , habita intelligentia primi textus huius primi , reliqua caufa quare: non eos redarguit est , quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem , dicens omnis doétrina , o diſciplina intellectiua a diſcurſiua , ex præexiftens ti fit cognitione , ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem , hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit , ideo eos non reprehendit Ariſtoteles , quia , quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum . Inquiunt enim arguentes , noftis neomnem dualitatem effe parem necne ? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem , quam non exiſtimabant eſſe , quare neque parem , en dicebant iſti arguentes , ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par , otas hoc , ideſt paritatem de hac dualitate , qua manu abſcondebatur neſciebatis , quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud , autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis , in particulari hanc determinatam , & particularem dualitatem eſſe parem , ecce quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis , quod prius dubium apud uos erat . isti ſic arguentes peccant contra primum textum , utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire , putabant autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam . Quia tamen cum Ariſtotele in intentione , quod de nouo fcimus, & quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft , ut predocui, de intelle &tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos ,tam quàm non concludentes propoſitum , quodfatebantur , & diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes argumentum ,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de nouo addiſcere , uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem , neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem ,ſed dixeruut dualitatem , quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id , quod manu tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem ,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted ,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire , quam quidem dualitatem eſſe nouerant , uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant , nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant I N P R I MVM LIB. 3 idem uno modo , ut in uniuerſali de illa dualitate ,quòd effet par , u idem ut quod effet par ignorarent in particulari , atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent , & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit , ſed fimpliciter acceperunt ; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c . Similiter reſponderunt illi , quod ſciebant omnem dualitatem efle parem . Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat , aut nulla propoſitio accipitur talis , quòd quem tu . noſti eſſe numerum dualem , nofti ne eſſe parem ? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum , quòd habeat tres æquales duobis reétis ? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit ,autnon ?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam arguentes ; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id , quod potentia ſciebamus epylogando dicit , Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit aliquis ſic in particula ri , ante ſciuiſſe in uniuerſali , & in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft ,fi nouit quodam modo, quod addiſcit , ſed ita eſſet abfurdum , ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum , in capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem , qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne ? annuat quod ſic , o ſi offeratur abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet neſciat a & u , quod dualitas ſit ,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam eſſe pres ftantiorem prima ?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium , fecunda uero interpre tatio noua est , o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam preclariſsimosphilofophos , quihæc uerba , &fimilia proa ferunt ex Macrologia loquuntur ,non ualentes intelligere nifi ea , que auctoritate proponuntur , fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. 33 ineruditus est , quiputet Platonicos , qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia , argumentari contra Peripateticos , niſi a Peripateticis prouocati ſint ? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur ? quo pa &to excitabuntur , nifi co argumenti modo , quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos , qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos , quie diametro cpinabantur contra ipfum ? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit , uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum , & erit ,fifecunde interpretationi be rebit , primafpreta, &neglecta omni ex parte . TE X T VS NON VS. ER A quidem oportet eſſe ,quoniam non eſt fcire quod non eft ,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro , coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy : ficis , quapropter , hoc loco declarabo eius fententiam , ut poſteafit omnibus in locis clara , primoſcire debes , quod uera eſſe oportet ea , quæ fciuntur , ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione , &non pro ueritate , quæ in prins cipijs est , a hoc probat indire & te , quia fi falfum ſciremus , utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte , tunc imparia æqualia paribus fierent , o e conuerſo , ut ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis , quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris , fed pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem .Diametrum igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus , quia impar pari æqualisnon eſt ,in qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum , qua ducitur ad hocincommodum , pofita iſta , quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur , quod numerus impar eſſet par , quod eftcontra primum principium ab Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum . In quare demonftranda fit diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum , quia illa communis , mene Б IN : P R I MVM LIB . b Cee ' . fo ... h............. g k.... ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81 . a . fura,fehabebit ad illas duas lineds , diametrumfilicet , &coſtam a bigo á c , ficut unitas ad unum atque ad alium numerum ,unitas enim ut duos numeros illos metitur , ſic illa communis menſura diametrum , o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte , quòd quoties continebitur in uno ats que altero numerorum unitas , toties illa communis menfura , quæ linea eft, continebitur in diametro , atque coſta , fint ergo numeri e @ f , qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc , alter eorum impar, quod fic probatur , fi enim uterque eorum effet par , non eſſent iammis nimi in fua proportione , ſi enim par uterqueſit ,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum ,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor , atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra aſſumptum , quia fuæ medietates effent minores , quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h , ſi ergo e eſſet impar , a f par , erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar , fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum , quia igitur a b ad a c , ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum , quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h , eſt itaque g duplus ad h , ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum , quia ita k , etiam dupluseft ad h per affumptum ,ſequitur per nonam quinti Elemen torum , ut g numerus impar ,ſit equalis K numero pari. Quod fi e fit par , f impar , erit proportio f ad dimidium e , quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIS T. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad , o ideo erit quadrati a c ad quadratum a d , ficut proportio numeri h , quieſt impar per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L , quifit m, cui K poa natur effe duplus , eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum , erit h duplus ad m . Cumque Kſit etiam duplus ad m , erit per nonam quinti, impar b , aequalis K nus mero pari , quod impoßibile à principio proponebatur demonftrandum C f . ........... go!" k ...... A Et ſi diceretur , quòd uterque eorum , quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar , ut quinque ad tria , ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b , eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum , ſit itaque K duplus ad h , eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum ,quia igis . tur a bad a c , ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c , ut g ad h , eſt . itaque g duplus ad h , fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum , & quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur , per nonam quinti elementorum , ut g numea rus impar ſit , æqualis k numero pari , quod est impoſsibile . Illatum , ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft ,quod impar par ſit , Ariſtoteles autem dicit , quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum , wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est . Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id , quod aſſumptum fuit , aduertendum , quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat , fed tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit ,nequeinquit, parallogizat Geometra , ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt aduertendum , ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua , quod illa formalis eſt conſequentit , quando ex oppoſito confequentis infertur antecedentis oppoſitum , mos do cum ex contradiétione poſita , ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem ,ſequutum fit quòd impar numerus fit par , exoppoſito igitur con ſequentis , ut per numerus eft æqualis impari , igitur diameter coms menſurabilis ex coſte , id autem fequitur ex falfo poſito , ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur , non eſſèt ex ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe , igitur manifeſta eſt contradi&tio ,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta commenſurabilis, eft igiturfalfum , igitur nonſcitur , quia uera effe oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem , quæ quidemeſt utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe, fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem , lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft, ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa deffinitio,poft quam intellecta ſit ,etiam poſitio ,cõmuni uoce diéta,et legatur textus fic paulatim ,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis interroget, an unitas fit, uel non fit ? annuat quòd ipſaunitas fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio, os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad unitatem , ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur , ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe numeri,esſuper illos , alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit ,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum ,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345 ſignü eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem ,unitatem fupponere, oipſam deffinire , quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem , quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur ,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus , etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis dignitatibus , que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur ,numerū imparé eſſe parë,quia ex poſitione,quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta ,atque poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum , quē 110 cainus demonſtrationein . Eft autem fic , eò quod ea ſunt,ex quibus eft fyllogiſmus,necef ſe eſt , non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII . ey xxIx. primiElementorum actu , non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda , omniaautem prima cognofceremus ,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que illius XIII. XXIX . primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio tamennosafficeret , fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod hoc fieri poßit ,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum , ut declarabo fuſius Tex . 108 . huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta , quam conclue fionis notitia ,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB. trigeſimeſecunde primi Elementorum , ſunt magis nota , oſcite ,quàng illa fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum quòd magis credere ,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft , à credere per demonſtrationem , & propter quid, fe ptima, atque octaua propoſitiones quinti Elementos rum , primo intuitu quando inſpiciuntur , facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ ,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus primointuitu , quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis , ideo Ariſtoteles ait, aut : quibuſdam , non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed & cete . Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui concluſionis notis tia ,niſi per notitiam principiorum ,quæ uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus , &principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet terminantia , ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa , aliena à nas tura exempli , quia exempla per magisfaciliadantur , ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea recta , de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft , utTriangulo ineſt linea , & : punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft , & quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu , uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum , uidetur enim quod tex. his contradicat que : determinat Ariſtoteles contra Platonem , uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum , primo de generatione, tertiometaphiſice ,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate , uerba aus tem illa , quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant , nec etiam linea triangulum , tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur , ftatim fequitur , utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles , quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū &tum , quod eft contra Ariftot.fententiam ,& contra Euclidis ſcitum . Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro , pro cuius indu &tione , ſit quadratum a b cd , cuius diameter a d , Cofta uero a c , in qua fuſcipiantur duo puncta e , f, immediata ſi poßibile ſit , ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e , of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte collocatam ,certü eft , quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus pun &tis , quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate , igitur ſi recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam ,quot pū &ta fue rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee , nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera 40 IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte , ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam & , ipſih , ſi l , fit immedias tum ipſi m , patet propoſitum ,fi au tem interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur paralles lus K, o , ipſif , 8 , uel ipſie , he tunc ipſa cadet inter gb , ut in pun Eto, o , igitur g h , non erant imme diata ,quod eſt contraaſſumptum ,uel extra utrumqueg ,oh, uerſus b , ueld, & tunc k o , neutri linearū f8 , web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem , patet igitur quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non componatur ex pun ftis , fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum , fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor , ocirculus bc, maior ,ficira cunferentia maioris componatur ex punétis ,duo immediata puneta fi gnentur b @c , &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur circunferentiam in uno ,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in minori circulo , ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex partibus æqualibus numero , ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee a , b , 4 , C , ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto , fit ille d, ſu = per illam a c , erigatur linea recta perpendicularis per xi .primi Elea mentorum ſecansſilicet eam in pun . &to d, quæ fit d e , que erit contina gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum , iftad, c.cum linea 4 b , ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 41 2 d IN Elementorum conftituit duos angulos rectos , aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos rectos ex conftru &tione , duo igitur anguli a de , obde , funt æquales duobus angulis a de , cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis , dempto igis tur communiangulo a d'e , reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit æqualis angulo c d é , &pars toti , quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret aduerfarius , quod db , odc , non includunt ali = b . quem angulum ; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c , quod est oppoſitum po ſiti, quia b c , poſita ſunt ima mediata , quando igitur diceretur , quod angulus c de , estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat , e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na , negandoangulum , ubi duæ rectæ line : bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe , o fit contra deffinitionem anguli , deffinitione ſexta primi Elementorum , negando etiam à b inc poffe duci lineam , neget primum petitum primi Elementorum , tamen quia aduerſarius non putaret iſta inconuenientia , quia ſequuntur ad id , quod ipſe dicit , ideo contra reſponſionem aliter ar. guo , angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de , o ſiproteruias quòd non addat angulum , & puns Etus per te , eſt pars , igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam , igitur c d e eſt totum adb d e . Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e , quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua , tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde , o eſt aliquid anguli c de , igitur c d e maior est b de, a probatum fuit , quòd æqualis , igi tur aperta contradi&tio , fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat lineam includentem ,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB . guli c d e , addit , igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum b de , patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad inſtantias , quod linea non componatur ex punétis , neque recta ; neque circulari , ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue , o non compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe , oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe , vel etiam dicas, quod punétus,in deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata . TEX. X X. ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum . Verbum il lud rotundum legit Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic ut pro uerbo rotundum ,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est proprium ,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens :In primis enim lineæ illi , que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent , concauum ſilicet,&conuexum . Rotondum uero proprie corpori conuenit , non lineæ , ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico , &quodſit iſta mens Ariſtotelis , utfic legatur manife ftum eſt , per ea, quæ textu decimo ait , non enim , contingunt non ineſſc aut fimpliciter , aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum ,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar numero . Par quidem ille eft , qui ab impari unitate differt cremento uel diminue tione , ut quinque à quattuor , uel à fex unitate , Vel par eſt , qui biffariam ſecatur , impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus . POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico , quòd cum fit de omni , & per ſe eſt, & ſecundum quod ipfum eſt . Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id , quodper ſe eſt inſit abſque eo , quod fecundum , quod ipſum eſt , 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales duobus reétis ,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum , quia fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina ( qua etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus reftis non tamen ſecundum quod ipſum . Alio autem modo per fe ,id dicitur alicui conuenire , quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum , ita quod, id quod non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe , niſi quodam modo, fic quod perſe non immedia = te , oſecundum quod ipſum , diſtinguntur tanquam magis &minus uni uerfale per fe autem immediate , &ſecundum quod ipſum , hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem , Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum , Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les , quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis . Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit , quòd per ſe immediate , ſecundum quod ipſum , idem fint , neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum , “ſecundum quod ip fum , hec duo uere diſtinguuntur , ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat . HET luben 10a TE X. X X VI . ALIAS XI I. ## ling PORTET autem non latere , quoniam fæpe numero contingit errare , & non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere ſuperius,peti fingulare , aut Fij 44 ? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes , ſiue Greci, Latini , uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum , &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele , quòd litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt . Circa Ariſtotelis litteram , an tequim ad eius interpretationem accedam , falſit as loannis , oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum , loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione , ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit , neque uox quidem , utputa nomen aliquod fictitium ,& acceptum ,cui tamen in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit ,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod , ita ut nulla ſit res , neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens . ipſe autem loannes explicat Ariſtot . litteram cirs ca illud , cui eſt accipere fuperius , &circa illud , cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra ,' Sol, øMundus , &triangulus , horum omnium ex tant nomina , ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua indiuis dua , nempe ad hancterram , ad hunc Solem , ad hunc mundum , ad -Scalenonen , perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de eo , cui ſit accipere fuperius , cui nomer impofitum eſt , Textus autem Ariſtotelis dicat , cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat Cees loo .fequentes ipfum , circa litteram e doctrinam Ari stetelis ,textusfic habet . Si quid eft ,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus . Ioannes inquit , non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente , prebet exempla deexiſtentibus , contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus petie rebus , contra Ariſtotelis textum , ait enim Ariſtoteles . Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus , exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur , eft in pluribus fpetiebus differentibus , ut in Iſopleuro Iſoſcele , Scaler.one , o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes , quod nedum nomen habet , fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. 45 par A @ etiam in pluribus generibusdifferentibus eft , neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque Gorcie inficias , obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis . TEXTVS VIGESIMVS OCTAVVS. VT contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te , ineft quidem demonſtratio , & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi uni uerfalis demonftratio , dico autem huius primi , ſecundum quod huius demonſtra tionem , cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine , pleni nominis bus, quos in interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit , cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi circa univerſale dixit, loan nes ( eg peius cæteri) circa finem comenti huius textus fic ait ,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi cum exemplis , ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare exemplum , ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale , tria exempla , ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum ; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio , modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis , ſe cundus errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam demonftrationem , feu arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio , errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum , non intelligentes. 3 I N P R I M VM LIB. · Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus , fit hæc noftra prima ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat , dicas eam eſſe ſecundam ,uel etiam millefimam . Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis , tanquam de ſubiecto , concluditur hec paßio , nempe quod non intercidant; uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc , tanquam per medium , quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor angulis rectis , ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium , quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c . d les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes , iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt , &adhuc per iftud medium , ut fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas , fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis ,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü ,eſſe uniuerſalem ,erraret primo errore circa uniuerfale ,quia nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos , et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium ,ul tra quodfit falfitate plenum , eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum ? ut puta in his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1 . per quas cadit , caufat uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. 47 ternis angulis intelligenda eſt illa equalitas , ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum , hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca , uel dicas analo gam , ad equalitatem retorum , acu torum , obtuforum angulorum , @etiam dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta ( utputa) eſt unus atq; alter angulorum , reliqua natura eſt reſpectiua et ad aliquid , ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt , ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum , igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia , igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus , ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit , fingularia media peti mus, ſimile habes huic per XXVII ( XXVIII primi Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum . Itidem fimile per quintam , fextam , a ſeptimum fextiElementorum ,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia , o non per unum uniuerſale medium , triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ ,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio , immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem , quam Ioannes grammaticus , neque nouus aliquis , ſiue antiquus etiam interpres, non percepit , hoctextu affert Ariſtoteles les cundum errandi modum , à primo modo errandi longe dißimilem , atque diuerfum , in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur 48. IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen . ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe= ; cies , ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum , quiail Leſpecies non ſunt, ut folis , terre , mundi natura , eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre , quia plures ſpecies terre nonſunt , fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis , quia no eft aliud primum cælum ,erraret quia non de hoc cælo , primofitdemöſtra tio , fed de natura coeli , ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum , ſeu de cælo , fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis , fole cans didiorum reddit ; inquit enim in exemplo fecundo , quod quidem fecundo errandi modo correſpondet , oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles , ſecundum quod Iſoſceles eſt . Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles , &tunc error ſecundo mos : do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam . In primis eft aduerten dum , quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum , fo pleurum , iſoſcelem oScalenonen , quod ſi tamen per imaginationem ponamns , quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen , per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum , tantum haberet ſpeciem unā, ut iſoſcelem , eſſet tunctriangulu : innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur , ut fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus , iam illæ ſpecies duæ triangu . lorum effent , quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat . propoſitum . His ſuppoſitis , ſiquis de foſcele concluderet ; quòd tres haberet æquales duobus reétis ,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio, quia nullus eft alius triangulus , quam foſceles, crraretſes. cundo errandi modo , quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe , nempe triangulum , de quo primo concluditur talis affectio, & talis era , ror multa diuerſa à prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium , & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis . Aliud , ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum , In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum , ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein ? POSTERIORVMARIST. 49 DS autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum , uideli cet in Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum , Hic aue tem nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando , non temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum , fimili modo ergo ijtud uerbum , Nunc,haud ,inquit,temporaliter audiendum eſt , quin po tius , exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam , Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie , et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia , uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum , ueftem , o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem ; ne fintpoſt hac , fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs . Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt , quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio , et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur , loco de ly nunc , non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera , queunaſola eft, quă inferius fübi ciam , et nulla alia ab ifta uers effe poteft , ad Arijtotelem redeundo , textum expono . Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum , eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem ; Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio ,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam , ex Ariſtotele igitur habetur , quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero , quod tantum in quana titate proprie reperitur proportio , quæ quidem eſtæqualitatis , in equalitatis ; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem ,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius , terminus autē minor , et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito , quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem , fiue etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur . Quibus pras intelectis o declaratis , uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia ,aliena docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft ,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale , Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem , que tamen erat in par te demonstratio ,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum demonftratum , eft aliquando , uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem ,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum , eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius accipitur , nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem , quod hic conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue illa diſcreta , ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki , feuetiam permanensſit , ut numeri ſunt,lines , folida, tempora , &alia huiufmodiſpecie differentia , feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et perſe attribuitur, ut ipſi quan titati , quatenus tale . Nunc dico , nedum in eo Ariſtoteleo quidem tempo të , & à philofophis reéte fapientibus , ſed etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando , arguendo permutatim in numeris ſeorſun , in lineis feorfum , cæteris feorfum , nunc au = tem non contingit iſte error his , qui ſequuntur Euclidis ſcitum , quia nunc, ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur , hoc eſtmo:. dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit , quægenuseft ergo üniverſale adomnia quanta , hæc autem eſt mea interpretatio , uera og germanaipſi Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime declarat propoſitum . Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian ĝulum demonſtrationeaut una , aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque Iſopleurus feorfum & Scalenon ,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum , quòd duos rectos habet , niſi ſophiſtico inodo ,rieque uniuerfaliter triangu huum ,ne quidem fi nullus eſt , pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum ,ſed quatenus ſecundum numerum , ſecun dum autem fpeciem no omnem , & fi nullus eſt , quem non nouit . Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum , quod in hoc exemplo Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo , com ple &ti duos errandi modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM : LIB . do, atque tertio, cum primum defingulo modo , fecundo &tertio , fe. paratim exempla aptißima e peculiaria pofuit , ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur ; inquit enim, demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non poteft , ut deIſopleuro folcele, C Scalenone , concludatur quod tres equales duobus reftis habeat , uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur , quod tres habeat æquales duobusree Atis , ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera ; ac fi dices ret pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio , nullo modo intelligi potest , quòd fyllogiſtica ſit , quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de uniuerfalitriangulo , quod haberettres equales duo bus reftis ,ſic fyllogizando , omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis , ſed Iſoſceles , uel Iſopleurus , uel Scalenon , eſt triangulus , igitur foſceles , uel Iſopleurus ,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto , fed uno tantum affumpto triangulo , non ne , ſcio de triangulo uniuerſaliter , in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis ? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triãgulo,niſiper accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi , quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur ,qui error non eſt , ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica , aut alte ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis , ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu ,& in hoc , exemplo, de errore , qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do , quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles est , igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per particularia , uel etiã altera,nempe Geoinetrica . Pro cuius ellucidatione , eft fciendun ; ultra ea , quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio , quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis , fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris ( non dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem , unis bycis uoraces , quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele , quòd habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum , aut altera numero , eadem ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat , ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus inducat , quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus, nonduin cognouit inquit , triangus lum quòd duobus reftis æquales habet , niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi , ne quidein fi nullus eft , preter, hec, triangulusalius , non enim quod triangulus eft huiufmodi cogno uit , nequeſi omnem triangulum , hoc habere contingut , utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum , ideft fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien , in uno uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem , id eſt ſe cundumnumerum trium triangulorum petieruin , ſeparatim ,quem non nouit. Erraret igitur duplici errore ille , qui putaret eße unia uerſale fubie&tum , & totum , id quod effet particulare fubieétum , parsfubieétiut , quia tunc acciperet in parte totum , id eft partem , to tum effe exiftimaret . Si autem triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie , ut in iſoſcele, tunc exemplum intelligatur , aptari feo cundo modo errandi tantum , non etiam tertio . Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa uniuerfale,quorum cuique proprium , &peculiare exemplum aptauit . Neque legas poſt hac lyaliquando , prominus exacte , nequely nunc,pro exacte ita ,ut neutrum ,tempusſignificet , fed utrunque temporaliterlegatur , neque 1 i 54 IN P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon , ut quidam , qui nullus homo est facit . Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit , aie quod quantitas , natura ipſa , qualitatem precedit , fic ut quantitas , fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine , oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij , ut eſt proportio, & modus arguendi , qui dicitur permu . tata proportio , funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus , qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem , de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit , quòd ſi ſubſtantijs quantitate prioribus , quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter reſponde , quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari improprie tamen , oper quandam attributionem fecrındariam , quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis , aut uirtutis in ſe ,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie , opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis , quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter , manifeftum eft utique. Quoniain , li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro , aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur , fi eadem deffinitio quæ trianguli est , cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris , aut unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim , aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens , ſi uero non idem , id est finon est eadem unica deffinitio , quæ bis omnibus æque primo conue ! niat , fed alterum , id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis claufa , fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa , iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus , una inequali claufa , gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa , ecce modo , quàm diuerſa ſint deffinitiones , fi ineſt igitur tres habere his omnibus , hoc quidem eft unicuique , fecundum quod eſt triangulus , uelfecundum quod eft figura tribus rectis claufa , o non POSTERIORVM ARIST. 55 , 加以 has pro eta quia illis lireis equalibus , uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft triangulus , aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto ,triangulo infunt duobus rectis pares , fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales , fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis , quo igiturprimo reinoto , cui priino conuenit ; remouetur , & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis pares , & ſecundum hoc igitur , id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio . Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum , in hac regula , quam prebet ad cognofcendum , quando erit uniuerfaliter demonſtratio , ego exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic ,utſeruans hanc regulam ,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī ,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe ,non conuenit fpeciebus triangulorum , niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli , ut Ifofcele remoto , non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis pares , quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio ,ut remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur , Quarto cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt , que termino uel terminis clauditur , remouetur og illa affectio ſed non primo , primo enim conuenit ipſi triangulo , triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio , habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis , eft uniuerſaliter . & eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII . ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft , ficut Arithmeticæ , & Geometriæ ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens ,niſi magnitudines numeri fint , fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens , niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati , o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta quantitas , ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem terminum , ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem ,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat oppoſito modo , fed eas tantum conhder atparticunt Latim , no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas ,non tamen in telligendo eas negatiue , non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id ,quod Euclides proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as ad e , quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum , Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte , manet idem , immo eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam , atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume ro in constructione , «æqua proportionalitate ad probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de magnitudinibus , hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum Magnitudines , numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter dimetiantur , diameter igitur quadrati , Oſuacostanunquam funt, neque dicentur quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala - tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuer faliter , quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis fenfum , inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo, non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror, ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis ,eum admiror quòd cum aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem , &quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin ,neque pueritia ,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe , niſi dixeris , quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu , quo multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo cupientes Aueroiſtas dici , ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam ,quòd non de ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo ,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam , po fterius dicetur. littera fic intelligi debet , magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam ,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille ,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico ,fed intelli gas uelim , ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos , Latinos, o noftri temporis expoſitoresAriſtotelis , non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices , quis modus iſte obfcuritatis eſt , per ignotißima declarda re ea , quæ aliquo modo ignota funt ? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa fophum , animaſticum , & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu ,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam ,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem , quomodo contingit , posterius dicetur , fic ut id ,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis declarandis , fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,utetur tanquam nota in philofo phia , ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx . libro Elementorū ut des claratum eft , & non ex philofophiæ locis , vt procedamus utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt , ad ea declaranda , quæ inlogicis traa & antur , ut uera methodo , à notis diſcuramus adignota , fed fi idem in theologos ſacrosobijcias , qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt , igitur ipficra rant,refpondeo , In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda . Ita ut ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem , ſunt quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum , non intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T.59 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum , qui modusmultas hærefes attulitfidelibus . Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis philoſophic , &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione fanétifpiritusmoliaturfua duricies , hoc quidem tertio modo non intelligit aliquis facras litteras , niſi inſtructus illis difciplinis , que precedunt ipfam reginam theologiam , valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium , nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini , &præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem . Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius dicetur , ut in libris philofophiæ , dixi tamen ego ex decimo Elementorum . Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur , fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina , ſed neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium , ſeu medium ad probadum , quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam , propofitionem ; extremorum autem nos mine ( ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones , utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit , Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint ?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt ,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum ,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft ,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum , quod eft di&tu , quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum ,ifta interpretatio opponitur littere Ariſtotelis ; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue , quo mododuo eubi non faciunt unum cubum ; reiciatur igitur ſuainterpretatio , & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur , quæ hoc in loco fatis conſiderata eft , atque docta ;Ratio enim quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur Geometra circa genus folidorum , ut circa ſuuinſubiectum , fed uerſatur tantun circa planorum genus , ut circa proprium ſubiectum , Stereometra autem habet demonſtrare , quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum , & in fragmentis logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione , eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata , opermepri ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis ,utdecet appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata , eſto ſiuis ut trium eſſet pedum , quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem , qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata ,atý; corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita ,fþreti igi tur propter hoc delij ab-Apoline , & graue peſte adhuc laborantes , ad Platoně confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios reliquit dicens eis , ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum eandem proportionem continuam . Et tunc ſcirent duplare Aram , formam habětem cubicam , In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus , duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij ,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum , fecunda uero lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data , primafit b c , quæ erat longitudo prime Are , e a b.longitudo tras bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb a b c o compleaturparallelogrammum bd ; per tertiam atque tri geſimamprimam primi Elementorum ;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur circulus a d.c, os produ catur linee b a ,b c , per fecundum poſtulatum primi Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f & , per lineam f g tranſeun b tem per punétum d , ita ut fe , æqualis fit lineæ e g , hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum . ( De quo, forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim , @primam animi conceptionem . f a f 6 f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte linee rette f b , feſecant circulum ad punéta a v d , quod igi tur fit ex bf in fa , per trigeſimamquintam tertij Elementorum ,æqua le eſt ei , quod fit ex ef, in fd , ac eadem ratione , &quodfit ex b & in c g æquale est, ei , quod fit ex dg ing e , aquale autem eft id quod fitex dg in g e , ei quodfit ex e f in f d , utraque enim utrij que equales funt , e f ſilicet ipſi d 8 , og f d , ipſi eg, igitur , ego quòd fit , ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c , eſt igitur , 62 IN PRIM VM .; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem decimequinteſexti Elementorum , ita g c ad f a ,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum , igitur per xi . quinti Elementorum g c ad f a ,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum , ut dc adc 8 , fic cg ad fa, quia utraqueeft ,ficutea , que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv. reliquaper quartam fexti ;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum , est autem dcdqualisipfi ab,04 d , ipſi b c per xxxiij. primiElementorum , igituraut ab ad cg ita f a ad ad , erat autem , out f bad bg, ideft ut a bad c g ,fic cg ad fa , igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia , o ipſa fid , ad b c , quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit ; uta bad b c , ita quifit ex 4 b cubus , ad cubum , qui ex g cega qui ex g c , ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa , ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum , igitur ut a b ad b © , ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c , fed a b dupla fumpta fuità principio , ipſius b.c, eft igia tur cubus , qui exfa, duplus ad cu bum , qui ex b c , quod demon - g strandum errat . Berlin . g c.8 F G f 6 f 6 6 a . 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d . o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. 63 Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ , ut lunæ deffectus , Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur , circa particulas in textu poſitas , unde eft , quòdfæpefiat demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper , nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit , uidelicet Solis Lune , quia ille , qui eam mouerit , neque in die , neque nocte uidet , quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam , ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat ,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem ,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum . Videas , ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis , quia quandofit,tunc orientalibus quar ta hora , occidentalibus autem hora tertia , magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid ſepefit , ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia , in dialogis &fabelis , quas apud ignem raulieres habentreponenda magis , quàm àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft , uel etiam à quouis audienda . Litteraſic ordinetur , eorum demonſtrationes & fcientia ſunt , eorum dico , que fæpefiunt . Dico igitur lunc deffe tusſæpe , atque ſemper fieri in plenie lunio , quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam , quod quidemnon in omni plenilunio contingit , fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit , quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor, &ille est , quem ſuperius dixi hae , bere grauitatem maioren , quàm pondus , redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam , explicans deffinitionem lineæ rectæ , que eft , à pun Ao in punctum breuißimaextenſio , aut cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft , cuius medium non reſultat ab extremis , ſic explis 64 IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam , ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur , linea recta eft , cuius medium non obumbrat extrema , neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ , Contrda ria illi à Platone datæ , cum hæc in Geometria , illa uero Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus Grecarum litterarum eſſem , ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione , fed apparentia tantum , Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam le&tionem Latinam vidiffe , qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius medium non obumbrat, cum Græcus textus , affira matiue legatur fic cuius medium obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam , oad propoſitum à quo uidebar digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit Luna defectus , de qua Luna menſtruata habetur ſcientia , per medium illud , quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter , que cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune , hoc non tangit Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper , non determinant ly demon ſtrationes, olyſcientia ,fed determinantlydeffe &tusLune ; illis igia tur cauſis contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille phantaſticus , ſecunda uel tertia hora noétis . TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno. quoque principiorum , fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, & inmediatis , eſt enim ficmon , ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum ,per commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi , quod & alí ineſt, unde & alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli fenferint , dicam quid fenferim ego , habita prius notia littere, &cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus , immediatis, fiat demonſtratio , non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 656 tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt , quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam , quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus , igitur datur æquale , quidamſciolus laborat , ut hæc principia uniuerfalia ,propria fiant ipſiGeometric ,dicens,daturquadra tum maius circulo , datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo , et gloriaturinnani , & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam , fed et demonftrationem eam effe affirmauit ; fcito enim , quòd os folidis, e linels , o numeris coaptatur iſta dedu &tio , ut datur numerus maior denario eminor denario , igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis , dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad oſtendendum intenti , quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia principia ,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia ,ut ex his quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper trigeſima ciufdem ,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co , quod egit contra regulam de proprijs principijs ,quicquid de confequentia fitprætermittens tanquam non res Marguendum , ut oppoſitum ſuedat& regul« . De quadratura, errore Brifonis , Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum , ratio , ut ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter circa planum , & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum , ait enim geometrice in mechanicas , pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I 66 IN PRIMVM.LIB . metric probantur quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies , ille geometricæ demonſtrationes attribuuntur , ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit , o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima , & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem , eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum , & quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem ,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum numerum , ficut quilibet tertius adaliquem quar tum ,concluditur q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum , ſicutfc cãdus numerus ad quartum ,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum ,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis continentibus,Iſopleurum , uel ifo feelem , uel Scalenonem ,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta , quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum , ubi de dato Trigono concluditur . habeat tres angulos duabus re&tis paresnon tantum , quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe , vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe ,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles , uerbum hoc , magnitudinem , intelligendum eſt, rectam lineam ,ut decima primi elementorī ,et triãgulum ,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum ,quem triangulum ,et reetū, explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas , quid rectiem , Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus dinem , hoc loco aduertendum est Ariſtotelem , ſeiunctam poſuiſſe unita tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico uerbo hoc , magnitudinem , propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. 67 effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis , de. qua quidem unitate alia affe&tio concluditur , quàm de unitate linee , de qua loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet exlittera , quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum , ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ , alia uero cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo (quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem , ut lincã elſe huiufinodi. &rectum , De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt ifta , utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate ,hacde caufa dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum , vt puta recta linea est , que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum , Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur : non de incomplexis utde linea tantă , ca de recto tantum ſed , dehoc cöplexo linea est longitudo illa tabilis ; ¢ linea recta eſt ,quæ ex æquali ſua interiacet ſigna ,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea recta exempla explicăs , Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes Arifto, non intelligentes hunc locum ; naturam Geometrie ſcien tie perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam . Pro cuiusdifficultatis nodo extricando , aduertendum quod princi pium iftud,de quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione ponitur , nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto ,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina , que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti ,fed pro altera tantū parte , Sinile de hoc ( & alijs huiufmodi) principio, fi ab .equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B . Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ ,uel fuperficies ,aut anguli funtæquales ,quão primum autem principium hoc contrahitur , non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt . - iſtud effe commune, inquit enim ,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur , quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius , ftatim enin fequeretur contradi&tio , quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens ;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de principijs loquens ,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum , a quod Euclides affixit illud principium primo libro , dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione , femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur , aliter. errarent , Euclides autem primo libro affixit , quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet , statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta , datur quadras tum maius circulo , datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo , refpondeo , quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter arguendum , primo quia Brie so per principia comunia , iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft , hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est , de crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis . Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum , Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit , quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet , &lia neæ recte , •fubiunxerit , que nam ſint communia principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint remanentia , ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens , ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum , quantum in genere est , fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent , non quidemſi de omnibus accipiat , non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione utatur , fed demon , ſtrabit quidem , inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus folum , id eſt contracte o determinatim ,eo ufus fuerit .Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus , angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra , og Arithmetico &unicuique artifici in fua arte , ac fi peculiari epros prißimo uteretur , non procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id , quia per cominunia procedit Geometria , ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria , ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur . Sunt autem propria quidem & quæ acci piuntureſſe , circa quæ , fcientia fpeculatur , quæ ſunt per le , ut Arithmetica unitates , Geometria autem figna & lineas. Euclides in Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam incluſiue accipit unitates , ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda wtrigeſima prima primi Elementorum , lie neas uero in primt, ſecunda,& tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum . Hæc enim accipiunt eſſe, & hoc eſſe , idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato precognoſcatur utrunque &quid &quia est , accipiunt eſſe,id est deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe ,nempeactueſſe , uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt , quod eſſe potentia ,uel effe aptitudinedicunt . Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni 70 IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt , ut Arithmetica quidem quid par , Sicut uigefimaquinta noni Elementorum , aut impar , ut trige fimanoni Elementorum , Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum , &quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem , a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum , aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen . aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis . Animaduerſione dignum est hoc , quod Geometra nunquàm hanc affectionem , ut irregularitatem deunica lineafola con = fiderat , neque etiam de una tantum linea id concludit , quicquid Cama panus ſentiat , fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram , ut est diameter wcofta quadrati . Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft , quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne , uel etiam exterins, in unopuncto tantum , quia inflexa non fecat nequere & amlineam , nes que etiam circulum , quorum utrumlibetfaceret linea recta , eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum applicata . Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter . De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe , de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia , idef per uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas , ſicut etiam aſtronomus facit , utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun . TEX . XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere ,'ut genus non ſupponere effe , & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur , & frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST . 70 $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido , quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu , quandoeft notum quia est dati , deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato , an fit ? Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum , de eo enim eft necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod numerusaétu est mente con: ceptus , ac fiexifteret aétu , uel aptitudinem ad exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc , quod numerus neque nataraneque fenfu aetud liter percipiturquòd fit , fed tantun intelleétu dignofcitur , @ hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione facit exceptionem dicent , & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi fint manifeltæ , ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem ſignificet . Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud nomen , quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula ,qua dixit fecundo textu , alia nana que quia funt prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est ,aut affir mareaut negare uerum eſt , quia eſt , o textu xlvi.aliud prebet exem plum , utæqualiaab æqualibus fiauferas , quòd æqualia reliqua ſunt , de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft . Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint , quaſi natura dico, utputa quia notis ter minis ipſarum dignitatum , statim notum est, quia est ipſarum dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non est,fa tis ,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam , ueram ,ut quòd circulus fit figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit , igitur ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est ,non ſecludit ipfum quid est , ut exponit loan .Gram . Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia ,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait ,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi : Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi Elementorum , quodnon queratur , quia eft , quando est notum ,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum ,inquit enim ,inuenien tes autem , quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit ,nó queremus utruin , cum autem fcimus ipſum quia ,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes , quòd non oportet falſo uti , Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft , autrectam lincam , non ree &tam cxiſtentem , ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum collocare , etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam , eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea , que atramento pingitur , uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft, Geometram errare , quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis fubijcitur , fed ad id potius , quod intus animo concipit , dirigit intentionem , ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam , quam ftilo pinxerat , fed fecundum intus conceptam lie neam , demonſtrationem percurrit ,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam , ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria , In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus , & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales , hic interrogans habet ignorantiam fecundum nega. tionem , quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo , quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur , ſcit etiam , quisnam ſit duarum linearum concurſus , &quatenus iſta nouit et interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non eft Geometrica quæſtio , et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum habitum, quo fcit lineas rectas , ceas in infinitum pro trahi polle, et concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu , ſtat hec ignorantia , ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus, quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum , qui præter uoces re ipfa nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti, interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate ,ut medietas toni ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni , hoc eſt ſemitonium uerum adinueniſſe, ignorans pauper , quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem eft , que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam @decimamnonam ſeptimi Elemětorum , erat igitur non Armonica quæa ftio, qua quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet ? Verus autem Geo . metra ille eft , qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem , neque fecundum priuationem , «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat , circa uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K 74 IN PRIM VM LIB .. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia , ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit . Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit ,ſed aduertendum eſt in materia parallogiſmi , quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia , quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi auctoritate, qui Proclus , ſi ita fenferit , ut ioana nes refert, perperam hunc locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit , non autem ait, quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit , id cito creſcit ſicut ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic , 1,2,4, 8 , 16, 32, 64, 128, 256 , $ 12 , 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis Cenei dico ex doctrina Eucli dis deffinitione undecima quinti Elementorum , &ex deffinitione primi Geometrie uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus ,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata Analogia , ſed ignis augetur in multiplicata Analogia , igitur ignis cito creſcit ,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur , igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST . 75 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI , C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis , quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens . Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt , quodomnis triangulus duos bus rectis paret habeat , id autem probat prima pars trigefimaſecunde ,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum , quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem , quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum , ab illis principijs ad illam illatam conclufionem , reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo , quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs , tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis , ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB . @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re , abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum . TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX . & fit par eſt ers VGENT VR autein , non per media , ſed in aſſamendo, ut a de b , hoc autem de c , rurfus hoc de d, & hoc in infinitum . Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus , uel infinitus ,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus , de b numero impari, et b ,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam ,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū ,qui etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta ; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet ,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus , quia quicunque daretur , aut par effet , aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad dialecticuin , ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem , atque pa rem , &imparis numeri diuiſio est , in primum numerum ,ocompofi tum , prinus autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque numerum ,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3 , 5, 85" 7, 13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e ,oo ab unitate diuerſo , dimetitur, ut 9, aut 25 , à ternario , & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem , atque imparem , et par quidem numerus ille eſt ,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem , qui in duo æqualia fecantur , partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 77 1 ad unitatem uentum ſit , ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem ,ut quatuordecim . In impariter partem , qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia , fed hæc partitio , uſque ad unitatem non peruenit , ut trigintaſex , de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin , Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum , numerus infinitus fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b , numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra , eft ergo a ded , &etiam de e k lo In latus autem dixit ,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5, Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111 : 11CTUS -is 14 impar primus 13 50 ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis . 16 14 pariterper impariterpar pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt contractius , quàm prius propofuerit per litteras ,ideo ne labores in numeris tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo . 6 8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus , non enim accipitur prima cau fa , quæ uero fcicntia proprer quid , per pri mam caufam eft . Hoc quidem primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus , quicquid Aueroes , Philopou nus , fequaces fentiant , fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro quia , de ſintillatione planetarum , de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum ,pro fecundomodo quia ,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit , quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia ,duo exempla prebetin diuers ſis ſcientijs , utrunque exemplum est in ſcientijs medijs , alterum est in optica , reliquum est in Aſtronomia , &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum . Primo declaro prie, mum modum , quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum dat exemplum ,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet , uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū , fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia ; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat , eo quòd pulmonem habet , eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat ,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum ,Olegatur ratiotinatio , Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij . primi Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum , & non per immes diata principia , fic ut fenfus fit , quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. 79 zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes : FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur , ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum primi Elea mentorum ,que quæfita per immediata principia demonſtrantur , facta prius deſcriptione , ut conuenit , neque dicendum est , ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid ,quando perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco , non imme diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam , quæ per prima probare poſſunt , cum demonftratio fiant ex primis , & im mediatis, oppungat,ut immediatafint , o non fint primaabſolute . Et in Geometria etiam alio modo quia eſt , differt à propter quit , ut quando ab effeétu ad caufam progreffus fit , neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur equalitas laterum ,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur , utputa quando ab equalitate laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium , ut prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit . Atio autemmodo per immediata quidem non auteng percauſam , ſed per notius eorum que conuertuntur , ut lucidum non ſcintillare,o prope eſſe , fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz. cida , ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft , non ſcintillare , quàm prope effe , &notius eſt creſcere per increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum , & primum eft per fenfum per induétionem in fingulisplanetis notummagis , non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed econtrario.Secundum etiam , ut quod incremento creſcere,non eſt caufa rotunditatis , licetfit notumfolummo do per ſenſum , non autem per inductionem à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento creſcente certi fumus , *cum per ipfa, fiunt inductiones , quòd planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio , ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem , non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora , fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex immediatis . Amplius quare planetæ , haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio , quæ etiam faciet fatis huic textui , eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal , het, pw atur non ros illa IN PRIM VM L I B. tillationem prouenire , quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum , ut Thimeo &Empedocli placituin erat , quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus , niſi exemplo loquatur famoſo . Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur , ubi querit Ariftote les unde eſt , quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX . MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft , non enim dicitur caufa , ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał . Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt , nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert , neque est,quando ex effectu caufa infertur , fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio , feu etiam econuerfo , ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo , quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte , igitur parallele non funt ; oeſt hic modus tertius , quo quia à propterquid differt in eadem ſcientia , dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les ,nifi fuper ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum , fi id quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur ,onera qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit , etiam ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote , quia ana gulus fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus POSTERIORVM ARIST. 81 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala quam rota ,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas ,quibus utuntur lapi cide in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat , ut Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat , fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio , ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in duo equalia , ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam . Apparentia , ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent , ait in Georgicis loquens de occafu hellaco , Candi dus auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret , cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace ,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus , quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore , non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri , attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum , non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam , quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit ; hi ſunt igitur modi quatuor , quibuspropter quid , à quia differt , tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media ,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur , in quo quarto modo , funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB . -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid ,quòd uniuerfalium ejt , per caufas habetur,ait ,propter quid autem mathemde ticorum , hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes , fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius ,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium ,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens, Mathem matice enim , nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt , dubita . tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa ſpeciesſit , quo nam puto , in quia , & quo modo in propter quid fpecies intelligatur. Dico , quod quia ſenſibilium eſt , ut ait Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt , fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie , linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in ſubiecto funt ,ſed preciſius abſtractione , ea conſides rat , fi talia nufquam , ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam , ficut hæc ad Geome triam , & alia ad iftam , ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac , precedenti particula facilior ,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula , e hac preſenti, litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt , fæpe encruat ; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli interpretatio , ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. 83 terno quodã ordine pofitæ funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia &huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua, quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria , per ea quæ in perſpectiua funt notamanifeſtantur , qu : autê in pera fpectiua , per ea quæin Geometrianoșa, fuerunt , ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus Iridibus appareant ; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo , per fcientias ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum , ſcienriarun fe has bent fic , ut medicina ad Geometriam , q eniin uulnera , cir cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ . Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus ,qu& namfcientiæ effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut aſtrologia ' et mathematicaet na ualis , o harinonica quae mathematica , oque fecundum auditum , in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt , id quod circa planum uerfatur , medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le ,id , eft, quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce , neque fubalternatæ ,ut in chierurgia ,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum , difficultate fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid , primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter diftat cas * o , ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo , differt ipſum propter quid ab ipfo quia , quodelt , peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari , Huiuſmodi au Matem funt , quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem . Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid , perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum . Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem , quamſi idein oculus fiat in b , quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b , quam ab eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc , quod di cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo , quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes , quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis . Ego autem econtrario dico , totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait , quod perſpectiuus oftendit maius uideri id , quod de prope eft , demonftratione quia , o Geometra , idein propter quid , demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum , qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur , fed demonſtratione quia , ut demonftratio quia diſtinguitur , a propter quid primo modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio , quæ per mediata a probatas propoſitiones procedit , eft demonftratio quia , diftinguiturab illa ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata principia ,quæ demonftratio propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu ,determinatur quòd demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt , quia , hoc autem exemplo perſpectis uo dicit , quod eft propter quid , contradictio igitur manifeſta uidetur . Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto ,dicentis . Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid , unde aduertendum , quod demonftratio , quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum ,que per uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc . POSTERIORVM ARIST. es mentorum , quæ per immediataprincipia procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone ftrationein , tunc propter quid dicetur , quia perſpectiuus pier eam pros bat intentum , u ſictricic apparentis argumenti explicite funt ,fc cundum philofophiſcitum . TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IG V R A R v M autem faciens ſcire maxime pri ma eſt , etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes ferunt, ut Arith metica , & Geometria , & perſpectiua, & fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem ,aut enim omnino ,aut licut frequentius , & in plurimisper hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica , que tanquam fictitium quoddam , uanißimum , &nullo Greco & Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles , etenim Mathematicæ ſcientiarum , per banc primam figuram demonſtrationes ferunt , non igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam inductionē , utibifuit des terminatum . Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea profert& fcri bit ; quæ nonfunt notæ earum , quæin anima paßionumſunt, cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant , fed potius tanquam ficcamcucurbitain , in qua nonniſi uentus reperitur , quia tamen nonfo lummodo fapientuin habenda eft ratio , stultis etians atque infipientibus pariter reſpondendum effearbitror , ne in fua ignorantia glorientur ua ne . In hoc textu Ariſtoteles nil aliud determinat , niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda & tertis figuræ ,&quód Mathematica hac fepe utuntur , &hoc quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex . dicens , oin plurimis per hancfiguram , que eſt propter quidfyllogif mus fit , modo quid refert , ſi Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum , quo modofyllogiſmo utitur Geomes tra , &quomodo inductione Geometrica ?fimodo quis ex hoc textu uca lit inferre , quod illa indu&tio Geometrica non detur , ipfe faciet mendas cem Ariftotelem , dicentem in tertio textu , quòd nedum fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB. , oinduétione , ſcitur quòd triangulus in femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis . TEX . LXXXVII . ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his , quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum ſeipſa rebus , ſecundum feipſa uero , dupliciter , quæcunque enim in illis infunt in co quòd quid eft , & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis , ut in numero, impar, quod ncit quidem numero , eft autem ipfe numerus in ratione ipfius , & iteruụn multitudo ,aut diuiſibile in ratione nua meri , horum autem neutrum contingit infinita eſſe ,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum bipartitur , ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione , ut numerus est multitudo ex unitatibus aggreguta , ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est : impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū , neq; etiä numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit , ut fi quippiam , nume rus eſt , id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur ,oſi quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet , ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis , ſit circa diuiſionem , fecundum exemplum de deffinitios ne , quia tamen addit , aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur , quatenus nu merus eſt , fed in deffinitione numeri paris ; recteponitur , ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft , qui in duo æqualia poteſt diuidi , & quicquid in duo equa lia diuiditur , id numerus effe patet , fiueboc de numero , quo numerisa mus , feude numero numerato, hoc intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam , in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem ; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica , definitio estſecunda fe-. POSTERIORVM ARIST. 87 ptimi Elementorum , deffinitio autem paris ; patet ex prima definitione noni Elementorum . Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem , impar in primum , compoſia tum , compoſitum in quadratun , o non quadratum , igitur quadratus compoſitus impar numerus eft , onumerus , eſt impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus , er prinus , impar numerus eft , ſicuti status eſt innumero ,ut tandem ſit ultima particulaque à par te fubieéti ponatur , ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis , que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum ,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís , de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes , neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac 38 در ۴ را mi TEX . LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his , &e . Non te prea terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni , neutri tamen per alte, rumconuenit ,fed utriqueperhoc , quodfigurarea Eilinea trilatera eft , idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum .. other VA 16 . TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt principium fimplex , hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia , in melodia ,alle tem diefis , aliud autein in alio , fic eft in fyllogitno unum , propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum , ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij . Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas , aſſem uoc4 = werunt , undecim earum dixerunt deuncem , decem dextantem , nchem IN PRIM V M. LIB : dodrantem , o &to beſſem , feptem ſeptuncem , fex uero partes femiffen , quinque quincuncem , quatuor trientem , tres quadrantem , duas ſexa tantem , unam autem appellauerunt unciam , quam unciam in minorafra gmenta nonfecat philoſophus , quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio ,ex quo,fumiturfimile, quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit , id autem eſt, quod qui Logicam ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille ,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei , ut in adagio dicitur, operam fimul ooleum perdet , quid per dieſim intelligat , notum erit fitonum ſimpli cem , interuallum integrum , nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes eſe impoßibile quis prius perceperit , ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft , duas tamen in partes inæquales diuidi , quarum altera maior eft , quæ apothomen , ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur , oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur , quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis , ut Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ ,capite xxi. placet ,idprincipium toni eft , quid minimum . Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores , ſuper eam notam , ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij , ſed id cantoribus relinquatur , prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat , quia dieſis in illa acceptione , eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id , quodminimum eſt in concinentia conſideratum , ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica , o boc intelligas de minutijs integri , non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite octauo agit ,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus unumquodque , ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum aliud,utmuficun Coriſcum ,quá do Coriſcus muſicus eſt , quàm quod homo muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior . Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod manu cytheram pulfat , fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice , cromatice,atque enarmonice ratum , atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat, atque imperat, qua re intellectu ,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur , quod eft , an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem , negando quodCoriſcusſit muficus per fe , fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt proportionale ,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum , neque planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu , magis aperit dicens , proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid , quod quidem eſtipſum quantum , quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis , neque illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam difficulta tem . TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio eadem , & non fecundum æquiuocationem , conuenit triangulo & Iſoſceli , & ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles , led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem eſſe , o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par . ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de triangulo primo , deinde de iſopleuro , ſoſcele, oScalenone non primo , fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum , uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum , quod etiam non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt , quia o nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur , utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur , non tamen per ipfam ratios nem , cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda , eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum , quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de ratione uniuoca ,Di cendum , quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum ,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima , & ob idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem ,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. 91 ineſſeſubie o uniuerſali , &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem , quòd de uniuerſali , immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior est , ut fi per rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas , &deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis , illa in qua de homine , quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo uerbigratia ,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum , &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio ,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian . gulo concluditur , hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit , & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis , quoniam æquitibiarum ,adhuc decft propter quid , quia triangulus , & hoc, quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc , non amplius propter quid aliud , tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd , tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus diſcurſus , ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi , quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis , o redit rationem , quoniam equitibiarum , ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone , adiecit proximiorem cau Jam dicens , quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt latera ,ut curua , conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta ,conuexa a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus, uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id , quod exem = plo , Ariſtoteles ait , paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB. mnes extrinfecos angulos , quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi elementorum duo anguliad c , pofiti æquales duobusrex & is , eadem ratione duoilli ad a , o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis , fed per fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum , tres intrinfecifunt æquales duobus re&tis , igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter fumptus , hahet tres an gulos duobus reétis equales , ſed ali quis habet duos angulos rectos , tertium acută , et quidam triangulus eft qui habet tres angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis , nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl primi Elemen . Euclidis , quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus reftis æquales , ratio , quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides , de fphelaribus ues ro Ptholameus & curuilineis triangulis agit , quod aduertens Ariftotea les adiecit , quia est figura rectilinea ; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera rectilinea , habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic , uniuerſale enim ina . gis demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio , pro xime autem immediatum eſt , hoc autem eft principium ;fi igitur quæ ex principio eſt , ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio , ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio . Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior , in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis. , difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu , ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur , ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit , nec de fubiecto quopiam , ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium ,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium , fed non primo de eis , ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius , affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio , eſt ipſa particulari potior , quia particularis non per medium , uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est ,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit , quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit , quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu , potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu ,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem ,hæcparticula legenda eft , cum particula aduerfatiua fic ,hanc autem habens propoſitionem , nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis , neque potentia , neque actu , non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad triangulum ,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu , non ſcitur potentia fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī ,quifieripoteft ,ut propter id ,ſuū uniuerſale potentia fciatur ? non etiam actu fcitur uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile potētia , non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari habetur de particularibus difciplinam eſſe , particularem eſſe demonſtratioa nem quæcunquefit illa ,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter uniuerfalem o particularem demonſtrationem . Preterea etiam nos tatu dignum habetur , contra omnes interpretes , id autem eft, quod ali 94 IN PRIMVM LIB . quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians ſcimus, introducit eos , qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis , quod de nouo ſci mus inquiunt enim , noftis ne quod omnis dualitas par ſit ,nec ne ? Vel etiam , quòd omnis triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem Platonicis attulerunt dualitatem , uel triangulum manu aba fconfum dicentes , ecce quomodo uos de nouoſcitis , hanc dualitatem eſſe parem , quia priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt locum , ſic ut nedum ipſi intelligant , fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur , ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito , quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet , quia neſciebant illam eſſe dualitatem , vel illum effe triangulum , putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes , anon aduertunt , quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit , quod illi qui dicebant de nouo fcire , male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum , egr reſpondentes perperam , dicebant fe nonſcia re eſſe purem , niſi quam dualitatem eſſe ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit , quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe parem , uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet , fcit quòd dualitas ſitpar , quod Ifofceles , tres duobus reftis æquales habet potentia , licet neſciat a &tu perſenfum , quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem . • TEXTVS CVII. ALIAS XLII . T ca certior quæ non eſt de ſubiecto , ca quæ eſt de ſubiecto , ut Arithmetica armo nica . Numerus , ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem abſtractißimus est , nullum materiale ſubie &tum concernens , Armonica , uero de nume ro ſonoro , uel magis , de ſono numerato , quod magis concernitmateriain , ut fonum ipſum ., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft , ut Boetio placet libro primo muſices , modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit , certior POSTERIORVM AR IS T. 95 estquamſit ipſa Armonia , quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria , eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem ? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt , & prior ea , quæ eft ex appofitione , utArithmetica Geometria . Dico autem ex appoſitione ,ut unitas fubftantia eft fine poſitione , pun . tum autein fubftantia pofita ,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex . determinauit ; una enimſcientia determinat de abſtracto numero , reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione , utin 15 ſeptimi ElementorumEuclidis ,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum Arithmeticæ Euclidis . Dico autem ,ut unitas , ſubſtantia eſt, fine appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta , hoc est ex appoſitione,Nicomacus ,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus , in primis lordanus , o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent , quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles ? quæ hominum dementia te torquet : erant ne ſimile hominum genus tuo tempore , ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem , quique te audirent , expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris , fed magis ſeneſcentes in fua , non tua philoſophia homines , exurs gant Romani uiri , liberalibus diſciplinis præditi, quorum bonarum are tium hereditas , negligentia pofteritatis , uerfa eft ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur , eo locum hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe & a , uellined , uelalio quoppiam alieno , fed punctus , uel linea', ſeufuæ perficies , uel etiam corpus ,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus, uel una ſuperficies , aut corpusunum , uel plurafint : Plura autem pun & a , eſſe non poffunt , niſi prius punctum unum ,uel unafuperficies,aut corpus unumfit, minus igitur eft unitas , quim punétum unum , utetiam 96 IN PRIMVM LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat : non ut fuum fubie &tum , fed ut id , quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm pars ad ſuum totum . Vnum pun &tum , feu lineam unam , uel etiam unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam ,pun & um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens , ex pluribusfacit fuam conſiderationem ,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime , nulli reiappoſitam . Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima , eſt , duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti , ſecunda ex certitudine , ex certitudine dico , non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt , uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico , quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito , quàmſint ſubiecta librorum ,librum de anima precedentium , ex precedentis textus , atque huius expoſis tione id totum colligas uelim , ex precedenti, ſi de anima , ex præfens ti autem ſi de anime particula , loca libri de anima intelligantur . Claret etiam , ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia , quia non funt circafubftantias , ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte , philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces ,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur , quæ tantum circa fubftantiasfunt ; non autem que circa accia dentia , ut funt Mathematicæ , quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie , ſecundum nos & re ipfa funt , ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ ,ubi ait , ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt , quæſunt circa res , quæ nunquàm mutantur , fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia ,a quantitates ; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur , quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans , punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit , ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ , quæ circa fubftantiasfunt , in primis Arithmetica atque Geometria merito ( quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias , non ob id , quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur , non perdemonſtrationem , quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men , mo POSTERIORVM ARIST. moquarto ,merito ſcientia non funt , ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit . TEX. CXII . ALIAS XLIII . 3 EYE per fenfum eft ſcire id , Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico , declarat Ariſtoteles , ſi enim ſenſus uifus uideret id , quod intellefius percipit fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum ,quód trian gulus. uidelicet , habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret ,o huius rationem reddit dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter , ſcientia autem eſt in cognoſcen= douniuerfale , unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente augem Lune , uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc diceremur fcientes, quia illud , quod uiá deretur ,effet ſingulare , &cum ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius uniuerfalis , ſequitur , quod per ſenſum non eft fcire . Aliter etiam exponaturſic , ut ſi eſſemusſuper planetum , qua Luna est , &in illa parte planete que terram , & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit ecclipſes ſimul neque actu ,neque potentia ,fed unam tantum ,necobid tumen ſcientes dice remur , non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait , ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha bemus , non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum , fed ita intelligas , quod ſenſus eft tantum particularium , intellectus autem utriuſque , Sunt tamen quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c . · In hac particula huius textus , idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd . videlicet neque per ſenſum eſt ſcire , in prima huius textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria , in hac autem particula exemplum est in perſpectiua , eft etiam quoddam aliud diuerfum , quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera forata , ſiue foraminailla ſint pori uitrorum , feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet , &manifeſtum eſſet , & propter quid illuminat , id eft,propter ,quid illuminationes multæ fierent,quoniam , ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro , id est foramina multa , per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato , uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam , illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis , niſi quod alterum in Phænomena , reliquum eſſet in perſpectiua ; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul , uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens , illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum eclypſi uiſa , fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad minus uniuer ſalia , ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter multa foramina fiebant , nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA Textus particulam illam , Aut æquale maius , autminus, Scire eſt , quod primi Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem , ut fi una quantitas comparetur ad aliam eiufdem genes ris , aut erit ei æqualis , aut eadem maior , uel e46 dem minor , ut quatuor , ad quatuor , uel ad tria , aut ad quinque,ſi comparentur, fieri nequit , quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum comparata , fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur , verumquidein poteft effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum , fedfi ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST . 99 P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu , Neque omnium . uerorum principia funt eadem , neque con ueniunt,ut unitates punétis non conueniūt , læ quidem enim non habent poſitionein ,illa autem habent, Deappoſitione in punétis , eo pacto intelligas , ut tex.108 declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs ,non quidem ex quibus inferatur conclufio , fed ex qui dus compoſitumfit , quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com ponitur numerus , ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui tex. xix .huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates , que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim ,uel etiam unitates non ſupponunt punétum ,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non poſſunt , quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint ,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite , wepropter non appoſitionem , puncti ipſi unitati , unitas enim non ideo unitus est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem , ®ultra ait , quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta , hecuero in continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII . VONIA'M autem idein multipliciter dicitur eft autem , ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum uere opinari inconueniens eſt , ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones) idem , fic eiufdem eſt , ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non eſt idem , Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen diuerſa , falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex : 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin , par numerus , impar effet , Circa idem igitur contingit diuerſitas , feu idem multipliciter dicitur , ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta . Nij IN SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA : V ENETV S. ** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit , aut hoc , quærimus in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non , ipſuin quia quærimus. Luna enim defficit in ſe a lumine , a patitur menſtruum , propter interpoſitam terram diame traliter inter Solem u Lunam , Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit , ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus folare interponitur Lund , quæ cum ſit core pus denfum , coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios , enon finit eos ad afpe&tum nostrum protellari . Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine , quando patitur menftruum , quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes , propterea quod , quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis , apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium , ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. 102 fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis , cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum cæte ra fydera , radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum , qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare , &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium . TEXT VS I x . + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü ,in acu to & graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue & acutum , utrum eſt conſonare acutum & graue , utrum ſit in numeris ratio corum ,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu , idin primis occurrit , notatu dignum ; graue enim Cum motum fuerit , citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo tüm , Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos , quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur , ut diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium , Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus , ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi , qui leuiori neruo procreatifunt ,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad tria ,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient , quæ quatuor ad duo , que concinentie , cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon ,o biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur , o ſibi do toresqui Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant , Alia exempla à tertio textu uſque ad undecimum ,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea 1 1 02 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce , căcinentia quidem reperitur inter re , ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia , ſed primo inter graue ego acutum reperitur , quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur , ut debita ; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto , cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est , ſed'in dubium occurrit illud, quod muſicifaciunt , quando fuper breuem ſillabam , plus temporis cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea ,quæ naturaſunt breues, fiant longe , &quæ longe ſuntſillabæ ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica , fed Barbara o contra ufum loquendi appareat , Ad quod dico , ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia proueniat ex mouente , ut Aristoteles in libris degeneratione animalium , uel ex motis rebus , ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit , quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro declaratione littera , huius tex tus ,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat , ut quia eſt, aut non eft , in deffinitione autem nihil alterum de altero prædicatur , ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano figura , non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft . Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta , ſtatim de angulis planis , e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte , fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis , quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum , & id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus trigoni , quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. 107 TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem & fic , propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente rectus eft ,fit igitur rectus in quo a , inediun duorum rectorü in quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur , quod eſt a rectum inelle c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe . Euclides xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte , ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic , ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd , ſecans arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum ,ficut duæ unitates bi narium numerum , quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat id , quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato , ubi perpendicularis ſecat ar cum , re & tus ſit, licet illa due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta ,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum , c uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b , quæ uero uni veidēfunt æqualia inter ſe funt æquae lia , cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum res. & orum , or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula conſtitutus rectus eſt , quod propoſuit Ariſtoteles , quis ſit angulus rer 104 IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum , quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos rum , patet per trigeſimam tertij Elementorum , quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6 , utputa 0 , patet per uigeſimam tertij Elementorum , qubi in priori expoſitione di cebatur ,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b , ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur , quod angulus , qui in ſemicirculo conſtitutus , eſt re ctus , per materialem caufam , quæ materialis caufa , ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes . TEX TVS LIII. ONTINGIT autem idein & gratia alicuius eſſe , & ex neceſsitate , ut propter quid pe netrat laternam lumen , etenim ex neceſsitas te pertranſit , quod in parua eft partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo , Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis ,quæ propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius , exemplum eſt in optica,inaterialis caufa eft uitrum , fi nalis,neolfendamus ; fornalis eft illa compago uitrorum ,lignorumq;, effi ciens autem ,eſt ipſe luterne artifex ,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum , per quos illuminationes fiunt . TEXTVS LVI. ALIAS XII . CLIPSIS Lunæ futura , preſens , atque prete rita ,medio interpofitionis terre , diametraliter in ter Solem & Lunam ,nunc , olum , & in futurum con cluditur , cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope , o ſub'nadir Solis . SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta , adinuicem co pulata , ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur , statim haberetur , lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo , textu Wdecimo octauo . TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter ,Atuero & alij ,ut eft aliquid quod oinni Trinitati , in eft fed & non Trinitati , ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat , aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ , potentia ueroinfis nite per unitatis additionem , fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero , materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū , ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem ens , alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt . Etenin ipſi quinario ineft , fed non extragenus , ens quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum , quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum , uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu ad equate , ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta ,ut unumquodquefit LO 6 IN SECVNDVM LIB . cum non in plus , nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale ,capaxbeatitudine, que omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur , an illa , quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana ,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una ,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo ? Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam , tribus lineis reftis , illam non eſſe deffinitionem , fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo , quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones ,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus , quæ recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ ,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté ,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint , ſed particula iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior ternario numero ,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario ,atque ternario , et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut ternario , qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario ,qui conſtat non ex pluribus numeris ,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur quòdaliud fit dimetiri numero ; &aliud numeris dia uerſis componi , ut ſeptenarius , nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex diuerfis numeris,ut ex binario o quinario ,c . ex ternario &quaternario , primo enim modo aliquis poterit effe pris inus , qui compoſitus erit fecundo modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen eorum dimetia tur eorum alterum , var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter POSTERIO RVM ARIST. 109 to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti , &tertia deffinitione feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt ,hoc igitur loco dico , quod Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum ,fed famoſe , ut philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c irrationales , e integrantes dicuntur , quàm partes ali quote ,qua rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum , non niſi partes proprie fumpte , que aliquotæfunt, numerum componunt ; quod etiam Nicomachus & Boce . tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem ,non omnem numerum ,qui alium componit compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt , Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid , fed fcopum rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis , Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam , quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum , ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes , qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico , Argi ropilo uidebis neceſſario effluere , loannis textus ita habetur , fi uero ficut in genere , finiliter fe habebit ,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem , inquantum quidem lineæ , alia eft ,in quantuin nero habens augınentun tale , eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter ,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum , eft enim alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit ,eadem autem, ut tale habet incremen tum , & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis . affection 108 IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia , cur quando permutantur : fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ , qua autem addit , hac ſpecie additionis , hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum , quam etiam ob id , quod interpretes: non ita interpretari uidentur , ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes aut nug & potius , præter Aueroin , qui magna come mentatione , confuſo tamen ordine dicit aliquid , faciens ad Ariſtotex : lis ſententiam , non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro uera igitur Ariſtotelis ſententia ,in primisſcire debes , quod mas gnitudines ſeu continue quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes , uerfantur circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt , quæ antequàm permutentur , proportionalia eſſe debent , ut affeétio hæc,permutata proportionalitas ,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc ; de lineis, fuperficiebus,temporibus , vt corporibus, eadem de numeris concluditur , primum demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia , opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs , quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum , propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior , atque per diuerſa media , à ratio : ne qua idem de numeris concluditur , huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ , cauſas has , eas uoco , quæ folum dant propter quid & de his cauſis , que etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim , quia tamen dicebam ,quòd non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus quantitatibus . Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales , aut quando proportionales funt , Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus , cum difcretis tum etiam continuis , quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum , minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam , prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt , quarum prime otertiæ æques multiplices , ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat & , fimiles fuerint uel additione , ueldiminutione,uel æqualitate ,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple . V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint , feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale , eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori , & figuram figuræ , aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his . Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera , & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam , non autem rem naturam unam , in coloribus enim non concernes , neque latera , neque angulos . Habent autem fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen accipienti , cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales , qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra ,textus hicdeffétis uus eft , & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum , ma. gne commentationis textus est clarior , ſed non ad plenumfacit fatis ,ut mens Ariſtotelis , fatim appareat . Caufe illationis , ſeu conſequentie , que mutuæ funt , feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea , quæ pri mo libro tex . xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais ,quàm eſſe triangulum ,uel quadrangulum ,aut pentagonum ,uel exago num , aut quippiamtale feorfum , fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is , oecon uerfo , fic infertur , omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis ,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo , re &tilineum , comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus , fed omnes figuræ re& ilinec , hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit , quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales , uniuer Jalius eſt trigono , otetragono , ſi uero hec omuia accipiantur , ut in hoc uerbo , rectilineum , omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter confequentiam ,ut ad inuicem caufa «cu us caufa , &cui eft caufa . ilo : CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE POTEST . FINISI > R E G I S T R V M. . A B C D E F G H I K L M N O. Omnes ſuntduerni. CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis , à publicis. fac.4.li.6 incumbebam ,abſtinere decreui..li.io laberinthos ,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique . Pd.4 li.3 comode, commode .li. 11 prefertim , præfertim ubique . li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles , Ariſtotelis . Facis li.24 age , aie . Fac . 6.li. 2 pulcra , pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis . lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit , fcit.Fa.8 li.25 comunem ,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens , afſummens ubique. li.16 ſempliciter , fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation , probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur , reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica , Geomes trica . fac.20 li. o quadrati , quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet . li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit ,ſit .fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu . fac . 34.li.7 ſilicet , ſcilicet ubique . fuc.36.li.4 Textus , Textu . li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus , primus. Fac.49 li.16.fue , ſua . fac.49.li.20 induéti , induti . fac. stili . 12recte ,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis , Ariſtotelis .fac .53 li . 12 bucis , buccis ubique. li. 6 nltera , altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost , pueros, li. 25 illeuatus , eleuatus . fac.59 li. 7 olas , ollas . li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25 . apolini, apollini per , , ubique.lin . 28 pret , preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin . 31 nos tid , notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares . fac. 76 li.16 .notia .notitia . fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li . 8.ſcienriarum , ſcientiarum . lin . 21.chierurgia , chirurgia . fac. 86 li. 10. neft, ineft.li. 17.angregata , aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum , prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea , fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum ,uitrum . ܐܐ ܀ Et fi qua alia ( que non funt pauca ) pretermiffa funt , diligens le& tor surum colligat &mufcas abigat .Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.

 

Cattaneo (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must consider when dealing with communication – he explored semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” --  Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio, un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici della filosofia romana.  Il suo amore per le lettere humanistiche classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità, oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti.  Risale il suo saggio dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky.  Purtroppo l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza, fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini.  In seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e negata.  Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali.  Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.  Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.  La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa, alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento alternativo a quello dei Savoia.  In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio, per usi civici.  A lui è dedicato l'omonimo istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque giornate di Milano  Secondo una tesi, non comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi. Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da Filosofico (Diego Fusaro)  Arch. Rebecca Fant Milano  Bertone, Camagni, Panara, La buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia,  1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy project, su geni_family_tree. 16 marzo .  Il Famedio, su  del Comune di Milano. Carlo G. Lacaita, Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di Carlo Cattaneo, Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da Mario Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana,  Il monumento milanese che lo raffigura reca l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La massoneria italiana»   Mola, Aldo A., Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani. Fonte://manfredipomar.com/ .  l'Enciclopedia, alla voce "Politecnico", in La Biblioteca di Repubblica, UTET-DeAgostini, C. Petrone, Massoneria e identità, Taranto, Bucarest,   (aD. Fiorentino, Non proprio un modello: gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano,   l'8 giugno .  M. Teodori, "Cattaneo, Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali, anti-papa, in Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia, Rubbettino editore, Dicembre .  M. Politi, D. Messina, G. Pasquino, M. Teodori, Dibattito "Risorgimento laico". Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano, Fondazione Corriere della Sera. Tuveri Giovan Battista, in Rassegna storica del Risorgimento. Luigi Ambrosoli (scelta e introduz. di). Cattaneo e il federalismo, Roma, Ist.Poligrafico e Zecca dello Stato- Archivi di Stato, 1999,  XXXIII,990. Norberto Bobbio, Una filosofia militante: studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971. Michele Campopiano, "Cattaneo e La città considerata come principio ideale delle istorie italiane", in "Dialoghi con il Presidente. Allievi ed ex-allievi delle Scuole d'eccellenza pisane a colloquio con Ciampi", M. CampopianoL. GoriG. MartinicoE. Stradella, Pisa, Edizioni della Normale. Cattaneo e Carlo Tenca di fronte alle teorie linguistiche del Manzoni, in «Giornale storico della letteratura italiana». Arturo Colombo, Carlo Montaleone, Carlo Cattaneo e il Politecnico, Franco Angeli Edizioni, Milano, Fabrizio Frigerio,dir. 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Carlo CattaneoIl contemporaneo dei posteri a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita (1801-2001 Filosofia Letteratura  Letteratura Politica  Politica Risorgimento  Risorgimento Categorie: Patrioti italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani Professore1801 1869 15 giugno 6 febbraio Milano LuganoScrittori italiani del XIX secolo Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti italianiSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi italianiFederalistiDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione matania_edoardo_-_ritratto_giovanile_di_carlo_cattaneo_-_xilografia_-_1887-2_imagefullwide Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887  di Alessandro Prato  La centralità della figura di Carlo Cattaneo (1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non da ultimo, il linguista.  Nel quadro di questa ricerca intellettuale così ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta partecipazione popolare allo sviluppo della società civile.  Proprio sugli interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua – rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità di cultura e di vita civile nazionale.  Questa impostazione spiega poi la sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini nuovi, non antitetici,  i rapporti fra i dialetti e la lingua, riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.  Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale, condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità e testimonianza delle vicende della storia dei popoli.   La funzione sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).  poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di Rosmini, Gioberti e anche Mazzini.  L’illuminismo nella sua opera «si rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX). Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma di ingenuità, che come aspirazione democratica.  Sui rapporti tra romani e barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..).  Questa è l’importante teoria del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].      Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di popolarità che egli non condivideva:  «la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237), adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e filosofica.     Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee [13].  In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo (Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito; per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine, bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni, dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali. Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo:  «Le lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione promovono sempre più l’unificazione dei popoli.  Non è che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837 osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I, 228).  psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato 2012: 17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.  Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo 1957: 277-78).  La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità» (Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957: 316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di Lugano.  Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990: 153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori forme di sviluppo e approfondimento.    Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020  Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990). [2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini (1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si trova in Cattaneo (1957: 39-75).  [5] Anche per Giordani la lingua è il vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59), [6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12] Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il 1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti bibliografici Alessio, F. (1957), “Cattaneo illuminista”, in Cattaneo (1957): XI-LI. Benincà, P. (1994), “Linguistica e dialettologia italiana”, in Lepschy (1994): 525-625. Bobbio, N. (1960), “Introduzione”, in C. Cattaneo, Scritti filosofici, Firenze, La Monnier, I: V-LXIX. Cattaneo, C. (1948), Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1957), Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Firenze, Sansoni. Cattaneo, C. (1960), Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Firenze, Le Monnier. Cattaneo, C. (1990), Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di E. Mazzali, Milano, Rizzoli. Cecioni, G. (1977), Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni. De Mauro, T. 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Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca italiana”, III, pp. 177-187.  Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra anni Cinquanta e Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un paragrafo dedicato all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con particolare attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in Cattaneo, che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione, il perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento. Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista – recensione Resurggimento. Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

Cattaneo (Roma). Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano); “Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena, diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza. Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica” (Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano, Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano, Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’ della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu, Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica, Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969), Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge, che da il  titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia del diritto e  pre-annuncia il suo intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione.  Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO MANZONI  ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE  IL tema del rapporto tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari., “Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e “Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti soprattutto il diritto nel teatro  Sono stati compiuti degli studi sul significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering (1818-1892)  e J. Kohler (1849-1919)  ed è stato esaminato il pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi  , Giorgio Del Vecchio  (1878-1970), Mossini   e lo stesso Cattaneo .  Vi sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H. von  Kleist (1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj ,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori italiani : Carlo Goldoni ed Alessandro Manzoni.  Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva da alcuni elementi di contatto : Goldoni passò l’ultima parte della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e che, secondo Cattaneo,  è ispirato a sentimenti di libertà  i due scrittori  hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed ottimista,  esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e drammatici  della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere affronta il problema religioso.  Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione espressa da Ferdinando Galanti  nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato , nel cammino della verità, l’opera di Goldoni.  Questo giudizio è ripreso da Federico Pellegrini in uno scritto del 1907  che indica come elemento comune <il rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi. Pellegrini raffronta ed accosta  i personaggi delle opere dei due letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano . Il Mazzoleni ha istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”  commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza.  Il Petronio nel suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica” : “Una prima volta con l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo dopoguerra”    Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui”   Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da A. C. Jemolo  il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della Colonna infame.  Padoan ha rilevato in un suo scritto che << anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza influenza sul Manzoni…>>>   Cattaneo conclude l’introduzione al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume  , la sua analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo .nelle sue fondazioni filosofiche , nella misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è l’illuminismo   L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente , in modo non marcato, l’influenza dell’Illuminismo , che è la radice della sua satira sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e  gli avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794)  In conclusione Cattaneo ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona umana>>    Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle sue opere  un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande recensore contemporaneo al commediografo  Friedrich Schiller (1759-1805)  nelle due recensioni  alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.”  nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”  soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato.   Gli scritti italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente  ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905)  il secondo è di Mario Cevolotto , avvocato di Treviso   Il Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori ; il Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine nel 1726, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia nel 1728 e la sua laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere . Cattaneo cita anche gli studi Gaetano Cozzi  e di Gianni Zennaro  Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale”  e Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare cancelliere>>   Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano : Goldoni fra diritto civile e diritto naturale” Cattaneo rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali temi della commedia : la difesa della onorabilità della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza;  la commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”   Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: <<La Pamela>> e altre opere”  Cattaneo rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche  del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto , o come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama” , “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico dall’autore   che conclude il capitolo affermando che : “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo”  La seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni.  Il primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto”  e Cattaneo passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il diritto privato nei “ Promessi Sposi” , esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere”  del 1919. Il più importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro Manzoni e il diritto” . Tale volume si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della funzione. . Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e la Giustizia”  di cui la terza parte è dedicata al problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Enrico Opocher “ Il problema della giustizia nei Promessi Sposi”  in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”  in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con la morale. Concludo ricordando la  strenna natalizia dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se  a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta. (1920-2007) Il secondo capitolo si intitola “Valori morali, giustizia, diritto naturale” Cattaneo ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e verità matematiche.  Secondo Cattaneo questo brano manzoniano è affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo “Parmenide”  , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In realtà è sulla base  della idea di virtù che si giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.  L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini , il più grande filosofo italiano dell’Ottocento , la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee”  .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione, come si rileva dal capitolo III delle “Osservazioni sulla morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica . Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo ringraziamenti e benedizioni.  Il capitolo terzo si intitola “Le gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>” .  Cattaneo rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stefano Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un matrimonio .  Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia”  e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste , inoltre, descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere  Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del  colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da parte dell’autorità  Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti, a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è sottoposta ogni mossa dei cittadini  Lo scrittore lombardo critica anche la comminazione di pene sproporzionate , misura considerata ingiusta ed inefficace per la prevenzione dei crimini , l’impunità dei colpevoli è indicata dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva severità o crudeltà delle pene.   Il quarto capitolo si intitola  “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale” . Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi” ; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo, relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti. . Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo , mirata esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata  la punizione dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello voluto  Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della pena.  Cattaneo conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant, dato che:  “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e <sociale>”   Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna Infame”  L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere dell’interesse generale  e sociale sui diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame” del 1842 due anni dopo l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”. . Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico , ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco , e quindi di non studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da Benedetto Croce  . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. 2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per nulla inferiore alle altre opere del Manzoni , anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche>  Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello morale, come rilevato da Tenca , Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e consiste nella difesa del libero arbitrio , della libertà del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione etico-giuridica   Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la criminologia”  L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del 1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi  che hanno creduto di vedere in tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada del determinismo . L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica   e lo scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi  Cattaneo conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale   Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del diritto ?”  Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia”  oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese. Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di <<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano  in particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo Cattaneo di rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla come Kelsen  e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross  e le <norme secondarie> di Hart , cioè le norme che conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine romana.  L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese”  Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici  con la condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone  dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli umani  Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni  esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie  Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859”   I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese sono  A) La mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti  C) Il nesso di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;  Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese  Il letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo  dal Terrore, al Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto dell’idea del diritto , che è <una verità>  Tale considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della Rivoluzione francese ; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e , nel momento della sua caduta ,pur  proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?>   come è attestato dalla sorella Charlotte  Nella lunga ed articolata conclusione  Cattaneo ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività forense di Goldoni , sul significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di  Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre dall’autore  , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto  , ma non inteso secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. > . L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo  è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale ,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato veneziano  . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica , con riferimento ai problemi giuridici, ne    “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle concezioni illuministiche.  Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e materialistico  di alcune correnti.   Ragonese   e Caretti  hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni  e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e kantiano) della dignità umana.  In Goldoni questo principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola”   Nella Appendice  viene riproposto lo studio di Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia” il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V  IL VOLUME DI MARIO A CATTANEO  “SUGGESTIONI PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI”  Nel 1992 Cattaneo ha  pubblicato  il volume “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il libro, che  è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro , che si articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di  scrittori  che nelle loro opere hanno affrontato il  tema della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro , rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria  Il primo saggio scritto riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato , è seguito il saggio su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Francesco Carrara (1805-1888)  .Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che nello scritto < L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla pena  Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto penale”  Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta Dante (1265-1321) ed il diritto penale. . Cattaneo rileva che gli studi di storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere  ad una distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del Vecchio.   Il maggior contributo diretto di  Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle sue azioni.  Cattaneo conclude che :” Certamente , fare apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque problema, religioso, filosofico, umano;  ricordo che mio Padre diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>”  Nella introduzione ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto , un tema caro a molti studiosi  Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo giuridico”.   Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi  riprende le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855), cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale cristiana ed illuminista.  Cattaneo conclude il suo saggio affermando che Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più significativi valori .  Il terzo saggio si intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”.   L’Autore rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica  il poeta accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è intitolato . “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei giuristi”  un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann , che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una marionetta , il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale , che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla morale  sono chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è intitolato  “Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena”   L’Autore analizza il breve scritto che Heine (1797-1856) aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è dedicato  al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung> .  Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. Cattaneo suggerisce  che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale  ed evidenzia il carattere patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene che bisogna agire con durezza , reclusione ed addirittura con la pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale , cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva  cioè l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale.  Heine critica inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano  Il capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti”  L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo (1802-1885) con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables”  e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura centrale di Valjean.  Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di un pezzo di pane ,che poi viene gettato via ,Valjean è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni.  Vi è una enorme sproporzione  tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia di infamia stabilita dalla legge . Cattaneo rileva che è ammirabile la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua  denuncia della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie  sono importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità umana.    Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la coscienza e la pena” .  L’Autore evidenzia la centralità del tema del delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel profondo scritto di Italo Mancini , che ha evidenziato sia la validità di una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia  che per lo scrittore russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>>  Nel volume “I ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente l’incapacità  del carcere di procurare l’emenda del reo dato che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo scrittore russo  indica anche nella solitudine e nella mancanza di privatezza un elemento di particolare tormento della prigione.  Il lavoro nella prigione, rileva lo scrittore russo,  non era faticoso ma era penoso perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento ottuso e crudele delle guardie carcerarie , severo è il giudizio sulla prassi della fustigazione definita una piaga della società> Nel <L’idiota>  lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo  sulla pena di morte in bocca al principe  Miskin nelle prime pagine del romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo”  Dostoevskij evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole.  La trama del romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e che  tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del Gorgia e di  Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e l’interesse di Dostoevskij , spirito umanitario e riformatore,  per la riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva il  desiderio di espiazione che conduce all’emenda.  Dostoevskij  manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e la auto-condanna da parte del delinquente . La pena giuridica non ha rilevanza, ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che avviene nella coscienza del colpevole  Il capitolo VIII  è intitolato “Tolstoj e la abolizione della pena” . L’Autore ribadisce che lo scrittore russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.   Il romanzo Resurrezione  è fondato su una vicenda processuale , la condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova , diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene, teste rasate , divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come Victor Hugo.  Lo scrittore  suggerisce anche la necessità di abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo si chiede se si tratta “del sogno di un visionario , una utopia generosa o di un ideale verso cui la società deve tendere.”    Il nono capitolo è intitolato “Pinocchio e il diritto”  L’Autore rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di numerose indagini  . Le ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini , Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi  . Frosini evidenzia che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito  tipicamente risorgimentale,  al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.  . La lettura di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più rilevanti dal punto di vista penalistico.  Cattaneo sottolinea che Carlo Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista  che sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme  doloroso della vita umana (opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e cita  ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato da un carabiniere  per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere.  Un altro episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due carabinieri che ,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente , l’unico trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone innocenti.  Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il Gatto.  Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente  da Collodi  è ,secondo Cattaneo, e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della politica sulla giustizia  nella amministrazione della giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma ,invece di ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa.  Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si era rivolto,  ordina che il burattino  venga messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino , il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli.  Per ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui  il giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli , non sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere.   La lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente  Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale dominante , una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar Wilde e le sofferenze del prigione”  Wilde (1854-1900) in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò interamente.  Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel <De Profundis>,  redatto in carcere, attesta di essere passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland . All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas   e soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e rovinata <a disgraced and ruined man>   lo angoscia dopo la sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il fondamento del proprio continuare ad esistere  Wilde evidenzia che la terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la prigione li rende dei <paria> , per cui i condannati di ceto abbiente non hanno più diritto all’aria ed al sole ,la loro presenza infetta i piaceri degli altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la reputazione della persona condannata è leso.   Wilde evidenzia anche che molte persone ,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea della retribuzione morale  e cioè che subendo la pena il colpevole abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio , dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il carcere nel 1900 in Francia  . Wilde scrisse anche <The Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il poeta inglese descrive le  sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose ufficiali e dei cappellani delle carceri  . Cattaneo rileva che la tragica esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul of man under socialism”  . Dalle riflessioni dello scrittore inglese redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con critiche alla utilità sociale della stessa   Il capitolo XI è intitolato “André Gide e il non giudicare”  Il problema giuridico-penale è stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide (1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”  Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in veste letteraria . L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto  penale  e letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la precisione , la serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese nel trattare i temi giuridici , soprattutto per la precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”    L’atteggiamento dominante di Gide  è il “favor rei”  che si esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche  nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto . Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa. Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica , che porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.”  Il capitolo XI  è intitolato “Franz Kafka, la legge e il totalitarismo”   Cattaneo ha discusso in molte opere il problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”  Analizzando le opere di Kafka (1883-1924) Cattaneo premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura>  . , certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod,  che evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e della colpa.  Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler .Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista filosofico-giuridico  In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico. Cattaneo esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo”  dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del totalitarismo . Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo  . Pietro Citati rileva che <Nel Processo , l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka  ma la prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario  .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono antiche , secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione  Il motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà  La fredda descrizione di uno strumento di supplizio , nell’ambito di un sistema processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del racconto <In der Strafkolonie> ( Nella colonia penale) e la conclusione della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina del supplizio inizia a funzionare  e l’ufficiale muore senza aver capito il senso del supplizio   come ogni sistema totalitario si autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi Ceausescu nel 1989  operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel sistema post-totalitario”   Havel ( 1936-2011) ,noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali. Cattaneo ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il post-totalitarismo ,al quale ha dedicato uno scritto bblicato nel 1978 che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.    Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.  Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo scrittore ceco,  come una dittatura della burocrazia politica su una società livellata. Lo scrittore ceco  elenca le caratteristiche del sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed evidenzia che  A) tale sistema non è delimitato territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una superpotenza  B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX secolo.  C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali  D) Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto , che permette la manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà statuale  e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di produzione>  E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo , di spirito di sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e  sono una forma di società consumistica ed  industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e , rispetto al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio  Havel considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna  e  lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario  lo scrittore rileva  che tale sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco.  Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita come è realmente.  Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale> generalmente comprensiva  L’aspetto più interessane di Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.  Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per cui non è adatto  - In tal modo , sottolinea Cattaneo, il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è al servizio del potere , ma può essere un valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo   Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo , la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto,  dato che diritto e libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. Grice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

Catucci (Roma). Grice. Filosofo. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” --  Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival Wired di Milano,  e al Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze. 11573/1481990 - 2021 - L'arte è un progetto? Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Estetica Elementare - (9788891918345)  11573/1546600 - 2021 - L'esperienza del coro fra etica e tecnica Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - (978-88-590-2554-2)  11573/1411530 - 2020 - La storia dell'estetica come critica e come filosofia Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) pp. 53-61 - issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1412191 - 2020 - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - (978-88-229-0397-6)  11573/1465101 - 2020 - Bellezza Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole del XXI secolo - (978-88-12-00876-6)  11573/1466031 - 2020 - Il Kitsch: ieri, oggi, domani Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Riga - (9788822904584)  11573/1469956 - 2020 - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) pp. 107-118 - issn: 1402-2842 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1263257 - 2019 - Introduzione a Foucault. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1350028 - 2019 - Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1411293 - 2019 - Il corpo e le forme. Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of art - (978-88-229-0438-6)  11573/1504257 - 2019 - Perché gli artisti nei luoghi del disastro Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Terre in movimento - (978-88-229-0306-8)  11573/1083086 - 2018 - The Prison Beyond its Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Prison Architecture and Humans - (978-82-02-52967-3)  11573/1157274 - 2018 - Postfazione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione - (978-88-229-0186-6)  11573/1198338 - 2018 - Prefazione. Vite di architetture infami Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - (978-88-229-0261-0)  11573/1202778 - 2018 - Potere e visibilità. Studi su Michel Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/1411498 - 2018 - Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Strutture della composizione. Architettura e musica - (9788822902481)  11573/1411558 - 2018 - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) pp. 7-25 - issn: 0393-8522 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/1084786 - 2017 - L'angelo della matematica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La vetrata artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - (978-88-229-0151-4)  11573/928912 - 2016 - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro, Francesca; Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC 2016 (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical Engineering - (978-150902319-6)  11573/951275 - 2016 - Luce, Illuminazione, Illuminismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - (978-88-6822-434-9)  11573/951334 - 2016 - L'opera d'arte e la sua ombra Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo - (978-88-5753-620-0)  11573/951355 - 2016 - La linea del crimine. Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma : Castelvecchi, 2000-) pp. 75-88 - issn: 1723-0284 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/647595 - 2015 - Materia primordiale e Growing Design Catucci, Stefano; Lucibello, Sabrina - 01a Articolo in rivista paper: ANANKE (Firenze : Alinea, [1993]-) pp. - - issn: 1129-8219 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/798868 - 2015 - Preliminari a un'estetica della plastica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design - (9788836630721)  11573/1203740 - 2014 - Antropomorfismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203747 - 2014 - Arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203750 - 2014 - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203758 - 2014 - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203775 - 2014 - Sovrastruttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1203777 - 2014 - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - ()  11573/1460811 - 2014 - Il nome del presente. The name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) pp. 46-48 - issn: 0012-5377 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/525663 - 2013 - Imparare dalla Luna Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna - (9788874625819)  11573/526040 - 2013 - Filosofia dell'eccedenza sensibile Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - (9788867490158)  11573/530661 - 2013 - La Gaia estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - (9788862504287)  11573/549891 - 2013 - Conversazione con Stefano Catucci Gregory, Paola; Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - (9788895623498)  11573/477665 - 2012 - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - (9788849223132)  11573/499160 - 2012 - Metamorfosi : un'architettura dopo il postmoderno Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto - (9788889400906)  11573/500466 - 2012 - Mission to Mars- Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia" , universita' la "Sapienza" Direttore) pp. - - issn: 2038-6095 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/502652 - 2012 - Necessity and Beauty Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning and organization - (9788895623788)  11573/503211 - 2012 - Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - (9789607588340)  11573/379086 - 2011 - Estetica della speranza Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - (9788872856659)  11573/411942 - 2011 - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Paul Valéry - (9788871865058)  11573/504705 - 2011 - Visione e dispersione. La regia architettonica di Luigi Moretti Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti architetto del Novecento - (8849222009; 9788849222005)  11573/493982 - 2010 - Critica del contesto Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ) : LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali, 2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara : Clua, 1984-) pp. 142-149 - issn: 2037-6820 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/495728 - 2010 - Essere giusti con Marx Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - (9788878704763)  11573/127253 - 2009 - La terza dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata : Quodlibet, [2009]-) pp. 47-57 - issn: 2239-6462 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127254 - 2009 - «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin 1897, 30124 Venice Italy:011 39 41 5224459) pp. 129-144 - issn: 0004-6558 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/170422 - 2009 - "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - (9788896531006)  11573/170451 - 2009 - Prolegomeni a un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L'esplosione urbana - (9788888791180)  11573/170452 - 2009 - I generi musicali: una problematizzazione Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - (9788812000388)  11573/170697 - 2009 - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - ()  11573/196017 - 2009 - Il progetto di architettura come sintesi di discipline Catucci, Stefano; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/180207 - 2008 - Il lavoro della dispersione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - (9788849821468)  11573/180783 - 2008 - Introduzione a Foucault Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico  11573/353134 - 2008 - Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; Catucci, Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656)  11573/378907 - 2008 - Costruire, abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - (9788849214116)  11573/493930 - 2008 - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656)  11573/127320 - 2007 - La proprietà intellettuale come problema estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 36-46 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127321 - 2007 - L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127322 - 2007 - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) pp. 24-29 - issn: 0031-1731 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/176810 - 2007 - Michel Foucault filosofo dell’urbanismo Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault - (9788883535727)  11573/177011 - 2007 - La cura di scrivere Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno - (9788884835246)  11573/207632 - 2007 - La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - (9788840160139)  11573/496481 - 2007 - Spartacus : i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista : «Gomorra» 1998-2007 - (9788883536021)  11573/502875 - 2007 - Dizionario di Estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (9788842058298)  11573/157929 - 2006 - Il colosso senza immaginazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea - (8842491799)  11573/176696 - 2006 - Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - (9788843039517)  11573/177761 - 2006 - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi - (9788871863924)  11573/501672 - 2006 - Corridoi Transeuropei Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127044 - 2005 - La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - (8888738703)  11573/166395 - 2005 - Estetica e Architettura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - ()  11573/127045 - 2004 - Criticare l’estetica per criticare il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 8-11 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127046 - 2004 - Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 45-51 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/127047 - 2004 - Michel Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 73-86 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/166388 - 2004 - La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Michel Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - (2841743470)  11573/166394 - 2004 - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario del ‘900 - (8875750041)  11573/127043 - 2003 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) pp. 92-99 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/180784 - 2003 - Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso ; a partire da Lukács - (9788833914473)  11573/255955 - 2002 - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 20-28 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/248424 - 2001 - Estetica dell'abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - ()  11573/64920 - 2001 - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela  11573/1203503 - 1999 - Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203505 - 1999 - Poetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203507 - 1999 - Architettura, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203509 - 1999 - Censura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203511 - 1999 - Distruzione delle opere d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203513 - 1999 - Fenomenologica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203515 - 1999 - Fisiognomica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203517 - 1999 - Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203519 - 1999 - Kitsch Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203521 - 1999 - Marxista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203523 - 1999 - Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203525 - 1999 - Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203527 - 1999 - Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203529 - 1999 - Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203531 - 1999 - Realismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203533 - 1999 - Retorica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203535 - 1999 - Rispecchiamento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203537 - 1999 - Ritmo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203539 - 1999 - Scientifica, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203541 - 1999 - Sociologia dell'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203543 - 1999 - Storicità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203545 - 1999 - Struttura Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203547 - 1999 - Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203549 - 1999 - Terapie artistiche Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203551 - 1999 - Tipico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203553 - 1999 - Autenticità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203555 - 1999 - Oggetto estetico Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/1203557 - 1999 - Estetica e politica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)  11573/127040 - 1999 - Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 54-56 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)  11573/497947 - 1999 - Estetica della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile - (888744501X)  11573/166387 - 1997 - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Life - (0792341260)  11573/166393 - 1997 - L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - ()  11573/223078 - 1997 - Saggi di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela  11573/127039 - 1996 - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy:011 39 011 8127820, EMAIL: tina.cesaro@rosenbergesellier.it, Fax: 011 39 011 8127808) pp. 87-108 - issn: 0035-6212 - wos: (0) - scopus: (0)  11573/166392 - 1995 - Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica - (8873802362)  11573/180788 - 1995 - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - (9788881070053)  11573/162879 - 1994 - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - ()  11573/127038 - 1991 - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis, 2014- Bologna: CLUEB) pp. 342-346 - issn: 0585-4733 - wos: (0) - scopus: (0). Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Cavalcanti (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime. Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.  Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.  La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico.  Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un emblema della leggerezza.  L'episodio figura anche nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.  La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi  Quadro di Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato Guido Cavalcanti. I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.  Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante.  Cavalcanti e un fine filosofo –  scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.  Il poetare di Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.  I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.  Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).  “Species intelligibilis”, Cavalcanti laico e le origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti auctoritas”; Cavalcanti laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); Cavalcanti: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro, . Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità. Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto – l’amore come incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. 

 

Cavallo (Napoli). Grice: “I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza.  Si lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809); recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio.  Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità , lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard . Storia e pratica dell'aerostazione , Tiberio Cavallo. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc . Il memoriale di Burdett Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic , tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE TIBERIO CAVALLO TRADOTTO IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e cangiamenti fatti dall' Autore , 9 FIRENZE MDCCLXXIX . PER GAETANO CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec . AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio . Ella è d'uno della Voſtra Nazione , è ſtata intrapreſa per Voſtro comando , fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali . Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa ; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo Servo > IL TRADUTTORE  VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima , della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione , anco per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig . Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte , e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito , accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente . Signore . Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E . lettricità . La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa , e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo . Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo , Sig. Magellan Nevils Court Ferter Lane . 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA' . Pag. 2.8 . v. 6. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe . Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere . Pag. DEL TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto . Pag. 137. Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi : Il Dott. Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno , perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente , ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer . curio meſcolati inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi , cioè dee dir così , non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8 . Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze . Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro . In tanto vivi felice , e godi di queſta fatica . 1 . 1 i r 1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare . Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto , che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia . La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità ; cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere , e che non dipendono da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità , la quale non foſſe chiaramente ſicura , o la quale foſſe di poca conſeguen za ; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante , o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica , non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile . La parte terza contiene la pratica dell' elettricità . Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato , i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa , e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ . XIII medeſimi , egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità , omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati . Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia . La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia . Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to , maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi , e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione . L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli , e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera . Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo ; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve , o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia . Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione . IN XV 1 INDI CE DEI CAPITOL I. Neroduzione pag. 1 . PARTE PRIMA.. Leggi fondamentali dell'elettricità . II . CA P. I. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità CA P. II. Degli elettrici , e dei conduttori .... 15 . CA P. III. Delle due elettricità 24 CA P. IV . Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici . 37 . CAP. I XVI CAP. V. Dell elettricità comunicata 48. CA P. VI. Dell' elettricità comunicata agli elettri ci . 63 . CA P. VII. Degli elettrici caricati , ovvero della Boc cia di Leida ' . 71 . CA P. VIII. Dell elettricità atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi derivati dall elettricità ....96 . CA P. X. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà . 119. PAR 4 XVII 1 PARTE SECONDA. Teoria dell'elettricità , CA P. I. Ipoteſi dell' elettricità poſitiva , e negati Va 126. CA P. II. Della natura del fluido elettrico 136 . CA P. III. Della natura degli elettrici , e dei con duttori... 149 CA P. IV . Del luogo occupato dal fluido elettrico . 153 . PARTE TERZA. Elettricità pratica . CA P. J. Dell'apparato elettrico in generale . 101 . CA P. II. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche 387 . CAP. XVIIL ze... CA P. III. Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico . 200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico , ed il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti relativi all'attrazione , e re pulſione elettrica 226. CA P. VI. . . Sperimenti ſulla luce elettrica ... 262 CA P. VII . Sperimenti colla bottiglia di Leida . 289. CA P. VIII. Sperimenti con altri elettrici caricati. 3 34 . CA P. IX . Sperimenti ſull' influenza delle punte , e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine 345 CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X. Elettricità medica .... .. 364 CA P. XI. Sperimenti fatti con la batteria elettri 369. CA P. XII. Sperimenti promiſcui 384. CA P. XIII. Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati. 409. PARTE QUARTA. Nuovi ſperimenti dell' elettricità .. 413. CA P. I. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico , e di altri ſtrumenti uſati con ello 421 . CA P. II. Sperimenti fatti con l' aquilone elettri 435. co CAP. XX CA P. III. . . Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico , e coll' elettrometro per la prog gia . 405. CA P. IV. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · 474 CA P. V. Sperimenti ſu i colori . 487 CA P. VI. Sperimenti promiſcui 494 . Indice 505. . . . . . . IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione , e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo ; ma queſti periodi terminan preſto , e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione . Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti , le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano , ſono ſempre flo ride ; e ſebbene una volta ſiano ſtate in А CO INTRODUZIONE cognite , pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli , giammai dopo declina no , e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono . Di queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della Filoſofia naturale , che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo . Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza , dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura , è ſtata ſempre in voga , è ſtata col maſſimo profitto coltivata , e ſenza interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi , che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di divenire ſterile , ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici è vero , moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà , ma ſempre rela. INTRODUZIONE 3 1 i relative alla ſola viſione : il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione , re pultione , e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita ; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi : ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze , combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra , dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al Filoſofo , all' opulento ugualmente che al povero . Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi , reſtiamo ſorpreſi dall'urto , atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria ; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2 , CO 4 INTRODUZIONE come cauſa del tuono , del fulmine , dell' aurora boreale , e di altri fenomeni na turali , i cui terribili effetti poliamo in parte imitare , ſpiegare , ed anche allon tanare , allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia , la quale non ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa . Il più remoto rag guaglio a noi cognito , che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto . Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è nextpor , e da cui il nome d'E lettricità è derivato , come pure il Lin curio ( 1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri . Queſto ſolamente era tutto cio ( 1 ) E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato . 1 INTRODUZIONE 5 ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto , nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta , e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia , eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe , che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo ; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità . Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio , ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente . Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità , che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo 1 6 INTRODUZIONE colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli , paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità , a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni . Tale fu Franceſco Bacone , Ro berto Boyle , Ottone Guericke , Iſacco Newton , e più di tutti il Sig. Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità . Il Sig. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro , ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico . Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa , inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica . Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata , rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete , eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione . Il Sig . Grey fu il pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo . Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità . Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig . Grey , le ſcoperte fatte , e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente , fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8 INTRODUZIONE 1 lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere . Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza , legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Prieſtley , opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione . Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico ; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità , e non a for marne un'iſtoria . Soltanto oſſerverò in generale , che quantunque la ſcienza ab bia , mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti , e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte , eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione ; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande , cognita o inco gnita , INTRODUZIONE gnita , di rado ſono oſſervate con at tenzione , ſe i loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi . La ſua attra zione può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita , la ſua luce dal fosforo , e in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della pubblica attenzione , e ad eccitare una generale curioſità , fin che non fu . accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza , in ciò che ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale , ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore , e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento . Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti , di ſperi menti , e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo , è quafi incredibile . Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte , i megliora menti ſopra altri meglioramenti , e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo , ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità , che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito , e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche : per altro non è così . Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano , e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte .Of Natural Philosophy ;—~its Name ;•—its Objeft —its Axioms ; —and the Rules of Philofophizing . T HE word Philofophy, though ufed by ancient authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their caufes and effeds ; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards be applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is of Greek origin. Pitagoras, a learned Greek, feems to have been the firfl who called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies ; and the aflemblage or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon fignifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water, the folution of fait in water, a tlafh of lightning, and fo on ; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies ; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend , and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos , or its plural mores , fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics , phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural ; the fecond is derived from pvair, nature , and >. a dijeourfe ; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts ; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the air we breathe ; the action and power of our limbs ; the light, the found, and other perceptions of our fenfes ; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c. ; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth ; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general ; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their . difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical ; their exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety of this axiom ; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed by the action of fire ; alfo that water may be caufed to difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the lubftances are not annihilated ; but they are only difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in general ; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different ways : the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind ; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain circumftances ; therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl ; and likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs of the world ; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed ; and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical one ; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable ; for though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle , yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm ; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge ; fo that the ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of mathematics , at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible ; and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea of Matter , conic fedions ; for fincc almoft every phyfical effed depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical knowledge ; which fcience may in truth be called the language of nature. Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: filosofia naturale, filosofia trans-naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library.

 

Cazzaniga (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al. (Milan: Unicopli, 2002),  Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria,  Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione  riveli la sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi.  Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. 

 

Ceccato (Montecchio Maggiore). Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical conjunctions  and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di Rimini.  Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate.  Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed.  Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. 2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE , di Silvio Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita ...  L ' Anatomica methodus , di Andrés Laguna ( 1499 - 1560 ) . Pisa , Giardini , 1968 . Ceccato , Silvio , comp : Corso di linguistica operativa . A cura di Silvio Ceccato . Centoventotto illustrazioni nel testo . Milano , Longanesi , 1969 . 321 p . lllus. Language and Behavior ( 1946 ) was published in Italian translation in 1949 , thanks to Silvio Ceccato ( cf . Petrilli 1992a ) . Silvio Ceccato , padre della cibernetica italiana , che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ” , di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di Silvio Ceccato - Page 5books.google.com › books· Translate this page 1999 · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte , i giornali hanno dedicato pochi , imbarazzati e , a volte , imbarazzanti articoli alla figura di Silvio Ceccato . Se qualcuno , tramite questi articoli ... Silvio Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa ( Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library , the work of a semantic pioneer. Silvio Ceccato . Silvio Ceccato . ( Civilta delle Macchine , Nos . 1-2 , 1956 ) This monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used in ...  Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com › books 1965 · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171 ... with his hand , when he moves the pieces , he performs a manual , a physical activity . Foundations of Language 1 ( 1965 ) 171-188. All rights reserved . The two types of activity can be distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational approach to mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA OPERATIVA " ( Ceccato - 1953 , 1961 ) , one of the earliest approaches implemented on a computer ( University of Milan , 1961 ) . 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di Silvio Ceccato , di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff . Paris : Herman & Cie . 1951 . Die Ceccato si verdano anche articoli in Methodos ... Silvio Ceccato , the Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction , told me that once , after a public discussion of his theory , he overheard a philosopher say : " If Ceccato were right , the rest of us would be fools ! Silvio Ceccato's group exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames , and Ceccato's approach ( 1967 ) also involved the use of world knowled. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. 

 

Cellucci (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone. Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi,  Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento  [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo,  La Cultura. La logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo del nous  nella conoscenza scientifica”, In  Il Nous di Aristotele , ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In  La guerra dei mondi. Scienzae senso comune , ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In  I modi della razionalità , ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria della logica polivalente nell'antichità o la storia antica,  Bollettino della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica , Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica. Periodicodi Matematiche  (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze , Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica ediritto: argomentazione e scoperta , Lateran University Press, Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta , Bruno Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari  Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica.  Nuova Secondaria. La logica della macchina, in Le macchine per pensare ,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in Italia nel ‘900 , Franco Angeli, Milano; Bolzano,  Del metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia ,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza e storia , Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica , Editori Riuniti, Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità , Bologna (il Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche. Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia. Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o non meccanico? In  L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia della matematica. Laterza, Roma.  C . Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano . Anche se con motivazioni diverse , tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege , e consistono principalmente nell ' ottenere. Carlo Cellucci. Keywords: Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Centi (Segni). Filosofo. Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottorò presso l'Angelicum di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino, Maestro in Sacra Teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di Adriano Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni ( Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e varie Questiones Disputatae.  Oltre al commento d’Aquino, si occupa anche di altre importanti figure storiche come Savonarola e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI.  Altre opere: “La omma teologica, testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei Domenicani italiani, T.S. Centi, Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, UTET, Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse Firenze, Città Nuova, Roma); “La scomunica di Girolamo Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “Aquino Compendio di Teologia e altri scritti); Agostino Selva, UTET, Torino); “Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Edizioni Studio Domenicano. Nel segno del sole. San Tommaso d'Aquino, Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un segno particolare  o particolarizato è quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di queste parti. Aquino, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata interpretata e commentata durante il corso di Logica tenuto da Gimigliano presso l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso tutee elabora un’interpretazione su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione sono ad opera di Gimigliano.  Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud omnes.  Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio.  [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus.  [80426] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus, Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus signat infirmitas -- tomismo, Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library.

 

Centofanti (Calci). Filosofo. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degli italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma i romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc . Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str., 1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII , 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti , che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora , senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima . mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal) , congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città : tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono . Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava , ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno . Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni . Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea , fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano : non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph ., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù , e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca . Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi . sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei , il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela , dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole , ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse , ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie , e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni , e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia ; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l ' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che , achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute , repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi , e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione : con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda , e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare , secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore , è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta , come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ; un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice , dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita , alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse , riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis , rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare . Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose , mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose , tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone , di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo , indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica . E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata , rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale . Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla : aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società ; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni , quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè , ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura , fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh , e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza , che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni , nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico , gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι , δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita , che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew , ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta , indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose : ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog. , Laert. , VIII , 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia , e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton . Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero , volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza , l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti , superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno , distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν : dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture , dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa , sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda , e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi , la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane , e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita . Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione , e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi , chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto , a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II , lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza , vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto , esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita . Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni , secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano , Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat , ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida , l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du , tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio , che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche ; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc .; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento , notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII , etc.). Vivevasi a social vita , e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica , e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano , gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso , alla lotta , ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano : e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν , την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos ? ov diVÍTTETA!: et eam , quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini , questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze , concordavasi di atti e di letizia col mondo , e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa , e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio , onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti , che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito , popolarmente nato , o scientificamente composto , quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti , pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia ; e quando le tradizioni rimango no , hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano , o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro , questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia . Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora , vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali : 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica , ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito , e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno , che , non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria , alla nascita, ai viaggi , alla sapienza , alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti . D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia , sarebbe timidezza soverchia il non farlo , o ritrosia irrazionale : potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole , pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche , con quelle orfiche, dionisiache , egizie e con le getiche di Zamolcsi , attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II , 81 .; IV , 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani : φιλοσοφίας ( εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge ( in Busir. , 11 ) . E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito , allegato da Laer zio , parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio , VIII , 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora ; perché , a suo parere , tutte le verità sono nella mente , la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè , e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima , mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta . Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla . Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio , id. , 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo ; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo , non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo , ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele , allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva , o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici , ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto : tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana ( èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus , aliud homo, aliud quale Pythagoras . L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov ; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise , nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio . Il Ritter , seguitando altra via da quella da me tenuta , non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole , né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco , il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò scritto , che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa : και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire , che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima , come quella che risguardava oggetti sensati ; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta , per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali . Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee , e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita , e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica , e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo , e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio . Quindi non più ci sembrano strane , anzi rivelano il loro chiuso valore , e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici : l'uomo esser bi pede , uccello , ed una terza cosa , cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità : ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano : e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico , il nome sacro ed essenziale di Dio ; altri , a grado loro , altre cose . Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico ( Vita di Pit.. XXVIII , XXIX) e da Porfirio ( id ., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti , e che sono la formola del giuramento pitagorico : Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym , Fontem perennis naturae radicemque habentem . (Porph . , V. P. , 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico ( in Theol. Arith . ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle , e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! ( Ad Cudw. Syst . intell., cap. IV , $ 20, p . 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo , ma a Pitagora , idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito , e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora , nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato , è sempre uomo ed idea : un pe lasgo - tirreno , che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi , acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini , capace di straordinarj divisamenti , e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni . Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti , che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora , senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima . mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal) , congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città : tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono . Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava , ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno . Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni . Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea , fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano : non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph ., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia , eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù , e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca . Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi . sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei , il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela , dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole , ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse , ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie , e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni , e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ; Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit , videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia ; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l ' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che , achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute , repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi , e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione : con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda , e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare , secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore , è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta , come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico, V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo ( Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila : ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani , gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che, per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica , e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno , venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė : l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose , e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora , racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica , nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ; un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice , dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita , alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse , riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis , rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare . Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose , mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose , tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone , di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo , indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica . E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata , rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale . Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla : aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della Società ; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni , quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè , ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura , fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh , e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza , che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici , e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento . Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo , e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni , nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico , gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι , δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita , che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew , ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta , indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose : ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog. , Laert. , VIII , 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia , e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton . Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero , volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza , l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti , superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno , distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν : dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture , dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa , sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade , 3235 del mondo , 38 di Roma , 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma . I. Intorno al gran nome di Roma , la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni , alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana , deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli , nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai , s'è disputato , se l'origini di Roma , quali le narrano Livio e Dionigi , sieno verità storica o favola poetica . Quello che può dirsi in generale si è , nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico , però , su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce ; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi . Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse . Vi banno certo , e ognun se n'avvede , nelle lor narrazioni delle cose poetiche , ma ve d’ha di semplicissime e schiette , come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione , i sacerdozj ; tratle , non possiam dire , se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali , i quali , al dir di Cicerone , risalivano almeno al tempo de' re . Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia , ma le origini solo , ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo , indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi . Il primo tra essi è il re Giubba , che avea PLUTARCO . - 1. 5 50 ROMOLO . Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini , si misero poi ad abitare ivi , e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città. ? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia , alcuni , che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere , dove , es sendo le donne loro già costernate e perplesse , e mal tolle rar potendo più il mare , una di esse , che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre , abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero : ma poi , essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio , e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato , esperimentata avendo la fertilità del luogo , e bene accolti ritrovandosi dai vicini , oltre gli altri onori che fecero a Roma , denominarono la citlå pure da lei , ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne , di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti ; poichè anche quelle , quand' ebbero abbruciate le navi , questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano , Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine , e ch'egli chiama diligentissimo . Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne ; ma in troppi luoghi, ove bol no mina , s'accorda con lui . Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia . a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo , contemporaneo di Polibio . 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone , presso il fiume Neeto ( 1. VI ) . Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene , e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso ( St. , l . I ) . Sennonchè egli dice che le navi erano greche , e le donne che le abbruciarono , prigioniere troiane . Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese . ? Nondimeno Antioco siracusano , vissuto un secolo prima d’Aristotele , af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma. 6 ROMOLO . 51 Leucaria , ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole , ad Enea spo sata , ed altri quella di Ascanio , figliuolo di Enea , aver po sto il nome alla città ; altri aver la città fondata Romano , figliuolo di Ulisse e di Circe ; altri Romo di Ematione , da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini , il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia , da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo , concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante , ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo , e che , periti essendo . gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello , in cui erano i fanciulli, essi , fuor di speranza , restaron salvi , e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma , figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco , partorito abbia Romolo ; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia , fi gliuola di Enea e di Lavinia , congiuntasi con Marte ; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione , dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani , uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che , sollevandosi un membro genitale dal focolare , continuasse a farsi vedere per molti giorni , e , ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio , che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo , ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole , e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione , meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea . 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso , nel primo delle sue Storie , reca i nomi de' greci e de' romani autori , i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste , Aristotele , Calia , Senagora , Dionisio calcidese , Antioco siracusano , ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri . 6 Forse di Temide , chiamata da' Romani Carmente , a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare. 6 2 ROMOLO. con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante ; che Tarchezio , come seppe la cosa , gravemente crucciatosi , le fece prender ambedue per farle morire ; ma che poi egli , avendo in sogno veduta Vesta , 4 che gliene vietò l'uccisione , diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito , quando avesser finito di tesserla ; che quelle però andavano tessendo di giorno , ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte ; che , avendo la fante partoriti due gemelli , Tarchezio li diede ad un certo Terazio , comandandogli di toglier loro la vita ; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe , ed augelli d'ogni sorta , portando minuti cibi , ne imboccayano i bambini , fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi , e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi , in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione , che compild la Storia Italiana. II. Ma il racconto , che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj , è quello , le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio , seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri ; ma , per ispe dir la cosa in poche parole , il racconto è in questa maniera.“ De’re , che nacquero in Alba discendenti da Epea , il regno " Vesta , perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare . ? Storico sconosciuto . 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma , e , come già si accenno , ed è pur detto qui appresso , in moltissimi luoghi lo prese a guida. 4 Fabio , che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore , aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis ; pulso fralre , Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata , cioè la testimonianza contraria degli altri storici , e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba . Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio , sono 311 , seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma. ROMOLO. 53 pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti , e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno ; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo , la creò sacerdotessa di Vesta , onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia , altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita ; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio , Anto , figliuola del re , intercedette per lei , pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona , acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura ; onde , anche per questo vie più intimo ritosi Amulio , comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo , ed alcuni , che non già costui , ma quegli , che da poi li raccolse , avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla , discese egli al fiume per gettarveli dentro , ma , veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva , andò via. Quindi , crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla , e fu giù portata in un luogo assai molle , il quale ora chiaman Cermano, ma una volta , com'è probabile , chiamavan Germano , poichè chiamavan Germani i fratelli . III. Era quivi poco discosto un fico selvatico , il quale appellavano Ruminale , o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte , o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto ( Dione , 1. 1 ) . 3 Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo . Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo , il quale calcolò l'uno e l'altro ( anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente . 5* 54 ROMOLO. zogiorno bestiami che ruminano , o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino , º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano , scrivon gli storici , che stava a canto una lupa che gli allattava , ed un picchio , che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei , che quei bambini avea parto riti , fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte : quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole , stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice , per essere un vocabolo ambiguo , abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie , ma le femmine ancora che si prostituiscono : e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo , che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе . n . 57. ? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina , cosi di Cuna si era fatta Cunina , divinità che proteggeva i fan ciulli in culla . 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera , con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie . 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori . 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto , dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma : l'una nell'ultimo d’apri le , l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco , nelle sue Quest. Rom. , pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo , e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario , e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco. ROMOLO . 55NN zia , e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo , com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere , se egli vincesse , qualche buon presente dal Nume; e , se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa , e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò , geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo , vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti , e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione , allesti al Nume una cena , e tolta a prezzo Larenzia , ch'era giovane e bella , ma non per anche pubblica , l'accolse a convilo nel tempio , ove disteso avea il letto : e dopo cena ve la rinserrò , come se il Nume fosse per aversela . Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna , e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za , e , abbracciando il primo che ella avesse incontrato , sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze , che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli , ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene , e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà , la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre , e tenuta come persona cara ad un Nume , disparve in quel medesimo luogo , dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro , perché , traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza ; e questa maniera di trasporto chiamano velalura. ?. Alcuni vogliono che sia detto cosi , perchè coloro che davano qualche spettacolo , coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co , incominciando di là ; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo : velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin . , 1. XIX, c . 1 . 56 ROMOLO. IV. Faustolo pertanto , il quale era custode de'porci di Amulio , raccolse i bambini , senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni , ciò si fece con saputa di Numitore , ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli , condotti a Gabio , apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate : e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa , poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi , fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria , qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili , ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi . Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini , facendo nascere in altrui una grande estima zione di se , che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami , considerandoli come uomini , che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano , nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali , non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce , i corsi , lo scacciar gli assassini , l'ucci dere i ladri , il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere , nella musica , e nelle belle arti . Furono poi spediti a Gabio , città dei Latini e colonia d’Alba , distante circa dodici miglia da Roma , siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo . ROMOLO . 57 Amulio e que’di Numitore , e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti , ciò non comportando i due garzoni , diedero loro delle percosse , li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda , curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora , essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ) , i pastori di Numitore, incontratisi con Remo , che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra , restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore , e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore : ma questi non lo puni per tema del fratello , ch'era uómo severo ; al quale però, andatosene egli stesso , chiedeva di ottenere soddisfazione , essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava , egli che pur gli era fratello ; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato , Amulio s’indusse a rilasciargli Remo , perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto , se ne tornò a casa , e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura , che di grandezza e di ga gliardia superava tutti , e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere , e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure ; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava , e soprattutto , com'è probabile , coope- · randogli un qualche Nume , e dando unitamente direzione a principj di cose grandi , egli , locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità , interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita , aggiungendogli fiducia e speranza , con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni ; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire : « Io » non ti nasconderò cosa alcuna ; imperciocchè mi sembri più » re tu , che Amulio ; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire , e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia , servi del re ; e siamo due fratelli nati 58 ROMOLO. » ad un parto ; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te , ed in repentaglio della vita , gran cose dir » sentiamo di noi medesimi , le quali , se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento , per quel che si dice , è un » arcano : il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati , sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere , alle » quali fummo gittati , siamo noi stati nudriti , da una lupa » col latte , e da un picchio con altri cibi minuti , mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame , dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano , i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento , quando noi morti fossimo. » Numi tore , udilo questo discorso , e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane , non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola , che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto , avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore , esortava Romolo ad arrecargli soccorso , e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita , della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma , e fattone intender loro sol quanto basta va , perchè , badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli , portando la culla , incamminavasi a Numitore , di sollecitudine pieno e di tema , per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte , ed osservato essendo da loro , e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si , che quelle non si accorgessero della culla , che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via , e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città ; però Dionisio di Alicarnasso nota , che , temendosi allora in Alba qualche sorpresa , facevansi dal re custodire le porte. ROMOLO . 59 presenti quando vennero esposti. Costui , veduta allora la culla , e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re , gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato , il quale , essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare , nè si tenne affatto saldo e costante , nė affatto si lasciò vincere : e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti ; e che egli portava quella culla ad Ilia , che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla , per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio : conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore , con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso , e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città , per odio che portavano ad Amulio , e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie , ad ognuna delle quali precedeva un uomo , che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti , che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti . È egli verosimile ( chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore ? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo , e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato ? 60 ROMOLO . sorpreso il tiranno , che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione , nè a cosiglio veruno per sua sal vezza , perdè la vita. La maggior parte delle quali cose , quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio ( che , per quello che appare , fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche : ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro , che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato , se avuto non avesse un qualche principio divino , e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio , e tranquillate le cose , non vollero i due fratelli nè abitare in Alba , senza aver essi il regno , nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno , e renduti i convenienti onori alla madre , delibera rono di abitare da se medesimi , edificando una città in quei luoghi , dove da prima furon essi nudriti , essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi ;? e , poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere , sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè , che quelli che abitavano in Alba , non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini , manife stamente si mostra , principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne , prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado , mentre non potean far mari taggi in altra maniera , e non già per intenzione di recar onta , poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso , gettati i primi fondamenti della città , avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo ,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata , poichè fra ROMOLO. 61 ogni persona , ' senza restituire né il servo a' padroni , né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati , affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo , esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno , sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini : imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo , che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città : e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino , il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio , e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli , e po stisi a sedere separatamente , dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti , ma che Romolo abbia mentito , e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico , che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio , quando mettevasi a qualche impresa , conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali , non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini ; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto , nè uccide od offende animale alcuno che viva ; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro , quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie ; e però, secondo Eschilo , Come fia mondo augel che mangia augello ? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco : sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri ; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco , usando il presente , ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse. PLUTARCO , -1. 6 62 ROMOLO . Di più gli altri ci si volgono , per cosi dire , negli occhi , e continuamente si fanno sentire ; ma l'avoltoio veder si lascia di rado , e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini : ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti ; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce , non secondo l'ordine della natura e da se , ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode , n'era molto crucciato ; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi : finalmente , saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso , 3 come dicono alcuni, o , come altri vogliono , sotto quelli di un certo Celere , ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello , il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria ; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci : e Celere chiamarono Quinto Metello , perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. VIII. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia , si diede a fabbricar la città , avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa , come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo , che ora si appella Comizio , e riposte vi furono le primizie ? di tutte quelle cose , le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie ; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. 4 Vocabolo greco che significa cavallo veloce . 5 Sul monte Aventino . 6 Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose , state loro insegnate , dicevasi , da Targete discepolo di Mercurio . 7 Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà . ROMOLO. 63 di terra dal paese d'ond' era venuto , ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa ? ( chiamano questa fossa col nome stesso , col quale chiaman anche l’ Olimpo , cioè mondo) : indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore , inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca , tira egli stesso , facendoli andar in giro , un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro , s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro , non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea , chiamata per sincope pomerio , quasi volendo dire : dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta , estraendo il vomero e alzando l'aratro , vi lasciano un intervallo non tocco : onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte ; poichè se credes sero sacre anche queste , non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile :: e i Romani festeg giano questo giorno , chiamandolo il natal della patria. Da principio ( per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata : ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale , che chiamavan Palilia : ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci . Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno , in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino ( et de vicino terra pelita solo ) , a significare che Roma soggiogando i paesi vicini , diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe : mescolarono le va rie quantità di terra . 3 Il testo dice : l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto , dopo Dionigi d'Alicarnasso , Euse bio e Solino , i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi ( Dion . I. 1. ) 64 ROMOLO. . città , fu appresso i Greci il trentesimo del mese , e che fuvvi una congiunzione di luna , che ecclissò il sole , la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade. ? Ne' tempi di Varrone filosofo , uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia , eravi Tarruzio ? suo compagno , filo sofo anch'egli e matematico , il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica , nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora , facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio , siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita , quanto l'indagar questo tempo , datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato : e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio , e lo spazio della vita e la qualità della morte , e tutte conferite insieme si fatte cose , tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de , nel mese dagli Egizi chiamato Cheac , il giorno vigesimo terzo , nell'ora terza , nella quale il sole restò intieramente ecclissato , e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo , circa il levar del sole , e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora : imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città , come quella degli uomini , abbia il suo proprio tempo che la prescriva , il qual si considera dalla prima origine , relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità , di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma , svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani . • Era egli pure amico di Cicerone , che parlandone nel II de Divinat. si esprime così : Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster , in primis chaldaicis rationibus eruditus elc . ROMOLO . 63 possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città , prima divise tutta la gioventù in ordini militari : ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli , ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri . In altri officj poi distribui il restante della gente , e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj , e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè , come vogliono alcuni , padri erano di figliuoli legittimi , o piuttosto , secondo altri , per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri , la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi , che concorsi erano alla città ; o , secondo altri ancora , cosi chiamati fu rono dal patrocinio , col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro , vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva , e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse , che Romolo cosi gli abbia appellati , pensando esser cosa ben giusta e conveniente , che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna , ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi , e a non comportarne mal volentieri gli onori , ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato , chiamati son principi dagli stranieri , e padri coscritti dagli stessi Romani , usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai , e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri , ma poi , essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più , detti furono padri coscritti : e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla 66 ROMOLO. moltitudine de' plebei gli altri uomini , che poderosi erano, chiamando questi patroni , cioè protettori , quelli clienti , cioè persone aderenti ; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza , che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni : perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti , esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose : gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli , ma aiutandoli altresi , quando fos sero in povertà , a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti ; nė eravi legge o magistrato alcuno , che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti , o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo , durando tuttavia gli altri obblighi , fu riputata cosa vituperevole e vile , che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione , come scrive Fabio , fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso , essendo per natura bellicoso , ed inoltre per suaso da certi oracoli , esser determinato da’ fati , che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre , divenir dovesse grandis sima , siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle , ma trenta sole , siccome quegli , cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra , che ma ritaggi . Questa però non è cosa probabile : ma il fatto si è , che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli , ed i più , essendo un mescuglio di persone povere ed oscure , venivano spregiati , nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione , e sperando egli che l'ingiuria , ch'era per fare , fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne , diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui , che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso , o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza , essere ciò accaduto nel quarto anno . In fatti , come mai una città , per così dire , nascente , avrebbe fatta im. presa cotanto ardita , che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico ? ROMOLO . 67 chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta , e consoli quelli che hanno la maggior dignità , quasi dir vogliano consultori ) , o si fosse Nettuno equestre : conciossiachè questo altare , ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta , è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora , poichè fu scoperto , fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio , un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente : ed egli sedevasi innanzi agli altri , insieme cogli ottimati , in toga purpurea. Il segno , che indicato avrebbe il tempo del l'assalto , si era , quand'egli levatosi ripiegasse la toga , e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui ; e subito che fu dato il segno , sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole , lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite , dalle quali state sieno denominate le tribù ; ma Valerio Anziate dice , che furono cinquecento ventisette , e Giubba seicento ottantatrė vergini , la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata , che Ersilia sola , la quale servi poi loro per mediatrice di pace , si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania , ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti , ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio , uomo fra’ Romani sommamente cospicuo , ed altri con Romolo stesso , e ch'egli n'ebbe anche prole , una figliuola chiamata Prima , dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita , ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni , e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta , ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w , che significa raunare. 68 ROM OLO . alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una , che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano , ma che quelli che la conducevano , gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò , prorompessero in fauste acclamazioni , in applausi ed in lodi , e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla , per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio , di cui ad alta voce ripetevano il nome ; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio , come da'Greci Imeneo : conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese , uomo alle Muse accetto e alle Grazie , diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento ; e che quindi tutti , portando via le fanciulle , gridavan Talasio , e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono , fra ' quali è anche Giubba , che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio , detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani . Intorno alla qual cosa , quando falsa non sia , ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia , come i Greci , potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani , si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro , che nel lanificio . Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito , quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze , gridassero per ischerzo Tulasio , testificando con ciò , che la moglie non era condotta ad altro lavoro , che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa , passando da se medesima sopra la soglia , vadasi nella casa dov'è condotta , ma ve la portano sollevandola , poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni , che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa ROMOLO . 69 con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente , delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo , all'incirca , del mese detto allora Sestilio , e presentemente Agosto , nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. XIIĮ. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura , siccome persone , alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto , veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi , e temendo per le loro figliuole , inviarono ambasciadori , che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate , esortandolo a restituir loro le fanciulle , e ritrattarsi da quell'atto di violenza , ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle , e confortava pur i Sabini ad approvar quella società , andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo , e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne , e che non si potrebbe più tollerarlo , se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra , e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo , e Romolo contro di lui . Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere , stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto , se vin cesse ed uccidesse il nemico , di appendere l'armi a Giove egli stesso , il vince in effetto e l'uccide, e , attaccata la bat taglia , ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese ; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma , dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini ; nè vi fu altra maniera , che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando , aggiungeva sempre a se stessa , e divenir faceva del suo corpo medesimo 70 ROMOLO. i soggiogati. Romolo intanto , per rendere il voto somma mente gradevole a Giove , e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini , veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste , e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto , camminava cantando un inno di vittoria , seguendolo tutto l'esercito in arme , ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini . Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani : imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo : e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone , siccome chiamano essi opem le sostanze : ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi ; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito , quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici ; 4 la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani , il primo dei quali ſu Romolo , che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco ; e dopo questi Claudio Marcello , che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però , portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga ; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio : imperciocchè si racconta che Tarqui nio , figliuolo di Demarato , fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo , che trionfasse in cocchio , fosse Pu blicola : e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna , poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie . Marcus Varro ait , dice Festo , opima spolia esse , etiamsi manipularis miles delraxerit , dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso , recato qui appresso , è a Plutarco patentemente contrario , essendo pro vato che Cosso , quando uccise Tolunnio , era appena tribuno militare , ed Emi. lio il generale. ROMOLO. XIV. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi , stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia , furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo , a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese , del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto , eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite , lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini , creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma ; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo , dov'è ora il Campidoglio , ed eravicollocata una guar nigione , di cui era capo Tarpeio , non la vergine Tarpeia , come dicono alcuni , mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia , figliuola di questo comandante , che in vaghitasi dell'auree smaniglie , di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo , chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi , aprendo ella di notte una porta , li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo ( come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano , ma di odiarli dopo che avesser tradito ; nè il solo Cesare , che disse pure , sopra Rimitalca Trace , di amare il tradimento e di odiare il traditore : ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro , come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono , n'abbomi nano poi la malvagità , quando ottenuto abbian l'intento . Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò , ch'aveano alle mani sinistre , e trattasi egli il primo la smaniglia , l'avventò ad essa , e le av ventò pur anche lo scudo , e , facendo tutti lo stesso , ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi , dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome 72 ROMOLO. afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia , men degni d'esser creduti sono certamente coloro , i quali scrivono , ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo , operò quelle cose , e n'ebbe quel gastigo dal pa dre ; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto , pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli , e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera : Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio , e già di Roma Fea le mura crollar : poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial , de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte : Non però ad essa i Boj , non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po ; ma da le mani , avvezze A infuriar ne le battaglie , l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane , E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei , finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove , ne furono trasportate le reliquie , e manco ad un tempo il nome di Tarpeia ; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio , giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento , veggendo che , se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo , nel quale doveasi venire alle mani , essendo circondato da molti colli , avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani , verso là , doye ora è la piazza ; la qual cosa ne si manifestava allo ROMOLO. 75 sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale , portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio , uomo illustre , e tutto pieno di coraggio e di brio , cavalcando veniva innanzi agli altri di molto , ed , en tratogli in quel profondo il cavallo , sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce ; ma, come vide che ciò non era possibile , abbandono il cavallo , e salvò se medesimo : e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini , schivato il pericolo , combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo , quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia , ed avo di quell'Ostilio , che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie , com'è probabile , fanno principalmente menzione di una , che fu l'ultima, nella quale , essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo , e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo , e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però , riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e , ad alta voce gridando che si fermassero , li confortava a combattere : ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa , e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico , alzando egli le mani al cielo , prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle . Com'ebbe fatta la preghiera , molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re , e il timore di quelli che fuggi vano , cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore , che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo , e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia , rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto . Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da PLUTARCO . - 1 . 74 ROMOLO . diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri , con alte voci e con urli , come fanatiche, a'loro padri e a'mariti ; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta , e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri , e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi . Già i loro singulti venivano uditi da tutti , e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse , e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te , passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa , diceano , fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia , per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia ? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto , da quelli che presentemente ci ten » gono ; e , dopo di essere state rapite , trascurate fummo dai » fratelli , da’ genitori e da'parenti per tanto tempo , quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche , ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi , i » quali combattono , e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia ; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi : in tal maniera compassionate siamo » da voi . Che se poi guerreggiaste per altra cagione , dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi , renduti essendo per » noi suoceri ed avoli , ed avendo contratta già parentela ; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra , menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti , nè vogliate rapirci la prole e i mariti , ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose , e mettendo suppliche pur anche l'altre , fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro . In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne ROMOLO. 75 abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa , e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo , come attenti erano ad esse i mariti , e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano , se ne stessero pure co'loro mariti , da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro , ( siccome si è detto) fuorchè del lanificio : che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini : ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio , e che regnassero amendue e go . vernasser la milizia unitamente. Il luogo , dove si fecero que ste convenzioni , si chiama sino al di d'oggi Comizio , poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. XVI. Raddoppiatasi la città , furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini ; e le legioni fatte furono di seimila fanti : e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù , altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo ; altri della Taziense da Tazio ; e quelli ch'erano nella terza , chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono , i quali furono poi a parte della cittadinanza , chiamando eglino lucos i boschi . Che poi tre appunto fossero quelle divisioni , il nome stesso lo prova , dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie , le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne ; il che però sembra esser falso , imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti , fra'quali sono anche que sti : il dar loro la strada , quando camminavano , il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse , il non mostrar * Dionigi dice : « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano , » e tutti insieme Quirili . » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti . Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo . 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco : a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli , come potrebbesi agevolmente dimo. strare . 76 ROMOLO , sele ignudo , il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali , e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla , ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo , cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to , e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta , 3 e Romolo presso il luogo , dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera , e sono là , dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo ; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro , favoleggiandosi che Romolo , per far prova di se , gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo , la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla , quantunque molti il tentassero ; e quella terra ben acconcia a produr piante , coprendo quel legno , pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono , come la cosa più sacrosanta che avessero , e lo cinser di muro : e se ad alcuno che vi si ap pressasse , paruto fosse non esser morbido e verde , ma in . tristire , quasi mancassegli il nutrimento , e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua ; e insiemecorrevano da ogni parte , portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare ( per quello che se ne dice ) faceva fare scalee , gli artefici, scavando al d’intorno e da presso , ne maltratta rono senz' avvedersene le radici , e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani ; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene , l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar . * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati , ma si unicamente da' commissarj del senato . · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale ; Romolo il Palatino ed il Celio . 3 Cioè Giunone Moneta. ROMOLO. 77 matura sua propria e quella de' Romani , che portavano prima scudi all'argolica. XVII. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste , non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione , ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo , siccome quelle delle Matronali , 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra , e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini , e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia , indovina ed inspirata da Febo , la quale sia stata denominata Carmenta , perchè dava gli oracoli in versi , mentre i versi da loro chiamati vengono carmina ; ma il suo vero nome era Nicostrata : e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta , quasi priva di senno , per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi ; poich'essi appellano carere l'esser privo , e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra , che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio , il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei : e quindi appare esser quella solennità molto antica , portata dagli Arcadi , che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina , potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa ; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso , dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste , che si celebravano il primo giorno d'aprile , le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone , e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta , madre e non moglie di Evandro , come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom. , veniva adorata auche sotto il nome di Temi. 3 Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus , per che teneva lontani i lupi . 78 ROMOLO . che in quest'occasione si fanno ; conciossiache essi scannano delle capre; poi , condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte : ed i giovanetti dopo che forbiti sono , convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie , discorrono ignudi , se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse , credendo che conferiscano ad ingravidare , e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta , che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani , dice che avendo quelli , ch'erano con Romolo, superato Amulio , corsero con allegrezza a quel luogo , dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso , e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro , Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo : e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora , e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento . Ma Caio Acilio2 scrive ,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo , e che , avendo egli fatte suppliche a Fauno , ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore , e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie , se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero , servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare ; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli , e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione , tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Tito Livio , il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio . 3 Vedi Plutarco , Quest. Rom. , n . 68. ROMOLO. 79 ? zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo , non fuor di ragione si sacrifica il cane , perchè egli è nemico dei lupi , quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. XVIII. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco ,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali ; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei , e raccontan di più , ch' egli fosse anche indovino , e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo , ch'è una verga incurvata , ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga , la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli ; e che poscia , dopochè i Barbari furon discacciati , trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta . Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito , ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto , e di aver commesso adulterio : e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere ; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea , sacrificasse agli Dei sotterranei , Cosa è poi particolare , ch'egli , il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio , ' come fosse questo cosa veramente esecranda , e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità , " S'intende in Roma , poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali , da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii , sul monte Palatino , 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil , parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. 80 ROMOLO. 1 ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto ; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale , Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui . XIX. L'anno quinto del regno di Tazio , incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari ; e , poichè essi resistenza faceano e difesa , gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria , Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori ; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò , e sorpassava la cosa ; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione , portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose , affatto operando , per quanto mai è possibile , di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi , non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi , assalitolo in Lavinio , dov'egli sacrificava insieme con Romolo , gli tolser la vita , e si diedero ad ac compågnar Romolo , siccome uomo giusto , con fauste accla mazioni. Egli , trasportato il corpo di Tazio , onorevolmente lo seppelli nell'Aventino , presso al luogo chiamato Armilu strio : nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici , che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio , e che Romolo gli lasciò an dare , dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione : il che diede qualche ragione di sospettare , ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno , nè si mos sero punto i Sabini a sedizione : ma altri per la benivoglienza che gli portavano , altri per la tema che aveano del di lui potere , ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria ; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti . • Luogo dell'Aventino , dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. ROMOLO. 81 anche molt'altre genti straniere ; e gli antichi Latini , man datigli ambasciadori , fecero amicizia e lega con esso lui . Prese poi Fidena , città vicina a Roma , avendovi , come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria , con ordine di recidere i cardini delle porte , ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso : ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi ; e che. Romolo , avendo loro teso un agguato , e uccisi avendone assai , s' impadroni della città. Non volle demolirla però , nè spianarla , ma la rendette colonia de' Romani , man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza , che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia , e rendeva anche sterile la terra , ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue ;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma , da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento , già pareva ad ognuno , che , per essere stata violata la giustizia , tanto sopra la morte di Tazio , quanto sopra quella degli ambasciadori , l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori , si videro manifestamente cessar quei malanni : e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza , vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro , e , superalili in battaglia , ne uccise seimila. Presane poi la città , trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio ; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio . dice soltanto 300 ; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue , tanto terribili agli anticbi , compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso ; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. 2 3 82 ROMOLO. ch'erano restati vivi ; e da Roma passar fece un numero di gente , il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto , coll'altra metà che vi aveva lasciata . Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini , sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame : questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo , che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose , i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria , e , trovandosi in sicurezza , se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza , da timore presi ad un tempo e da invidia , non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati ; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo , e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto , i quali possedevano un vasto paese , ed abitavano in una grande città , furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena , siccome cosa di loro ragione : il che però non pure era ingiusto , ma ben anche ridicolo ; perocchè , non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra , ma aven doli lasciati perire , ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno , mentr' era già in mano d' altri . Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti , si divisero in due parti : coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati , coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena , rimasti superiori , uccisero duemila Romani , ma dall'altro canto superati da Romolo , vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena : e si confessa da tutti , che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso , avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire , e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni , è del tutto favoloso e interamen te incredibile , che di quattordicimila che morirono in quella battaglia , più della metà ne fosse morta per man di Romodo ; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria . Cosi anche ROMOLO . 83 come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene , che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi , e avean già date le spalle , s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro , per una tale calamità , non fecero più resistenza , anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento , rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese , da essi chiamato Sette magio , cioè la settima parte ; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei , uomo vecchio , ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente , quando sacrificano per avere otte nuta vittoria , conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto ;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi , e la città de' Vei è in Toscana. XXI. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo . In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti , o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire , quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate , e portandosi con più grave fasto , già si toglieva da quella sua affabilità popolare , e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva ; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele , precedendo a Davide , che ritornava dalla vittoria dei Fili stei , cantavano : Saulle uccise mille , e Davidde diecimila . Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii , cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata ; la quale , per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. 84 ROMOLO. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta , e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che , quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca , e portavan cinture di cuoio , onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare , che ora da’ Latini dicesi alli gare , anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi , dal servirsene che facevano allora , come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c , fossero nominati prima Lito res , essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo , e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore , quan tunque a lui toccasse regnare , ciò nullostante , per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica ; i quali , raunandosi in consi glio , piuttosto per costume che per esporvi il loro parere , stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare , che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto . Ogni altra cosa però era di mi nor importanza , rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi , e restituiti gli ostaggi a' Vei , senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini , e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo ; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. ROMOLO. 85 suasi ne fossero : nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato , il quale per questo fu poi tenuto in sospetto , e diede luogo alle calunnie , quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini ; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio , ed allora Quintile , non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile , fnorchè il tempo già detto : imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora . XXII. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza , quando , morto essendo Scipione Affricano ? dopo cena , in casa propria , non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte : 3 ma alcuni dicono che , essendo egli per natura cagionevole , si morisse da per se stesso ; altri ch'egli medesimo si avvelenasse ; ed altri che i suoi nemici , avendolo assalito di notte , lo soffocassero : eppure Scipione , quando fu morto , giaceva esposto alla vista di tutti , ed il suo corpo , da tutti essendo osservato , potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte . Ma, essendo Romolo mancato in un subito , non fu vista più parte alcuna del di lui corpo , nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori , assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no , smembrato n'avessero il corpo , e ripostasene ognuno una parte in seno , portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano , nè dove fossero i soli sena tori , foss' egli svanito , ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra , o sia di Cavriola , si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole , e venendo una notte non già placida e quieta , * Il Calendario romano segna in questo Populifugium , None Caprolineæ , e Festum ancillarum , cose tutte , che possono aver relazione al fatto , come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero , onde Valerio Massimo disse : Raptorem spiritus domi invenit , mortis punitorem in foro non reperit. PLUTARCO , 1 . 8 86 ROMOLO . ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta ; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo , dicono che fu allora cercato e desiderato il re ; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca , nè che venisse presa gran cura ; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come , da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine , udendo questo , se n'andava allegra , è lo adorava piena di buone speranze : ma che vi furono pur anche laluni, i quali , aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano , come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. XXIII. Essendo adunque essi cosi costernati , si racconta che Giulio Procolo ( uomo fra' patrizj principale per nobiltà , e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi , fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza , e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto , disse alla presenza di tutti , che , camminando egli per via , apparso eragli Romolo , che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro , adornato d'armi lucide e sfavillanti ; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista : « O re gli aveva » detto , per qual mai offesa da noi riportata , o per qual tuo » pensamento , hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie , e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore ? » E che quegli risposto aveagli : « È piaciuto, o » Procolo , agli Dei , che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini , e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo , » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo , e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera , dicevasi , del Dio Marte padre dello stesso Romolo. ROMOLO . 87 » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere : ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava , come pel giuramento che fatto egli aveva : ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse , ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia , si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio , ' e Cleomede d’Aslipalea . Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore , e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po , fosse svanito ; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio , dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono , che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura , ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso , facesse molte violenze , e che finalmente in una certa scuola di fanciulli , percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta , la rompesse nel mezzo , precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che , venendo egli inse guito , se ne fuggisse in una grand’arca, e , avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo , quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che , spezzata poscia quell' arca , non ve lo ritrovassero nè vivo , nè morto ; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello , e risposto fosse dalla Pitia : L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena , mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide , storico , poeta e grau ciarlatano , visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta . 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó . 4 Plutarco cita una sola parte della risposta , la quale cosi Gniva : Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. 88 ROMOLO . d' di tali favole lontane dal verisimile , divinizzando le persone che son di natura mortali , e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità , ell ' è cosa empia e villana ; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando , secondo Pin daro , si ha già sicurezza , Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun , ma resta salvo Lo spirto ancor , d'eternitade immago . Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei , e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna , non già in com pagnia del corpo , ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso , sgombralo della carne , e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima , quando è secca ed inaridita , secondo il parere di Eraclito , ” è allora nella sua maggiore eccellenza , volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola ; dove quella , ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata , è come un vapore grave ed oscuro , che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti , ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi , di eroi in Genj , e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni , purificate e santificate sieno , schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni , tener si vuole non per legge di città , ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi , ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine .? .XXV. In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo , altri vogliono che significhi Marte ; altri dicono che cosi fu egli chiamato , perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti ; ed altri pretendono che ciò sia , perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta ; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso , vissuto poco dopo Pittagora , riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi , i genj, e gli Dei. ROMOLO. 89 Giunone , messo in cima d'una punta , detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia : ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra , col donar loro un'asta : onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino , per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui . Il giorno , in cui egli svani , si chiama fuga di volgo , e None capraline: perché in quel giorno , discesi dalla città , sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio , imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga , ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo , e la città , spossata ed indebolita , mal potea per anche riaversi , mossero l'arme contro di essa molti de' La tini , avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma , inviò un araldo , il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela , coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però , se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito , pace n'avrebbero ed amicizia , siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani , temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi , una serva nomi nata Filotide , oppur Tutola , come altri vogliono , li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra , ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra , quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima , e con lei altre serve avvenenti e ben adornate , fossero , come persone li bere , mandate a' nemici ; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola , ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno , e li trucidassero, Cosi 8* 90 ROMOLO. per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico , tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine , acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto , e chiaro si mostrasse a' Romani , i quali , come il videro , subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte ; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici , e superati aven doli , celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria ; ed un tal giorno è chiamato le None capraline , per cagion del fico salvatico , detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico ; e si portano quivi le serve con ostentazione , raggiran dosi intorno , e facendo giuochi ; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre , come allora che diedero soccorso a’ Romani , e combatterono insieme con essi in quel conflitto . Queste cose sono ammesse da pochi storici : ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno , e intorno all'andare alla palude della Capra , come ad un sa crifizio , sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione , se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo , l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo , e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relata steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formula logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta. Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cerebotani (Lonato). Filosofo. Grice: “Ceere-botani is a genius, and I’m amused of his surname, since a linguistic botanisit he surely was! His ‘prontuario del periodare classico’ charmed everyone, including his ‘paesani’ of Brescia – the little bit on Lago di Garda! There’s a stadium in his name! He also played with Morse, which means he was a Griceian, since he was into the most efficient way of ‘transmit’ information! ‘quod-quod-libet, he called it, what Austin had as Symbolo!” Presentato da Marconi. Linceo. Altre opere: “L’organismo e l’estetica della lingua italiana classica” Inventa il teletopo-metro, l’auto-le-meteoro-metro, il tele-spiralo-grafo, ecc. Il pan-tele-grafo-cerobotani o tele-grafo fac-simile, cioè apparecchio a comunicare immediatamente e per via elettrica il movimento di una penna scrivente o disegnante ad altre comunque distanti.  Emise idee sulla tele-grafia multipla. Fonda il Club elettro-tecnico, coll’intervento della regia Legazione italiana. Inventa il tele-topo-metro, uno strumento che serve misurare la distanza tra due punti. Altre opere: 'La tachimetria senza stadia'. Fa costruire una stazione meteorological. Amico di Marconi. Riesce a trasmettere La Divina Commedia a 600 km di distanza. Nel settore della geodesia, inventa il teletopometro, un apparecchio che serve a misurare le distanze fra due punti che sperimenta sulla marina da guerra. Inventa il nefo-metro, per misurare le nubi. Costruzione di una stazione meteorologica automatizzata nelle montagne del Caucaso. Questa stazione e dotata di strumentazione in grado di comunicare le variazioni atmosferiche direttamente a Roma attraverso segnali a radiofrequenza, ed era alimentata elettricamente con delle batterie che si dovevano ricare ogni due o tre anni.  Il teletopometro serve a misurare la distanza tra un punto mobile ed un punto fisso. Il Santo Padre l’esegue la misura della distanza tra la cupola della basilica di San Pietro e le stanze papali. Il teletopometro fu usato a inizio secolo per eseguire i primi rilievi topografici in Liguria, ed è stato soppiantato poi dal telemetro monostatico.  Inventore di un telegrafo a caratteri, che fu sperimentato con successo tra Roma e Como. Inventa un ricevitore a caratteri senza filo, che rende più docile il Coherer.Inventa una serie di strumenti per le miscurazioni, come il autotelemetereografo e il tele-curvo-grafo. Inoltre, ha anche costruito un pantelegrafo, ed è stato il primo a tentare una trasmissione radio inter-continentale, esperimento che riuscì a Marconi. Il tele-autografo è uno strumento che sirve a trasmettere un segno (disegno o scritto) a distanza. Costruì un teleautografo che, con un penna, permetteva di comandare il moto di una penna ricevente, comandata elettricamente. Grazie al suo apparecchio, riuscì a trasmettere un segno a 600 chilometri di distanza. Il sistema di rilevazione della posizione del pennino, e di comando, è completamente diverso da quello del pantelegrafo Caselli. Nel settore della telefonia, inventa un selettore per una chiamata individuale, per centralini telefonici e telegrafici inseriti in un circuito; il 'Qui-Quo-Libet', oggi chiamato telegrafo stampante. il teletipografo, o telefono scrivente, o telegrafo stampante. Il teletipografo è una macchina da scrivere collegata ad un telegrafo, il quale a sua volta viene collegato ad una ruota, il 'tipo', sul quale sono impresse le lettere dell'abecedario.  In trasmissione, l'operatore scrive sulla macchina da scrivere, e il telegrafo invia una serie di impulsi elettrici che codificano il carattere inviato, come nel codice morse. In ricezione, il telegrafo riceve gli impulsi, e, in base al segno, comanda il 'tipo', con il quale viene stampato su carta il carattere ricevuto. Lo stesso apparecchio è utilizzabile sia in ricezione che in trasmissione, e sfrutta la normale linea telefonica.  Questo strumento permette di trasmettere un carattere alfanumerico ad una velocità di 450 segni al minuto (più di 90 parole, come una normale macchina da scrivere dell'epoca), e quindi tre volte superiore rispetto al codice morse.  Usato per le comunicazioni tra la Segreteria di Stato e gli uffici vaticani.  Inventa un orologio elettrico senza fili, capace di regolare il movimento di altri orologi collegati con la stessa fonte d'energia.  Studia la luce fredda. La lampadina ad incandescenza sfrutta l'energia della corrente elettrica per effetto Joule, mentre la luce fredda è luce generata sfruttando la corrente con dei condensatori, in modo tale da eliminare il calore. Questo tipo di illuminazione ha trovato impiego nelle lampade al neon. Lo stesso principio della luce fredda è anche alla base della tele-visione.  Altre opere: Direttorio e Prontuario della Lingua Italiana. Dizionario biografico degli italiani UN SAGGIO DELL’OPERA. Nervatura del periodare e dire classico italiano ( “I ( ) i. ABBOZZI E LINEE I ) I l N DIRETTORIO E PRONTUARIO DELLA LINGUA ITALIANA sI:( 1 ) NI ) ( ) ( i I, I S( H: I l 'I ( )1: I ANTICHI a) V 1, I ' ( ) N A “. 'I' AI;. 'I'I l'. Vl. I; l 'I l'IN EI. I , l E i FROENAIO  ( 'n i grande mov/r , l'archi: o c', ''a / ) a italiana - (, e mesi da V /i ) i o / /i, le gio. a m. ' - /Xivisione - . 1//a f, ggio in cem , l ’ abi/e, intangibile il valore dimo, fra l ' - l ' 7 de /fo di scrittori gratissimi e figure rºt/or he, le me/a/ore non sono la lingua - Voi : i stile senza la lingua - V)all'integrit. 1 del tessuto la psiche della lingua italiana - Via lingua italiana adopera al risveglio del sopito genio italiano - Prima demolire e poi riedificare - L'una e l'altra cosa dal Direttorio imp, ric a. miun senso da lingua, chi ct // ruga a ſe la c/o cuzione può essere cosa convenzionale e arbitraria - . I mularne un mom/i le//a ne va del /'intrinseco valore e della . ila importanza adunque e valore ancora didattico del DIRETTORIO. Opportunissimo ad ogni pemma e gra - devolissimo il PRONTUARIO l/aniera di  la S (17 ) a 62.  Sono agli sgoccioli della povera vita mia, e sarebbe gran peccato se mancando questo uomo mancasse anche quel po’ di bene che mi sono lavorato per la patria mia adorata.  sicura, un repertorio, l’archivio della sua bella lingua. Se niun’opera dell'uomo può essere mai si conipletº e perfettº che non sia anche suscettibile di modificazione e di ammenda, molto più devesi ciò affermare di un saggio che vorrebbe aver cerche tutte le innumerevoli regioni e più riposte di una lingua, e particolarmente di un saggio siffatto, il cui indirizzo. o dirò meglio il cui voto Sarebbe di somministrare ordinatamente e con la scorta di acconce riflessioni, le devizie, le grazie, e le pieghe tutre dell’italico idioma. Sarebbe quindi temerità, milanteria a dargli nome di opera perfetta e completa. Il modegi i.clo che per: in fronte, cioè, non altro che di semplice ABBOZZO E DI LINEE vuole adunque temperare il malsuone che farebbe dirlo alla scoperta: i) DIRETTORIO E PRONTUARIO. Uscito dall'aringo delle scuole, ove lo spirito comincia sanamente a vedere, e prende triove forme, ed è avido di nuove cose, ed agile e svelto si addestra ad imporare, lui tosto sollecito di lavorarmi mano maro una certa maniera di altre tanti 'dde-Aic, un quante le discipli te nelle quali l’ufficio mio portava che mi erudissi, e delle quali era vago. E così col decorrere degli anni mi vennero riempiti parecchi vade-mrcum, sia delle Sacre Scritture, sia della Morale e della dogmatica, e sia ancora delle cosidette scienze esatte, della storia, di alcune lingue moderne e finalmente di una maniera di scrivere dei nostri classici italiani, che mi º brava non solo diversa dalla comune e vol gare d’oggidi, ma che mi piaceva e mi andava all’animo che nulla più. Andò poi tanto nn , i 'anore, la delizia, la vigoria che veniva il sito spirito dailo strid e ibri di quei gloriosi dei 300 e 500 che mi misi alla dura di farini gia dentro terra, scandagliarne le ragioni ieg he, sapere dell’onde e perchè di questo notevolissimo, sostanzialissirio divario, e presi subito a sviscerarne tutti gli autori che quel l’Accademia slie il più bel fior ne coglie i propone si come maestri di ;ingua ed ai quali dà nome di “classici”. II l'ade-Meetini della linea italiana cresceva indi a dismisura, di che man in no che si accumulava il materiale, anche l’aculeo della me, e venivº ogrori più assottigliandosi, ghiotta come n'era, avi da vi più e brenese di elaborarsi sicuri, costanti criteri qual che la m sria e lo stile del saggio classico si fosse, mercè dei quali riconoscer ip os e I i s ! º º ci, sicuº, che giammai in n saggio volgare e moderno. Sgom:onto e in caſi piacciº insieme a ripensare le aspre fatiche Che con diuturnº i reità ho durate per anni ed ºnni, solo di vederla a purtg di ragione e chiarirmi di quel tanto encomiato ma non mai spiegato non so che. Stupendo, meraviglioso i tito quello che il lorno i.ll l I l CAN/ A  r ci lasciarono scritto un Varchi, un Bembo, un Cinonio, un Corticelli, e molti altri. Sottili le disanime di un Bartoli, amplissime le ricerche, gli si udi di un Gherardini, da sim fuor g . gr mi . Ai . le dissertazioni di un Padre Cesari, ma dopo tutto ciò, dello scrivere classico non si è porta e discussa altra cosa che gli accidenti e le apparenze dell’essere, non il suo vero essere vitale, quidditativo, sostanziale. L'essere. ia ma, ura dell’ELEGANZA si rii i ſino tuttavia og cilta, e cgili a loro hº e rºg, vi i ce .re ch: i ganzo è al postutto un non so che. Ma è appunto questo non so che che io voglio a tutt’uomo tor di mezzo, e farla intuire, non che sentire, l'essenza, la quiddità immanente di quello che dicesi : Il ci º N / A.E stimulato dall’ardore di questa idea tenacissima misi mano ad un lavoro arduo e faticoso quanto niun’altro: mettere cioè a riscontro di tutti quegli infiniti luoghi del 300 e 500 che più mi ferirono la medesima cosa detta mºdernar:ente. Riempiti poi che mi vennero per siffatta guisa ben cento e cento fascicoli, e pºstº luindi nenie a tute le più minuti circostanze del differire che fa il linguaggio º di riº: d l 'ic : classico, mettendo di ogni luogo in rilievo quelle voci, tutti quei momenti del logos, quelle curve, quelle pieghe, e quella maniera di costrurre che è sol proprietà di ogni scrittura antica e classica, di º cosa all’opposto niente cc:nsine º una cenna volgare e moderna mi notai da prima di ogni penna classica, e di ogni stile, il mantene e ripetersi inalterato, sia di un medesimo assetto e tornio periodale, sia di certe singolarissime  locuzioni: ci; mi sfuſi i denti qui.iti i s. a più i ngo e la virtù 2 e di 3 ti - , ingr. l Ti s. “I e investigandone ad un tempo, e quanto possibile acutamente, gli intimi rispetti e le più riposte correlazioni logiche, mi vennero a non molto veduti e costantemente confermati tre ordini distinti di quella cosa onde a mio senno di genera l’eleganza: e sono appunto le parti della prima sezione di questo saggio. Cose di indole organica e che più strettamente si rife riscotto al tessuto periodale: inversioni, separazioni, compagini, locuzioni elittiche ecc. Parole e forni e notevoli, e il cui retto uso adopera anche alla l'ila del DISCORSO e all'ossetto costruttivo.Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso alla elocuzione garbo si deriva e vigoria.  E' in 'b e º ci reggi e 1 in to gº e sº ort che  - - - - - - : - 'n - 1 v altri studi, altre sollecitudini me ne impedivano, l’avrei già allora consegnato alle stampe, malgrado l’indole del tempo che abborrisce dal cosidetto purismo. Era naturale che, compenetrato come era di questo purismo, gli scritti che misi poi fuori intorno alle mie elucubrazioni scientifiche º v-vºno essi pire ris mire del 300 e 500. A vedere lo spirito al tutto singolare e diverso onde sono guidate le lettere d’oggidì, basti ricordare come siano mal capitati i miei manoscritti, e come gli inca ricari della stampa, non che loro andassero all’animo, ma neanche puº e re . p v. i) , c gion di ssinpio, aveva scritto che quel litogo era oscuro che nulla uscita vi si scorgea» (simile a : selle scura el la dii iita via era smarrita) per la stampa si volle ritoccare e completare: a quel luogo era tanto oscuro che.... ». E dove : i n sºn va che l in', se a condiscºndervi o se rimanerme ne » (simile a : non Sap 'a che farsi. Se su 'i salisse o se si stesse, l3ecc.) iº lo vidi inve: : : Inp. 1a così : non sapeva che cosa do vessi farc. Se vi dovessi accondiscendere ecc. ). Dove: « nè questo già ner sancr farmi sl, al viadon sss (tolto di peso dal Bartoli) si sta impò invece: nè questo già perchè egli vi adoperasse sapere darmi o li dove ancora affermava di avere fatto a una cosa a spasso », di « esserini pensato non so che di a arer cessato una mala ventura º, di giºcº l'aiiiino a checchessia » ecc. ecc., oimè, dolente mè! che invece mi freero dir el "vevo ! alla cosa al risseggio » che ci aveva pensato di noti so che , che la mala l’entura era ceS Sgla o che aveva un’arimo grande per ecc. . ! ! l: di questi pretesi titocchi ed ammende Sono Sconciamente straziati e snaturati i miei manoscritti che si pubblicarono cella mediazione di chi non aveva paia o di rivonica, i nº chi classici.E' quindi agevole immaginare lo si to del mio animo (ora che fi palmente mi accingo a pubblicarle queste mie fatiche giovanili) di frºnte all'indirizzo del mondo linguistico d’oggidì. Forse si griderà al retrogrado, al pedante, che vuole imporre cose vecchie e smesse, e rimettere sul mercato masserizie da rigattiere e da cassoni. Ma ad enta di tutto ciò tri pensiero già ſin d’ora mi sorregge e mi conforta, ed è che di questo saggio, quantunque in contrario sia per seguirne, col l’immensa copia di esempi tolti dai saggi mastri, e di ogni forma e di ogni stile, riun critico, per acre e spiacevole, potrà mai impugnarne il lato DlMOSTRATIVO, che cioè il Glamiera di Scrivere degli antichi è gitelia che ti si dimostre, ed è altra dalla comune e volgare dei mestri giorni. E qui lascio la parola a nomi autorevolissimi, e prima a quell’entusiasta che fu del 300 e 500, l’abate Giuberti, il quale pieno di sdegno verso lo scrivere moderno, lo dice, nel suo PRIMATO, senza una pietà al mondo. Pedestre, terragnuolo, ermafrodita, evirato, senza nervo e colore, di mezza temperatura, non si alza dal suolo e striscia per ordinario, allia e svolazza, non vola mai, una fosca meteora, non un astro che scintilla. E più avanti si rifà all'affrontata, e lo chiama scucito, sfibrato, spettinato, sregolato, scompaginato, rugginoso, diluto, cascante, floscio, gretto, goffo, deforme, un bastardume: un intruglio, un centone, un viluppo di brandelli, e ciarpe straniere, uno stile da fare stomaco, spirito francese camuffato alla nostra le ecc. ecc. ), mentre, tutto ammirazione e venerazione verso gli antichi prosegue e scrive: a Paiono talvolta ritrarre gli aculei sentenziosi dei proverbi e le folgori dei profeti. Quanta leggiadria e gentilezza non annidassero nel maschio petto di quegli uomini a cui la schifiltà moderna dà il nome di barbari! In quella era vera coltura Ciò che oggi chiamasi coltura è in molti piuttosto un'attillata barbarie. Anche il laconico ma forbitissimo Gozzi lamenta che l'Italia non sa più come parli e ognuno che scrive fa come vuole, una fiera dove corrono tutte le nazioni e dove tutti i linguaggi si sentono. S’impa racchi a II n a I l m g II a S m 0 I I i C a td e tr 0 Il Cd, S e Il I a a r red 0, S e n 1 a 0 n 0 re, St 0 p er di re S e Il I d l ibertà e dà quindi sulla voce agli scrittorelli senza studio e fatica necessaria ad acquistare un sicuro possedimento di quella lingua in cui si scrive, i quali scrittorelli non avendola per infingardaggine curata mai, atterriscono tutti col dire, che essa è inutile e col farsi beffe di chi vi li a p er d II t 0 d e II tr 0 gli 0 C C h i. Il melodico e terso Salvini deplora esso pure i traviamenti letterari dei suoi tempi, presagisce e nota. Guai alla lingua italiana, quando sarà perduta affatto a quei primi padri la riverenza! Darassi in una babilonia di stili e di favelle orribili, ognuno farà testo nella lingua, inonderanno i solecismi e si farà un gergo e un mescuglio barbarissimo. Chi non sa che il grande Davanzati, è una maestà, un portento in opera di lingua? Ma ecco come alloguisce coloro che già ai suoi tempi facevano a fidanza con lo studio e con l’uso della lingua. Fingete di vederla (la nostra antica favella) dinanzi a voi quì comparire in figura di nobilissima donna, maravigliosamente adornata, con la faccia in sè bella, quanto amorevole, ma ferita sconciamente, e travolta le sue fattezze e tutta laida di fango, e che ella vi dica piangendo e vergognando. Guai a me, che straziata sì m’hanno, come voi, quì mi vedete, quelle mani straniere.  Io vi chieggo mercè. E ora sia lecito anche a me, sotto l’egida e fra le trincee di questi valorosi, di dire brevemente quello che ne sento, ciò è a dire chiarirci di alcune idee, ed anche discorrere l’opportunità ed il valore non solo dimostrativo, ma anche didattico di questo DIRETTORIO. Asserendo che nei dettati alla moderna non vi sento quella leggiadria, quel garbo, quel candore, quel non so che di soprasensibile che regli antichi, non è già mia intenzione di censurarne le alte concezioni e menomarne comechessia il valore e la spigliatezza, e sia nella scelta e convenienza delle metafore e delle immagini, sia nella vivacità e pompa delle descrizioni, e sia in questa o quella cosa, che del resto, i cn è, vi , p v': c velli rs it:li no, ma che può essere comune e sº bene neiie in altre lingue. Se l’essere, il valore di una lingua dimorasse sol nei vocaboli e nelle figure rettoriche, cioè ièci traslati, nelle metafore e nelle immagini, non sarebbe l'idioma, e ne andrebbe del carattere non ch’altro e dell’estetica della lingua in quanto lingua le varie lingue tornerebbero ad una, e renderebbero immagine di III la sola cantilena che sia suonata ora con uno, ora così altro istrumento, differendo l’una dal l’altra solo quanto può differire il suon di una tromba da quello di : 1) : l ri: ti: .I e concezioni, il modo di pensare, la disposizione e l’ordine del le idee sono di una persona che ne ha la lingua, non altro che il suo stile, cioè un fatto suo individuale, una maniera di DISCORRERE secondo intende e sente. Come non può essere che un uomo si cessi la sua individualità e ne prenda un’altra, così sarebbe opera disperata chi si affidasse di pigliarsi lo stile d’altri. Ma la cosa che negli ameni dettati degli antichi si impone alla nostra ammirazione e vuol essere oggetto di considerazione e di stu si o, è l'intrinsec. e sei le ferma sostanziale, c S nip e la medesima, di qualsivoglia stile, dalla quale allo spirito più che al senso quella soavità viene cottel diletto che mal si cercherebbe nella materialità delle voci, è la grazia, quel vago ascoso e nudico onde ogni stile torna a quello che dicesi stile elegante: simile alla luce che, mentre senza di essa ogni cosa è spenta e al senso della vista non è solo che un suo raggio apparisca, la natura tutta subitamente risveglia, e alle molteplici individualità del visibile dà vita e vigoria di ghºzzo infinito, la lingua è rispetto allo stile quello che la luce, la forma sostanziale delle cose, rispetto alle individualità. Comr l’origine e l’essere di tutte le infinite individualità della luce, le quali sono perchè sono i sensi, è un solo, oltre la barriera dei sensi e fuori di cifra, fuori della ragion di quantità, fuori delle angustie delle individualità, e come al  -  tresì la sostanza delle cose è costantemente e universalmente una,  inaccessibile ai sensi, e, come che essa pure non sia ai sensi che per le sue individualità, cioè per quello che dicesi materia seconda, specie od accidenti, ell’è tuttavia ben altra cosa che le infinite sue individualità, così l’essenza della vera lingua non può essere che costantemente UNA, un “non so che” di soprasensibile, quantunque ai sensi svariatissima nelle sue individualità, che sono appunto quello che ha nome stile. Si parla di stile più o meno elegante, più o meno piacevole, ma non si pon mente alla ragione intrinseca di quel grato che per lo stile allo spirito si deriva, il quale, non nella materialità dello stile, ma bensì nell’intima vitalità della lingua essenzialmente dimora; simile al vago della bella natura, di cui più che il senso lo spirito nostro si diletta, e che non dal sensibile si genera e dagli accidenti, ma da quel l’occulto che ne è l’essenza vera, il principio di vita. E poichè ci venne dato nei veri della natura, notisi ancora una acutissima considerazione onde la natura stessa ci è maestra, che cioè come cosa qualsiasi non può essere individualità di una forma sostanziale ove ne manchi la sostanza (a cagion d’esempio individualità del l'oro, del legno. ove manchi la sostanza dell’uno e dell’altro, individualità di un essere sia vegetale che animale ove manchi la vita) così non solo non può essere lo stile di una lingua stile elegante, ma addirittura non ci può essere stile veruno ove manchi la lingua.l: ora si capirà anche meglio l’eff to di soc”:inzi. . he cioè la natura, la forma sostanziale di una lingua, e più che di ogni altra della nostra cara lingua italiana, nei cui visceri ogni cosa è vita, delizia, soa vità e pace, è ben altra cosa della materialità dei vocaboli, sia nel proprio che nel traslato, non altrimenti che di un ricamo, di un disegno il cui pregio agli occhi della mente nulla si muta mutandosene la materia. Che monta all’estetica, al valore architettonico, al concento delle linee di un monumento, di un edificio, l’essere costruito più tosto con una che con altra pietra? Siano pur preziose le parti organiche di un essere vivente quanto si vuole, che giova se vi manca la vita? Di Apelle si narra che, invitato da un giovane pittore a dare il suo giudi zio intorno all’effige della bella Elena, esclamasse. Non la hai saputo fare bella, l'hai fatta ricca. Metto pegno che chi discorre queste pagine e non ha colºu' º di lettere altro che moderna, gli nar di tre o mare, di sm morire, e poco si tiene che non mi mandi con Dio e mi dia anche nonne di esaltato e di sofisticone. Non meraviglio. Il medesimo sarebbe di chi è abituato alle cantilene da villanzoni o solo alle canzonette da piazza e da trivio e altri  volesse di punto in bianco ringentilire il suo udito volgare e bastardo, e recarlo per niun’altra via che tessendone gli elogi, a dilettarsi delle grazie vereconde di un Pergolese, delle profondità pottoniche di un Palestrina, di un Orlando di Lasso, dei portenti delle fughe di un Bach, delle poderosità melodiche di un Beethoven, di un Heyden, di un Haendel: od anche di chi non vede più là delle Sorde larve e Sozze di certe oleografie, più i degli imbratti di un pennello pedestre e terragnuolo, ed altri ne deplorasse la decadenza, lamentasse le turpitudini volgari e moderne a petto delle inarrivabili sublimità degli antichi in opera di pittura e di scultura. Ah! siamo sinceri, e confessiamo ch’è oggimai agonizzante la psiche del metafisico e dell’estetico, e non che sopito il senno antico, ma anche il senso del genio e del bello che irradia nelle opere dei nostri padri, è oggi a termini del più miserando languore. Che altro ci rimane adunque se non di por mano a tutti quei mezzi che adoperano, secondo scrivono l'8artoli, Costa, Casati, ed al tri molti, alla riforma, ad una sostanziale elaborazione del pensiero, ridestando e rivocando a vita l’originale candore, il sopito e per poco spento genio italiano è l’elaborato mentale, soggiunge a tal uopo Giuberti, è di sì intimo messo inoculato al linguaggio, che sarebbe violato e guasto il concetto, ove la parola mutasse, o l'ariasse un nonnulla. Nè altri opponga che se la bisogna sta come qui si afferma, e si tratti veramente di guasto vitale e sostanziale più che organico del l’umana intelligenza, vano sia per essere ed inefficace ogni umano conato, e che solo il miracolo di una nuova creazione potrebbe ripararvi. Ma non è così, ed è la cosa appunto che vuolsi ora sanamente ponderare. Non è vero che lo spirito eletto dei nostri padri, la mente italiana sia il tuttº esiint: e lo dimostrano i dettati e le opere più recenti di quei chiari nomi che sulle orme dei gloriosi antichi, e frutto di dittti i rime fºriche, riverberano il genio antico. O l’indole dei tempi, o i periodi delle invenzioni e delle macchine, che fanno del pensiero fantasia, o il grido della ribellione al soprasensibile, onde è incatenata la mente, l’ontologico dilegua, è in onore e si prende lo scettro del magistero didattico, la menzogna dell’essere, il mondo dei sensi, l’individuo, la materia, o questa o qual altra mai si fosse cagione, la mente nostra è oggimai avvizzita e recata a una ciarpa, a un intruglio, il senso del vero e dell’estetico sciancato, evirato, l’imaginativa incespicata, aggrovigliata, e non è quindi non solo a stupire, se la maestà e la virtù dell’italico idioma non è più sulle penne dei moderni dettatori, ma se è altresì e tal mente soffocato il senso del vero essere della lingua italiana, che ne è misconosciuta e recata a vilipendio l’alta virtù, ignorato vergognosamente il sublime lavorio che questa lingua privilegiata mirabilmente adopera negli aringhi della vita intellettuale. Con queste mie calde parole parmi di avere toccato dove veramente ci duole e penso che saranno poi tanto più autorevoli in quanto esse collimano coll’enfatico sentire di un Davanzati, di un Bartoli, di un Bembo, di un Varchi, di un Salvini, e ultimamente di un Mamiani, di un Giuberti, e perfino di quell’ammiratore delle nostre glorie letterarie, il grande Goethe. Non si pensi poi che con queste affermazioni io mi lusinghi di avere senza più conquistato il favore e l’omaggio di chi è fuori dell’orbita di queste ai suoi sensi inesplorate regioni. Nò, non ho altro in animo che di agitzzarne la voglio, e che si mett meno ti volt, quegli argomenti con cui inoltrarci, ed esplorarle queste opulentissime regioni.Considerando la profondità e la vastità dei miei studi in opera di lingua, ripensando le trite disamine di quanto trovasi scritto su questo materia e rifacendomi mi oi ist cei eri che mi sei elaborato intorno a quello che costituisce il fascino dell’eleganza, non mi perito di asserire che codesto mio DIRETTORIO sarà per essere appunto il saggio desiderato, quella scorta sicurº ed unica, quella palestra nella giale addestrerº: chi vi si ºccire con i i rivocare l'avito sentire, le occulte virtù dell’italico idioma. Con un terreno vergine e di fresco dissodato è agevol cosa farvi di buoni seminati, ed anche conseguire sana e coniosa messe. Ma se il terreno è stracco, illanguidito, e per male erbe che vi crebbero im bastardito. nulla giova il farvi ritrove seminagioni; gli è mestieri estir parne dapprima la zizania, ucciderne i parassiti e non prima riseminarvi in sulla vanga che non sia accuratamente purgato e risanato. Anche con un corpo ammalato di febbre maligna e male in essere di visceri e di stomaco nulla approderebbero, anzi guasterebbero, i corro boranti e le vivande, se mercè di opportuni farmaci non sia stato prima guarito di ogni male e tornato perfettamente sano. E così è di chi si disponesse a ricevere nuovi semi di quella lingua che egli non può nè sentire nè ipperire perchè il suo senso, rigoglioso tuttavia di cesti e mºssº bestardº, non può altro che sdegnare e ribellarsene, o di chi volesse nutrirsi di quei cibi prelibati che gli ammaniscono le letture antiche e classiche, essendone lo stomaco ricalcitrante, come quello che lº paciucche volgari e mederne hanno viziato e guasto. Sarà dunque opportuno, chi veramente vuole rigenerare e tornare t:sso e si misuoo Ioio top cluoulli, il lusi li op lºI033. Osloo lº ::.looue liuis o oltu l ' ºssige il gp o ti lº si p ºsòssi pilºp ºliº ºpei .l. It us el ' i' i ti - e ! ss outigui illuu.ioldsoul Oiesstv. Un li vº: i bl) ºl! Sº! ).le daiºlº slioni i euuuo5 oliomb u lius sºli o i M o duº lºop i silos gllep luo!. ilo Ao olloilo,S Ip lo33s o lo s ſ olt.loqt lº 0 ai i ti: osto o.lilt: uou o 55eniull ouuuun, Ilop ollos e o uuuoò il AS o ºlsiiqo. OI -toni civili lonn 'ouo; o il 9 AIR alloni si sn p op su o!! ). Il ti -Issºlº 3 atlº, lui: ºtti.lo ol olodlu o l illoulillº ºa so Qrº uviu :I  i poi il tt i tr. ss Lt: lº), ci uo:t., e o isoluo5 eu o optAn.. ui, oggi, i 'ti i ti: : ti io lº t:l lido su tre et 't i3: lIou 'Il 2005U )It is It ul it e sul i ti cieloiti i lili è il trilos i luopll S i tit il sot! ti) º il lo, st 3, 8 l.it, º t ti 3llit 8 º A  i el:  tlii lp 't ult: ulti del 9 l lu ti iº - il so, si s ... 'ti i .i. . . .lºli  i; ss ', ... ... i - i ! i ti&ui  o soli º in l It:ISS º o loti u -  Rutp li ºt toº , ti o, i poi tu º 3 lt è loM o.lgIl lli t..li) op. N..lo slp : 01S , clti, pu Sclip ci , i Ip º lossº t'il pº 'it:5 s : i isl il pºp OiiSAS º al! Se oè , si va 1 otIº tifos . º ºlio p : 0.it tios oso.I -05! A osio; op: i n.lip top t millus G, i tº o 3 As il il 3 osseti lap ei liti in el o Isoi cui il bis '09: loui.it o!!isso) ſi è is 'Glös tipicº -.10ul ti o º lill A i , 5 ti! Sii ! s ºu ( olis 10S il q.li i ſiti allº guas iA liliti Il ci º ! A O, 0i) (ſili) i lº!a il p iù.tvi336 | Il ſul SI, riu aus ottiliº I iosi pe.oſse.I l º d lp Girl: Iº tunio.lui uli olei è eluoul el gu: A è tºiplit ; o tiri uſi :p 3iiiiSpo otto i p up:I o Aoati olsanb Ip 3Juulo n.ISUS | E.li o illo5 luntti iiiis ol.Iodp e oilun W  o  S.- “Si - Si – s S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale  Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle l gla o ini) tali lui,ppi: Rida A au ºi i tg ei p ..iiil I pil, ivi op oi il I attº cul.o, ind oilºni -lallagui gi! A p ! .lvi 5i A º 3 op.It: ci.vt mt! pſ. I; ii ti Iguas  sº Aoin:il nr. - i s Istºnli  a reput. 5 o islip i 51 o 3: Ss li Ili oipnlS ossenb oput ºss ºi i IIIess: lp Oliput ouvs 1: i su Ifil si al c. 5 i .In 15i giri i rp :5ucu. li odita, uno º Iovi ouault: sti: è o niti : ti; olio; Itzu Io ip a ol! Ilds OI aulluas Ip o piis lgido opuali ti OIAi() .L.: St | (l Gisonb Ip guided uso 'ofoni dr5 lui ig.it, i Jr. sp: l o , aiuougers -ued eua3del loo eliricituo3 oood : oSod il mio zn glpo. I p o puoizilouºp Ip riodo esami ottº oro:ni oirs e insis AIA e W  ologIpo o Soduco l oillouap bus Uieto n. . nip o Ies gipol.I riolle pº  oluopeA lap e Cisgiº Iap 5 i5sti p .s. p r , iº le p.It, i gol q  -uoo 'oullios opinismq Ons Iap oua.I.io II euil. Iddrp o Iri Ind otte! Ieri  i pure di vertiginosi cicli, e di un tempo oltre ogni misura, e di cui niun atto, niuna parte potrebbe mai mutare senza guastarne l’equilibrio, la Pace. Lungi da me la pazza ipotesi, la chimera del così detto equivalente meccanico, ma è pur cosa ſi afes iter d’ogni dubbio che la vita, il principio semplice di un corpo animale non è, e non può essere sorza i qualitative e ri e che gii è (are a ciò di si intimo nesso coll’integrità del tessuto organico, che tanto sol che intristisca questo f 12 f.f. º gt eii, i si.. i tiri i d . -, uf,3 giui tura o cosa qualsiasi anche minima, non solo ne soffre l’organismo, ma talora si spegne, è finita la vita stessa animale. E altrettale è appunto della bella, delicatissima lingua nostra italiana. Ne va del valore intrinseco e della vita non ch’altro, ove sia ignorato o male osservato il retto uso di certe articolazioni e particelle, o o sia a la siruttura e la curva sconciata, l’ordine dell’azione traviato, e l’occulto di certe voci previlegiate mal sentito od esso pure ignorato. E qui non accade ch’io ne dica di più, che con queste parole e coll’anzidetto ti è ora molto bene palese quello che il DIRETTORIO vuol darti, ed anche come usarne rettamente ed utilmente. Non dovremo poi starci contenti all’esserne soltanto risanati, del guasto sentire e dei torti appetiti, ma saremo anche vaghi di avere a nostro piacere e commando e avvenendo di trovarci sulla penna le grazie, le dovizie di questa lingua troppo cara e più che aitre efficacissima e poderosa. Ed ecco che a tal uopo ti verrà assai volte opportuno ed utilissimo il PRONTUARIO, che fa seguito al Dl RETTORIO, e col quale si completa l’ardito torneo di questa mia palestra. Mentre col DIRETTORIO, cioè collo studio assiduo sulle linee del medesimo, ti troverai la mente uscire gagliarda e serena dai vincigli di una morbosa rigidità, e la parola altresì più leggiadra nelle forme, e nei movimenti agile e destra, il PRONTUARIO sarà per ogni penna vuoi da ringhiera, vuoi da pergamo, vuoi da effemeridi, o che altro mai, fornitore, ove bisogni, di costrutti classici e di un corredo di lingua proprio di quella cosa che altri venisse ragionando. Ed ecco come ne userai. Ti farai a quella parola, verbo o sostantivo che hai sulla penna, ed anche al nome di quel tema, cosa, luogo, fatto, forza, passione, virtù, vizio, arte, disciplina onde prendi a ragionare, e il PRON TUARIO ti darà tutto quello che ti bisogna, cemento grammaticale e materiale di lingua. ii fornirà di ogni idea generale un copioso corredo di vocaboli e di modi di dire con brevi istruzioni ed esempi che  ti ammoniscano come e quando rettamente adoperarli. Ti dirà quale verbo o predicato sia proprio o meglio convenga a quel tal nome, cioè alla cosa di cui è nome, soggetto od oggetto che egli sia, quale attributo all’uno e all’altro, quali epiteti, aggettivi od avverbi deno tanti con proprietà di espressione la maniera o il grado di essere o di agire. Ed anche ti dirà i nomi delle parti componenti ciò che ha parti, cioè a dire come rettamente e con eletti vocaboli e propri denminare i componenti e le attinenze di cosa qualsiasi. Ti fornirà da ultimo o più veramente vorrebbe fornirti, e lo farà completamente quando sarà opera compiuta i vocaboli propri di quella tal arte o professione, e così di puro ingegno come altresì di mano, e degli affetti dell'animo, dell’esterno operare e del muoversi ed agire di checchessia, e in ciascun argomento i particolari e propri modi di ragionarne, usati nello scrivere che ne han fatto gli antichi, e dove questi ci mancano, presi da quel che ne abbiamo in voce viva adope rati da maestri di buona lingua. SAGGIO DIRETTORIO  cioè ritagli di alcuni vapitoli delle sue tre parti. S.- “Si - Si – s. S. S - S 2 s - s- S 2 s. Cose di indole organica e che più strettamente si riferiscono al tessuto periodale. Il grato e l’efficacia del dire dimora assai volte più che nel valore dei vocaboli e delle frasi, in un certo spiro di virtù occulta, procedente vuoi da una singolare disposizione e collocamento delle parole, vuoi da una certa forma compaginativa, e vuoi finalmente da certi vezzi di finissimo intaglio, e di raſſilature e tagli a corona. Ed ecco tracciati i quattro capi che ci forniscono a larga mano il materiale di questa prima parte. Inversione e separazione. Particelle e compagini a foggia ed uso classico. Virtù organica di alcune altre voci. Locuzione elittica. Sel a aranzi o 1 , i cº II , N cºrsi o 1 , i  SEC.) NI) : ) ( ; I, I ANTI ('I I I SC'It I'l' To) RI E ('I, ASSI ("I  Intendiamoci, non è del I per lui lo ch i l' igi I lill e, ch' io voglia pur allegare esempi d’iperbuto. Non farei che ripeter quello che ne hanno scritto ii ( il lio, il l'1 l . ll ( 1 li !li, il Zilli il li, il Ct - il e tanti altri, i quali al postutto conchiudono che quegli soltanto può giudicarne e servirsene rettamente che ha l’orecchio educato alla scuola dei buoni scrittori. In opera di lettere e di estetica nè mi picco di superiorità, nè mi darebbe mai l’animo di prolierirne giudizi, e nè anche di elaborarne acute e sollili delinizioni con le ſa ad esempio il Tommaseo), e molto meno di porgerne teorie e Ilorine da seguire. Uscirei dall’indole e scopo di questo saggio, che è semplicemente quello di mostrare ordinatamente e con grande copia di esempi il dicario che ella il linguaggio così dello classico e quello di oggidi, ed anche di somministi al c. chi ne losse mai cugo, un modo opportunissimo, collo studio cioè degli esempi, di rieccitare nei nostri pelli lo spirito classico, e di tornare a quella forma di dire e di pensare che è la le penne di quei grandi. Siavi di 11 11 I po' balo, che a litrios 1 a 1 lo col vorrebbe prima far vedere come l'ordine inverso – L’INVERSIONE --, sia il diritto o questo l’inverso, raccolgo solto questo capitolo, e Ini diviso secondo un certo criterio buona copia di quel costrutti antichi, nei quali il collocamento delle parole e l’accozzamento delle parti è altro dal colgare e comune dei nostri giorni. Non è però il differire soltanto di un costrutto antico, e come che egli sia, dal moderno, che ciecamente Ini Imuove ad allegarlo e proporne lo studio, ma scelgo quelle maniere che sono più che altre frequenti e più in uso appo i classici, e nelle quali il singolare costrutto è qualità dirò così in lernet, e ormai al III sapore, ad il garbo che lº li a V l'elolo a pezzi il dili al dolo.  La sola TRASPOSIZIONE di questa o quella particella p. es. non vi essere, non lo vedere, non vi rimanere, ecc. - a e ne, la creslllla, per non o vi essere stata valevole gia sei anni che regnò ( doardo, la calca degli accorrenti allogava i vescovi e lav.: è necessario che tu per niente a non rispondessi a persona, ma sempre acessi vista di non li vedere e non ii udire l’irren: noi possiamo i ce le si avagali lettori di non le motteggiare (gli al ll il a niere? a non vi prosperare? a non vi proteggere? Segn.: si potrebbe a Ialun contenere di non se gli avventare egli stesso alla vita? º Scull.:  o una semplice inversione di parole umana cosa è aver compassione degli allilli. Zali. . e me anche quel tanto a loro il vello il fine, il li sono oggetto e materia di questo Caploio, ma quella trasposizionr e inversione, onde al periodo, come si è detto, viene talora vaghezza ed anche alla frase maggior forza e gravità: one che allore verullo, ch io mi sappia, le abbia ma da quindi addiello rilevate, e messe in Vislia siccome prerogativa dello scrivere antico e classico, lo è la cosa al punto che prendo io ora a dimostrare, ma senza apparato e pompa veruna d lunghe e trite discussioni, e in un forma semplice al possibile ed evidenlo. Ma prima di farmi a quest’opera mia e di mostrare queste separazioni e dulle le altre cose di questo saggio divisale in articoli, la mi di richiedere il le loro benevolo che gli piaccia di rimanersi da ogni commento e giudizi sopra i singoli articoli, che a guardarli lo singolo non sono allo che mini vie, ma di aver l’occhio a Illella gran massa d'oro, della quale ogni articolo non vuol essere che una imponderabile particella NON DER … CHE … MA in luogo di non perchè …ma … Ciò è a dire: il per disgiunto dal clie e frammessovi l’oggetto o predicato.  1. ignal, o poco pi illico irl cosl li e o per dar rassic , valido  V. gl’illel'11lare clic : non llll'olio cagione di ... lecchessia gl' Insulti e le Villalie che il ri limiti gli lanciasse, ma il suo procedere indecoroso cec. esporrebbe il silo a 11 ello solo sopra cosi: non pºi clie ei mi dicesse insulto o rillania, ma ecc.  L'esperto il 1vece, o chi ha e sente le maniere antiche e classiche disgilige il bell il l vigo assi Is e ci si non per insulto o rillania che ei mi i licesse, il t....  Pochi esempi e basteranno a farlerle assaporare il grato, ed anche inlerider e la relaliva il rip, rli - IliII1ento che niun articolo, per esiguo, è cosa di sì poco momento che, a conserto di mille e IIIille altre ond è forni ore codesto direttorio, non sia anch’esso un argomento di vita, per quali lo II il loscopico, un umile virgulto di quell’albero rigogliosissimo e poi il post che è il linguaggio classico.  Signor mio, io non vengo nella tua presenza per rendella ch’io attenda dell’ingiuria che nn è stata ſul lat... ma... o 13occaccio. Nè questo già per saper d ai mi ch’egli vi alopei disse che in quello s in arrimento non ci rimase al riso dai la milo.... . l li..... smarri, ma pur di nsi per l'ergogna che per animi o che gli bastasse a tanto, ſullosi cuore disse. Bartoli. Non opera ra per appello o propensione che si sentisse a questa ed a quella cosa, ma pure a guida della ragione e del placer di Ilio Cesari, Ed anche senza la correlazione di non e' mai può talora aver luogo si alla disgi Illzi 11. Standosi adunque l’uggieri nella camera, ed aspettando la donna, a rendo, o per la lice, durata o per cibo saluto che nel nulla lo stresse, o forse per usanza, una grandissimo sole, gli renne reali lui...... . I ; i carri . rispose che ben si ricordava che andalo era ad albergare con la fante del maestro Mazzèo nella camera della quale area bevuta acqua per gran se le ch'a rca a 13o crio.« e riponessegli l’anima sua sicuramente in mano, chè ben potea farlo, per l'uomo santo e lollo che sapere: lui 'Nsri e litrioli,Ed in generale, sempre che la cagione o non cagione. Il 1olivo, ocra sione di checchessia è l'oggetto stesso, non il rispellivo verbo, si pºne primieramente quello a guida di per per cagione, per motivo, quindi il relativo che e finalmente il verbo : sol per l'amore che io nutro per le , non perchè io nutro ec e per i lucia le mia ch'io porto » ecc. ecc. Nolisi da ultimo che la stessa forma per... che... può avere altresì forza di : per quiet n lo ch . Al, i ciò sara : i i ben altro e più rile V al I ri-Si liti nel [ . . lil. io il tv: i 1. ci zioni elillich r .  Cilf: pronome relativo di quello, questo, costui, tale, quanto, uno ecc. si disgiunge dalla voce cui si attiene posponendolo al verbo e appar  tenenza relativa al primo inciso.  a ... il sole è alto e la per lo i tignon, culi o cd ha tutte le pietre asciulle: perchè tali parola 'slo lo sci di p ii , le ri sono che la mi all in di tmzi li il solo l'abbia i ts ull, poi i n n . .. .. . I3oce. “ . Quanti leggiadri gorani, li quali, non l'alli , ma Gallieno, Ip poci di li' o li si illui puo di ri i no 1 li li all ' s NN, mi - la nullino lesinarono coi lor per l en ll, con poter mi col ct mi ci che lº , la sera i 1 nºn lo appresso nel l'alli o non lo conti on lli lo i passi li li a lo.e colui è più car o ai ril , e più la mis, i se si un ali signori onorato con pl e mi gi o nolissimi i cºsti letto, che poi il lom in roli parole dice, o a alli; 1 i cin (lo l i gogna , l rol, il l mondo pi esºn le ed argomento assai , rielen le che le rii li li la I l poi i lil si l anno nella leccia dei rizii i mise i rice'n li di blu nel nulli . I 3 c.La speranza del per loro si è data a chi lo ruolo: e colui l'ha per mio dono, che del suo peccato duole la l'odi.( nche di esse e il conlessore nello in poi i la penitenza discreto. ll e alcuna cosa pruolº la re o sos le me l'e' una persona, che non può l'alll rai o. IPassa V.Con questa melajora e somma bi erità diciamo: uno aver dipinto  1) Anche la lingua francese offre esempi di costruzione non guari dIsstmlle ; tel brllle au second rang qui s'éclypse au premier. che dello o lalto ha cosa calzante per l'appunto che non polea star me glio ». Davanzati. « Quando.... tal cosa verrà ben falla che non si pensa . Dav. « Qualche gran fallo dee esser costui che riballo mi putre o l?occ (coslui che.... dee essere. . .(Oggi si direbbe saper di guerra o ragion di stato che fa lecito ciò che e utile. Il popolo la direbbe un time in I)av. i gi ii) si | | il ll es .. si direbbe. E in colal guisa, non senza grandissima utilità, per presto accorgi mento, fece coloro, rimane e scherniti, che lui. Iogliendosi la penna, a rea il ('r('alli lo sch e l'm iro so. I3 cc . E quello essere che era s'in aginò l?arſ. a 1)issele: non isl in sti c. moglie mia, uomo tlcuno mai essere nostro amico, il quale la reggia on I ro il nos/ I o cuoi e o, IP: Indolfini.co Colui non fate citt e Neri i tio. che non rºtolo rirºre sul no e' lie / - di ilſilli. Quegli al bisogna di poco che poco desidera ». Albertano. a 1 ssai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono dai prigionieri con tanta guati liti sei riti . Rocc.a Indò per questa selra gridando e chiamando a tal'ora tornando indietro, che elli si crºllera in noi in zi di malare o lº scr.« E i ri si riduce rat no come a un porto, in perocchè saperano che ('hristo ri remira, e non gli polerano andare dietro in ogni luogo e ta lora crederano che fosse in un luogo, ch'egli era in un altro ma vener, do in Iº e la mia. Cav. Solo Iddio sa i nostri occulti ed il nostro fine, che il giudicio umano molto è fallace: che spesse volte tal cosa ci parrà buona ch'è ria, e tal uomo ci pare rio ch'è buono Cav.rispose che delle sue cose e ai nel suo rolere quel farne che più gli piacesse. Bocc. Propose di rolere andare al mostra lo luogo, e di redere se ciò fosse rero che nel sonno l'era pari lo . I3ore.a I)a Pietro martire a Solo quel lirario era che già S. ( toslino futc, ct da Futu sfo mi al nicheo, suo maestro, a S. ( n broſio: l'uno lullo fiori e legge rezze. l'altro frutti e saldezza , Dav.a l)i I)icembre dicono che nulla nasce che si semini, pur semina o i zo, o fare in su lui ranga. piselli e sul ri le fu mi . I)il V.a Quella potenza con ragione si stima maggiore d'ogni altra, la quale con sussidio di minori mezzi può conseguire più felice nºn lº il suo line o Segneri.a gitta l'ammo e tal pesce li rerrà pigliato che ralfa il tributo per lite » (esari. ARTICOLO (5  Due nomi, aggettivi od avverbi relativi ad un sol Soggetto 0 verb0 a) Si separano frapponendovi il verbo.  b) Anche il complemento indiretto disgiungesi talora dal rispettivo diretto, pure frapponendovi i verbo.  c) Gli aggettivi si trovano talvolta framezzati dal sostantivo.  \ l 1 g . . . . l sl e silli, i - i scolla la, l I l: - Il l  i pez, a il II iscir: \l: : : ' s ."  ;  i viaggi chi blo  s . . . . il liri . I sing il il suº pensi li stili e li - si si i . II . Il li sºlº lirli resi i vigli , sl 1 il II , Lici II l ' s  l; in ºsservazioni.  Vs sa sono li al rialli , ss nel s', i rºssi , . maestri s , l. I li alll I  castigatori . I 3 . l: ln i ritiri il ' , con i tiri , l isp, N . . ll delle sue cose era nel suº  i , lei e quel farne cºl pari ai li pºrti ss i \ ella quale gran parte i ipoti di un de sui soldati \ l .  i qui i rolli per chi mi ieri sono, nel n. ilio alle donne stanno cli, agli ucnini, in quanto, pii alle donne che ci il rion lui ii molto pati la rº e lungo, quando si n : a 'sso si mossa la si l: Nali,  lº si l ri'il miº l .l l ' i '', un fiero i nº , l un forte . I 3, i .  lº , i  Trori i no, in luogo, le loro i rom : mi stanchi. Il grossi piloti reni buoni .I)i ſanta ma i tiri lui e di cosi nuova in i pieni ..... l3 o . E l appresso, questo non si lanci le la rozza rocr' e rustica in con le il l e o il latili nel riclit NN, il ct oli canto lire' i no mi tr Nl l o r , li suono, e nel cui calcoli e nelle cose bellich cosi noti in come li lei i t. snc : lissim ſi l lira' il n. li mi rilici e, in grandissimi ti i pomerili e con presti aliula nel lit... . I 3 c'e' I n uomo di scellerata vita e di corrotta, il quale lui chiamato le lo il lla Alu Nsti e. lº ce.I' mi nella nostra città un grandioso in cui la nl e ricco . l ore. A piè di una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a sluirsi se n'urnalò ». Bocc.  Voi ordineremo onorevole compagnia di buone donne, e anche di buoni uomini e forti, che li possano portare, e larci cessare la gente ulosso. Cavalca. e questo addicenne che quanto è maggiore la infermità e più puz zolenie, lanlo il medico, s' egli è buono, più s'appressa all'inlermo, e di più si studia di guarirlo losſo. Cavalca. e (in cort disse loro, il lil tulo come al rºssºro la re, e' eleggere atlcune buone persone e fedeli che rendessero queste cose, sicchè. Cavalca. Essendosi tutto il bianco vestimento e sottile loro appiccato alle ('t l'ni...... ». 13 ,:C.1ncora quegli rampolli che sono occhiuli di molte e grosse gen me e spesse, impe occhè dore sa di moltitudine delle gemme e spesse iri ſia l'abbondanza della genei a lira rili. Cresc.« .... oltre al credere di chi non lo uli presto pati la loro val ornato Giambillari.« Patira questo ignorante popolo e rozzo quelle lungherie, e parere rallen le chi altra ra l il ll , un ali di uli I e . l): I V ill.1 rera ad un'ora di sè stesso paura e della sua giovane la quale lullaria gli pur era di reale e o lui oi so o del lupo si rangolare ... I3 cc « e oggi se fiore ho di sapere e nome rie il più la rel si cl e lui gli ai 1 - ringhi, e roglio oggi mai rimane mene o. I)avaliz.a Tu che di nascosta ch'ella era ed impercettibile. la remule's li molti ' I rut / la bile il ricorut at i Neri Si.... , Stºgli.« Non prima dir parola le rolle di correzione che dileguato si foss' ogni accusa lorº. Sºgn.chi men riuſ ut I lui al lungo studio e sollecito da lui adoperarlo in lui piccolo a rincere ogni pazioncello e Cesari.a Belli sono i fiori e vezzosi; mi ai coni e dice il prorerbio, in mol no all In I l i non islam l), no ... Silvi! i.a I greci panegirici ancora non ci amo mica una pura oziosa lode, ed inutile ma..... . Salvini.a lalalore se questo spirito, di carità ma nca che insieme le leniſti ed unite le irre in bici di ('ris lo blu / le e in orle qui il li catal 'rc rºm ſono ut ſul rsi. S: il Villi.a lunque non li par questo luogo buono, lorº iò si gran copia di erbe e si saporite, un fiume che mena i più dolci pisciatelli di questi potesi ed assai, e alore non ci bazzica mollat gen I e che ci possa i tr lui il miº r. I 'i l'el l/. NON … PRIMA … CHE . . . . quando in luogo di : Il0ml . . . . prima che e quando a valore di : C0mle prima . . . . ; come . . . . così . . II0Il Si toSto . . . . che . . . .; appena . . . . che . il IIIala pcIld . . . . Che . . .  ;Non selzi il l ' 1 lo senso di co; il 'la li l' ' gl. , Inl \ 1 Il Sºl la colla illica l 'Inghi e prol di sci i tagli, il lis , rag olio logica, la Virli, il vigo e l'uso vario e rello di questa e di cento e cento alle singolarissime strutture, molto più che se vi sono per avventura esempi di una forli alcun poco diversa, sono questi, esempi di autori non alili hi, ma che solari lo hanno scritto sulle orme degli antichi Inºltre colle scril ( Il re del 300 e 500 colesto I)il el Iorio è veramente, e senza eccezione vertina, il sicuro Direttorio, e appena che vi si trovi un sol esempio, che colmi il III e con i radisca.  Mello ſui due periodoli di origine antica e classica, con parole quasi egli li SI 'I Il III non... prima... che... , ma che l' Illo e l'all si ass: il live si . e la sala si li va il rialli si sia Il pi IIs li sl : non.. primat. che.. , e sia l'on.le dell'ulio e dell'altro sigllili : l :  I - Non lo volle prima al suo cospello che egli si fosse pentito e avesse le testato il sile) fallo no.  Non venne prima al suo cospello che egli nel cuore con punse e sl , il sl 1 , ſtillo  Mentre il vago del primo periodello consiste manifestamente nella separazione dei due incisi della forma avverbiale demolante precedenza di tempo:  prima che:  lasciando cioè il che solo al posto suo e antiponendo il prima, cioè avanti il verbo del primo inciso ed accanto alla rispettiva negazione e parlicella negativa, non o nè che ella sia: nel secondo pe riodello la stessa forma : non... prima.. che.., indica invece simultaneità di azione, è ormai ci ripagilialiva che il lilli il ra lingua, e orna al 'il II ra: con e prima...; come... prima: come pill los lo..; poichè prima..., con '... così: ecc.  Noli Irli esſendo il considerazioni che, più che le mie parole, ſi darà materia di senſirle, non che di falle, il grillo, la spontaneità del costrutto, la morbidezza e soavità della curva, il velluto negli esempi che quì li allego. SSEM L'I DI UN : Il0Il . . . . prima . . . . Che . . . . ed anche senza la negazione, I)I UN : prima . . . che …in luogo della forma volgare : Il0m . . . prima che; oppure: . . . . prima che  Delºrm inò di non prima mi torri e a lui il riglia che egli gli arresse alloltrinali e costumi ali ai la licati e I), v. 12.perche' essa rc i goſ n. Nani e le lissº, si esse il piu' recel et lui ci al ogni suo comando: ma prima non potei e che l e onl , inola lo Iosse in Purgatorio ». Doce.Mouli, a cui rullo, col ti l'a 1 / i ti al cio: in prima all I o le c', che ella s in ſegnò li reale i lielli di tiro …dirò come una di queste sui ti 'ºssº, il cosi l mi 1 e si lil e si mostri - li , osse lui ll , il ſei no, l'unº su di lui ci ti i prima al N. nl I e il I moi ll rull: con dolla che i lioli di rºsse con sei il I .lasciano slal e i pensieri....... e gli e li : i in I so mi ci li. che prima siamo sli acchi, che i libici mi disposto, e apparecchio lo le cose oppo lui ne ( ('un l'ºliº e li ill ci , la r il .Prima prelerirebbe cioe' ini, l be tullo il mondo, che Idilio fosse lºslini onio di falsità pure in un primº lo Iºr (ii rel. a nè prima ri formò che il di s. gueul, 13oce. perchè messosi in cammino prima non si listelle che in Londra per rºmanº o. I 3 cc.« rolle non solo disporre, ma intera nºn le conchiudere il patrºn letali, nè prima reslò li lire che non utlisse: l'in l?elier cui ci ritmi le Segr. 13 Così coperse lui nuli di lell'utilull ºrti, di lui con lolla nel le mi pio, quando non prima di parola le rolle di correziose, che dileguato si fosse ogni accusa lo re ... Segri.« ('osì comerse la nudità della Santrilotti at. a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimprororare la rolle di disonestà, che rili ralo si fosse ciascun apostolo . Segni. I 1 .« e rolera parlargli, se ne scusò Luigi per non arene licenza, nè prima lo rolle ascoltare che il generale l'a resse a ciò licenziato, di che il cardinale ne prese grandissima edificazione ». ( es.« Quiri riposatisi alquanto, non prima a larola andarono, che sei canzonette cºn tale furono o. I3o c. 15.a Prima sofferirebbe d'esser e squal lato che tal cosa contro l'onor del suo signore nè in sè nè in altri consentisse , Doce. ESEMPI DELLE FORMI E COMPAGINATIVE,  DIMOSTRANTI CONTEMI L’ORA NEITA I)I AZIONE  Il0II prima . . . . . l Il0Il . . . . . . I10Il Si toSto . . . . . che . . . ilppella il IIIilla perla . . . . .  EI) ANCII E DELLE EQUIVALENTI :  C0mle primiù . . . . ; C0mle . . . . prima . . . . ; come piuttosto  poichè prima . . . . ; come - . . . così . . .  slli il tille V lgi l'I e ci li Nlo che su bilo, che, ci . I . Non prima e libri al boillu lo il gºl in cesto in lei l a che la cugion, della noi lo lei mi isºli a mio n li a ppoi i re . I 3 .Il ct c'Ncat e 5 in bella , per ogni sorta di tici ll e non li di prima Nºli - di alo uno che gli li o I il sºlo se mio lo sta la a lola . Caro. l. Il ct: l tesle in tilt ne reni ſono i pi ppo, e il so il 1 l po'. Ne' non prima la l rila che gli l'ha . I lav …l doll, che sarà, io li promello cli gli non ne senti il prima l' al re', che lei riti liti e li isl il l il c . l 1 l' . Idilio. lisse, li Il 1 li lo i cui, e non elilu il n 1 l o di lirilli, lo che ſli si coni in tal il pil irli, e lº ri.e non elil, e li rile, l'intillnerali la mia sl i il che il reti lo si l irolse al l l . in on lui ma i Nplut mi, su bilo il n 1 l l .Non prima al talli lo ri mi li a mo di ril lo i ti noi, che lo slo, Nlton no ci ri li di lui. I l at col 1. se non lo sº e nelle di ''I I I nosissimi al ligut . Segl. Nè prima il rule o che pi ruppero in lullo da disperati, in gen il il ct o. Se gliL'isl, Nso ( io li ho li sui bocca in lesina lo conferma l'orch è mor prima , l lorº letto: \ un renis/is. el modo ricºnles plagotn mi rotn linells. che nel rersell seguente soggiunse su bilo: \ un quid dia i : a lei le mili il l cle su lislam lidi resl rat clona le mih l' . Segli. Inzi non prima r han con le rila una grazia alquanto spesiosi, ch'essi pretendono tosto che lui lo il dì roi li dobbiate e accompagnar ne' corteggi, e apportar ne' cocchi, e servire nelle anticamere ». Segn. \ on rel lissº io º non prima io roglio, cominciare a parlare, che il Santo P ofele I)a riele mi toglie le parole di bocca ». Se gli. Non prima riule ro ossequiosi sol lorni eIlersi i mari alle loro pianle'. e tributarie stemperarsi le murole ai loro palali: non prima sperimentarne a loro pro luminosa la molle, ombrato il giorno, rugiadose le pietre, fe conda la solitudine, non prima cominciarono a debellare i popoli con la forza o a premerli con l'impero, che si ribellarono arrogantemente dal culto del vero Dio ecc. . Segn. Non prima contemplò quiri assisa la forma pubblica di giudizio ap prestatosi a condannarlo, non prima i giudici apparsi nel tribunale, non prima gli (ircustlori uscesi sui l os/ri, nºn prima il popolo concorso (t)) ol lalamente a mirarlo, che non potendo più reggere alla rergogna, ristelle un poco, e di poi, tra lo furiosamente uno stile, si diº la mortr. Segn. Troppo indegna cosa è il reale e che non prima risolva usi quelli donna, quel cittadino, quel catrali, re, o ai rºslire con maggior sempli cità, o a con rersare con maggior riserbo, o di ricere con maggior rili ratezza, che subito cento male lingue si ci fu zzino al molleggiarli . Segli Non prima l'innocente colomba uscì fuor del nido, che diede fra le ugne di un rapace sparriere . Segn.IIa un ingegno diabolico e pronto, un proceder ſardo, un pati lar grare, un arriso subito, un ritratta i si in su l la II, che non gli c prima messo un lascio innanzi che r la I l o a lui la sua riſortolot o. Caro.  « Non si tosto poi la riſolse in mano, che la fece di sorpe ritornar gut ». Sºgli.  E appena ebbe letto le predelle parole, che li subito sopra di loro renne una luce con la n la chiarezza, che essendo il rore nelle oscuro e' si redeano innanzi chiaramente come di bello di chi ti o . Cavill a. ()uiri appena ) il che ecco l'ar male degli Areni, i quali quali lo pl in al riale ro i nostri, diede l o l u llo insieme in col mal e latin li li li . I 3: l'1. Appena egli posò il piede in terra, che mentre si mira col (l'ul ll ' 'n i . quiri l'inchiolarono.... . Si gn.E a mala pena e libe apri la la bocca, che gii , o rinò misert nºn le . l'iore 17.Ed appena erano le parole della sua risposta ſimile, che ella Nºn li il tempo del mar Iorire esser renulo o Docr'.a .... e'l figliuolo essendo andato per il n calino per lat (lolcit. appena era il ferro entrato nella carne un'oncia che il porco cominciò a gridare i Sacchi.« Appena si sollera ra un leggiero, diletica nºn lo di senso negli animi i di un lierna raſo, di un Franco, di un lemºdello, che in con lui nºn le I lilli ignuoli correrano chi ad allui)arsi nei ghiacci chi... . Segn.« Appena era comparsa nel campo la generose (iiudillo che l'atlli subito quasi alla risſa di un insolito, lune, rintser lilli incitmlali a si gran beltà ». Segn.Il ralen l'uomo senza più tranti andare, come prima chlie tempo questo racconlò.... ). I3cc ('.a riri sicuro che come prima addormenta lo ſi fossi saresti slalo (tm mazzalo) ». ROCC. a dore egli come prima ebbe agio fece al messere grandissima festa ». Docc. -. E in altro luogo ripel e il 13 cc. la stessissima frase: « Ella, come prima el be agio fece il Saladino, grandissima festa »..... la qual cosa come prima si udi per la Lombardia, lolse laul (li credi lo o, (iiamb.  “e promellendogli ancora largamente di levarsi in aiuto suo. come egli prima possº in campagna . (iianl).la cui poichè prima ne in lese, si son li prende i si. che…) . 3il 'l.  « L (quila come piuttosto di ciò s'accorso'. enl , è lui la sol lo sopra e così s'andò la (iiore, e con togli il caso, lo pregò che... ... l'iorenz. e quando egli ci sarà, io lo me è e come tu mi senti, cosi il ia en li ai r in questa cassa e se i ra i cl clen I ro . I3 cc. con le prima, lº sl he . Come lu gii, disceso cosi il lil o I russe . I 3 ('.Come ti ſei rola il sen li tono cosi se ne scese o alla sl 1 di lui lº ce Come ride corre e al pozzo. cosi ricorerò in casa e se i rossi le uli o 3 ) .... per le quali parole il mio marito incolla nºn le s'allo nºn lo e' ccme al lorni en la lo il set le cosi tipi e l'uscio e riense ne dem l'o, º slots si con m cco e questo non la lla mai e lº il S.Come io giunsi ed ecco sopi arreni, l'irl ro 13ore 19 NOte e Aggi U1 1 m te  all' articolo 8  12) Simile alla coes-ruzione tedesca: nicht eher... als.... Il luogo di ehe oppure bevor, che sta per l' itero prima che,13, Quel non, che li i lo I r . I s-li alti - Ilpi , a 1 lie della  sesso Segneri, è lorse scivolato di liti per il la ai valori e i Segneri, ai quale sapeva male, pensº io, o gli veniva del guasto e dello storp Io a dire : che udisse.  14, l'oni Ine!lte il lesto e i i pr . e le 11 e le 1 di . . . II, 'il:lo all'ait , si rassolini, li, i lle 11. Il perdori sl il 1. l)llº I – Il re 1 il ll li si , gol i .  15 Il Corticelli si l plico Ia, il il 1 , par. 1 , se qui con le e di ragione, imperocchè rilerenido, lo stesso - Impio, osserva che la par ticci la prima con la negativa ha la proprieta di significare talvolta infi nattanto che, e talvolta subito che. I - Il ll il 1 , si l: i 1ei la se conda parte di questo Inedesimo al tiroio S. Mia che li citato non prima fol mi da se S lo frase o modo avverbiale colli e vorrebbe e valga infin tanto che, non so cui possa Ilia I capire nella 'lini , che il grato sente e intende (lei II l 'ti er-e III l i lill 1. Il nel significato di infintanto che, lira Ilei la s partiz le due lil - la l l'avverbi , prima che, tra li l'11 | tendov -: o li e -il-sogllita o leve sllssegllire.  16 Qil - o prima 1 e 1 : :l'i; 1: de l eher li di piuttosto, più presto. Ma ad ogni modo, resta sempre il grafo della di sgiunzione e trasposizione dell'inciso che,  1, Binda che i ll'en III al clie fa r , ti ra questa o qllelia for Inti in coInfronto di un'altra clle III i dl o con i lille e volgare, non è In lo avviso che questa sia sempre lilello bilonia, e sia la sli: 1 ter addlr IIura. \ che i Inodi tos:o che, subito che non solo a ragi m d' s III pi - II: il 1 li che non ne usasse quando ben torni, anche il I recenti e cinque º to Simile a questo subito che, IIIa in Iorma piu gaia e pil ſorte è il da te si o ratto che: . . . . . . . ed r si lev o ratto Ch', la ci vide passarsi (l: V: l Int ( m.  18) Al che i Latini usarono ut i greci o snello stesso siglli  l'rim.1 di passare a l alti e altri tazi, i no: voglio qui rimanermi di ºsservare che (Il testº : come.... così..... è ben altra cosa della forma coin. parativa, p. es., del sieguente passo : nè sia chi ne stupisca , perche come l'uomo è vissuto cosi generalmente muore. Notisi però che di questa forili º comparativa ai buoni scrittori piu che il diretto: come... così...,  a: a Va assil I lll'ill Ilio l'assetto in V clso: cosi... come...; che cosi in alti e non come l'ho citato lo trovi questo inedesimo passo nel testo originale del pil dre Seglieri: li siti e li I tre still list il per le cosi l'ul, irlo lilllore generali Irelle, come è vissuto n.Assaporalo il grata di codesta lli versi rime anche negli eseIl pi se gllenti :Queste sono le operazioni (le l' ill: Ino: all III: estrº l e, a Irl III ollire ...., l - gli cosi Coni e lº, il 1 lt il ſil 1 l. - - - - - - e ce , aci per i re cosi lo III: i glie loro come lo Ilge gli ed intelligenza il ogli i sa, e pera º norevole I l Ill sa.... » l' 1:1 lo l Illi.Io potrei cercare lulla Siena e Ilol Ve ne troverei illmo, che cosi II i s.esse belle come il si .La li la dre, che le tl , l ire l: I 1:. ll ll l: I g il va Il ferirla, poi, le le seppe Il rito Il . dI S. l a no esco con lido che cosi or: la p 1 l el l e l'Isll st 11: l III , I | 1, come , Zi l', i Vrebbe potuto risal lia l' iller IIl l: illo . ll , cosi i ns, come gli 1 ll dal V a ntl gli si gel1 o 1 pl il 1, rot! S si III in id) , Il Irgli ». I3: l .« . . . . . . ll I II li assi. Il ril . ll I 1:1 e-1 r il pil  sapere di V ( I, cosi II slla l la legg . . I 1st a 1 il ss 1 vs 1 1,  come voi ora il I persl 1: i let ss. l la s. l ' . I 3: l . e … se li , V . - ti . . ll cosi !) il liti e In Il lidosi come il l V el'elil e la V il si , 13a l .« A Ilzi cosi il ssista Idcl I o il V revole il Il le :is eri come i 1:ì ll pil II: i n1 il Se tl.Se l'uomo la il sottil I geg. l lo i teli e lo chiali o, il salda me noria, loli se li puo e l'1, i re: le cosi - : S I lllll liti de Vizi, come li virtll , . lPass: l V .lº, il vero , li , cosi come lei, il ... - Illesi: da li ll. I l il l re i ti li . . -. I 3 , i .“ . - - - - il ilse la V I rl I si sa delle liti . . . . per le cosi come,  lisa V Vedula trielite : so - ei 1, si via tre il - i l: spegnere per o!: ºr  i li ll li i' l I l: il ct , lì 11 . - lo Il Vila : “i sa slla i livi gli in stra quella cosa la qual e egli ha più cara, a flernlando che se egli potesse, cosi come questo, ma lto pit volentieri gli mostreria il suo cuore », l?occ. “e che cosi fosse servita cosi ei come se sua propria moglie « I (lsse ». I3C) ( ('.« . . . . . rispose che così era il vero come quello Irti le aveva detto ». Fioretti.« E son certo che cosi a V verrebbe come voi dite, dove così a ndasse la e bisogna come avvisate ». I3 a .« Ma non illte:ldendº essa che questa fosse così l'ultima come era sta e ta la prima ». Bocc.e Sio Irli conoscessi cosi li pietre preziose, come i ini, sarei e buon gioielliere ». I.ib Motl.19; Ho annesso agli ani e li liti in li Il testo esempi di un come . . . . e...., e sì per mostrare l'allal - ia, mie a 1 he per rilevar e la diffe renza. A cenlla bellsl 1 il l Il s.o come. . . . e. . . . alla con impara nella di dlle atti, Ina Vi senti al che la relazione | 11:1 lo di: in quel mentre, in quella che... , precisamente al fora. . ., e qlla ido, di quando. . . , tanto. . . .; di che ti sia l all o p III , l i rili pari le lilli e si ra . , il 1 e l'allegato, gli esempi che seguono:e IO Ini leva diritto, e come i i vole: l IIIa ridare chi fosse, e che a Vesse, ed e . , Iri esser I.: Inler 1 1: v. I l sul l . 1 litot e 2 , 3oCome noi pro lia il e s II h , a e ge')till III: I mie!'e V ( Ing Il i : ll' ! ! li , , ( si ri.Come pili i vecchia la V . AV relIl mio tilt li in li iori - : l:di. l il bit. ll e pill ripostigli, e più si cerebb il le s II - , e come piti adoperate e liti per ferite e ! ti ve nio, poi io che si lo i come le vesciche, le quali come pili solo lo rientate, e pii - empiono ,. (.ar .()sserverai lili -1 e si pllo talora sotſi' il lil re, ti: nel I e  torni bene, e punto illlia n soffra il senso.  l'rima di uscire di questo come, cli i lili: lelli voci re Illonti sulle penne degli alti li, p la eliri per il III : il clii il 7 Zii e collettivita, di completare e mette e qui il Vppenali ll l a rigor di ordine s: rebbe materia del capit , i gli ºli, , , , il ll li - Il pi l'1 ol':i, sia di un semplice come, che, - : l li a lli I chi, lui ora Iorzi di siccome, poscia che, conci ossia che, subito che, li quale il . col. . . quale, precedute dalle voci modo, via ecc., e quali (lo di che, di finchè ed anche di quanto n 1 modi: come spesso, come presso?) e talora lillalrilen e di im, con, di qual maniera, guisa e simili, sia de 'I I riport come che, a valore quali ido, di avvegnache, I: I: Ido li in qualunque marie ra che, e talora anche di uli semplice come ( siccome. “e com'è Illisse di verilo e'l freddo gra il le, V eg. ) io l'ill l'e ll 11 di que” bacherozzoli o F, ronz.  a Come villan che egli era il canili, di lilltalli, gli illò della s lll'e a sulla testa sì piacevolmente che … Fier liz. I concia -si: chè egli  era villa li , cosi ſi celido come si lol la r llli Villa lì lì.  ti e come colui che pi col l lev:I | Il ra a V V a 9. l 3 ct'.  “.. . . . un giorno verso la sera elitrò li ei gia i dilio illi: gi valle hella e  vistosi, come quella che Ioriº ita era di vestiti riti di seta e d'argelli avea intorno le piu nuove ed is;uisite legge che si lisa-ser , (iozzi  a .... e com'e' vedeva i lºlirici in posi, novella illelite ridava all'arle º Bart. e dissegli che come nona sonasse il chiamasse» Bocca Come la donna udi ques.o levatasi in pie, comincio a dire....» Doce.  E dire il vero, com'e' l: rai, Ild ri. Illesla (til lido ilz:i di l)io il lin llc, l'e, è lllli il n. St gli...... e com'ei Ill iIII per li re, lei scaccia la... ft III l'il' li lllllg , si eliſ on I ); i V.a Questo animale, come sentirà l'odo e del pesce, ilscira fuori e con il a ciera a mi: ng la rsi di Ill peso 1 il ni , Fiºrenz.“ - - - - - - come pervennero alla città di Gaza li l iuoli inlerinarolio si gra veli elite d'ulio Inc. rilo e le el'a ll lisleri It I l ( il Val 1. Io voglio andare a trovar modo come il s 1 di qlla elitro » lº - e segretamente deliberero io che si dovesse trovare ogni via e ogni modo, come poi sistro la r 1:1 ril e (ies Il Cav.... e da quivi innanzi penso sempre modo e via come e glieli potesse  ll l':ll'e o li l el'. … che per certo se p ssibili fosse ad avere pi e ebbe come i il V esse » i 3 . li Il l . . . . . l Ebbe l: nuova come (ialobal era il is l il V . .... come ti se lui spesso ad Ira . . I3llon: i ferrilli!):l, come il cºlessi I ea voi? Vlessere, dlle tl):17 / :ll di ma lo » 13 . In Itlal I l 'lieri, i 11: il prezzo).Come è il V , si ro Il le? e il V I l come li, il 'll ? e lº quale, di ſlal lo fila . e . . . e di li a 1 lo come li - : -st :: Il  a I.:i giova:le, plai lig il , l ' s - . ll avev. a - la li paglia nei a selva sli tirrita, i ri . I come presso lo ss o il Vlag : :l, i cui I l bilo: ll il si se...... l3 e .  I ) Iss i llora l: i giova il lº come i l so io : l italizi presso di di ver il berga l' ? » I 3 i .Veduti e gli allegati i seri ini i lil 1 | li i lisi di tiri come il form la selm plice, passiamo ora agli esempi del collip - come che, in quell'lls , e val( il chilo (li: i rizi:  (*) Notale queste forme: come avete mom e ? com'è il vostro nome ? Vostro padre corn e ha nome ? Sono st m.lli alle tedesche ed inglesi: Wie heissen Sie ? Wi e ist der Name ? What is the name ? ecc.Usane anche tu, e la sera il francesismo : come vi chiamate? ecc. e simili. Si che l'ha anche il Boccaccio questo chiamarsi in significato di aver nome, ma ne us a tm maniera ben diversa e più leggiadra, che non fa il moderno. Esempio. « Domandò Giosefo un buon uomo, il quale a capo del ponte si sedea, come qui vi si chiamasse. Al quale il buon uom , rispose : M a sera qui si chiama il ponte all'oca ». I) al qual esempio ognuno intende che quel si non è particella pronominale riferita a quivi, qui, ma sta per gente, uomo, on, man th ey the people - e qui si chia:n a vuol dire: qui la gente dice, qui si dice, qui tutti chiamano, o cosa stmlle. Di esempi del modo aver nome in luogo di chiamarsi abbonda ogni libro classico : “ Beata Margherita fu fi gli uola d'uno ch'ebbe nome Teodosio, Il quale era Patriarca ed era gentile uomo e adorav gli Idoli . . . “ Cav. , ed io non Glan noto, ma Giuffredi ho nome Bocc. ec . - Nel tempo d'un Imperatore pietoso e santissimo, il quale ebbe nome Teodosio Iu un senatore della città di Roma, il quale ebbe nome An tigo no, uomo di grande affare, e molto congiunto al detto Imperatore . . . Tolse questi mog te, una donna, la quale ave a nome Eufrasia, donna religiosa, e molto temente l ddlo n. CaV. 33  a) L'avverbio come che non ha quel senso di perciocche nel quale tanto frequentemente è in bocca d'alcuno.  Il suo natural significato e d'avvegnache, ancora che, ben che (Bar toli). Notisi però che anche in questo senso trovasi il piu SOVC Ilte, l) Ull al principio del periodo, ma entro a questo acconciamente innestato. In testa al periodo prelerilai: quantunque, quantunque volte, benche, avve gnaCChe ecc.  « AVVisando che dell'acqua, come che ella gli piacesse poco, trovereb º be in ogni parte » Fierenz.  “ ......e sempre che presso gli veniva quinlo poica ( n mano, come e che poca forza l'avesse, la lontanaval o 13o .  " . . . .. . ed oltre a questo, come che io sia al titº, io sono inoltro, colite « gli altri, e con le voi vedete, io : io, i s a I r; i vec li a Lioce.  º . . . . . . il quale, come che II lotto - ingegnassi di pir, r , salito :ier,  º al flat ol' della fede e l'isi d l'1, i ra Ilon III . Il tono liv st 1. alore di hi a piena a V ºa la b rsa e li li rli dI - ii a lei le s III sse » l?occ. a Ella ll ( lilediCa Il li l' ', conne che li l s , il lit: i rito, se la ll I li « fallo llli crede. 1 e esser III , I » I 3 t .« L'ira in fervelllissili lo Il rore accenti si r.: ; e come che e questo -C Vento 1: egli iol 1, 1, 1 a VV 11: 1, 1: là con ni:: :: : : danni s'è nelle donne Veillllº º Bocc.  º . . . . . . si è adoperato i 111a Iliera di ri . . . , come cime inolfi il Liegano, a ( ( Il dann, a lido d'errore il dire.... » I3: l'I.  « ...... e come che gran moja nel cuor fi nis e, º eriza n. il tar viso, in braccio la pose al famigliare e dissegli: te . .... 13 cc.  « I Inalla cosa è aver rimp.issione d gli : Il Il ti; e ceme che il claso una a persona stea bene, a colori e mass III, III e 11 e 'I l ' st , ' quali.... » 13 r.  b) Anche per comunque, in qualunque maniera, e ad i era lui si desimo come che, scrive Il I al I l l', - lizia Illi. Il sospet lo d'errore.In questo caso pero e il come non il come che) l'avverbio risolv: toile lei sului (le111enti: in qualunque maniera, e ii che li e la rispettiva . giunzione o pronome realivo, congiuntivº: nella quale ecc. o Nuovi tormenti e nuovi torinºlltilt i Mli V gg , Ill. l'I1 , come che io, « mli Inuova, E come che lo li li V l il.... » l)a ille. « Come che questo sia stato o no.... o lorº. a Come che in processi di tempo s'avvelisso . Docc. « Come che loro venisse fatto » l?occ. « Ora come che la superbia si li renali, o per l'un modo, o per l'al.ro...» Passavanti.« Ma come ch'ella li governi e volga l?rili lavora per me non tol la « mai » Petrarca.  c) Notevole anche il come che dei seguenti esempi, nei quali sia il valore di un complice come i siccome,  « E come che il povero corvo fosse persona antica e di gran ripºrta « zione....., molti lo venivano a visitare, e come si usa, pil con le parole « che con fatti, ognuno gli profferiva e aiuto e favore ». l'iel'eliz.  3  - - - - - - m: disposi a non voler più la dimestichezza di lui e per non averne ragione, nè sua lettera, nè sula 1 Imbasciata più volli ricevere; come che io e l'elo, se li lu fosse perseverato,..... veggendolo io consu  « Illare, colli e si fa la neve al sole, il limito dll r , proponilla mt , si sarebbe a piegato » Boce.  I3mila però che il come che di questi ed allrl siiiiili esempi senza nu Intero, 11 , li si vuol leggere i dlli filo e pr . llllll iare con quell'accento che il comme che a valore il quantunque, benchè, che sarebbe imbra il o troppo rincrescevole e noi ne aver sti a lei in senso, ma profferirlo in guisa che il come risalti e recli egli solo l'impronta di siccome, im perocchè. La congiunzione che non ha qui a far nulla col come, nè sta ad al.ro ulfficio, oliº di semplice collg Illizione o nesso di puro OrnaIlento, e la portersene all'he l'Il rialle e', 'Irle appllll. , fece, tra l'altri, e assai si velli e il lºlere:lzuola. (AIPITI'() I,() I [..  Particelle e compagini a foggia ed uso classico;  avverloi, cioè, col ngiu 11 azioni e voci il n go - I nera n lo è o li in iu 11 i valore altro cl neº rela a tivo, 1 r) a tu ltto i 1 n t rii msec », i1 in in nea 1 nerì te Clirò cosi, e il nero 1 i te al costruutto, con i lcº il gran to del tcsst 1to l crio la ale, il va ago . lo il coro lit collega -  1T nel nto gli slo: nrtite i lec .  Ad alculle di sili. Il l Irella l. I li gi i tiri lici li nomine di 1 - pieno, e ci sono ce le colali particel. . . . ess, proprie della lingua toscana, le quali, oli e il 11 11 11 -si l i i s ll la III , il alla tela gl a - Intili: Ile, clie pi l'eblo sl. 1' st 117 -s . l II l' - I lil a cle aggli Ingallo a - l'orazione forza, grazil. ori a 111 mil . . . se li n . I ro. Il cerla maliva pr - prietà di linguaggio ... C. rl Icelli. CIl mio ed altri.  Ma vorrei qui rilevare che codesti autori fanno appunto oggetto di particolare osservazione le l ' Vlt i l (..l'.I l .E che non inati, o ti ifici o altro cile di ornamento e di ripieno; men .re le l ' V l l I ( I, I l l. e 4 t ) , il V º il N I, e le V ( ) ( 'I IN (i I, NIEI è VI ,E, di cui e parola in questo e in altri capitoli del I)II E I'l'ORl(), sono argomento di studio da quindi addietro al tutto igno rato e assai più rilevante che non sia cosa puramen le ori:arm2miale, come quello che adopera all'origitial candore e alia NEI VA I V del perio dare classic. NON SI (tanto) . . . CiiE NON . . .  Per squadernare che io faccia un libro, il derio di penna volgare o colta, a gran pena ch'io vi Irovi pure il periodo a lornia e sll'ulltila clie negli esempi che qui ſi allego. E dire ci clia è si bella, strella, evidente e di un garbo tutto ilaliano ! L'ebbero a grado assai ed usarolila di Irequente scrittori non pur del [recento ma e ti i cinquecento ed anche dei piu recenti, – di età cioè, non di sonno e di ullura, ch'ella è antica e non invecchia mai.  ltisport pressa poi al 11 sl 1 o : per quanto... lulla via..., e talora a 11 ne ai cori e tali vo: qui un lo... all.rellan lo.... Cili è però mestieri di ben altri, i lilo a 1 il ri: il lique suscellibile sia dell'uno che dell'altro 1 ggi il coinvºlte i Sy  Pochi esempi, ma quanto basti ad aguzzarlene l'appetito:  .... e le giustizial to a sioni in calesine in diverse lor pan li debbono  a re e al rei si nun li, nè si l ruora alcuno muri e o cosi bello e leggiadro, che ustio li', pur intenſe non luiuslidisca e generi sazietà . Varchi. E dunqu su penso che l'osse un re libero di carila, che non è si poco site noti avarizi, e , a lui pia, che li lle le cose ci colle, onde ella di mld l'a, più te, e l'uni, e in . ch ella non la ceca se medesima . Cavalca.  .... m. a e la loro si alla lo alla mia che una paroluzza si che la non  si può dire, che fiori si senta o. liocc.  ....pei e che mai uomo non mi vuol si sce, e lo parla e che egli non roglia la sia pari udu e, e se ci cruene che... i 13ove..... Mi ss, i disse la donna, il giovane con che alle il laccio non so, ma egli non e un casa uscio si serrate, che come egli il tlocca non s a lui a ... I c.percio, che egli non c alcun si o bito, al quale io non ardisca di da ciò cl, bisogna, ne si lui o o zolico che io non annoi bidisca l'ºnº r, il il di ciò che io cori di litrº.il in ii ...... ancora che egli non loss mollo chiuti o il dì, ed egli s ci sº in sso il cappuccio in util: li li occhi, non si seppe si , io ci o cali non posso prestamente conosciuto dalla donna - lº no: si p co che oltre a diecimila dobbre non calesse e lº ins, s. capelletto: Messer lo piale, non dil cosi, io non mi onirs se ne tatto e le nè si spesso, che i sempre non mi i colºssi i sa, i n i 'mente di lulli i miei in rili. che io mi ricordassi dal ci, ci e, a qui, in lino a quello che con lº stilo mi sºnº i 80 t . ve mai enti e così ci rendo cedrete coi, niuna spesa lalla si ſnºdº, è si s., lo sa, ne tanto magnifica, che ella non sia di molli, per molli mancatinenti, biasimarla l' º '.e 1,i, il re in guardi, che i cari sia le nulle si lº lui il li) con l rul 'lo alla fase a degli uomini quanto l'ºrº ristº: niuna è si chiut l'ut (' eccci fetil e in la quale non stia oscura, e sconosciutº sºlº l'u n'atrizia ». l', i licli il . - - E la chi potremo noi lidire' più il vero, che da voi, il quale si" riputato sion tanto spendente che in roi non slot onesta mºsso" " si le massaie, tale che non dobbiale ºsserº reputato liberale? ». andolº. si eli, a I, sperar mi ero cºſiº I)i quella ſera la gaietta pelle. ; del I n po , la dolce slogionº, Ma non si, che paura non mi dºssº La rista che mi apparre di un lºrº º l)ante. - - - - - i vini campo, fu mai si ben collirottº, che in esso º orticº ". o alcun primo non si l'orossº mescolato fra l'erbe migliori º l' iamme" « Non ci sarà tanto dolce la consolazinoe che prenderete del sºlire,.... che egli non vi debba altresì essere utilissimo il al re... C - sari. (29).« e dilellami di pensare di lei maggiormente, che reca maggio: virtù e maggior ſortezza: e so bene ch'io non potrei tanto mensa, che più non ci avesse da pensare a Caval a.«... e' l dimonio disse: Al mondo non è per cui lo si gr. 1 nel , che I, lali, non gli perdoni, se si converte, ma qualunque uomo si accal. . per I l pºnilºnso o per altro modo, se llio non gli ha misericordi, si e ci rius I., Cavalca. non è si aspra e malatgerole che alcun pur non la les, le i Cav.« non è si magro carallo che alla bietola non rigni in il 1 lo . . S º . . . . . con piacere inci 'dibile del mio stillin , che son d se la trº Sloi (), che per si la lo on i re non si l is 'n lor e il tr . . . . . ); . . .a Io ne ho parecchi esempi ma per dir crro, non son cos: i ſissini: che non possan ricevere latin lo accorcia in n 1 l in I pm la l . . . li « Qual luogo è si sui grossi nto, che i c. coli non ti tra il ct 1 nel 1 : insidie alla loro incut u lui one's là? , S gl, 30« un lento morire di dodici anni, per una penosissimi a : i riti iii: nè tanto leggiera, che quasi sempre non isl ess, in agonia. se tanto il re alle forze della sua carità, che sempi e non in licasse i sei zio di Dio e delle anime n. 13a l'I.« Non istelle o però sempre quiri in Tucuscima fermi si ciºe l'uno e l'altro non iscor esser tal rolla a seminatre e mielere il lle tll re isole di quel contorno ». Bart.« Che se non è mai tanto aspro dolore che il len per non lº distri li ed anco non lo annulli, perchè la prudenza e la costati ai rom l dr G almer in itigare? ». Caro.a Secolo non però tanto di rii li sterile che qualch . n e si ri; i non producesse ». Dav. - « Sicchè bisogna guarda i ri da animo delittº ºlo. perchè alla osti, nazione non è si difficile impresa che non riesca . Fiºr º.a V ero è nondimeno che in questa pati (e di nasconi, si tl riti º gli renne fatto di conseguirlo si interamente che ti º di quello, che fuor che agli occhi di Dio egli pensava essere occill I, r; l uſ gli atll ri . nºn si palesasse ». Dart. – 38 –  NOte  all clrticolo 7.  ?S) To II: Ilive e per i 1:1 1 : la . . . . . Il Not so. . . . but that.... Es.: I noi so but that I l l:lve g ancd at rva - sonº l'1: v. l . ll, Willls  ver not so Il 1 l v d . . . A cºl bu:i tinat i -li si stile  t : 2!) ( );: non si u, le motº. . . . . ! ! ( r -, , e al I li e ! ::i ll l: llll rºl , l tall  ll . . . . . . o si pºte:to... o tre.... vi il lla  - . v . l i non meno , , , cime VI, ina : qui li a l. egi 12 linette i'a, la cosa e i'altra; I l V i l IV V :) 11 egua i rincari e il pregio di virtù e in nuriero di lei le!. l . . . . ., l i i 30 ( ). li è in ſo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . - ! i ; iprimo incis , l' ri: Ni: in It:ogo è si s - ::  cin e voi i pl: i non te ! , trici 1 e ti .  ARTICOLO 13  n0n Ciii . . . (anzi, ma . . .)  l' vi l' non rli slli gg ad Il col: il liso, ci chi si l i delle in circ venti li e ſi ha - - il l e per le  fornire e c i cl: ssi i : I l . E li ul: ssaggio dei  model i i non cli : « E vi la lo il tg ci li : . spicca il I l . non v li e'  viali ecc. il III il s lis . . l si gli e il solo  cile gialnili: li si riliv li i ll ' : 1' ll - : il lassiche,  | Non sº, l l: li lilai i ". I sici in l:il guisa, ma luitino, se  lingua a que” gloriosi.  l:s il de vi: il re ciò e ,i lire : si oln in he uscir de  condo pari a me, pole a riti per il che | Il il colport Isse, lanlo è diverso questo modo, non che dall'antico e lui si li l'ente sulla Appo i classici vale a dunque quando non solo, (Illando non solo non. Il Bartoli e parecchi altri sottili investigatori in opera di lingua appuntarono il Vocabolario che definì il non che : Particella e crersalir. e di negazione, e corressero aggiungendo: alcune role sì, alcune colte no ma e del si e del no niuna regola. Io non pretendo crear regole; rife risco l'Osservato e se altri fai assene regola, al sia di lui.Dico adunque che Dante. Doccaccio, Cavalca, 13a Ioli , di altri li grande autorità dànno al non che senso di non solo non quando regge in passato e talora anche il presente del modo congiuntivo: in altri casi vale sempre o quasi sempre non solo.Il Cesari però adopera l'un per l'altro. Forse ch'io inal , apponga o che il valoroso Cesari (lui sgarrasso? Non oserei asseverarlo. Il ma od anzi del secondo inciso ordinariamente non ha luogo di lando. vi è inversione di frase, e però il non che sussegue, non precede, come si farebbe direttamente. Nè per questo torna al non che moderno, che la relazione di non solo non e mai vi si sente ſul lavi, ed è lontano le mille miglia di assumere il torto significato di siccome anche e ancora ( C('.Senza inversione di frase può per altro il mal precedere l rrelativo non che, come fecero, Boccaccio. Partoli e tant'altri senza rimerci. Loggi e dimmi se vi ravvisi il non che moderno ! E' affare di ori ginal candore, integrità e vago non pur della frase, ma del peri do ancora, che i moderni non curano affaſ (c, lo bistrattano, e pare che i cciano a chi più lo strazia.(38).  Non che io faccia questo.... ma se roi mi dicesſe ch'io dirorassi nel fuoco, credendori io piacere, mi sarebbe diletto ». Borc.« Non che la mattina, ma qualora il sole era più alto..... ra si poteva (1 ntl (tre ). T30CC.a non che a roi ma a me han contristati gli occhi ! ! ». Bocc. « Di qua, di là, di giù, di su li mena. Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena ». Dante.a Quanti leggiadri giovani, li quali non ch'altri, ma Gallieno, Ippo crate o Esculapio arrieno giudicati sanissimi ..... ». Bocc.« Ed oltre a questo non che alcuna donna, quando fu fatta (la legge ci prestasse giuramento, ma niuna ce ne fù mai chiamata ». Rocc. (30). « Ma non che punto giovasse a rimetterlo in miglior senno, che anzi ne riportò parole disconce e di non liere strapazzo ». Bart. 40'. «... e da questa tanto generosa e salda risposta rimase il buon capi tano si commosso e sì mutato nel cuore, che non che prunlo (tltro dicesse per isrolgere il santo dal suo stabile proponimento, ma egli medesimo determinò di rimanersi, e correr quella medesima fortuna che lui, nulla curando, nè la perdita della sua mare, nè il pericolo della vita ». Bari. « ... e non che il desse al ballesimo, ma da indi innanzi cominciò una sanguinosa persecuzione ». I2art.« Sostenne (Socrate, con grandissimo animo la porertà. intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse ma ancora i doni da' grandi uomini offeritegli ricusò m. Rocc. (Comm. sopra la Co media di Dante).  « Li quali piaceri lauto all' una parte ed all'altra aggradirono, che non che l'un dall'alli o aspettasse l'essere in ritato a ciò, anzi a doverci essºre si lot e cct in nl ro l'un atll al! I o, in rilanci. . l occ.() la che il San lo ri in tre line di calci i giù a rompicollo in rati i temi pi di ſtuciulli e il mal dl mi ma che di ragione, ballendo sopra dei sassi a pil del nº iro, poi l' noi in all zza di reano º immaner imiranti, in ton che la ni avvenisse il lor che anzi non mi andarono pur leg gri li ul, li si ºr a nolo di Sai , i rol rol, della promessa, in risibile mi il lit ma il ct - sl n. 1 li s l alti i l . ll . I 3, l .Il Sult 1 io non che si mostrasse il till I N l li li , l . . o si ritirasse in sè i cd 'simi per non lo si ut e r , i ma, ma anzi con sembian Ie e modi d' ui a schiella ci ſia balili e il ct pi e l i tiri i tiri in li, lui lo aggradira, fino a bere per man loro ..... l?arl. - - « l' rciorch è c'illi era di sì l in Nsrl rilai, e li e non che egli l'ultrui on le con giustizia vendicasse, anzi in limite con valup eroli , illà a lui fattene Nosl e ne rai . I 3 cc.« .... e questo set persi sì con la meml, la e, che quasi mini no, non che il sapesse, ma nè suspicat, a o lº c.Ma con ciò non che li domasse che anzi maggio in ente gli inasprì : itl che.... ». I3:art.« Ma non che cessasse con ciò la l. 1 , in e la suoi i rallelli, che anzi maggiormente le crebbe a 13ari.a Le mie scrilure. e de nei passati, allora e poi le lemmi occulle rinchiuse, le quali non che ella potess lega re nè ancora rederle º, IP:ulldolf.« Ma, non che il corno nasca egli non se ne put e nº pedala nè ombra o. l 31 t ('.a ... se ce li rai in corte di lotti si e' reale la scellerata e lorda rila dº coi lipi, poi, non che , gli ºli ( il malco si juta la cris' il mio, ma s', gli lossº cºn i si tro la sen-a fell , giudeo si ritornerebbe l'oce.illiri o il rili , e scorallo, non che se ne adontasse. I remi il mulo lui il ſì dal tempio per nascondersi doc, chessia de Cristo che lo minacciava , (es. 41).e nessun alito di le ter, di luci costume, nè di sentimento, non che gentile ma nè un erno si è mai potuto appiccare in Intel srl rigºrio animo v ( s.  Il salarmino cielo, non che gli altri, piorera a noi ", il ſiorno ch'elli nacquero . Filoe. (ſ2.Non che polare è cosa perniciosissima salire sopra i lrulli e scull picciarli molli anazzosi, o auando è nebbia che gli fa sdºrnire º, l)av. (ppena el io a dissi di crederlo non che li scriverlo ». Bocr'. 13', si r, tutti di tingere a tale alle ot, ch' minali ali alberi non che a ritm-i le bicicl, o. Segn ( 1 ).« Tutto 'I I, in po di cita, che mi può dare ancor let maltra, ſia pocº a rammemorare, non che a rendere all'Accademici lo ſtraziº che io debbº ". T):) V.« I)i cosa, che egli roglia, ma io dico si' rolesse l'asin nostro, non ch' altro, non gli sia detto di no ». Bocc. (ſf).« Madonna, se voi mi date una camicia io mi ſtellerò nel fuoco non ch' altro ». BOCC. « .... e sfacciati più ancor dell'antico Cam non dubitate per beffa nudar chi dorme non che in ritare di molti a mirarne la nudità º ). Sogn. « .1 dunque, come ha rerun di roi gran premura di assicurare l'eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì in lieri, non che le notti, senza che di ciò mai ri ricorra alla mente un leggier fantasma ? ». Segn. (46). « ... non sorrenendoli prima, per sommo loro dispregio neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale ». Segn.« ... al sentirsi rimbombare quellº ch m ! nella mente, Don Abbondio non che pensare a trasgredire una tal legge si pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua ». Manzoni. (47).  NOte e Aggiunte  all'Articolo 13.  (38) Non sarai poi di si corta vista che non ti avvegga di equivoca zione, a volere, come fanno certuni, sempre e non altro vedere e inten dere che il ragionato modo non che, sol che si trovi un che accanto alla particella non. Il seguente esempio ſe ne chiarisca: « Come, disse il ge « loso, non dicesti così e cosi al prete che ti confesso? La donna disse: « Non che egli te l'abbia ridello, Irla ogli basterebbe se tu fossi stato « presente: Inai si che io gliele dissi: ». I3occ. Separa quel non dal che, intendilo nel senso di non già che ecc., o altro di simile, e la frase è chiarissima. Ma col senso (li nonche lì lì le cavi alcun costrutto.  (39) Traduci: non solamente niuna donna ci prestò giuramento. Ina. Poni mente costrutto egualissimo dol seguente esempio: « Il re udendo « questo e rendendosi certo che IRuggeri il ver disse, non solamente che « egli a peggio dover operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'in crebbe ». I30 ('. cioè: non solamente non procedè a peggior operare, ma. . . . E chi dubitare a dunque che in costrutli si fatti il non che ha senso di non solamente che, e l'uno e l'altro, come che altra voce non segua che comunque il neghi, vaga e breve forma avversativa e di ne gazione? Osserva come in molti degli esempi (e potrei allegarne a centinaia) che fanno seguito a questo primo del Boccaccio il non che ha senso di non solo non, o come a tutti codesti non che risponde un'im perfetto o presente congiuntivo, il quale solo che al non che si sostituisca il non solo non, torna al passato o presente indicativo. Ma quanto è migliore quel costruito! Ammira stretta commessura e soavità di tornio! Traduci come sopra: non solo non giovò, e così nei seguenti esempi.41) In questo esempio del Cesari non vi senti forse quel vigore che nei precedenti. Vuoi saperlo? Manca il ma od il che anzi come suol fare il Bar (li. Inseriscilo il fatti ed oti leni subito un tornio COI'l'ettis simo, e al tutto col fornire a quello costan.emente adoperato dal Bartoli e dal I3Occaccio.(2) Non t'illuda la costruzione, il vertisei e trovi sempre il non che il discorso: o Non che gli altri, ma il saturnino cielo pioveva a InOre ». E di siffatti modi a migliaia ne troverai soluadernando i classici, di ogni età e di ogni sfile. (43) Inversione: non che di scriverlo ma nè di crederlo. 44) Invers, come sopra, e così negli esempi ( le seguono (5) Qui piacque al liocc. di esprimerlo il ma non ostante l'inver. sione. Noterai di quesio e del seguente esempio la naniera non ch'altro, la quale pare che andasse assai all'animo al nostro valente oratore I3arbieri. L'ha sempre sulla penna e ben dieci o dodici volte la trovi in una sola predica. Vale: non solo, checchessia d'altro che voi pensi nte, ma perfino. . . .(6) Se ti sorge dubbio intorno al senso di quel non che, non hai che a consultare il contes , e saprai subito se vale: siccome anche, oppure non solo, l'arla di coloro che neppur lesti si sentono una a sol volta rapire violentemente i pensieri a Dio ».(7) l'8occaccio, l)a Valnzali e lº arti li avrebbero 'se, coerentemento all'ossorvato, costruita la frase un po' diversamente. « Al sentirsi rim « bombaro (Illell'ehm' nella mente, l)on \bbondio, non che pensasse a « trasgredire una tal leg e ma si pentiva persino del'aver ciarlato con « IPerpetua ». I3ada veli' che non ho detto con ciò che sia errato o men bello il poriodo del Vlanzoni. l'olga il cielo ch'io a ridisca di censurare od appuntare comecchessia quelle troppo care, adora le pagine.  A RTICOLO 14.  SE NON SE NON CHE  SE NON FOSSE (che, giù)  forli e li dire costantemente risale dagli antichi e buoni scrittori, ed oggi invece s degli sani enl e neglelle e al lullo smesse, se non che ad alcuni oratori, specialmente da chiesa, pare di rammentarsene profferendo assai volle un solenne se non che, ma a grande sproposito, e insignificato di ma che non l' ha. (48;.40) Sulla penna a classici le dette forme hanno ben altro valore e vo gliono dire: se non fosse stato che, a meno che, lollo che, salvo se, salvo che, altrimenti che.  Il Bartoli ragionando di questa ed altre sorniglianti maniere, cui il periodo deve nesso, brevità e leggiadria | IIIa italiana, soggiunge: (( ( “ ( ) - Inuti Ilie poi abbiano a servirvi, o sol per cognizione o ancora, per uso ». Grazie dell'avvertimento, ma noi seguiremo più che le parole il suo e Sempio.  L' Asia del Bartoli è uno stupendo velluto contesto e lavorato ad opera di ricami, Irapunti e compassi di così fa la gioielli ,  º le sullò tali Nso e se non che ci lui lo sl 1 o, e ralsesi del calore, ella ne ſacerat mille pezzi . Fiorenz.º (i rotn cosa è slitta col slot. e se non che la lati della Iu, io non la ('re' le roi , . I 'i rel/.()nde non è lui in pºi lati e in sè a lijello il non di rerlo, nè di colpa (trerne l l'oppo; se non fosse già che atll li desse o all' uno o all'altro la cagione, la quale....? ... Passav« Il miglior piacere, e 'l più sano è il ſitcºre boccone, o quasi, peroc ch è tutte le menº brut clen I l o sl i rino, nel loro luogo : se non fosse già che la persont a resse losso o asmat. o altro in ſei mili, che lo facesse ambascia, o noja lo slar boccone . Passav.« E se non fosse che egli temera del Zeppa egli arrebbe della alla moglie una gran rillatnici così rinchiuso con e era ». I3oce.a e se non fosse ch'io non coglio mostratrº.... io direi che dimani...». I 3 co.a e se non fosse ch' egli era giovane, e sopra i remira il caldo, eſili arrebbe a rulo troppo a sostenere ». Dolci -.« E arrei gridato, se non che egli, che ancor dentro non era, mi chiese mercè per Dio e per roi ». Tocc.« E se non che di tutti un poco riene del caprino, troppo sarebbe più piacevole il pianto loro ». Rocc. (49.« Cosa che non fosse mai stata redula, non ri crederei io sapere in segnare, se ciò non fosser già starnuti ». Rocc. (traduci: a meno che si trattasso di....).« Era la terra per guastarsi se non fosserò i Lucchesi, che rennero in Firori: o yo. G. Vill.« Se non fosse il soccorso, che il nostro Comune ri mandò così Sit bito. la città di Rologna era perduta per la Chiesa . G. Vill.« Se non fosse il rifugio della terra, pochi ne sarebbero scampali ». ( ; Vill. (5ſ) .« E se non fosse che i Fiorentini ci mandarono inconta nºn le lorº ambasciatori, .... Iologna era l'ulta guasta ». M. Vill.« ... e niuno seppe mai il fallo suo, se non ch'ella il confessò in peni lenzia al prete, dicendo la cagione e 'l processo del sito isriamento, e la grazia ricevuta m. Passav.« Queste nuove cotanto felici fecero alzare al Saverio le mani al cielo, e piangere d'allegrezza, poichè gli giunsero agli orecchi colà nella costa di Comorin, dore laticara nelle opere che di sopra contammo: e se non che Tuiri (tre a presente alla mano una troppa gran messe d'anime che rac cogliera, sarebbe incontamente ilo a Celebes a farvi grande quella piccola cristiani di m. I3art.  º -..... baluardi non commessi come oggidi nelle nostre fortezze, con (tl di cortina fra mezzo, ma srelli e isolati, se non quanto cerli pomli vanno (i con il nicare il passo della gola dell'uno, a quella dell'altro ». Bart.  Era donna di gran nascimento e ricchissima, se non quanto i Bonzi l'acerano a poco a poco smunta fino a spolparla ». Bart. 51).  « E non sarebbe rimaso riro capo di loro, se non che gilardo l'armi e gridando mercè, rende ono i legni rinti e sè schiari ». I3art.  ( .... e l'arrebbon linito, se non che un di loro gridò che il serbassero (Il riscatto ». I3art.  º - - - - - -. ri diò in altra parte con la nla foga, che del tutto arenò : e se non che tagliarono tosto da piè l'albero della rela maestra, agli spessi e gran colpi che dara, coll'alzarsi e 'l calar della poppa mobile e ondeg giante, si aprira » lºart.  « Egli (un cerlo 13onzo tanto più infuriara e ne faceva con lulli alle peggiori: finchè il re il mandò cacciare come un ribaldo fuori di palagio. e disse: che se non che egli era in quell'abito di religioso, a poco si ter rebbe di fargli spiccar la testa dal busto ». I3art.  NOte  all'articolo 1 f.  (48). Quante vol. e si vedono questi ora Iori riprender fiato, mutar sembiante o proseguire, con vi quando più grave e quando più di messa, e lentamente, articolando un solenne: Se non che! lo non so di ninno scrittore antico e se del più recenti almeno puro e corre.to, che adoperasse mai il se non che in quella forma e senso che in certi dettati o a dir meglio imbratti moderni.(49). Da questi esempi del Boccaccio si vede che gli era tutt'uno il se non che e il se non fosse che, ed usava indifferentemente l'un per altro. (50). Pare che a G. Vill. sapesse meglio il costruito diretto e senza la congiunzione che, il quale sol che s'inverta o s'inserisca un verbo torlìa ( Vidolltelnonte all'anzidetto: « Se non fosse che 'l nostro Comune « Imandò così sul [o il Soccorso occº. ».(51). Nota bella elissi: se non fosse stato che i Bonzi la impoverirono a segno che . . . . oppure : a meno che ella s'impoverì di tanto di quanto potevano sul suo cuore i Bonzi i quali la smunsero fino a. . . . ARTICOLO 18.  NON  Stranissimo e fuor d'ogni regola positiva, come che di buona, anzi  ottima lega parve all'autorevolissimo Bartoli l'uso di questa particella. « Però che, dicº egli, considerandola secondo la natura e la forza che ha di negare e distruggere quello a che s'appicca, pare che contradica, dove talvolta, se nulla opera. Inaggiormente afferma; e sol un buon orecchio sa dirci quando vi stia bene e quando no ».  Così avvisa il Bartoli, e con lui ogni allro scrittore cui occorse di ragionarne. Ma io non m'acquelai e volli non per tanto esaminarla e stu diarvi dentro, e vederla a punta di ragione, intenderne cioè e discernerne il come, quando e perchè. E non fu fatica inutile, parini anzi averla colta che nulla più. Tre costantissime osservazioni mi vennero fatte che ogni caso comprendono del non che non nega.  Non oso erigerle a norma o regola di eleganza. Menzionerolle e me ne passo.  a). La congiunzione salvo, salvo se, salvo che, a meno che e simili,  e l'ammonizione altresì di guardia, cautela, accortezza, vigilanza che cosa non si faccia, non si dica o l avvenga, che poi dispiaccia o comunque metta male, è costantemente susseguita, –- simile al se garder dei Francesi – dalla particella non.  b, che, commessura di comparazione risolvibile nel suo equiva. lente: di quello che, è susseguito dal non sempre che nel primo inciso non vi abbia non od altra voce negativa o comunque avversativa. In caso contrario non ha mai non che vi aderisca. – Appunto come avviene del que dei Francesi, nesso comparativo or seguito or nò dal ne senza il pas. – (55).  c). L'inciso dipondente dai verbi: temere, dubitare, sospettare, suspi care, ed anche dalle voci: per timore, paura, e simili – espresse o sol tintese – il quale si governa comunemente a guida di che o che non, solº reggosi e sta elegantemente senza il che pure a nodo o tramezzo della particella non, ma sì che il soggetto tramezzi e l'una e l'altro.  Seguono gli esempi divisati, conformemente al ragionato, in tre dif ferenti gruppi.  « La casa mia non è troppo grande, e perciò esser non vi si potrebbe salvo chi non volesse starvi a modo di mulolo, senza far mollo o zillo alcuno ». BOCC.  « salvo se i Bonzi non levassero popolo e li ci allizzassero contro ». Bart. “ Una cosa vi ricordo, che cost, che io ei dica. voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona . Iº occ.º l'irºgli da parte mia, che si guardi di non arer ll’oppo cre  - dilo o di non credere alle lavole di Giannotto ,  l3 cc. º l Ittºsto la rete, che coi diciate bene i desideri l' Nl li, e guardatevi che non ri renisse nominato un po' il n till I ..... . 13 , .  « e sta bene accorto che egli non li l'ºnºs le luci ni tdosso o locc.  º e lì la loro lo luna in quello che la olerano più la col e vole, che ('SSi medesimi non dimandavano , . 13,ce.“ Ma lullo al rinculi addicenne che ella arrivato non avea ». Boce. º tºndo più animo che a sci co non si appartenera , Bocc. º ... Se non ci chi è di rim alo e pli lori che non s no io o l?art. ( .... che io ho l'oro lo donna da molto piu che tu non se', che meglio mi ha conosciuto che tu non laces , 13( Compagni, non ci lui bale, l'opera sia altrimenti che voi non pen Sale ». DOcc.« Se io vi polºssi più esser la nu lui che a non sono, la ulo più ri strei, (1tl am lo più cara cosa, che non son io mi i sensi. I ne mi rende le m. 130ce. « rispose che per più spazio che non ha da l a iulino al cielo era fuoco ardente ». Passav.« Assai volte già ne potete aver recluta i clico, delli e di scacchi troppo più cari che io non sono . l o e... più assai ce n'erano, e li oppo più belle che queste non sono ». IB ) c.« Voi m'ono ale assai più che non docerale una persona non cono sciula e di sì poco alla re ci ne son io , ( aro.« Ma troppo altro gli incolse che non avere di risalo . Ces. « Perchè dunque sì rall risluti ri, che gli altri facciano la m lo bene di più che non ſale voi: e però inquiela, li deriderli, disturbarli ? ». Segn. « Ben conosco per me medesimo la grave: sa del mio pericolo mag giore ancor che non di le... ... Segm.« Forse a rete voi li rido il rosli o pello la più frequenti percolimenti di pietra, che non portare nel suo slam pali irolamo . Segn. l « Nelle donne è grandissimo tre alimento il set persi guardare del prendersi dello amore di maggio e uomo ch'ella non è o. Boce.  « Dubitando non ella confessasse cosa, per la quale.... ». lRocc. « .... temette non per isciagura gli renisse smarrita la via ». Boce. « I)i che egli prese sospetto non così fosse come era ». 13occ. « Chi vuol fa, e la cosa ancor non rielala, la fa con timore non ella si vieti ». Davanz.  "Forte temeva, non forse di questo alcun s'accorgesse ». Bocc. “ .... i quali dubitavan forte non Ser Giappelletto gl'inganasse ». Boce. “ Di che Alessandro si maravigliò ſorte e dubito non forse quegli da disonesto amore preso, si moresse a così l'attamente toccarlo ». Doce. « ... sospettando non Cesare gli togliesse lo stato ». Davanz.« Tenealo a bada (Cesare Ienea a bada il Cardinal Polo ch' era ancora al lago di Garda) perchè le nozze di Filippo si compiessero prima che ('gli arrivasse, temendo non la sua presenza le intorbidasse ». I)avanz. « La quale udendo questo, temendo non lorse le donne per troppa lrella tanto l'uscio sospignessero che s'aprisse..... ». I3occ.( 0r questo gli dava lroppo gran pena: conciossiachè egli temeva non lorse egli losse caduto in quella durezza di cuore.... ». Cesari. « tanto i santi sono teneri e sfiduciati d'ogni lor desiderio, non forse la natura ne gabelli qualche cosa sottº inteso: per timore che... o temendo mon....) ». Bart.« Ma gli parve di soprastare alcun poco non forse la troppa sua sollecitudine gli noiasse (tenendo non forse....) ». Cesari. « ... presso in che di letizia non morì ». Barl. « Io temo non colui m'abbia ris lo ). I 30cc. -  NOte  all'articolo 18,  (55). A prova di quanto atºserisco non basta si alleghino esempi col nom, questi confermano il primo caso, ma occorre anche mostrare come il che del secondo inciso allora soltanto va senza il non che nel primo inciso si trova un non o altra forma comunque avversativa.Eccone però un saggio: « ..tutti presti, tutti pronti ad ogni vostro « piacere verranno nè più (più tempo) staranno che a voi aggradi». Bocc. « Conservate il vostro, non ispendete più che portino le vostre facoltà» Pandolf« .... nè avete voi più desiderio di udirmi, che io ho di farvi mas Sai ». Pandolf.Alla parte 2. articolo 11 si ragiona tra l'altre cose anche di questo che a valore di : di quello che, e si allegano molti altri esempi con o senza non in conformità a quello che qui mi avviso. E' poi tanto vero che, in locuzioni si fatte, cotesto non l'una o l'altra volta ci deve essere, che ove al Boccaccio, non sapeva buono (come che di ragion ci stesse, ma per suono forse men grato che all'orecchio ne veniva) la seconda volta, no ! lasciava la prima avvegna che non ci avesse luogo: « E chi negherà questo i contorto ) quantunque egli si « sia, non molto più alle vaghe donne, che agli uomini, convenirsi dona « re?» (In cambio di: molto più alle vaghe donne che non agli uomini...)  CAPITOLO III.  Alcune altre voci  il cui valore ed uso vario secol ndo lo scriverc clegli arm tichi ed anche de 1 migliori nºn oderrni, reca a talora al l'assetto di nuove e vaghe fornme, così che al periodo non nel no che alla frase, e vicle I nza 1 ne vierne, garbo e sapore.  Nel precedente capitolo allegai ed illustrai maniere – particelle, compagini e tramezzi – di una forma e ragione tulla interna, coesiva  dirò così e inerente alla struttura e nervatura del periodo. Ora vuolsi invece studiare e prelibare il grato di tal'altre voci, le quali quantunque rechino un senso delerminato ed adoperino sull'esteriore soltanto del pe riodo, son però tali e tal collocale che a lasciarle, sostituirne altre o co munque tramutarle sconcerebbe e n'anderebbe di quel candore ed ele ganza che è sol retaggio della lingua antica.Dada neh ! che nel commendare che farò questa e quella maniera, non è mia intenzione che tu poi la usi a tutto pasto, come fanno certi scrittori i quali si danno l'aria di purissimi imitatori del trecento, dove non ne sono, a dir il vero, che odiosi conl raffattori e lo mettono così in discre dito anche ai meno avversi. Questi colali non sanno far alll'o che infar cire i loro dettati di maniere solo antiche e male accozzale.Tienlo ben mente, non è scrillo sì elegante che non sia anche semi plice e spontaneo, nè può esser mai bellezza quella che si distacca ed esce comechessia di euritmia.Più che la teoria siati adunque criterio e guida un buon orecchio, conformato però – mercè di lungo studio e severo - al ſorbito perio dare soavissimo e grave dei nostri classici.  ARTICOLO 4  MISSfil  Delle novità che ci venite a raccontare! Chi non sa degli italiani, per idiota che il vogliate, che la voce assai è altrettale che molto ? Con buona pace vostra, risponderei a chiunque fosse quel benigno che volesse mai censurarmi ed opporre ch'io ridico cose molissime, non è il valore  4 soltanto, ma l'uso altresì di alcune voci e particelle, anzi questo più che altro ch'io mi proposi di ragionare. Mai, sol rarissime volte, leggendo un qualunque moderno di mezza inta mi venne scontrato l'avverbio ed anche aggettivo assai al locato e si vago che negli esempi, fra mille e mille, che quivi appresso.Quale aumentativo (sehr, ti s. very di aggettivo e di avverbio, si che l'adopera e forse l roppo, anche il moderno, ma giammai, o quasi mai. accoppiato a sostantivo, o sostantivo egli medesimo in ogni genere e numero come che invarialbile.E quant'altri e più minuti scandagli restano tuttavia a fare prima che e siamo rivocale e ristorale le avite bellezze dell'italico periodare ! VIIro che piali e ciance! Sollecitiamo a che la via lunga ne sospinge ». (71).  E disse parole assai a Paganino le quali non montarono un frullo ». l 30 (”.Ed assai n'e' uno che nella strada pubblica o di dì o di molle lini a mo . l 3occº.senza le rostre parole, mi hanno gli effetti assai dimostrato delia ros rai bene colenza n. 13 cc. . . .Spero di tre e assai di buon lempo con le co . lioco. Entrati in ragionamento della valle delle donne, assai di bene e di lode ne dissero o. I 3 ' ('.... applicò subito l'animo a guadagna lo, e gli si dia a dire assai delle cose da farlo ra eredere della sua cecità lioco. Il I occotccio l'usò delle volte assai . I 3arl. « ... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo rispello riguardo) º. Cesari.« Minuzzatolo e messori di buone spezie assai, ne fece un manicº retto troppo buono ». Bocc.a La prima persecuzione ſu mossa alla Religione essendo anche tiri assai degli apostoli ». Ces.« Nè vi stelle guari che egli ride assai da discoslo ritornare il Car pignat con assai allegra faccia ». Fiorenz.In compagnia di assai numero di soldati per andare di danni il l live) lo . (iiamb.... la mia guardia ne prende, e si stretta la lenca, che forse assai sºn di quegli, che a capital pena son dannati, che non sono da prigionieri con lan la guardia serrati ». Bocr'. ()r chi sarebbe quella sì ci udele Ch'a rendo un damerino si d'assai, Non direntasse dolce come il miele ? ». Lorenzo de' Medici (73). E oltre a ciò rireggiamo (acciocch'io laccia, per mºno ºrgognº di noi, i ghiottoni, i tarermieri e gli altri di simile lordura disonesti uomini assai, i quali.... essendo buoni uomini repulati dagli ignoranti, (tl lim0mº di sì gran legno son posti ». Bocº. t. A rispondere, assai ragioni vengono prontissime ». Bocc. « ..... nel quale erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai ). Bocc.« Assai sono li quali essendo stoltissimi, maestri si lanno degli altri e castigatori ». Bocc.« ... dove molti dei nostri irali e d'altre religioni trovai assai ). Bocc. « ... che assai faccenda ce ne troveremº tuttavia ). Ces.  NOte  all'articolo 4  (71) Della frase : essere assai a checchessia (per basilare a, . . .) che l'ha delle volte assai e il Boccaccio e il Cav. e loro più scelti imitatori, parlerassi ad altro luogo.  (72) Nota il genitivo. La voce assai non è qui avverbio Ina sostantivo oggetto, e va unito col complemento della vostra ecc. La forma obbligua assai di, del . . . . suona talora Ineglio che la diretta. Osservala negli  esempi seguenti. Conf.: tanto tanto di... alquanto di...). (73). Uomo d'assai significa valoroso.  ARTICOLO 9  NUIIIII, NIENTE NONNUlillſ, NUlill0, NIUN0 ecc.  Negli esempi che senza più qui allego – alcuni dei moltissimi che ho raccolto, e recanti ciascuno l'una o l'altra delle proposte voci – vuolsi singolarmente notare:  a) come le particelle negativo niente, nullo, nulla, niuno escano ta lora, ed anche elegantemente dai confini che il vocabolario loro inesora bilmente prescrive e si lasciano governare, sol che l'orecchio e la cosa il consenta, a maniera di aggettivo e sostantivo;  b) come in nostra lingua il niente e il nulla, oppure non nulla, (simili al rien dei francesi) si spendono per qualche cosa, e il niuno e il nulla pur vagliano per alcuno. Alcuni Grammatici ne fecero regola ch'io non so come a tanti e sì autorevoli esempi, che dimostrano il contrario, non sia mai stata impu gnata e ripudiata. « Quando si usano, scrive tra l'altri il Corticelli, per « via di dimandare, di ricercare, o di dubitare, oppure con la negazione « o particella senza, hanno senso affermativo ... Sì che alcuni esempi ve n ha, ma ve n'ha allresì in cui le delle voci affermano e tuttavia non negazione, non senza non dubbio o dimanda comechessia.  Leggili questi esempi, intendili, assaporali, e sii certo che come il senso avrai libero e sano, questo, più che niun'altra norma, ti guiderà sicuro alla scelta convenevole di questa o quella voce ed anche in quella forma e ragione che nei libri mastri di nostra lingua.  .... invincibili dicendo i romani cui nulla ſorza vincea ». Dav.  .... si stava così a spellando senza piegare a nulla parte ».  a Inall'ulfizio naturale delle nozze nulla ricerca impedimento all'eser cizio libero delle più nobili sue operazioni ». Bart.  « ... in tal modo che nullo più mai ardito fosse d'andare all'eremo Cav.  « Se nulla potenza a reste, bastava uno ad uccidermi ». Cav.  senza molti segni che si nolano, com' egli si ha niente indizio della cosa , l'iel'eliz.  .... di subito si rivolse al sasso brancolando con le mani se a cosa nessuna si potesse appigliare ». Cav.  1 llora disse la 13adessa : se tu hai a disporre niun luo l'alto, o l'ºro se ruoi pensa e nulla di questa tua fanciulla, pensanº losto, impercioc ch º.... ... (.av.  Quando la mia opinione resti denudata e senza ippoggio di ragion nessuna ...... o. Martelli.  Ed a ogni modo è, se non maggior brºne, minor male pendere in questo caso, anzi nel troppo che nel poco, acciò transi più tosto alcuna cosa che ne manchi nessuna e. Varchi.  non intendo però di quella lunghezza asiatica fastidiosa, della quale fu ripreso Galeno, ma di quella di Cicerone, al quale non si poteri aggiungere cosa nessuna, come a Demostene cosa nessuna lerare si po le ru m. Varchi.  Se nulla ri cal della nostra amicizia abbia le compassione alla mia miseria n. Fiorellº.  tssaggiare qua e là un nonnulla di... ». Bocc.  a ... alla quale (allezioncella) mi sento attaccato un nonnulla ». Ces. “ e se li hai nulla a lare con lei tornerai domani e non ci far questa Seccaggine stanotte ». Bocc. « Ciascuno che ha niente d'intendimento ». Passav. 82. « remuta meno l'acqua e gli uomini e il cammello, affogarano di sºlº, º cºrcando d' intorno se niente d'acqua trovassero, e non trovando t'enº, -1 mlonio..... ». Cav.“ Su bilanente corsi a cercarmi il lato se niente (qualche cosa) v'avessi ». Docc. « Potrebb'egli essere ch' io a ressi nulla ? o I3oce. “ Gli si fece incontro e salutandolo il domandò s'egli si sentisse niente ). I30cc.( Come noi facciam nulla nulla, e non hannº allro in bocca: quel l'allra lacera e quell'altra diceva.... ». Fier.º ... º forſe nºn lº ſa resistenza al nemico, giammai in niun modo acconsentendogli acciocchi il rinca, e poi del tuo sposo (G. c. possi essere coron (tl (1, peroco lº 'gli il nemico e le bole, come ſu uno, a chi ardita in en le se ne fa brile, e anche fori come leone a chi in nulla nulla gli con sente ». Cav.« Non perciò a me si mostra ragione che nulla basli a derogare l'autorità e la ſede o. I3ari.« ... e per sangue e per rilli d'animo superiore ad ogni interesse, che punto nulla sentisse del basso, non che, come questo dell'empio , Bart. « Mostrare se egli ralesse nulla ». I3occ.... ri potr questa scusa legittima, scusa sa ria, o non piuttosto una scusa che se vai nulla prorerebbe anche che non dovreste coltivare i ro stri poderi con lanta diligenza, che non... ». Segn.« al quale io debbo quel poco ch'io raglio nel predicare, se nulla raglio ». Segn.« Vecchi che, perdute le gambe, pare ram sempre pronti, chi nulla nulla gli aizasse. a digrignar le gengive ». Manz.« Se nulla può sull'animo rostro la voce della ragione, sia le religioso, perchè religione e ragione è tutt'uno ». Tomm.« per la qual cosa furono tutte le castella dei baroni tolte ad Ales sandro, nè alcun' altra rendita era che di niente gli rispondesse » Rocc. (83). « Ed arrisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse.... ». Docc.« Trorossi in Milano niuno che contradicesse alla potestade ? ». No Vellino antico.« .... e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare... ». Bocc.« ... ma se nessuno di quelli che, o si burlassero del fatto tito, o... ». Fier.« .... e dovunque sapeva che niuno cristiano adorasse Cristo, il fa ceva pigliare e mettere in prigione.... ». Cav.« egli sarebbe necessario che tu li guardassi da una cosa: e questo si è, che se nessuno ti domandasse di qualche cosa, che lui per niente non rispondessi a persona, ma... ». Bocc. (84). NOte  all'articolo 9  S?, voleva ci lir qualche cosa, alcun che di . . . . . e così il niente e nulla di tutti gli I tri es IIIp di Iu -! IIIedesimio gruppo S3). Il niente d quest, i del s ..: 1: es  n i  I Il tv l':la a in l'il llll tiltra II la lllera della si sºsi V , niente, ed i ll Il ..:ll (Ill. ll ilìtelis IV, di negazi rile, si inile all'avverbi , punto del N. edente. Torna sottoso pra alle forme; un menomc olle, in n in mo,do ive Iles Wegs, iIn gering S[.(ºll ( (''.E spaurita e sbig || 1o per le pelle e per gli gravi tormenti che e aveva veduti sostenere a per at ri nell'altra v .a, la rendogli i parenti  e gli amici carezze e le sta, non si ra! grava niente ». Pass. « ....il quale l'est e . Irle lº rili la si vide i pescatori adosso, salito  e a galla, senza Inlli versi niente, mostrando l'esser in ort , tu preso ». Fier'.« Niente avevano sonno o pensiero d'andarsi a riposare in sul « letto, niente , vevano voglia d'esser consola | I, quando vedevano, () a pensavano che la infinita carita di I) o aveva dato il suo figliuolo a a patire tante pene e tale morte senza niun peccatº o colpa sua». Cav  Si avverſa, si rive il Pil ti, che questo niente in sentimento di non) quando si usa senza il non si mette piu comunemente avanti il verbo, e quando si unisce col non si pospone al verbo.  (84). No.a anche qui la maniera per niente in quel senso che nella nota precedente.  ARTICOLO 21  IIITRI (che) – filiIR0 (che) – AllTRIMENTI (che)  Quan! inque il significato e l'impiego di queste tre voci a base di una medesima radice e a governo di un comune valore, poichè in ognuna vi senti con prevalenza l'allributo allro cioè altra persona, allra cosa, altro modo non sia cosa lanlo singolare e peregrina che anche una penna volgare talvolta non ne usi, tuttavia la maniera di usarne appo i classici è sì diversa e molteplice, e indi anche il vago e vario foggial' della frase sì notevole e commendevole, che credo ſarò cosa non meno grata che utile a dirne alcunchè partitamente, e profferirne di ciascuna e di ogni uso distintamente alcuni esempi.a). Altri o altrui (non altro, che è fallo) posto assolutamente è pronome, e suona quanto: allr'uomo, altra persona, un altro, uno, alcu mo, chicchessia. Si trova appo i classici tanto in caso retto che obliquo.  « Molto dee indurre a dolore o al dispiacere del peccalo, considerando che l'anima è lavata e purificata nel sangue di G. C'. e altri l'abbia im brattata e lorda nella bruttura dei peccati ». Passav.« Per non fidarmi ad altri, io medesimo tel son renulo a significare ». I30cc'.« Sentendo la reint, che lº milia della sua morella, s'era (le liberala, e' che ad altri non resta rai (t (lire .... ». I30cc. « Il che la donna non da lui, ma da altri sentì ). I30(''. « ... in tanto che a senno di minima persona rolea fati e alcuna cosa, nè altri far la colera a suo m. Bocc.« . ( ndiamo con esso lui a Itomai ad impetrare....: ma ciò non si ritolº con altrui ragionare ». Bocc. « Oh quanto a me tarda che altri qui giunga ! ». Dante. « Irrere pertugio dentro da la muda La qual per me ha 'l litol della fame. E 'n che con rien che ancor ch'altri si chiuda , Dante.« La confessione per la quale altri si rappresenta a quegli che... ». Passa V.a ... non solamente i peccati veniali, ma esiandio i mortali i quali altrui (tresse al lutto dimentica li ). Passa V.« Il secondo modo, come si dee studiare, e cercare la divina sciens(1. si è innocentemente, cioè a dire, che altrui riva santa mente ». L'assav. « Si restiemo una cotta, che non si potea reslire senza aiuto di altri . Vill.« Non hanno altro mestiere che di pescare altri perle, altri pesce p. 3a l't.a ... che per accorto e sottile intelletto che altri abbia mai non ne giunge al chiaro ». Bart.« Quanto altri più sa della lingua ben ripresa nelle sue radici lºnſo più va ritenuto in condannare ». Bari. ... nè teme punto ciò che altri di lei dirà . Segn. ... e partirane con quel disprezzo che altri fa delle cose sogge e della bruttura ». Ces.« Egli mi pare, che niuna persona, la quale abbia alcun polso, º dore possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimast. altri che noi n. 13 del . Inverti e vi riconosci il ragionato altri: Egli mi pare che altri clº noi ci sia rimaso, il quale.... b). ll i clº, altro che vagliono entrambi fuor che, ma sì che altri che non si riferisce che a persone e torna al dire: altruomo, qualunque alla prºsolia che ..... ed altro che ad altra cosa qualsiasi. Questo altro, (illº che, in significato di altrimenti, in altra maniera... che , ecc., è una di quelle forme che andavano assai all'animo al valoroso Bartoli, e l'usa Spessissimo in Inel miracolo di facondia che è la Storia dell'Asia. Ma os serva come e con quanta grazia:  Io non so potersi dire di ... altro che bene o. E altrove: « Ma poichè º il videro felino di non conceder la disputa altro che a questi patti, sel presero in pazienza ed accellarono . Traduci: non in altra forma che. “ E ancora: « E perciocchè quivi non era per rimanere altro che inutil mente, gli ispirò al cuore di andarsene al Meaco o, ecc. ecc. che ad allegarli tutti codesti esempi non ne verrei a capo in parecchie centinaia di migliaia.  Al lllllo simile a questi luoghi del Bartoli è l'altro del Bocc. : « non º avendo avuto in quello convif [o) cosa altro che laudevole o : e altrove: ( AV ea grandissima vergogna, quando uno dei suoi strumenti fosse altro che falso Irovalo ». Nè guari dissimile quel del Davanzati: « Con gente « sì accagna, crudele e superba puoss'egli altro che mantener libertà o « morire ? ». ſar al Ira cosa).  Bammento l'intercalare non chi alti o, di cui si è ragionato al Capo Secondo - Articolo 13, e piacermi ancora menzionare il modo : senz'altro..., che opplre, e talvolta anche rileglio : senza... altro che : « senza amici altro che di mondo o invece di senza all i amici che... : « senza famiglia allro che bastarda o, o senza affelli altro che brutali o ecc. . IBart). Ed oltre a questo anche il seguente, gli alissimo: niuno, nessuno, reruno... altro che.... : « aspirando a niun fine all ro che nobile ». « Portatovi da mium stimolo di senso altro che puerile e rello o a...inteso a rerum lavoro altro che di mente ». « ... I rallenendosi con niuna femmina altro che onestissima ». I3ar[.. Segm. ecc. ecc. Nola qui l'allro a forma di averbio, mentre congiunto al senza, niuno, reruno ecc. sarebbe ad uſicio di ag gettivo. Chi legge e studia ne' classici le ritrae queste forme anche senza avvedersene. « II vietare con semplici parole, senza autorità altro che « privata non si direbbe propriamente divieto, ma sì quel di legge e di « decreto ». Tom.  c). Analoga a questº forma avverbiale altro che è l'altra, anche oggi nola e continissima non altrimenti che.« Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altrimenti che se esser vo lessimo testimone di quanti corpi morti ci siano alla sepoltura recati ». Doco.« Non gli concedè che si ritornasse altrimenti che promettendo di ri « tornare altro volte a rivederlo ». I3art. (Cioè gli concedè... non in altro modo che promettendo, oppure sì reramente che promettesse. Conf. Cap. II. A rticolo 25).Ma nota da ultimo di questo altrimenti (altrimenti che) un uso ben diverso delle forme che qui sopra: come cioè la voce altrimenti in molte  guisa ad altre collegata e con un costrutto e commessura di ottima ra gione entro il periodo leggiadramente contesta, sia talora altresì sol orna mento e tramezzo, non mai inutile e superfluo, se pur non necessario, e non altro, a dirla col Corticelli, che pura proprietà di lingua. Rinforza la negazione e vale in nessun altro modo.  a Della sua pelle senza ſorarla altrimenti se ne sarebbe potuto fare un bel vaglio ». I30cc.« ... e pauroso della mercatanzia non s'impacciò d'investirne altri menti i suoi danari, ma..... ». I3oce.« recita fino a un punto il contenuto senza altramente leggerlo ». Caro. « I Siluri, oggi estinti, mostra Tacito nel suo Agricola, che ri renis sero già di Spagna, e al guiscelo da molti segni, che io non replico ora altrimenti non potendo per ria di quelli sapere quando e' ri siano venuti ». Giambulari..... il nostro bene, la nostra rera felicità non dipende altrimenti no, dall'amore che noi portiamo a persona, la quale all rºllan lo ne porti a noi, ..... ». I3arbieri.« E' dunque mestieri fermamente attenersi a quelle idee, a quelle speranze immutabili, che non sono l'opera dell' uomo, che non dipendono altrimenti, da una opinione passeggera, che rengono acconce a "ulli i bi sogni, che .... ». I3arbieri.« e senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la ſede.... ». Giall bulari.« E tanto basti aver accennato di quelle, che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altramente che non sia troppo ». Ball « ... non aspettò altrimenti che il disegno si colorisse ». Giamb. « ... non arendo altrimenti che dargli si lerara il cornon da collo (iiamb.« Le sue cose e sè parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse rimise nelle sue mani ». Bocc. un ful I e.tlsou e Iop olooos Ufonq lºp uomiios ilf ouuxupuoqqu o.luluud lp onloAuslp o toluetu ºttº º ſullº I I ouu Auuuulo ot ouo. I touo A olsenb ll I luttuº nId otor I allop luou ouulloAul lp ipotu itino le outleti oli elzºti l' º l.zzoIl fu A ip otl.) os º  trou olto.o un o o Iuliud lop el Aol I lol 55tui ti º º S otto it: i tºlsoni) cl ouol Ru.i uoo Illu) I tollo olios cui lu u uutti i litio o .ilto. llo i - lo tºllo Alun ottu.tellulos 'ortll lito.Ioll lui Ruo IV o op.otto: 1 o. ll 'llout Ill.I. “  Isopullios o Iosso otiosso i  “olu.opluuuuuuli ella A e allo Ip :lloti - lllllº º oil. Issi III, II F o ollo.o! I -.tuti o o luouo td 1 o olio A o .it: i sºli. Il 1 li tºlsl-º sonl) o o lo stºp ll out. I votolelu o il 'u Iso:) Il ) A LI - Ipotti i lotti e io lº otlos IA " .  eodo]uttlollo outsioloou otus olos : li titoli onl) Ip A o.Il ol Iso.IddV out Ao;iuniti o totu lo vos luo. I lºtti I I.) o, dt: ti Il plº o il uAInfioso oln) eo.lolol o eluuun oli l'illS º il ossImpo.Il tetto SIS Il l III euto ollo]Jo uono lº o lod os os , ou o alle p letti ossitto, ve º tº IV e void 1. ll il l e o la tollo un 1: Is ll It , looluu.Iou;il p o Iul e n.InsIl pl. I sei “I lumbs un.oltº otto puºiolli: Iduloso liuloop) Ied otto.III') ott o lo Isol.Ioli onl Ip ottil. Il od oil.Il leso, e il -ulououout outIoztto Vito e il p .olio III lo o .olio o.I l: \ Il “Il d | 12 | | Il sollia.osop o lou.oo Iuulio II lo ottoutele in lull l' "lº ºlotºs º o | II. Il -Iu.Iouoi ouopuolo.ld o Inddºl otto le vo .In lon.o utin o 55es e Ilillº.ilsotti lod o su Islenb uru lp otto voi o utili ulds ezilos essudiº.I | Il III ed l miº o ns o olios ouour pidui orie, o vo otlriori olio lord III trim opotu u onios eupulo, etil e oil.on. l oil o Ip olfettes oil.it il a ºsteo il o negli Ion A ou ouo olio in Ile e se il N . Ierio. In oiloti in love u “ouoduloo is opito illed ollop elziloti o le zut: sos ld Ilesse litolzltifo. ouuuiosi di lui os usul [.. etti e il Ip o | | | | | | | . ll tº o lo l.tolto) sod l) ouopzlullop el o optito. Io l ott e elliot II o II) ml. ll los o utopuoli, ) allo, Ao eI.Io.osolio.ol.i e lpini oil.o nello,osi Iloil oliolli. I ti o Atº III. Il N i lºl li Idl tioli o I.). Il luttoso oft: A otl.oltelloouoptIoonppe 'otiuillirio o ostili osti i millepitoli Itito. el.IIIIIIop olilout -eoplollo.I n.InfII e III: lo esonb o lo s oliº o In VoI o Iellios II, lo  (s) osogssu Io e Iuº pop.Ieo I o UUIpsspn U IUP55oIo,I -Iep eIes II e eu OIun Oo l-IoU I II epU IO “I UIop t Iu II5olo o IoA  -I.Ios OI Opuooos 'eooA u IIon I O unsenb pp e UIopssIULuo po  auloIllla Iuolzno oT sillessi, enalagge, anòfora, iperbate, tropi, metonimia, iperbole, prolipsi catacresi eutimema, epicherema e va discorrendo.Lessi e m'imparai i relativi saggi, assaporando a brevi tratti oi l'uno, or l'altro dei più celebrati componimenti. E qui vi ammirarsi la Pura semplicità del Villani, e là la nobile dolcezza del Giambulari e quando celebrarsi la faconda brevità del l)avanzali, quando la rigida su blimità del Machiavelli. E or questo or quello esaltarsi, e la severa ele ganza del Varchi, e l'abbondante gravità del Guicciardini.Ma dopo tutto ciò, venendo ai fatti. falliva ogni prova. In opera di eleganza, meno alcune frasi che a forza di udirle pil l' Ine ne ricordava e le inseriva sforzatamente, e anche le più volte a sproposito, tra le ciarpe di una dizione sempre mia e di un periodare sconveniente, avveniva di me quel che di un gastronomo, il quale senza impararne altrimenti il me stiere e nulla suppellettile avendo di cognizioni pratiche, pure al saggio di questo e quel manicarello e mercè di un buon corredo di nomi, a. cesse professione d'arte cucinaria.Quarle sconciature ! quanle ingrale dissonanze ! quanti piastricci rincrescevoli ed insipidi! E non se ne può altrimenti. Il commettere ordire di frasi e periodi più tosto ad una che ad altra foggia è cosa tutta soggettiva, è affar di sentimento e vigor mentale. Il quale se guasto o Inal composto, ed il linguaggio altresì. La ridice adunque, il midollo, non le foglie e i fiori si vuole medicare, riformare, ringentilire, a volere che l'albero di selvatico e malvagio risani, Trulli buoni renda e soavi. – Chiesto parecchie volle dai Tedeschi, Francesi ed Inglesi del modo ond'io mi resi lo studio di lor ſavelle proſi! Ievole a segno da reputarini si al parlare che allo scrivere un lor connazionale, diei risposta che fa ap punto pel caso nostro. Perare la mia mente, il mio pensiero ad eſligiarsi in delineamenti e forme straniere non importa appo me l'accostare alla 'nia l'altrui favella, mettere a riscontro l'una parola all'altra e violentare lue e più disparatissimi linguaggi, mercò di contusioni e scontorcimenti, a combaciarsi l'uno all'altro, fatica da farla i provetti ed investigatori delle ultime recondite ragioni filologiche, non via ad imparare lingue fo. restiere: sistema orſo, le diosissimo, lunghissimo e mal sici Iro. Il metodo delle sempiterno raduzioni è una bizzarria, un perditempo, tortura delle menti, inutile, anzi esiziale. E' sempre il linguaggio a conflitto col lin guaggio: non il concetto ad assisa dicevole e sua, e quindi il parlare e scri vere insipido, barbaresco, a urti, a stropiccio, a singhiozzi; indi il de turparsi della propria ed altrui favella; indi lo studiare che si fa ben otto anni la lingua latina ed uscirne appena balbuzienti, quando due anni – chi veramente slidiasse ed avesse alleli o da ciò – basterebbero a farne poco men che un Cicerone. A dunque il ripeto, recare il mio pen siero a riprodursi in effigie di altro idioma vale, a casa mia, legare imme diatamente la parola all'idea, suscitare, a forza di leggere, trascrivere e ripetere ad alta voce e pensatamente gl' idioſismi, le frasi più elette, i per riodi più caratteristici ed anche lunghi tratti, un senso, cioè a dire, im pressioni e senzazioni, pari alla natura ed indole di quel medesimo idioma. ma sì che facendomi a quel linguaggio, le risento e al risentirsi spontaneo scorre dalla lingua il linguaggio stesso. E' un fatto incontestabile. Io ho memoria assai tapina, ho studiato sempre solo e senza guida, non ho mai salto tradizioni, eppure, la mercè di un tal sistema, e a tirocinio di po chissimo tempo mi son reso signore di alire lingue.Egli è il dunque per convnizione di fatto ch'io dico e sostengo che ſilichè l' italiallo d'oggidì si contenta di vederla soltanto ed ammirarla l'eleganza e non è punto del mondo sollecito di recare a proprio sentire il caratteristico elegante e classico, non gli verrà mai fatto per fantasti gare, lambicare, comporre e travagliarsi ch ei faccia, di ritrarre il grato dei gloriosi antichi, ma il suo linguaggio sarà sempre suo, ritratto sempre del suo sentire, del suo pensare. Egli è mestiere di una radicale riforma. Noli erudi e dissertazioni, non indagini, non rile analisi o scrutini filolo gici. Troppo presto. Lo ſaremo sul nostro quando sapremo parlare. Ora lia li sll'o compito studiare accuratamente il magistero del favellare periodare classico; decomporne le parti e quegli elementi imprimerci che ne costituiscono il caratteristico e bello.I ritornando a d'ondo il giusto sdegno, mi trasviò, dico che ad apprendere con sicuro profilo ed anche usare convenientemente quella figura che si chiama con il nemici le elissi, ci bisogna prelibare assen natamente, e leggere, e poi rileggere ancora quegli esempi che in varie guisa la contengono, e ch' io li porgo, gentil lettore, schierati in due di sliIl le classi e solo : I. Voci e il dtsi che comporlot no , e licenza. II. l'articelle e il ct si cui si alliene il prete mi esso.  ("LASSE I.  Voci e frasi che comportano reticenza  l: previlegio di alcune voci o parole, che hanno luogo nel discorso, e luttavia non vi sono, di poterle, chiunque legge ed ascolta, agevolmente intendere, e sentire, e lorse più che non si otterrebbe esprimendole.  Molte di colali reticenze sono in uso anche oggidì, e le ha il popolº continuamente in bocca, e di queste non accade occupal selle.  Ma ne sono alcune che il moderno ordinariamente non usa, e solº pur quelle onde, a mio senno, vagamente si abbellano e prendono sa pore e forza gli ameni dellali dei migliori scrittori.  Te ne offro, caro lettore, che mi lusingo di averlene ogginai in vaghito, eletti e copiosi esempi, colli la maggior parte nell' Eden deli ziosissimo del trecento e cinquecento, e che mi parve di ordinare lº articoli recanti in fronte il segno di quella voce che secondo il sºntinº degli esperti in opera di lettere, in qualche modo si omette, e va Pº intesa. Torno a dire che non è l'assetto della collezione ch'io metto innanzi, e quello che io ne sento– che non mi dà niente noja se ad altri non piace o se ne facesse anche beffe – ma oggetto del mio lavoro è la Lingua degli antichi, e non altro che la lingua. cioè il costruire e fraseggiar clas sico in quanto differisce dal volgare e moderno, mostrato con esempi, e di tante e sì diverse forme, e di autori colali e in numero tanti !  ARTICOLO 1. Ifilif; IMIlMENTE: (si bene; in guisa ecc.)  L' omettersi a suo tempo e luogo l'una o l'altra di queste particelle dà alla frase un garbo che il profferirle non farebbe.Dove, quando e come te lo diranno assai chiaramente gli esempi. (101).  « ... e così dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro tutto il viso gli ruppe ). Bocc. (Traduci: le quali aveva sì ialle).  « Di ciò che... so io grado alla ſottunu più che a voi, la quale ad ora vi colse in cammino che bisogno ci ſi di renire a casa mia ». tale) Docc.  « Diceva un chirie e un sanctus che pareva un asino che ragliasse ». BOCC.  (ad ora'  Alfermando sè, di spezial grazia da Dio, avere una donna per moglie, che lorse in Italia ne losse un'altra ». I3occ.« Parti egli d'aver fatta cosa che i moli ci abbian luogo? ». Bocc. « ... e andronno in parte, che mai nè a lui nè a te, di me perverrà alcuna novella ). I30 cc.« E messa in terra parte della lor gente, con balestra e bene armata, in parte la fecero andare, che...... ». Bari. (102)« E guardi bene colui che avendo l'autorità di prosciogliere della mag giore escomunicazione, assolvi altrui che non lasci della forma della chiesa niente; però che gravemente peccherebbe ». Pass. (ass. altrui in guisa che).« .... e tanto andò d'una in altra (parola), ch'egli si ſu accordato con lei, e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona s'accorse ». Bocc. (talmente - sì chetamente e furtivamente).« Costei è una bella giovane ed è qui che niuna persona del mondo il sa ». Bocc. (in tal luogo e maniera).  “ ... Sere, andiamocene qui nella capanna che non ci vien mai per Soma ». Bocc. (lal nascosta e sicura che,º pensando che in quelle contrade non area luogo dove egli potesse stare nascoso che non fosse conosciuto pensossi di iuggire ad alcuna isola rimola ». Cav. in guisa, sì perfettamente .“ ... con inciò a gillar le lagrime che pareano nocciuole ». Bocc. “ cºddº, l'ºppºsi la coscia e per lo dolor sentito, cominciò a mug ghiar che pareva un leone ». Lo c.“ Dirºmulo nel viso quale è la molto secca terra, e la scolorita co mºre ». Bocc. (103).« IIa roi adunque in parte la lortuna posto che in cui discernere pole le quello che ancora giani ma non potesſe vedere ... Bocc. E da indi innanzi penso sempre modo e via come ei glieli potesse lurare ». Fier. 104 .() h. non li ricordi della cosa dell'Aquila e dello Scarafaggio, che non lui moli la più bello rende la ' o Fierenz. Iale, sì bene ordita, che...). Egli allora con una superbia che mai la maggio e... ». Fierenz. (105). ... roi l'a re le colta che niente meglio ... Ces. talmente, sì bene che...), \ on gli bastando più l'animo di andare in procaccio, si condusse ad atto talora, che... m. Fiel'eliz.  (t ...  ... e conchiuso di appiallargli un bel figliuolo che non vedeva altro che lui n. Fiorenz un igliuolo, l'altrº ente bello e caro, che non vedeva... . « Guarda come ciascun membro se la rassomiglia, che egli non ne perde nulla . Fier. (in modo, il glisa, sì perfettamente . « Per ciò bestemmia, che non par suo fallo . Malin. Se ne scantona, che non par suo allo . Malm. - 1)ice le cose, che non par suo fatto o. I 3el ll. lilli. « Se non fosse lo scrivere, sarebbe un modo di vivere che non m'arrem mo bisogno, ed in rece sua serrirebbe il tener a mente ». Caro. (un modo di vivere tale che ..).« E questo pensiero la innamorara sì l'orte di Dio, che non si po - Irebbe dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sua vita passata, che con - - grande empito si sarebbe molla, s'ella tresse credulo che piacesse a Dio o. º CaV.  « ... che se io fossi serrata e rinchiusa tullo di domane in prigione e tenuta ch' io non potessi andare a cercare di lui, penso mi che immansi  che fosse sera, io sarei trova la morla ». Cav. - « ... e andò la infermità montando che i medici il disfidaro (l'ebbero . per disperato). Cavalca.- a Giunse alla porta e con una verghella. L'aperse che non ebbe alcun - rilegno ». Dante (106), in modo, sì presto, sì facilmente. « Si reslieno una cotta che non si potra reslire senza aiulo d'allri ». - Vill. (Iale foggiata che...). NOte  all'articolo 1,  i101) Analizza un po' la frase nostra lombarda: egli è afflitto come mai, e mille altre di somiglianti, nelle quali vi senti oltre l'elissi di tale talmente, anche quella de verbo essere che regge la frase: la quale omis sione è, tra l'altre cose, oggetto di ossrvazione nel seguente articolo. (102) Guarda come ai valenti in itatori del Trecento uscissero della penna spontanee le frasi e maniere dei loro Inaestri.(103) Qui si è forse la voce quale che con leggiadria sta sola e cessa la corrispondenza di tale. Simile all'allegato è quel del Petrarca : « Piaceni a almen che i Iniei sospir sieni quali Spera il Tevere e l'Arno ». (caliz. 29). (104) cioè quel tal modo acconcio e sicuro ; non un, nè il, la cui onis sione dice assai piu che l'articolo non farebbe.(105) E' forma superlativa adoperata spessissimo dai buoni scrittori. (106) E cosi dovrebbesi intendere, a In 1o avviso, anche il secondo verso della Divina CUII, III edia: « Nel II mezzo del cali Iilin di nostra vita -- Mi « ritrovai per una selva oscura – Che la diritta via era sinarrita ». Cioè oscura tanto, a segno che.... E nºn dare a quel che, senso, chi di poichè, perchè (Tomm.) e chi di per dove i Cinomio ed altri). Con questo modo di sentire (tanto, si fattamente), è l'uomo che pervenuto all'età delle tumultuanti passioni si trova coine in una selva tale oscura che non ne vede più uscita, Inentre col chè, perchè ne risulta un senso al tutto  opposto; quello che è causa diventa effetto.  ARTICOLO 2.  flilSSI DI UN VERB0, quando in maniera subordinata  e quando a SS0luta  u). I no stesso verbo di due incisi o membri l'uno all'altro comunque copulati, l'una o l'altra volta, si lace, ove nol vieti pericolo di ambiguità o bisogno di precisione. (« Ti avrei rii a modo che alla Maddalena ». Fior. – che avvenne alla Maddalena). Si sopprime il più nell'inciso secondario, dipendente subsunto, il quale talvolta il primo luogo occupa e tal'altra il secondo. Assai vaga e commendabilissima è l'ommissione, non pur del verbo, ma e di sua appartenenza dopo un che pron.) nesso comparativo, il cui membro principale suona, espresso o sottinteso; tale, così...., in quel modo e grado, quel... che: ecc. (« avere in quell' onore che padre ». Bocc. – cioè nel quale si ha o si deve avere un padre . Si osservi di più che ornettesi talora tal verbo, che anche nel primo inciso è sottinteso (« Richiedersi un uomo del saper che il Padre Nugnez » . Bart. – cioè a dire che sia del sapere onde è il Padre Nugnez, opp.: fornito di quel... ond' è fornito).  b). Anche il verbo soggetto ad un che congiunzione (dass, als, ut, quam) ed al quale risponda un modo – qualità o grado di azione – che sia più che il verbo da avvertire e rilevare, si tralascia molte volte non senza leggiadria di frase e sapor di stile. Il vescovo rispose che vo lentieri ». Bocc. – cioè che il farebbe volentieri la qual cosa avviene non solo di un che a governo di altro verbo (es.: disse, rispose che...), ma altresì del che correlativo di tale, così, il più e « lºd egli con una Su perbia che mai la maggiore, Fier – che non ebbe o non fu mai la mag giore).  Gli esempi che li reco, disposti in quell'ordine che dianzi, non solo vogliono dirti che è veramente crisi, ma anche farlene sentire il grato e stimolarli allo studio assiduo ed elica e di questa e mille altre somi glianti venustà.  ... perchè egli chiama rimedii, quei che gli atlli i Ncellerat lesse o. l)av. quei che gli altri chiamano  a rate ciri, ha questa tarola della penitenzia da quello mºdº da cui la navicella dell'innocenza, cioè da Gesù Cristo e dallº Sltº Pº sione ». Passa V.  « E poichè non potevano sassi si colsero a gittar maledizioni e calun nie ». 13art. e poichè non potevano gilla' sassi.  ... se la faceva la maggior parte dell'anno, all'ºstºsº (lell'Indie, con riso; e quando più sontuosamente, con un pºco d'ºrlº condite sol di lor medesime n. 13arl. e... se la faceva tºll llli lº d'erbe...) º 107):  a punzecchiò un poco la donna e disse: ºdi l' quel ch' io? ». Bocc. (quel che odo io).  Io non so, disse... se a coi sia intervenuto quello che a me, che tutto il dormire di questa notte m'è andato in un sºgnº" continuo di...». Ces.  e però re intervenuto quello che (tll'eremila col suo con lo 0 n 0 º. lierell?.  « I)eh, non..., che redi che ho così rilla la ren Iurat les lè che non c'è persona ». lSocc. - -  « ... sforzandosi tutto di di non parere quei dessi che dianzi, tanti oltraggi gli dissero e così luidi : l)av.  ierata del parto e daranti di linº renula, quella reverenza gli fece che a Padre ». Bocc.  « ... i quali tenevano il Saverio in quell'amore che Padre, e in quella reverenza che santo ». Bart.  si tiene un santo).  º indicasso di ufficio e nei lºdºsini ierri che il re, inviato a... ». Barl. (ed essendo ºi medesimi ferri nei quali era stato il re ).  (nel quale si tiene un Padre..., nella quale  “ ... fare a modo che la madre al lº ºillo quando lo ſa bramare la pOppſl n. Fioretti.  « Ma di sè non curò punto più che se non bramasse di rivere, e non le messe di morire ». Bar . di vivere).  « ... stimerebbono le anime del l'ill galorio rose quel che noi Spine: chiamerebbono rugiade quel che noi solli . Segni.  ºi Iliello che avrebbe curato se non braInasse  “ ... trendosi a credere che Tºllo a lor si convenga e non disdica Che alle altre . I3occ. ... che si conviene e l 1 l I disdice alle altre..« E quelle medesime forse hanno in India l'iti li e gl'ingegni che in lºlºgna: e in quello medesimo pregio sono i lottolº roli costumi in Austro che in Aquilone » Bocc.« Come il Paragone l'oro, così l'arrersi di dimostra chi è amico ». I 3 c'e'. “ Ed intendi sanamente, Pietro, che io Non l'n minº, come l'alt e, ed ho voglia di quel che l'altre ; sì che l'ºrch º io non me ne l) l'ocutc''i non cºndonº da te, non è da di menº male , I3 cc'.“ - ºgli medesimo determinò di rimanersi e Correre quella medesima fortuna che lui, nulla curando me la pºi dila della sua mare, nè il pericol, della sua vita ». Bocc." Iº lº uomini della condizione che essi, maestri e promotori del l' idolatria, altro non era da (t Spell (Irsi ... I 3ar[.." l'Ili all'incontro era fermo di rimanersi al mi e lesimo rischio che ºsi, parendogli la r da mercenaio, non da buon poi sloi e', se at bbandonass la greggia... o. I3art. Se io piango ho di che o. I; rec. di che | Iilliger . “ La ſan le piangeva forte come colei che arera di che , Boce. “ Le quali ſcortesie, molti si sforzano di fare, che benchè abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le l'anno assai più comperar che non ragliano che ſale l'abbiano . I loce. (di che doversi sforzare a farle, º Dirò quello ch' io avrò fatto e quel che no , Ifoc,« Voi l'avete colta che niente meglio ». (les in maniera che meglio non si poteva cogliere).“ Di certo non lu mai uomo innamorato così l'alcuna persona che ne facesse o sentisse quello che Luigi per amore di Dio  « Dice il Sere che gran mercè, e che... ». Il che vi tiene obbligo di gran mercè).  « E rispose a sè medesimo che mai no o l'assav.  “ ... e se di niente ri domandasse, non dite altro che quello che vi ho detto. Messer Lambertuccio disse che volentieri e tirato fuori il coltello... come la donna gl' impose così fece p. Bocc. -  « Tornali a Sacai, si ad una ono loro intorno tutti i cristiani a udire  voda Lorenzo che norelle recasse: ed egli a tutti, che felicissime: e contò...». I3: il 1.Prese una tal gentilezza e proprietà che mai la maggiore ». Ces. ... ri con cerrebbe a lui lornare e sarebbe più geloso che mai ». l3 ('.llli 2 di Giugno 1S33 lu incorona la 1 nn 13olena con la maggior pompa che lei ma mai o. I )av.Fracassata l'armalat. g) e mite le lilora di cadaveri, con più virtù e lierezza che mai quasi ci esciutti di numero.... Dav. 108). ... godendo che l'ossei o così vilipesi e br amando che peggio ». Fier. li e li avveri sso di peggio .Vli repliche il lorse... V e di mente che si, ma... . Caro. ! Il rint ºn li, come lo dimosissimo del noti li io, sarebbe quinci pus sotto dentro le l a a predica e ad l abi e a Persiani, con quella riuscita che pochi mesi aranti un lei ren le religioso dell'ordine di S. Francesco, e certi all il seco, li aliili con stelle e mo) li la saraceni . Bart.  N Ote  all' alrticolo 2.  10) , I, I.issi, a lui lo rigore, sarebbe anz doppia: e quando la faceva pI i sontuosame te, se la faceva con.Troppo ci sarebbe che dire se tutte si adducessero le reticenze vaghe parimenti e vigorose di questo potentissimo scrittore Guarda, per dirne pur qualche cosa, con quanta grazia . I 13artoli adoperasse un altra eissi simile a questa che abbiam tra Irlano e, non qualche volta soltanto, Irla soven , che due e tre la riscontri talora nella Imedesima pagina, cd e quei 1 di una proposizione al pit ve li recati ad un solo mercè di ll li V el'ho ( olillllle e generale, cioè in lire di valore lil delel'Illinato essere  fare, mettere, ecc.), che ! ., una sola volta ed a cui guida reggonsi le altre voci di riol: liti il che, come, dove e della diversa azione attri butiva: debboni prenderla alla scoperta contro de lºonzi, rivelare gli rrendi e le andi or vizi, e metterne gli insegnamenti in dispregio e i costi tini in abboninazione del popolo ». « Ciò farebbono levando  popolo in Funai come si era fatto in Amangucci, e mettendo le mer anzie de Pol togliesi in preda, la nave a fuoco, e quanti v'avea di loro al taglio delle scimitarre o invece dei gerundi predando, incendiando e tagliando) – I) in Sancio, come padre comune, a tutti dava albergo, ( a tutti largamente di che sustentarsi ».10s Simile il modo nostro lombardo: contento, allegro, tristo, afflit , come mai, che fu già menzionato alla nota 101. Anche la lingua te desca ci somministra esempi non guari dissimili, ARTICOLO 12.  I VERBI: VOIERE, DOVERE, p0IERE  (mögen, können. diirien)  comportano reticenza ove all'ombra di altra idea, verbo o qual altro sia si termine, sì leggiadrati len le riparano che più grata ed eſlicace torna la loro parte assenti, che non ſarebbero presenti.  Come e in quanlc guisa e li chiaris ono gli esempi. Non leggerli soltanto, ma studiali, assaporali e fil di prenderne dilello. Egli è in questa maniera che il pensare e, per conseguente, anche il dire prende a mano a mano quel tornio di azione, quelli Iorina al resi di eleganza che nei dettati dei migliori scrittori.  « E vede ra la bruttura dei peccati suoi, e i demoni d' intorno ag gravando queste parole in molti modi, vedendo ch ella non sapeva ancora che si rispondere ». Cav. che cosa dovesse o polesse rispondere. « Qui ha questa cena e non saria chi mangiarla ». Cav. chi potesse O volesse mangiarla). « Qui è buona cena e non è chi mangiarla ». I30cc. « ... ſecesi compagno..., per lasciar chi succedere ». Dav. « I)i tanta santili che li dei nomi non al re ritmo a cui entrar dentro o. Fiorelli. (non avevano persona in cui polessero entrare”.« Viene il demonio per sospignerlo quindi giuso. Di che S. Francesc non avendo dove fuggire si rivolse al sasso lo stucolando con le mani...». Cav. i non avendo luogo dove potesse filggire .« Allora disse la liadessa: ligliuola mia, e non ci ha dove tu dorma: ed ella disse: «lore coi dormi in ele, e io dormirò.... ». C: V.« ('h e la mia rila acerba, Lagrimi a nolo II o rasse ove acquietarsi ». Pelr. « Non sapiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dore più gli parera ne la porta ro ». 13 cc.« Non sapeva nè che mi fare, nè che mi dire se non che l'rale Ri naldo nostro compare ci renne in quella ... I 3 t .« I)i Giusea, do ho io già meco preso partito che farne, ma di te stillo Iddio, che io non so che farmi . I 3 ('C'.« Imperocchè quello libro (l' ipocalisse è di grande solligliezza ad intenderlo ). I3ll I. Corn. l)all I e.« E redendosi il leone ingiurialo lanlo, e ſi rendo preso un ſolo slot di intra due, o dargli morte o perdonargli n. Volg. Es p. (se dovesse dargli morte....). º Tullº la rila sua acra spesa in lontanissimi pellegrinaggi, cer cºndo i luoghi santi del Giappone, doru nque e, a qualche idolo o cerimonia con che prosciogliersi dai peccati a Bari.ln lendi sºnº nºn lo, marito mio, che se io volessi far male, io tro l'ºri ben con cui : che egli ci sono le ben leggiadri che mi amano, e co gliomini bene l'oro con cui poterlo lare.Sr lossº un palagio, e l'osse e siandio lullo d'oro e d'argento e bello quanto pil polºsso essere, e non fosse chi l' abitare e non ci stesse per sonti, il n grande peccato sarebbe questo lº Giord.Perche ... chi saperlo? chi ride nel secreto di Dio il perchè di que sto gore i nutrsi così ' . Cesari.e l.odulo sia lalello, se io non ho in casa per cui mandare a dire che lui non si aspellato 13 non ho persona... per cui io possa mandare). E se ci losso chi farli, per lullo dolorosi pianti udiremmo o. Dav. Il loroso qui i lo mai alcun altro (19 .trasporta casi dove il vento... . Bari dove voleva il vento). (110). ( atlandrini ... pºi c'e' lissimo librº srco medesimo d'esser malato lilllo sºlo tra il latlo qli doni di nullò : Che fo ? l)isse lº uno: A me pare, che tu torni a casa, e i lilli in sul lello . I clie dello io il re ?... A me pare l'ori i ba riare a .. .V (Ilen l uomo, io ho la più persone in leso, che lui se sa essimo, º nelle cose al l si l i n olio e col nºi: e per ciò io saprei colentieri da le, I tale delle l e l'afgi l il repuli la cerace, o la giudaica o la saracena, o la cristiana loce. Vorrei sapereli a dalla per la sua presto a dore fare ciò ch'ella gli comandasse ». I 3 (''. | | | .Ella rimase lulla con lenta, pur e ch'ella polesse fa, e cosa che gia piacessº, e rimase a pensa e con queste cose si facessero più presto mm e mi l ' . ( il V : il n.\ 'il' atli Illes la dolorosa notal re lulli mori, e, e mirando or l' uno or l'altro, non saprei qui al primo si piangesse o Cav. si dovesse piangere. l?irollosi tutto a docet li orare modo come il giudeo il servisse, s' av risò di lot rºlli una forza d'alcuna ragion colo, alla s. Bocc.a 1 me pai rebbe che noi andassimo a cerca senza star più ». Bocc che noi li ll'emiro, dovremmo andare .Ma se alcuno si moresse e dicesse: perchè non fu questo rivelat , ad 1 ml mio innanzi che quel li atle morisse, che, come sorerenne all'uno, così avesse sovvenuto all' all I o ” . Cav. avesse potuto.... . E fallo questo, gli disse: quello che a me parrebbe che tu facessi sarebbe questo, che tu pigliassi di molti pesci e ponessegli l'um dopo l'altro dalla bocca di questa lana sino al buco della serpe.... ». Fierenz. a N on sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse ». Botc. (che ci si dovesse fare, se dovesse...).« Io non so quale io mi dica ch' io faccia più, o il mio o il tuo pia cer, . I3, c. non saprei qual dei due io debba, o mella conto ch' io faccia, se il lilio o il lli i piacere.a Ond' io a lui: dimandal tu ancora Di quel che credi che a me satisfaccia: 'h'io non potrei, tanta pietà mi accordi ». Dante. (mi vogliº, ini debba, o mi abbia a sodisfare). « Nastagio udendo queste parole, tutto limido dire nulo.... cominciò ad aspettare quello che facesse il catraliere n. Docc.  « E perciò dunque proromper ('risto in eccessi a lui così disusati di maraviglia ? ». Segn. (volle, dovette Cristo prorompere).  NOte  all'articolo 12.  (109 ) Forma di grado superlativo, frequell Issillo -lilla penna i classici e con lume alla lingua tedesca e inglese.  (110) Negli esempi fin qui allegati avrai osserva lo clic e una delle voci: chi, cui, che, dove, onde, ove, se il soggetto, oggi 11 o o circost: i nz: principale cui - riferisce con il lique l'azione del III do elit Iro.  i 111) Gustalo, anche negli esempi che a questo film Ilo segui o, quel congiuntivo che cessa l'all l'o, veri o ill de si gllida. 'l'ori la loro is: I lente al : mögen, dirfen delle solite forme tedesche. E dire che si è scritto e di scusso tanto intorno a quei facessimo del l'assava iti. Non per opere « di giustizia che li oi facessimo » ( oè che noi potessimo Irlai fare V . - sione del testo di S. Iº:nolo : « non ex operibus ill-titi que facimus nos. E chi la disse scorrezion degli stampa [ori, che e il rilugio ordinario degli ostinati; chi licenza del traduttore e chi l'una e chi l'altra ( º belleria. Il Bartoli all'incontro, che se l'era il trecento tornato, per così dire, in natura, sente in quel facessimo non il fecimus e II è anche il face remus, che sta bene, dicegli, nell'italiano quel che nel la Inal sone. rebbe; ma un non so che di elittico, come sarebbe a dire: quantunque ne facessimo o altro di somigliarmi e. Vielle a dire in 1 nelllsi i le cºllº, i militi che lion lo dica e nessuno, ch'io sappia, l'abbia mai deti' , espressamente, in tale e simili costrutti vi è sempre clissi di uno dei verbi potere, volere, dovere.  ARTICOLO 13.  Il'INDEfINITO DI UN VERB0  obbligato ad uno dei verbi potere, role e, sapere, dovere, si trala scia alcune volte, con un sapore e con un garbo ſullo italiano. L'oppostº del ragionato all'articolo precedente: là questi verbi, non espressi, erano sottintesi in un altro verbo; qui sono appunto questi medesimi verbi che ne sottintendono un altro. Quando e come agli esempi.  “ Ti orºlli ( o di notti in ono onor quanti seppe ingegno e amore ». l3 cc. seppe o il mare e Irovare  Sºnº lºro non può l tono un cibo, ma desidera di variare ». Doce. (non può soffrire .  l: I tiri spesso rolle insicuri e si la cella rai no, ma più a ranli, per la  solenne guardia del geloso, non si poteva . I; ci ma di più non si po teva fare).º ... non c'n li tlc mi cco in preconi nè in prologhi. Quando volete cose  Che io possa, but N lui il m con lo ... ( il l' . lo era un asinaccio che non poteva la rila , Fiorenz. non poteva reggere).l'ºr la qual cosa ci ri unº, che ci e scendo in lei a mor con linuamente, ed una malinconici sopralli di aggiungendosi, la bella giovane, più non potendo, in fermò ed eridem le mente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumara o. I3 cc. pil non potendo reggere .Voi mi ſono aste e mi accarezza sle allo, a assai più che non dove vate una persona non conosciula e di sì poco a fare come son io o, Caro. che non doveva e onorare una persona, o fare con una... . ... Spatccia la mente si lerò e come il meglio seppe, si resti al buio...». I3 cc.« Il percosse Iddio in la parte che non potea meglio per isrergo (/n (trlo ». Cesari, che li in pole a fare, accadere meglio.... .lºra bassello di persona, e pieno e grasso quanto potea (quanto pol ea mai esserlo, divenirlo .E già tra per lo gridare, e per lo piangere e per la paura, e per lo lungo digiuno, era sì rinto che più a ranli non potea. ». Bocc. non po leva andare, reggere, sostenero).('on gen le sì laccagna, crudele e superba puoss' egli altro che man temere libertà o morire º v. l); V al 17.E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può altrimenti che non sia troppo ». Bari (non può essere, non può fare).« Ma lulli erano a campar la vita, se potessero con la fuga o. Dav. (se potessero mai farlo con).« Ora con quante più dimostrazioni di riverenza sapevano, di nuovo l'imarbora ramo . I3art, la croce sapevano fare, esprimere, tributare). « Adorni il meglio che sapevano ». Rart.« La lena m'era del polmon sì munta Vell'andar su, ch'io non potea più oltre a Dante, Maniera comune ad altre lingue).« l 'ea finalmente preso sì allo grado di perfezione che non si potea più là ». Ces.« La natura della cosa porta così e non se ne può altro ». Ces. (dire. fare altro).  « ... se ne rennero in un pratello nel quale non vi poteva d' alcuna parte il sole ». Bocc. (non poteva avere azione... -- Nolalo anche negli esempi che seguono questo particolare uso del verbo potere, che è bello, forte e tutto italiano).  « La bottega dello speziale debbº essere posta in luogo, dove non possano l'ºn li e solo o. I): I V.  ( ... pendici boscose, per i venti di tramontana che molto vi possono smaltate di così duro ghiaccio... ». I;art. Segn.  « ... in paese di terren magro e sil restro, e in lornia la i là d'allis simi monti, onde il lreddo vi può eccessivamente: e pur r è caro di Ie gne ». Bart.  () [LASSE II.  Voci e frasi cui si attiene il pretermesso  Meritano all'enzione in modo particolare e studio quei costrulli che l'erario ad l Il senso che grammaticalmente non hanno, od è altro, e ! all le avanza il malural valore delle parti onde si compongono. La qual costi procede, io m'avviso, da un colal modo di significare, dirò così la lente e lºroprio soltanto di questa o quella voce, alla quale, in tale lal all ra forma ad perala e convenientemente collocata, viene una forza e indi alla mente un' idea che il senso e l'intelletto subitamente appren dono, ma il maniera assai più vaga ed evidente che non farebbe un se gno di valore letterale ed esplicito.  Le elissi della classe precedente erano quelle di certe voci mani festamente pretermesse ed alle tuttavia a sol lin[endere. Ora vuolsi al l' incontro allegare e proporre allo studio del giovane filologo molti esempi di quelle voci le quali, non che si tralascino, ma stanno per più altre dicono più assai che non faccia il material suono. ( ).  ( ) A me sembra, dirò col Gherardini, che, indirizzando la mente a ritrovar questi ascosi concetti, si abbia a ritrarre dalla lettura un diletto ignoto a chi non penetra più là dai lievi egni delle idee che l'autore intende risvegliare. PreVengo che per non isparlire, più che non l'isogni, la materta. pillºvelli di alcune menſi varle soltanto e rimandare il lettore ad altro capitolo di altre ragionarne anche oltre i lerimini dell'Articolo e dire di altri usi più notevoli.  ARTICoLo 1.  lascio le discussioni intorno alla natura di questa particella, se sia O possa essere, secoli l g' sci il lori, alla cosa che semplice preposizione, se si verili e il posto il luogo di altre voci, e se finalmente, i saldi si ad i Ilicic, che di semplice pi e posizione, si i lorº clip i cicli con i voti lolio, li a gli altri, il Ghe rardini, da lui le ho idea pl e le press e soliti esa, o sia dessa all' in con l'o, e così pare il mio, e lo ſcroll l: di Iroppe altre idee, torna a l lIn Se gli e la l li se il l il si l radl Il l'ebbe sull' rogando il re parole, la con i ponenti in ci o la sintesi e slenuandone Illindi il sapore e il vago di II li ascosa vi li Islà: e comincio subito co; - l' addii re, prima di lillo, esempi di un ct ad Iso ben diverso che di sem plice preposizione, e di un gol I loro, di rina belli, virli cd elicacia, che non si potrebbe a pezza con la lunque al ra v . e.  ( )sserver: li : il come l'essere una al parlicella ora articolata e ora no, iol è, con le dicono, allar di colli o di ſol ma sl l'iore soltanto, ma adopera sull'essenziale valore e quiddi là del liscorso. Le frasi, a cagion d'esempio: con lo scudo di pello: stendersi di un vento a poppa: pianura di mare: quardare al concupiscenza, ecc. ecc. si scollcierebbero e guaste rebbero non chi altro ad incorporare comunque l' articolo con un a co tale; laddove altre coll'articolo, p. es.: male allo al camminare: virer.' all' altrui mercede ecc. ecc., perderebbero lor sapore e forza sopprimen (l lo): lo) come assai sovente colesl a risveglia nell'animo un senso che torna pressº a poco ai modi: allo scopo, a fine di, ad elfello di, al hoe ul: in confronto, per rispello a..., al rispello di..: in forma di.., in modo di... a guisa di.., conforme, i clatira nºn le t... quanto d..: a lorsa di....ricorrendo a... con, col mezzo: dopo, di lì a., a distanza, ad inter rallo, della durata di..: intorno a: ecc. ecc.. e come talvolta li par che codosi a come acutamente osserva il Gherardini, si continui alle ideº sottintese: inducendosi, recandosi, nellendosi....... : guardando, ponendo mente: esposto, occupato, inteso, raccomandato, solo posto ecc.Dopo gli esempi di un a che mi avviso altra cosa che una semplice preposizione e voce cui si attiene evidentemente il pretermesso, porrò, quasi a complemento di quello che parmi doversi dire intorno all'uso antico e commendevole della particella a, altri esempi di un a che, se pur è segno di semplice preposizione, non però a quel modo comune e volgare d'oggidì.  Si leggano e rileggano colesti esempi, ma attentamente, assennata mente, ed ad alta voce, così cioè da gustarne il vago e sentirne proprio la forza, il peregrino che lor viene dalla particella a, e gioverà a render sene al tutto padroni, e ridirli e riſarne, occorrendo, de somiglianti, ma sì che appariscano cosa naturale e tua, non opera di studio e d'artificio, gioverà, dico, più assai che non ſarebbero vaghe teorie, mille sacciute definizioni e divisioni, che in materia di eleganza guastano talora, non  che n'aiutino lo studio, ciò è a dire il pratico profitto. (138)  « Mi metterò la roba mia dello scarlatto a vedere se la briga lui si roll legrerà n. 13 cc. tafline di... opp. e sarò vago di.. .a Che senza dolerlene ad alcun tuo parente, lasci fare a me a vedere se io posso raffrenare questo dia rolo scatena lo m. Bocc.« Vè caghezza di preda, nè odio ch' io abbia con ra di roi, mi i lºrº partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assali, c . lioccº, º allo scopo di... aſlinchè vi dovessi.... .() ne's la cosa º perdonare ai poreri quando errano, ed esot minuti e sè stessi a vedere se negli animi suoi alcuno diſello per arren litrº nascoso si stesse ! ». Casa, Uff.a ()ra ci raccomandiamo a questo Santo morello a vedere s' ('Ili lº niuna forza in mare che ci faccia riare e l'ancore nostre , V. SS Pad. « I ccise un suo mimico, e per camparsi dalle forze della Itaſſio nº si fuggì a franchigia in un monastero ». Barl.« ... disse che egli sarebbe a sepultura ricerulo in chiesa ». I3ocr'. « ... or mi bacia ben mille volte a vedere se lui di rºm o . I3o e'. «Spessissime volte io ho mangiato e bruto non a necessità, ma a volontà sensuale ». San Bern. Tral. Cosc. Cioè: ho mangiato e bevutº non a fine di soddisfare t....« Per quanto io posso, a guida mi l'accosto . l)alle. mi accompa gno pronto a esserli guida,a Ver è ch'io dissi a lui, parlando a giuoco: lo mi saprei lerar per l'aere a rolo . Dante. (a fine di pigliarini giuoco.« Se tu studi nella continenzia, fa di abitare non a diletto ma a sanº tade ». I)on Gio. Cell.« Leggi non solamente a consolazione e diletto degli orecchi, mi con pensamento, intelletto e fatica d'animo . lºsop. Cod. Fars. « onde se il frutto ti piace più che il fiore, cioè leggere il librº º trarne ammaestramento....... guarda al line che importano le parole ». Esop. Cod. Fars.E andando il leone, poco dopo queste cose, a diletto sprovveduta mente gli renne dato nel laccio del cacciatore ». Pass. 139. ... nondimeno a cautela si ordinò che.... ... Caro. « Io ro che l campo là do Sul (teini l omani a spasso andiamo a risilare ». I'illci Luig. Morg. (a scopo a titolo, a modo di... ). Caro figliuolo, se roi amarale avere a donna questa damigella. roi non lorº rotte le nºr bargagno -. Vill. M. destinandola a esser vostra moglie.l 'endo... una gru ammazza la.... quella mandò ad un suo buon cloco...... e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse o Bo, c. Federigo andò a V inezia, e gillossi a piedi del... Papa a miser - cordia , per ottenere, o implorando... Vill. G.Molle colle si conduce l'uomo a ben fare a speranza di merito, od altro suo rantaggio, più che per propria rirli o Nov. ant.« Chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e alloga romsi nell'altrui? ». I3oce.('osa ordinaria, dic 'egli, che chi è rivit lo dissolutamente a fidanza della divina misericordia, morendo ne sconlidi ». I3art. 140). Maledello è da l io ogni uomo che pecca a speranza ». Pass. (141). La speranza del perdono. Si è data a chi la ruole: E colui l'ha per mio dono. Che del suo peccato duole: \ on chi a speme peccar suole, Ch' io non faccia la rengianza la l'ond.Paolo, sepulto rilmente in terra, risusciterà con gloria : roi, coi sepolcri de ma mi ed esquisiti ed a trali, risusciterele a pena ». Vit. SS. IP: l d.Trasse di prigione la della ln per il rice, e isposolla a moglie nella e il là ali Patriot , Vill. (i. i trad. destillandola a esser moglie. E Maddalena, piena di contrizione, si seri è l'uscio dietro e spo gliossi alla disciplina, diessi a piatti nei e amarissimo mente i suoi peccati ». Caval.... e da rasi ne' piedi e nelle gambe, e da casi nelle braccia, e lo gliera la cintola sua spianata la fornita di spranghe, ch'ella solera por lare a vanità, e spogliarasi ignuda, e batte casi con essa tutta dal capo (il piò, sicchè ella filatra lilla san Ilie o, Caval.a I)i lui rimase uno figliuolo che ebbe non e' l rrigo, che 'l ſece eleſſ gere a Re de Vomani ». Vill. (i. 142).I)ormendo in sieme... nel suo lello piccolo a due, ma ben fornito ». Sacch. cioè fatto per servire a due persone),  Ed assai bene circonda la di donne e d'uomini, da tutti conforta la al negare . I3 # 1 (3).  a V elele com' io son gra ricciuola e male alla al camminare ». Fier.  a Rincorandolo al taglio ». I3occ. a soffrire, a volersi permettere il taglio. “ Chi adunque s'interporrà a che voi coll'anima non possiate a ro stri amici andare, e stare con loro, e ragionare, e rallegrarsi e dolersi ? ». Boce. (ad impedire che..., opp. con tale effetto che...):º 1 roi non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a pover tade ». Nov. ant. (a languire nella povertà).“ ... di poi sempre meco medesimo dedussi quei suoi deli, sentenz º ammonimenti a mio proposito ». Pand.« ... e molti altri che a narrar li saria fastidio ». Giamb. a volerli narrare, se si dovessero narrare, opp. facendosi a narrarli.« Vom prima decaduti ri mirano a ril fortuna che los lo suonano a ritirata, a raccolta, se non fors'anche a vergognosissima fuga . Segn. Sta ma nº, anzi che io qui renissi, io trovati con la donna mia ir casa una femmina a stretto consiglio ». I3 cc.« Chiamare, venire a parlamento.... o. I)av. – (osì dicesi : Suonare a capitolo dei fra i).« Il santo fra le fu insieme col priore del luogo, e fallo sonare a ca pitolo, alli irali raunali in quello mostrò Ser ('appellello essere stato un s(1n lo so. E la C.« ('ongiurarsi alla rovina, alla morte di... ». I3arl. (a conseguire la.. « ... e saranno solleciti a quello che da maggio i sa , i loro coman dalo ». Pand. (a far quello).  « I)i seta, d'oro e d'osli o era coperto E dipinto a bellissime figure Alaiml. Gir. (con ornamento di...).« Una coltre la corala a certi compassi di perle grossissime ». I3 cc. (a forma, il maniera di..., col...).« ('ollirare a campagne di seminali e giardini di delizie ». I3a (a modo..., in tal malliera... .« ('olesti luoi denti falli a bischeri n. 3 cc. (a guisa di... a simili! Il dine di...).« Volendo ciascuno la propria insegna, e ſu forza d'allargarsi in più colori, e quel medesimi in dirersi modi formare a doghe, a sbarre a traverse, a onde, a scacchi, ed in mille altre maniere o. I3orgh. V. « E quelle recchie loro col fazzoletto sul riso a saltero.... V e contº elle ci ſan gli occhiacci torti ! ». I3uon Fier. (144.« I pesci nolar redeam per lo lago a grandissime schiere ». Ioce. la modo di..., – schaaren Weise, Zll...).« Venite a me ispesso, ma non venite a troppi insieme che forse non sarebbe il meglio ». Sacch. (145).« ... renendo da me, non renile a molti, ma a due o tre o. I3ocr'. (non molti insieme, ma due o tre per volta).« E come gli parve tempo cominciò a mettere coperta nºn le ſanli in Faenza a pochi insieme o Vill. (i.a Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandara da mari se non ti slenlo e a pochi insieme, le melle... ». Vill. (i.« Le gocciole del sudore del sangue di G. C. che per tullo il suo lº nero corpo a onde discorrevano in terra.... ». Med. Alb. Cr. ( Fºcerſili grande onore regnendogli incontro a processione con molli armeggiatori o Vill. (i.“ Come da più lelisia pinti e l ralli Alla liata quei che vanno a rºta, Lºran la voce e l'allegrano gli alli: Cos... ». Dante, vanno in modo simile a ruota,( 0r chi se lui che ruoi sedere a scranna? ». Dante. (sentenziare a lnodo che fa il (iiudice in tribunale .« La licina prese a vero la parola e incontamente la significò al Re di lºro ucit sito fra lello » (i Vill, per cosa simile, o conforme al vero). “ Se io parlassi a lingua d'angelo e a lingua d'uomo, e non avessi col rilà sì la I ei rom e la campana che si ball e o. (ir. S. Gir. in modo sº. mille a Illello che puo mai fare un angelo ecc.,li gli amando la nudità serrò la resle di (risto : voi, vestiti a seta, arcle perduto il reslimento di Cristo - Vit. SS Pad. (146). Vom scºrre mai se non a suo senno , I ): ille, Conv. 147 .  v  I na gioranº... bella li a lull e l'alli e... ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ril rosa intanto, che a senno di niuna persona voleva fare al c'll not cost, nd” (il tri ſul l lut role ra a suo , l 3 , .\ (ii resse l?omolo a senno suo. V una tecon ciò il popolo a Religione e Divinità , . I ): V.lo roglio del I e di costui che renne lui di, alel mio a mio senno, arri'. gnacchi non l'abbia merita lo . Pass, come mi pare e piace). ... fallo a ress' io a senno del mio cane figliuolo e non egli del rec chio padre ! . l)av.Dorma ri e da cantar l'usignuolo a suo senno liocc. quanto e col le V Il le .Ma non si arendo con quei pesci caratlo a suo senno la fame.... ». I I'.... l (t m lo c'h e a senno vostro io, lo debbo tre le l il 1 le pel contralatte no. (i il b.\ on ne corrò meno di li cºn l' ollo, come egli me ne prestò e jam mene questo piacere, perchè io gli misi a suo senno e l'occ. 1 (S). e in somma si pose in cuore di colei e io e contrario a tutte quelle cose. eh ella si dilella ra quando ella era rana: e questo lutto a senno e volontà del suo maestro, e con e ci lui piacesse Cav.... e atmcora pensatrano di domandati lo che modo e che rila t ressero a tenere, e ancora quello che dovessero fare delle cose corporali, impe rocchè ogni cosa volerano che fosse a suo senno e a sua volontà ». Cav. i 149).  ... tutto quel rimanente di pianura a mare n. 13art. 150). (posta vicina al mare, che si illiene al mare, e anche piana come il mare .  ('a mm e rut a tetto , ( la zzi.  I Ncio a strada . I3oe('.  ... e se la collut ne' loro luoghi a mare l ro raramo riso...., allora de lizia ramo ). I3arl.  ... incontra un rento che le si stende a poppa . l?art. I che sollia e spinge innanzi investendo soavemente la poppa).  « Portava a carne cilicio aspro . Cav. ſrad. a strazio di viva carne  “ ... faceva asprissima penitenza, portando a carne sacco asprissimo e di sopra un rozzo vestimento o. Cav.  “ ... negozi che non si fanno tutta ria col notaio a cintola, ma con fede e lealtà di semplice parola . liocc. (par che dica : col nolajo attaccato O appeso alla cintola .  ma con ballerano pianali, dove i nostri con iscudo a petto e spada  in pugno, sloccheggiarano quelle menº bront o. Dav.  « Messa si prestamente una delle robe del prete con un cappuccio grande a gote, ... si mise a sedere in coro ... I ce che arrivava fino alle... o da coprirsi le gole)  a La moglie ne lece piccolo lamento a ciò che ella dovea fare ». Vill. G. a petto, in confronto di... .« Ma io credo a rei rene dello pure assai. Aſſà sì, a quello che porla il tempo, non a quello che ſulla ria rimarrebbe n. Ces.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse.... .. Bocc. (per rispetto, relativamente a... .« Ciò che daranti dello ſtremo, poco è a quello che dire intendiamo ». I3 cc.« E tanto basti a rer accennato di quelle che per poco che sia, al niente che riliera il saperlo, non può all rimenti che non sia lroppo ». Bart. « Che è questa pena a quello che merita sti? ». I3occ.« Ma che è a Dio la oll racola la superbia di un rerne ? ». Dav. « Dall' età di Demostene a questa ci corre 400 anni, o poco più, che alla frale vita nostra possono parere spazio lungo; ma alla natura de' secoli e all' eterno è un batter di ciglia ». I)av. (15 l .« V ent'anni ! che spazio son dessi all'eterno ? tu se' ma la merce tanlessa se ruoi ch' io li baralli a quello o. l)av. (1 o 2 .« Ma lasciamo andare questa comparazione e simili, le quali sono piccole all'altre spese, che si fanno soperchie ». Pandolf.« Le cacce, i parchi, le conigliere, le colombaie, i boschi e i giardini che ri sono già inviati, sono cose ordinarie, a quelle che si possono fare ». Caro.« Essendo conosciuta così allera, Che tullo il mondo a sè le pſ rºot vile ». Ariosto. (cioè : tutto il mondo, paragonato a sè, le parea vile). « Noi abbiam casa d'aranzo, alla famiglia che siamo ». Cecch.  « Domandò quanto egli dimorasse presso a Parigi : a che gli ill risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo ». Bocc. (153). Ch'era presso alla città forse a due miglia ». Fioretti « Appresso delle sue terre a tre giornate ». Sacch. « ... io vi era presso a men di dieci braccia ». BOCC. Onde seguì a poco tempo che 'l predetto Irale non resse all'Ordine e lorn Ossi (al secolo ! ». Vit. SS. Pad.  “ Lo l'isloit rispose, a lui parere gran fatto, ma dovendosi a pochi di lorni (tre redrebbe chi di loro losse che dicesse il cero ». Sacch.  “ Egli è la fantasina, della quale io ho avuta a queste notti la maggior lºtti l'a che mi ti s'a rºsse o lºocc. (intorno a queste...., in una o alcune delle scorse notti. (154).Forse a otto dì alla sua promessa vicini . I3 cc. Fiam. lla nosli a lo desiderio grandissimo e in certo modo certezza d'ac col lo..., non ostanti le cose delle a questi giorni in contrario ». Caro. E a questo sci irri e toscano basta la lezione delli rostri tre primi l'atmlº, l'ºl rarcati e l'occaccio, e di certi buoni che hanno scritto a questi tempi ». Caro (circa, in lorno a questi tempi  « Il cui dilello a rendo il maestro redulo, disse a suoi parenti che dove un osso lracido, il quale area nella gamba, non gli si carasse, a costui si con renica del lullo o tagliare l’ulla la gamba o morire, ed a trargli l'osso potrebbe guarire ». Boc ricorrendo al mezzo di... appigliandosi al partito di...). (155).« A grave e crudel morte ti fa i ) morire o, Cav. di morte cagionata da grave e crudel supplizio).c ... in un suo orlo che egli la cort ra a sue mani , l?occ. A buone lanciate li ribullarano rovescioni giù dalle scale ». Bart. (a forza di..« ... aggrappandosi a mani e piedi su per greppi inaccessibili ». Bart. ... miun alti o di sua grandezza aver avuto due nipoli a un corpo : recandosi le cose ancor di fortuna a gloria ». Dav. (156).« Vi dico che 'l cui rallo è mul rilo a latte d'asint... Ed ln l'ennero clº il puledro ſu noi ricato a latte d'asina ». Nov. ant. 157).« Il Demonio tutto di pugne a coltello i peccatori, e non gridano, e non s'agitano, e non si difendono, e non se ne curano: ma lo sto sentiranno il duolo delle fedile, se non se ne medica no ». Fra Gior (cioè : « punge cacciando mano a coltello ». Gherardini).  « I rrecarci in collo un fascio di legne, e rende alo a pane ed ad altre cose da mangiare ». Fioretti. (gegen Brod., mediante permuta di...). a che parimente l' uman sangue, anzi il cristiano, e le dirime cose a danari e renderano e compra citno o l'80cc.« Qual colpa, qual giudicio, qual destino, Fastidire il vicino Porero, e le fortune alflitte e sparte Perseguire, e 'n disparte Cercar gente, e gradire Che sparga il sangue, e venda l'alma a prezzo ». Petrarca, Non per vendere poi la sua scienza a minuto, come molti fanno o. Bocc.  Schiacciara noci, e rendera i gusci a ritaglio ». I ;occ.  “ Vicere all'altrui mercede ». Giamb. (appoggiato, mercè dell'altrui.. . (158). -º 1 ndando un dì a vela relocissimamente la mare... ». I;occ. (cioè : la nave commessa a la vela. 159 .“ Malacca, tornata peggio che prima su gli sparenti e su la diffi. denza era tutta a popolo ed a romore , l art. 160,“ ... e mise il mare in così sforma la tempesta che quattro di e qual tro molti corsero perduti a fortuna, senz'altro miglior governo che... , Bart. abbandonati alla fortuna, in balia della.... ;  1 -  « Non è sì magro cavallo che alla biada non rigni un tratto ». Fie. renz. (che al Vedere la biada.« Non possiamo a certe stravaganze tenerci di non le motteggiare . Caro. « E molte volle al fatto il dir riem menu) p. I)alte. « Se tu non te ne al redessi ad altro, si le ne dei a rivedere a questo, che noi siam sempre apparecchiate a ciò , Bocc.ſt Ma dimmi: al tempo de dolci sospiri. A che e come concedette Amore Che conoscesſe i dubbiosi desiri? ». I)ante. al vedere che cosa, facendo attenzione a che cosa . « Conoscere all'abilo. alla furella , e simili.  « La città si reggeva a consoli o Vill. (i. (con governo di... . (161 . « La della città si resse gran tempo a governo e signoria degli Impe r(Ilori di Roma ». Vill. G.« Se li vorrai ricordare di qual patria lu sii nato, conoscerai che ella non si regge a popolo, come ſacera già quella degli Ateniesi, ma è gorer nata da un signore solo ». Varchi.« ("h e la città allora si reggesse a Consoli o con l'autorità del suo con  siglio o senato, lo dicono chiaramente gli scrittori nostri » Bargh. Vin.  Seguono altri esempi di un'a ad altro valore che di semplice pre posizione e di usi assai diversi, ed in parte anche noti. Non ne faccio serie distinte, che sarebbe troppo lungo, ma ne scelgo alcuni e li di spongo qui alla meglio, l' un dopo l'altro. " " º "gli º º º ninno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince ». Bocc. la quale sia da darsi a chi  " : lº º l'"ºn lºrº in su un ronzino a vettura venendosene ». Docc. destinato a lirar la vel | I ra”.  “ ... con le note rele a chi più mi esalli , I; art. tale [llo, ad hoc: chi pil...).  Inler indire a morte o l'iel'eliz. º lº Iºsti a baldanza del Signore si il batteo rillanamente... ». Bocc con lº e' Illanti da compiacere all'ardire...).a l?ilo) ma ndo a d'onde mi era poi l'lilo... ... Fier eliz. (al luogo onde). 1 cc (sotti nel castello... vicinissimo a dove ºggi all blano 13asilea (iia il (al luogo dove.('on atmdò a pena della testa . I3 c. (bel Todesstrafe). 1 ml e pare essere a campo, tanto cento viene su questo letto » Sicch. Fr. esposto all'aria del campo.lº a mal rete in sino a Pisa a questi freddi i ... Cecchi, (cioè esposto a | Iesi freddi lo i diesel villeº la donna rimasti sola, racconciò il larselto da uomo a suo dorso , l30cc. (sì che facesse pel suo dorso (162).“ Qualunque altro trilla la resse, quantunque il tuo amore onest., slalo fosse, l'arrebbe egli a sè amata p) i loslo che a te . l oce. (cioè : l'avrebbe egli ama la destinandola a sè per sposa, piuttosto che cederla ti le o. (illerardilli .“ Ed il popolo tutto a grandi voci ringraziò ladio . Vi ss Pad. (163, l'ill d.In abito di peregrini ben forniti a denari e care gioie... ». Doec. cioè : il lallo, per quello che spella, relativamente.... .1 Firenze il luglio e l'agosto si sta male a pesce, perchè si arriva sempre i radicio e pazzolen le o. I Redi I e II. I 64 .l'ol re, in li a prendere q. c. ad istanza, ad indotta di alcuno o. I3oce. I ): I V . I 3:ll'1.  I tesla finalmente a mostrare come anche l' a copulativo e ad ufficio di semplice particella prepositiva venisse allora adoperato dagli autori classici il lima i maniera assai diversa che non si faccia comunemente e volgarmente col linguaggio di oggidì ed è pur degna di osservazione e di studio.  « lo estimo, ch'egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando Do menedio me manda altrui o. IBocc. (165).  c ('he cosa è a ſarellare ed a usar co' sa ri? ». I3oce.  lo dico che è cosa commendevolissima a mangiare e dormire con sobrieldì m. 13art.  Giunto (un cervo) a una stalla di buoi, entrò fra essi: de' qua'i buoi uno parlò al cerro lali parole: Questa è cosa nuova e disusata a star con noi ». I sop. Cod. Fars. « Misericordia si è a perdonare l'olese che sono fatte...., a consigliar chi dubilat, e ammaestrare chi non sa m. Fior. Virl. A. M.  « Mi si arricciano i capelli a ricordarmi di quella orrenda entrata, e sola vittoria di Gallia o. Dav. (166.  « ... ed ultimamente per renne l'anello) alle mani ad uno, il quale area figliuoli belli e virtuosi, e molto al padre loro obbedienti ». Bocc.  « 1 cciò che a mano di rile uomo la gentil giovane non renisse, si dee credere che quello che arrenne, Egli Iddio per sua benignità per mettesse ». Bocc. (167.  ... ed egli ricercò di more colmen le La basso che stesse contento a dazi ordinari, senza metter muore angherie , (iial b.  Ma siccome noi reggiano l' appetito degli uomini a miun termine star contento...». Bocc. (168.  « ... e len negli ſarella infino a vendemia . I3occ. (169.  « L'ora ju a sospetto; la cagione presa per colpa: e la procura la quiete le rò rumore ». DaV.  « Da lui le parti si allolla cano allo no a fidanza di sentirlo parlare . Bari.  « Non ti nara rigliar se io le dimesticamente ed a fidanza richiederò I3occ. (con conſidenza) (170.  « .....passalo a Mantova il cerno, il Padre lo tra millò a Casliglione a speranza che l'aria ma lira e la bella postura del luogo lo risanatsse di... S.  « Non pensando che li mandassero a processione cerli re rsi con l' gli han manda li p. Caro ( 17 l .  « Era fornito l' altare a bellissimo disegno e con molto splendore col (tlchè..... » IBarl.  « Gli parlava a capo scoperto ed occhi bassi ( es.  « Arregnacchè a sua colpa la naricella sia fracassata e rolla º l'assav.  « Il peccato nº ha quegli che 'l ja, perocchè l la a mala intenzione o I'l'. (iiol (l.  « In due maniere sono perdule l'orazioni dell'uomo: s'egli non le fot a buon cuore; o s'egli le fa, e non perdona a colui che natº lº ". (i l'. S. Gir.  a 1)unque loi lu ricordanza al Sere! Fo bolo a Dio che mi vien voglia di darli un sergozzone n. 13, c.  e Slot che lo : io li lai di medico re al mastro 13anco che è molto mi o (1 mlico . Sacch. i 2;.Signor mio, io son presto a contessori ci il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io gli tagliai la borsa, ed io vi dirò quello cli e io ci ri ) la llo, e quel che no . 13 cc. (173.l'ulte queste cose in lesi io gia i ceti a 1 e a uno ricchissimo padre e lº la miglior rosli o di colo, l'alla loll.l clendo º l'ucidide l e lui e ad Erodoto le sue storie, s'accese cla  (I 'nº' Noi ci il bi: i ne' . Salvi i li. I 4 . e l not figliol lat.... non essendo ci slui ma, e udendo a molti cristiani.. -- mollo con nºi, la l e lui ci is list not leale.... . l oce.  i menduni o alibi due li fece pigliare a tre suoi servitori ». Bocc. ll fece prende e a' suoi uomini ». Sacch.chiunque per le circostanti parli passa ra rubar faceva a suoi soldati .. l) co.e appresso. Nè lece la rare e sl i picciare alle schiave ». Bocc. .... Può e deve per sè dei irare a tutti questi capi infiniti ed efficci - cissimi i corili rli , ( al . I 5 .a guisa che la veggiamo a questi palloni Francesi ». Bocc. a quella guisa che far veggiamo a coloro che per allogar sono, quatrº - clo prendono alcuna cosa . 13o .Mollo a reali le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n ci - ri e libri ancora se slalo non fosse, che lo inci ebbe di vedergli torrº' ancora i rapponi a coloro che lollo gli avevano il porco . Docc. I. , ol, ndo la r e nè più nè meno che s'acesse ceduto fare al maestrº - ct tal, le .. . l i r.l mal ripo' a gillossi alla mano di Paolo: la qual cosa (per la un tal e si relendo quei ba) bat i prende e la mano di Paolo a quella bestia. - - - - alls Nero.... . A li apost. | | 6 .Sbigottiti per le pene e per li tra ci tormenti che avea veduti Sos tº 7 ti, a peccatori li l': il ril Vlli .. . l'assveggendosi guastati e a quelli che c'eran d'intorno... ». Boce. ... e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho ceduto straziare (il mai ») I 3 , ( -.. goira, di qui e beni che li reali gode) e a questi padri ». Ces : a ! Lasciarsi ingannare ad una rana e slolla speranza ». Pass. (177). Lasciarsi colgere al piacere all rui . Caro.Lasciarsi colge all'obbedienza del superiore , Ces. Lasciarsi rincor e' a questa gente , l?art.Lasciarsi occi pare e vince e alla paura, per forma che... ». C º Ed egli tutto fuoco lasciandosi tira e al suo usalo ferro e d'alletto. - -  - i .  - - -  -  - - - - - 1 Ed io roglio che lui gli conosca, acciocchè regga quanto discre º º men le tu li lasci agli impeti dell'ira trasportare ». 130cc.  t « V assene pregalo da suoi a Chiassi, quiri vede cacciare ad un ca valiere una giovane, ed ucciderla, e diroiarla da due cani o Doce. (178).  « ILa giovane sentendosi toccare a: - nºani di c li l il , il 1 le ella sor, i l tutte le cose amara..... senti i l la erº nell'a mm , quanto, se ios se stata in Paradiso ». Bocc. 179).  NO te e Aggiti inte  all'Articolo 1.  :138) Gli esempi che ti allego, divisati e ord. nati come meglio seppi, sono in numero Inolti e di Iliolte forme e baster: illo; ma son ben pochi del resto, anzi pochissimi a quelli che mi vennero a mano. Non ne ver rei a capo in parecchie centinaia di pagine se Illſ e prendessi a recitare le proprietà, i privilegi, le perogative, gli usi iroll eplici di cosi fatta particella, scandagliarne e discuterne le intime ragioni logiche, erigerne teorie e apprestarne criteri; fallica, del restº, di n. llli pro e per poco no civa. Ella è assai spesso elemento essenziale di Ip idiotismo, o maniera di dire leggiadra e propria della lingua italia tra es. fare a chi piu Iman gia, beve, grida, ecc., e come tali e non in par (Illi luogo da ragionarne, si come quella che d'Illi si intimo, lodo si lega, o per cosi dire si ſolide cogli altri elementi, che ad estrarla, appena la riconos i, e vi si però sell irrle, gustarne ed apprezza ; II e la fa , zii, il ll - da sè sola, Ina nel suo tutto; il che pili convenientemente ſaremo alla terza parte di questo I)irettorio.  I)i più l' a articolata ( III en , preti ess: a 1 in li od altre voci di II, la moltitudine sterminata di maniere avverbiali, nelle quali quella medesima preposizione a, che talora il lica spartiſamente disposizione: a uno a uno; a decine a decine ecc.; tal'altra del ta III do, Iorma: andare a piedi, a cavallo; fare checchessia alla buona, alla carlona; a poco a poco, a otta a otta; vesti a oro, drappo a fiorami ecc., e signi a 1:1, ora, quan-- do imitazione: vestire alla francese ecc., e quando fisica e morale disposi Ziolle: a viso aperto; a occhi chiusi; a malgrado ecc., lIiolti dei quali nodi, cioè i meno noti e pur degni da inci Ilcarsi, si addiirra:ino, corredati al solito di buona scelta di esempi, quando ratteremº degli avverbi o for me avverbiali in particolare,  (139). Nota il modo andare a diporto, a diletto cioè a scopo di diletto ecc. Simile anche l'altro del Passavanti: Guardare a concupiscenza cioè con appettito di rea concupiscenza. Cosi si dovrebbe intendere anche il modo (divenuto) Volgaro : andare a spasso, cioè non nel significato di an dare a passeggio, ma in quello di andare scrivere, leggere ecc.) al scopo di svago, di diletto, di passo. al 10,. Ti aſiuc.: ( ull'allino, col intelizione che confidando e ricorrendo alla livina il seriº rili: lle soglia poi la V V ed Incillo e perdono. I 1, l: la traduzione del molo luogo: maledictus homo qui peccat in spe. Ma Ilia lil , e lº iu vaga e lo I e la Irase italiana! Vi senti l'anilino 11 i - osl, illo e resi resi li ti so a ore, il cliale, Vinto dalla pas sic, Ile, Inti Illit do pur spel I li ai li la V Vt di Irle:lto e perdono continua Iel 1 , ne a 1 I test Illlarsi i pc .I ? Nota la rase: eleggere a re, a maestro, a direttore, cioè ad uf I l i , (il ... SIII il ricevere a servitore. l'elilella , che Griseida non I s se l'all 1' , ai loro presi, e per lui el' . ll v pendendo, ricevere mol \ -- a servidore .. . l 3 , l 'Il sl, avere a maestro, a padre, a si  giore , l Ne l il roll , il Sesil I allegri da poi che l'elobo lo a signore , l'av. S. Analoghi anche i modi: avere ad o more ad orrore: ..... ed s, il fr. ta lite nostre sord, de zze, ma n avrà  ad crrore d'esser da noi i co, da 11 Segn.; avere, tenere; a schifo, a vile; recarsi a vergogna; tenere, avere alcuno a savio, a folle: N Il tr es. i tu a molto folle e la l... » e c. Sell. l'Isl.: avere a tale: « Mlo - rand i poverta lolio Ila e l re r1 llezza l'eo, acciocchè noi il do vessli, i a tale avere. » (ill 111. l.eli .: avere checchessia a misfatto: « A non « minor misfatto aveano il lei e una pulce che un uomo » . Bart. avere a niente. Anni 1 -1 a i l’aut re che il luno, per lui sia in istato di gran polenza, prenda il dire di Villa il gelare e arrogantare i miseri e pic averli a niente.» l'isp. Cod. Fars.| 13, l. a. arti , lata Ilo, di questo e del seguenti esempi, dipendente lei il l l e V g . In - re: a portare, a dovere, a fare ecc. o in a 1 l di sol: Igli, l , , sia il il logº dell’ull o dell'altro verbo (vd : l'ast di Illi e ! ll I lil.S: il l V el sl at le porti li o le inonache. 115 C1 e fra l'era da cori veri e li molli alla volta. E' proprio il zii viel del I cd si li. Ed an li a due, a tre e si traduce zu zwei, zu drei e .I 6 Simile: Sopra vestito a bianco come neve , Vlirac. Madd., ed a 1 le l: i rinse notissimi la vestire a lutto, a bruno: E vedrai mella morte l ' Illi. Il I | 'ltte vestite a brum le li :lle l'el - , l'etrarca, \ mire - della quale si sedeva il la limatrona tutta piena di lagrime vestita a bruno. , l'i . e z! modo, secondo, rili e il senno suo. No alo anche lº : li es . I | i le segli no, lui e sto mollo: la re checchessia a suo senno, a seiºno altrui . . che è bello e proprio della Lingua italiana.1 - Si!! i :ll": lo misi a suo senno, a senno, a talento di..., è l'altra a sua posta, a suo avviso, a posta di....... cºli e lo ss 1 in do per il ri sultº all, pie o altri membri in sua volontà se iroli a posta d'altri. IPal d lf. Conf. Parte II, Cap. III, Serie 3: Modi avverbiali a governo di a.)l º Vl : si ro ( i valra pare che piu che il modo: a senno piacesse ta lo 1 l'altro: a senno e volontà.150 l 'a d (Illesti esempi ha alcun che di comune a tutti, ma non è - "Il pre il nº de into. Si infilo, gli slalo, che è evidente e di un sapore che lo: si potrebbe dire. (151) Ha ripetuto la nota frase di Dante: ....mill'all ni..., e l'Iti “tºo Sli zio all'eterno, che un muover di ciglia Al cerchio che più tai di ill e leio è tOrtO ». (152) Nota il costrutto: barattare a... Con il Premiº Ilari (153). Senza entrare in discussioni nulili a chi, noi la filos list della lingua, ma la lingua stessa si vuole ( Il racemente imparare, li II lºttº Illi alcuni esempi di un a che si riferisce allo spazio sia di 1 li luogo e torna press'a poco ai modi: indi, di li a, in capo a, Icntano, di stante tante ore, tanti metri ecc. Le frasi dell'uso: oggi a otto; lettera di cambio a sei mesi lida per sei mesi) e simili, sono modi di un a a quell'ilso e valore º il gli esempi che quivi arreco.(154) Questo a è somigliantissimo all' a dei precedenti esempi la to alla forma, non quanto al senso che manifesta Iriente è assai diverso. ( 155 ) Questi esempi recano una che par significhi col mezzo, mercè di, ricorrendo a ecc.(156) Nota qui anche la frase: recarsi a gloria. ( inf. V b . Recare, Parte III).(157) Così dicessi: Quadro a olio, ad acquarello e va dicendo. (158) L' a di questi eseIIIpi ha i rain (li: abbandonato a, appoggiato a, in balia di ecc.( 159 ) Crinf. sotto Nave IP ultitario) - VIa niere propri della Natiti a (160) Nota la bella frase: essere una città a popolo ed a rumore, cioè in rivoluzione, in balia del popolo ecc. – E piaceni (Illi II, il vantº le altre: andare a rumore Bart , levarsi a rumore, levar popolo Iº i rt., I)av. ecc. ecc.).(161) Mefferai a sacco anche questa frase: reggersi a re, a consoli, a popolo ecc.(162) Simile anche l'altro, pure del Boccaccio: La donna li fece a p. prestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li ciuali « come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano ».(163) Dicesi anche, ed è notissimo. a bocca aperta, a struarcia gola, a braccia tese. « I)al sommo d'una rovina si vede Ina donn:i..., la quale « avendo il figliuolo in mano, lo geſta ad un suo... che sta nella strada « in punta di piedi a braccia tese per ricevere il fanciullº o Vasari. (164) Prima di passare ad altro ti piaccia altresì por In, nto, tra le altre molte che le son notissimo e non accade occuparsene, alle maniere : essere a studiare, a giocare, a desinare, a dormire, e nºn ho: trovare, ve dere, stare a giacere; porsi a sedere e simili; il cui a, si bev, rifl 'fi, e si è quella semplice preposizione di vincolo o relazioni o come: venire, andare, cominciare, disporsi a far checchessia, ma necenna attualità di azione ed implica il senso delle parole: nello stato di, occupato in, attento, inteso, dato, ridotto e simile. « Io mi credo che le Suore sien l'uffe a dormire ». Bocc.: « Che Venerdì che viene, voi facci:lto sì che M Iºa olo Trav orsari « e la moglie e la figliuola o tutte le don; e lor parenti, e il l'e . In A i a piacerà qui sieno a desinare moco ». Rocc.: . Venuta a dunque a con « fessarsi la donna allo abate, ed a piè posta glisi a sedere... » Bocc. : « Costoro avendola veduli'a a sedere e cucire.... o IBC) c.: . Altre stallino « a giacere, altre stanno ºrie », l)n mtc.; e Sfi:lmo :) Inc it :) veder l:i gli ri: a Inostra ». Petr. ; e Veduti gli alberelli de silli i colori, quale a giacere e quale sottº sopra, e penneli tutti git at qua e là e le figure tutte il Illbrattate e gli isl , -: i bit , p lisò... » Sa ll.: Si III osse correndo verso a la Cl re e trovandola a mungere e 1: i .... , ( a : « I); pinse un re a ( sedere coll ol'e lli lilli gli lss II e V dl ialli. - l am dei Incrdi: am Studie ren, am lesen, am spielen sein, e simili di alcune provincie della Ger II l: l Ilia, e appllini o l'a del c : la lol V e In altri casi l'a di un in finito soggetto a V el'lno, loli a m - Vlt ; tl , i dll re, la zu.165 , l 'a di questi esempi st: l'a rti oli per altra preposizione articolata e sappi ch'elli e V zzo 1, si a n a preporre talvolta all'infini, o,  a maniera di sostantivo e soggetto comunqil di una proposizione assolu ta o dipendente, la preposizione a live e dell'articolo, ecc. (166 . Trad. lel I l rilarini, e lui 'i gli 1 volta che mi avvenga il ricorda l'ini, so oft, quoties recordor ecc.167 i Venire alle mani; a mano di alcuno e anche Iriodo figurato i le significa: venire in potere d'alcuno.16S) Nota la frase: star contento a qualche cosa. Cont. Contento, l'arte II, Capo V.).169) Simili i modi andare a città Vo' in fino a città per alcuna « Irli:l vicelli la o lº si ... per Vai l'll lno illo, cle andava « a città , l o in illera el tº :ca e vale i nda, e per fatti suoi al capoluogo. Di un viaggiº (ore . ll e la sºsta di ll'i: in altri , iº fa e non dicessi che va a città; andare a santo; . . ll v . l t . ll li i possº andare a santo, e nè il niun bila il luogo ». Boc .; andare, recare a marito – . ... e questa Il l:nti ! nº ll e lo o ire a marito, e le festa bis lo fa a è apparecchiaio , Do ..: . . lo - a : a re dei di delle feste che io recai « a marito » l 30 ..: essere a riva di ... e l ' , a riva di Reno dllo est l' e citi » I), v.: menare a prigione l'a e il gºl al de ll cisiolle di ri e Illiri... che ella si illlllo ne menarono a prigione, ma tutti li misero al a taglio delle spade ». V ill. G. ecc. ecc.(170) Non lo scambiare con l'a fidanza del primo gruppo di questo medesimo numero. Lo stesso dicas del In lo seguente a speranza. i 17 1) I 'a di questi esempi sta evidentemente in luogo di una delle pre posizioni: con, per, in, da.17?) Coi verbi: fare, lasciare, vedere, udire e qualche altro simile, che reggono un'azione in infinito, il sol getto operante di questa, osserva assennatamen e il Fornaciari, si suole, per distinguerlo nettamolto dal l'oggetto, cºstruire collo preposizione a, che corrisponde all'accusativo a - gente melle locuzioni latine con jubeo, sino, video, andio ecc. – Messo to scalmanente si pone il soggetto colla preposizione da, riguardandolo come semplice causa dell'azione. Laddove a dire a esprimesi ancora il rispetto, l'ordine di moto, dirò così, a chicchessia o checchessia hin, her), l'atten zione, il concorso positivo della volontà, l'azione comunque diretta del soggetto principale verso l'agenl e, o, come dice il Fornaciari, verso il soggetto operante, cui egli ſa fare, od al cui ar o dire porge l'orecchio, volge lo sguardo ecc.Ed ora ritorna agli esempi e sappi s'egli è indifferente e affare di garbo soltanto, con lo molti asseriscono, e tra gli altri lo stesso IP. Cesari, il porre in sifatte locuzioni l'a per da o viceversa. Trattandosi poi di cosa  dicevolissima se pur non necessaria ed opportuna all'interezza e verità del discorso e tuttavia dai moderni niente osservata, parvelli di allegarle un buon numero, e ciò all'effetto di toglierne il mal vezzo se Inai bi sognasse di riformarne il gusto.(173) Ognuno sa che il fare dei modi: far portare, far lavorare, far medicare ecc. equivale ad ordin: re, coma Ildare che si porti e , altro di somigliante. Ora vuoi vedere se quell'a lla sua forza e il n vuºl essere scambiato col da: costruisci ( (il comandare, e il 1:1 l 'lie chessia : chicchessia, sarà nè piu nè meno di colmal, dare a chicchessia 'io di reatamente) che ei faccia ecce. quando il far fare che chi sia da l 1 es sia è comandare che si faccia da chi li essia e -- la fa ! (sia cioè che il comando venga da lui li et la III elte o - li sta r il till iſlie trasmesso).; 174) Se avesse detto: udendo da.... sal ebbe stata , l'horen 1 e O ll ricevere materiale involſrl)ti l'io, e aslla le cºlle a l' lel st sia che lo si ascolti, sia che llo, con l at Inzi - nzi ; Il lil I l e i leti , udendo a, volle precisamente significare l'an . zuhoren, l star o ce clio, tender l'11 di o, l'udire ( oli attenzione e concorso li vol ! 11a. 175) Cioè: dee fare che da 11 , l I questi capi si derivi Quel deri vare è qui adoperato a forma di verbo callsativo e sigla I a far deriva re (conf. parte II. Natura ed essere val o di alcuni verbi e(176) Tra (luci: volge:ldo la vista, gli ardi li do a Illella ln l lin, la ti: i le prendeva la mano di Paolo.177) Sostituisci l'al fine permettere e saprai li ferenza da a. (178) Questo esempio ci porge ma era di altre osservazio i cle non fanno qui. Conf. Natura ed essere vario di alcuni verbi ci l'arte II . (179) Il Gherardini spiega cosi: La giovane sentendosi ti recare venuta o pervenuta alle madri di colui occ.; pare al Gherardini di sentire il quell' alle mani, la voglia altresi che aveva di pervenire a...180) Nota differenza tra la frase: sentir dello scemo e l'altra: sentir di scemo in checchessia, cioè aver difetto, ecc. Conſ. Verbo Sentire, l': i e III).181) Nota la questa frase far del...., simile alla precede le sentire, ave re del...), che è Imaniera bellissima e nostro.º 182) E altrove: « Come state dello stomaco ? » cioè per rispetto in fatto di...., in quanto a...  A RTICOLO ! !  Cilf (cong.)  Prima di farmi all'oggetto da trattarsi, piaceni premettere cosa la quale non li verrà si strana e Irivola che non ſi sia anche il lile e a grado altresì d'averla udita. “ (lº è prontone, dice il vocabolario, ma è anche congiunzione di  frequentissimo uso dipendente di verbo, da avverlio, e da comparativi; º coll'accento sta per poiché, perchè -  l' “osi la pensano granai e filºlogi che l'urolio e che sono, nè sa  prei º solº cui cadesse in animo di contraddirvi. l' olga il cielo ch'io ººº º lilli di tenerla a leva, ma a censore di sì tillo, autorevole magistero º il falli , che in omaggio a al do Irina pongo qui il chº, S! " ºn liti il tonº, o il la sa cli, il ragionato estè. Ma se li pur in mia i a V , e  - - irº che questo che di frequentis sillo liso. I pendente ci v. l  - Si p. ssa :ili le intendere o sentire tuttavia pronone, cioè lº chº, nè più nè meno, del precendente numero A lizi, diro 'll 'i'i, lº sll sl tit , ti ma il rale di semplificare e vedere il lill lo tiri I l ss , ,  - i gºl . . . . l III di strano ch'io abbio di concepire, io non so e  A cdr e sentire nella voce che, adope , sola o al I e di altra voce, Se non il pl o non e' e non altro mai che il promonte, | Il lido in una, quando in altra forma.  l' essi i S  \ ºpi ilarli poi di questa ini era l' intendere e sentire, ti  Pºi lui appressº i monti e pon i no e l'intrinseco valore Virli sillclica di Irla i  - l\ ini: gli orsi, chi ben la consi deri, in altre voci pron nera' i ritmi le gi annuali ali:l'irroli cinque differenti manici e di un colal che cong.  | i l. I l a sla al riti il che vo non , sale . I3 cc.  2a Mio fratello è pil dello che pio .  :3a ... che vºli che li cosi rilla la ventilra che non è persona , Boc . ſa « Non era ancora arriva lo che io e gi i partito ..  ;)a lº si pensava che ingannando i l i crilin fosse appresso al tutto  signore n. Vill. (i.  Questi esempi reali, il che dei casi nellovati dal Vocabolario, e che ippo i Cirali ma ci addini in asi rigorosamente congiunzione. Ma se ci testo che la fa il resì, e li si sv: r al guisa, da pronome (v. numero precedente, e il qui il lice cilalo che comporta decomposizione in una ad altra gilisa dello stessº i rom ne, chi ini viola di riguardarlo, senza inello con le pronoln e sen| Irlie al suolo i rispellivi elementi? Il che del primo esempio lesla in me il senso dei modi: di quello che, di quella cosa la quale. Quel del secondo vale, a mio intendere, quanto le voci: di ciò di questa cosa il verbo del secondo incis , virtù di elissi, omesso . ll Ierzo lo riconosci agevolmente quale il che del numero precedente, solo che nell'avverbio così ſi intenda l'equivalente: in tal modo. Anche il quarlo lo ravvisi evidentemente pronome framellendovi la voce allora che va lui forse sol ſintesa, ed i cro che la frase torna subito all'altra: in quell'ora, in quel tempo nel quale ecc.  Più malagevole a concepirsi pronomi pare, a prima giunta, il che del quinto caso, nè mi basterebbe l'animo di asserirne la possibilità se testimonianze ai lorevolissime non li vi confortassero. Come infatti ri guardarlo questo, stesso che quale pari ella ad ollicio di pura e semplice  congiunzione e punto capace di virtù pronominale, se non vi è paro' a cui congiungersi, non un congiuntivo od indicativo che sia comunque obbligato al che, ma un indefinito? Eppure ant'è. Proprio il verbo del citato esempio, ch'io voltai al congiuntivo, il Villani e lo mette all'inde finito, ed eccolo nella sua originale integrità : « E si pensava che, in “ gannando i Fiorentini, e venendo della città al suo intendimento, es. sere appresso, al tutto Signore ».l'erchè parini da ragionarla così: Se quello stesso che, cui noi avremº Ilio obbligalo un congiuntivo od indicativo, sì come nodo, il ppoggio tramezzo di questo ed altro verbo, appio i classici rinviensi Ialora susse. guito dall' indefinito, che a nostro modo di intendere mol palirebbe a - solutamente, egli è pur gioco forza che quegli antichi, usando egualmente ol l'uno ol' l'altro modo, avessero di un colal che alla apprensione, allro senso che di semplice appoggio di tramezzo che si voglia.l) e molti esempi che, oltre l'allegato, mi vennero qua e la scontrati le tre poligo (Illi alcuni pochi. l eggili allentarne le e di rini se io mi li In apponga.« Manifesta cosa è che, come le cose temporali sono transitorio  nortali, così in sè e fuor di sè essere piene di noia . I3 cc. \ - giamo che poichè i buoi alcuna parte del giorno hanno faticato, solo il giogo ristrelli, quegli essere dal giogo alle viali , I3oce. -– a Si ve dova della sua speranza privare, nella quale portava che, se I lor  « misda non la prendeva, ſeriamente doverla avere egli n. Bocc. i E parendo loro che quanto più si stellava, venire il maggior indegna « zione dei Fiorentini.... ». Vill. – ( Proposto s'avea al lutto nell'animo che, se necessario caso l'avesse rilenillo, di rinunciare l'Iſlicio ... Vill. – « Seco deliberarono che, come prima tempo si vedessero, di rubarlo o Bocc. -– « Pirro per partito aveva preso che, se ella a lui ritornasse, ci fare altra risposta n. Bocc. – « .... la precedente novella ini lira a « dover simili nelle ragionare d'Il geloso, estimando che ciò che si a fa loro dalle lor donne, e massimamente quando senza cagione inge  «losiscono, esser bel ſalto m. I3 cc. – ecc. ecc. ecc. Costruzione stranissima, e al nostro orecchio per poco errata, quali lo a colesto che ogni altro flicio si disdica che di semplice congiunzione,  I 'allo invece pronorme, recalo - con inque si opponga il rigido gramina - tico – a valore di ciò, o questa cosa, e la sintassi è chiarissima, logico  il nesso, e l'orecchio pienamente soddisfatto. E quanti altri luoghi piani ci vengono ed evidenti mercè di sì fa II: interpretazione, senza la quale stranissimi li credi ed anche errali. Ti basti, per ogni altro, il seguente del Boccaccio: « E lui come po a rai mostrare questo che ſi affermi ? Disse lo Scalza: Che il mostrerò « per sì fatta ragione, che non che lui, ma costui che il niega dirà che i « dica il vero ». – E che ha mai qui a fare quel che se noi vale questo, questa cosa ?Ella è pur cosa degna di osservazione che altre lingue ancora a dir perano ad officio o valor di congiunzione quella stessa voce che è all'esi pronome, e pronome non pur relativo, ma anche dimostrativo, cioè: oi tos. quod, que, dass (anticamente anche das si scriveva dass , lh tl ecc. ecc. Talchè io mi figuro che quegli antichi della prima scuola, dicendo,  a cagion d'esempio: comandò ch'ei studiasse – er befahl, dass er sl il dieren sollte. – ecc., volessero dire, oppur suonasse loro quanto: collan lº  questa cosa (dasº: studiasse »: ed anche nei medi composti di che ed altra voce – ll'eposizione od altri i - intendessero tuttavia e vi sentissero  non altro le il proliome, orti relativo, ora dimostrativo. 239 . Neh! lo ripeto, è una mia opinione e resti lì.lº riprendendo ora il filo del nostro assunto, dico che il che cong.;  ha virtù dirò così concentrativa e Irovasi nei libri mastri di nostra lingua  assai solvente. - I di comparazione e recante senso di : di quello che - l . il significa di affinchè, sinchè, prima che, senza che, Ne m on, jlto i cºllº e sillili. . llpl calo a lil:inlera e valore dell'avverbio  di tempo: quando.... quando, alcuna rolla... alcuna rolla, di quando in  quando ch'è, ch'è ed anche parle.... ma le. Il che, per dacchè 210 , poichè, posciacchè, perchè 241 poi che (242)  è notissimo e comunissimo, nè porla il pregio di ragionarne.  \ iuno dice a trovarsi, il quale meglio nè più acconciamente ser risse al limit la rolul dl mi m signor e, che se i ri rut ella , l?occ  lo non coglio che lui ne I l a rl pii la coscienza che ne bisogni o. I 3 (' '.  \ orella non quali i meno di pericoli in sè contenente che la mar l a lui li I tu roll (t ). I 3 cc .  ... che io non so il no ben mesce e ch'io set ppia informare ». Bocc. lº migliori ol) e le dando che li sali non e' di no.... . lSocc. \ on le doti più dolore che la si abbia . l occ.  ( n si era la cosa cºn il lut ut lanto che non illi in en li si curatra degli uomini che morire no che ora si cui e're bbe di capre l occ.  \ on li molea renir molto più ni di doll in, nè di speranza, nè d'autorità, nè di gloria, che di già s'a rºsse acquista lo . Caro.  « I fallo i sono poco solleciti, e prima cercano l'utile loro che del padrone . Pandolf. che quello del.... .  a I)arano rista di non tener più con lo di lui, che si facessero cogli allri ». Ces.  ... io ri a cillà e poi lo queste cose a Se) lontcorri, che m' (tilli di non so che mi ha ſallo richiedere . I3 cc. allinchè mi aiuti a questo ggello ch'è.... .  (i uan da ra d'intorno dove porre si potesse che uddosso non gli mc rigasse ». Bocc.  « ... gli menarono innanzi una sua nipol e ch c'ra rimasta, di sºlli' anni, ch are rai nomi e Maria, e lasciatron gliela che egli la gol'ºrnd Ssº Comº gli paresse . Cav.  a ... recatasi per mano la slanga dell'uscio non restò di ballºrni che per isl racco la slanga le calde di mano o l'ierenz. (243).  ... precetto che non parlisse che non me lo pagasse ». Caro.  « ... juggì via e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Riondello Bocc.  (( ...  nè mai ristette ch'ella ebbe tutto acconcio ed ordinato p). ROCC. - non si ricordò di dire alla fante che tanto aspettasse che Fede l g0 l'emisse ». Bocc.  ... si pensò di dovere per quello pertugio i tante volte gualare che ella redrebbe il giorane in atto di polergli parlare ». Docc. -  “ Ma fermamente lui non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì delle opere lue, che mai di niun uomo farai beife, che di me non ti ricordi ». Doce. 244;.  º sempre gli (al rilano mancherà qualche cosa mai ſi farellerà che non ti rechi spesa . I'and.  (( ...  “ Von posso passare per la strada che non mi regga additare o I;oce. “ ... e l 'nsò non potere alcuna di queste li e, più l' ma che l'altra lodarº, che il Saladino non a resse la sua intenzione ». Bocc.« Mai la sera non rimetterete a riposare che prima non abbiate fatto ſes(tmº della coscienza n. [3art.Giarda le adunque quelle grelole che sono sotto l'abbeveratoio della rostra gabbia, che per la molla acqua che ci si versa sopra sono im fradiciale in modo che voi non ri da rete su due roll e col becco che voi le spezzerete e farete una buca sì grande che re ne potrete andare a vostro bell'agio ». Fierenz.« ... non canterà stanotte il gallo due volte, che lui ben tre alla fila arrai negato di conoscermi ed esser de' miei o. ( es. 2 . .« E questo è il riro della fortezza al tutto inespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio e di fame o filorchè, se non. I art.  « I)onolle che in gioie e che in ratsella nºn li d' o o e al di rien lo e che in danari, quello che ralse meglio d'altre decimila dobbre o. I3oce.  « Questo regnò anni trentaselle, che re dei lomani, e che impera loro n. I)a V.  « I'(Il li ch' è ch' è Ne m (t lo) l'i n. l): I V.  « Fu ascolto con giubilo unirersale e m' ebbe in ricompensat, che in danari e che in roba, un ricco presente ). I3art.  NOte  all'articolo 11,  239) Alle congiunzioni perchè, sicchè, fuorchè, affinchè, che se, poi chè, dopo che ecc. rispollidono le le lesclle lielle quali il che rendesi tra - dotto ora vo () was ed ora da 0 den – coll1 razioni ( riduzioni di was e das, e sono: warum, darum, so dass, ausserdem, damit wofern, nach dem. ecc. , 240). Dalla prima volta in poi che io risposi alla vostra non vi ho pIù Scrillo ». Calo. . Essendo limiti i due anni che Luigi era entrato « lella compagnia ». Ces.241 Nè solo per l'enim, etenim, mam, ma anche per l'eo quod, e cur; « Vlla prima giunta mi fece un cappello che io non l'avessi aspettato ». Caro.Disse: Beatrice, l da di l)io vero Chè non soccorri quei, che ti amò  alto Che Ilsi io per te della V o!gare s ll el l ' » - I), i lite. 242). Nota per o costruzione fuori della quale il che per poichè, dopo chè lì lì la lr 1:1 i lu go: tuttº si disarmo e cenato che egli ebbe se ne e andò a ripos lire ». Fier. - è poi che egli ebbe cenato - e ... ci condurrà alla stanza della serpe, dove condotto che sarà, io ti prometto ch'egli lloli ne sentirà prima l'od re, i lle da naturale istinto forzato, e le torrà la vita ». Fierenzuola. Ci si dl lano e compito ch'io ebbi; e gua rito ch'io fui; e letto ch'egli ebbe: e discesi cine noi fummo ecc. ecc. 243 Vlla pari e I V rti . S è par li di tl: la costruzione nolì guari dis simile a quella di questo e dei tre seguenti esempi; potendo differire l'una dall'altra solo in ciò: che, ve in quella la V ore prima è espressa, in que sta può essere soltintesa. Ma sia che quest , che si trovi ad ufficio di finchè, sia che si senta nel periodo l' omissione della voce prima, è sem pre vero che a questo che si attiene alcunchè di sentito e non espresso. 21 ). Il primo che vale: finchè, prima che; il second : senza che, Nota anche i tre seglie , nei quali il che ha evidentemente senso di senza che,2 (5). Fallo futuro presente il verbo reſto da' che e il costrutto è unum et idem che il pre edeinte del F. e enzuola. (illarda l' erenz: e non vi da rete su due volte col be , che voi le spezzeret ( n Ces N ºn canterà sta notte il gallo dlle volte che lui ben 1 l'e negllera 1 dl conosce l'Illi.  A RTICOLO 12  CHI  In questo e nel segui le n il loro li porgo una maniera di dire, che il lis; Izzo grammi, i lico (listi prova add ril lilla e se lendola se ne slrignº gli vien del concio e si con loro e, per il la col l?arloli, più che non fanno i cedri troll (Iula ndo sentono il tutor , Vla 1, il s o di lui. Chi -a all'epos lo e sente il ... , e la virtù che viene alla frase per l'elissi di alcune parti del dl scorso ci si allengono a certe voci ecc., non che intenderla questa In Iniera per l la ed in quel pregio che un vezzo assai grazioso Il ll garbo sl l' .E sappi alunque che anche la particella chi la quale bene adoperata, dice il Puoti, dà molta grazia al discorso – simile alla poch'anzi ragionata che, ha lal virtù sulla penna a valorosi nostri classici, ch. dice altro e più che non dica il letteral suono della voce. Tien luogo quando dei casi obliqui a vario rispetto, cioè senza il segnacaso di, a, da, per, con, che, e quando di chiunque, chicchessia, ed anche di se chicchessia, se all ri muti ecc.Mlal però si potrebbe stabilire quando il segnacaso e quando altra roce sia da sottintendersi, che le più volte l'una e l'altra spiegazione egualmente 1a. « I biloni cosl III li, scrive l'Alamanni, mal si ponno il 11 a parare chi troppo invecchia , ciò è a dire, soggiunge certo lale, da chi troppo invecchia. E son con lui. Ma chi mi vieta d'intenderla anche così : se altri, se l'uomo, o quando l'uomo l roppo invecchia, o in allra sì fatta guisa ? « Ma qualunque spiegazione piaccia, l'asta andar d' cordo su questo che il chi (son parole del Fornaciari per proprietà º i « lingua si usa spesso ed eleganlelneri le cosi in certi modo assoluto. « Di rado avverrà di potere le proprietà delle lingue in I lilli i luoghi « spiegare a puntino nel modo stesso ».Sentilo questo chi e gustalo negli esempi del Trecento ed anche del simpatico nostro Manzoni. o  « ... la casa mia non è troppo grande, e perciò essº non ci si por trebbe, salvo chi non volesse star a modo di mulolo, senso la r moll o zitto alcuno ». I30( C.« Molto da dolersene è e da piangerne... chi ha punto di sentimento, o di conoscimento, o zelo delle anime o. Passa V.« ... e con tutto ciò non si potevano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo: e per paura di questo lupo e cºn nºi o ſi lan lo che nºs suno era ardilo d'uscir fuori della terra n. Fiorelli.« E non è da farsene maraviglia, chi pensasse lo sterminato bene ch'elleno portavano alla persona sua . Cav.Sì come veder si può chi ben riguarda... ». Dante (CoirV. . « Quinci si van, chi vuol andar per pace ». Danle. potransi far più forti piantamenti, chi vorrà...». Cresc. « Sì come la candela luce, chi ben la cela ». I3 l'un. « Come pienamente si legge per Lucano Poeta, chi le storie 'orri cercare ». G. Vill.« Sì come per lo dello suo trallalo si può reale e', e intendo re, chi º di sottile intelletto ». G. Vill.« Furonri sventuratamente sconfitti, e così arrien e chi è in rºllº di fortuna ». G. Vill.« Da volar sopra 'I Ciel gli area dal'ali Per le cose mortali, lº son scala al Fattor, chi ben le slima ». Pelr. (per chi, a chi, se allli mai « Invoco lei (la SS. Vergine, che ben sempre rispose Chi la chitml ) con ſede ». Petr.« I quali trionfando degli animi dei pazzi cittadini, la misera città variamente lacerarono, con acerba ricordazione di quelli inlºlici secoli liſt con non minor gioia, chi queste cose andrà considerando, della tran (I lillità dei presenti ». Scipione Ammir. Stor ſior. - Le quali lui le cose sono esempi rarissimi di gran povertà, umiltà cd (in negamento di sè medesimo, chi pensa che talora per mantenere una di Iºsle loro ragioni, sogliono i mondani nellere a sbaraglio ogni aver loro, e la loro anche la vita un duello ... Ces.º V ºcchi che, perdule le zanne, parcram sempre pronti, chi nulla nulla gli dissasse, a digi ignar le gengive.....; o, Manzoni.('osì il lurore contro costui il ricario , che si sarebbe scatenato peggio, chi l'avesse preso con le brusche e non gli avesse voluto conce der nulla, o a con quella promessa di soddisfazione, con quell' osso in bocca s'acque la ra un poco e... ». Manz.  ARTICOLO 20  Sf (C0mg.)  Anche la particella se vuoi qual congiunzione sospensiva e condizio nale, vuoi qual desideraliva, è appo i classici una di quelle voci previ legiale sotto cºlli ripari in parole, ossia aggiunti, laciuli talora o non  completamente espressi. Il che avviene di un se. – a . recante senso :ì così, e in certa forma di gi Iran lenlo, volo e simili: lo esprimente ricerca, indagini ecc. soppresso e si linteso il verbo che lo precede: per ve:  dei e, per sentire, osservare e va dicendo.  Non misteri della lingua al dunque, non licenze degli scrittori come sano sentenziare alcuni (i rammatici dall'orecchio volgare e guasto, (246) | ma virtù e proprietà delle particelle, onde cioè la ragione intrinseca di cerle contrazioni e maniere si relle e vigorose, le quali sien pur strane e niente intese a pochi sperli, ma a chi sa di lingua, non altro sono, all'incontro, che vezzi e gioie.  l;oce. Così l dio mi dea bene, con l'egli è vero, ch'io mi veniva ...). Se Dio mi aiuti, io non l'utri ei mai credulo o. I 30cc'.a se m'aiuti Iddio, tu se' pore o, ma egli sarebbe mercè che tu fossi  | Se Dio mi dea bene, che io mi i re mira a slitr con le co un pezzo .  molto più o. l occ. a se Dio mi salvi, di così alle ſemine non si vorrebbe aver miseri  cordia ). I 3 cc'. « I), h, se Iddio ti dea buona ventura, diccelo come tu la guada  gnasti ». Bocc. « Subilamente corsi a cercarmi il lato se niente r'avessi ». (per sentire se). Bocc.« ... l'un degli asini, che grandissima se le arera, tratto il capo del capestro, era uscito della stalla ed ogni cosa andava fiutando, se forse trovasse dell'acqua ». Bocc.« ... s'egli è pur così, ruolsi realer ria, se noi sappiamo di riaverlo » Bocc.« Cercando d'intorno se niente d'acqua trovassero ». V. SS. PIP. « ... brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appi gliare ». (per vedere, per sentire se.... . Cav.« Corse per tutta la città se per centura la polesse trovare ». Cav. « Lesse come Libona area lallo gillar l'arte, se egli avrebbe mai tanti danari clie..., e colali scempiaggini e canità da increscere buona mente di lui ». (per sapere, scoprire se...). DaV.« Venite qua, guardate bene... Toccale i polsi se han molo tasta º  il cuore se palpita ». (per sentire...). Segn. (247).  NOte  all'articolo 20  (246). Uno di questi cotali poi ch'ebbe ragionato della sinchisi, con fusione di costruzione nel periodo e dell'anacoluthon, che è quando, lice egli, si pone qualche cosa in aria, e senza filo di costruzione, e intendeva appunto di parlare degli esempi di questo numero, del precedente e di al tri che ragioneremo, riprende fiato e soggiunge : a l)i queste figure non « mancano esempi e nei latini e le lorstri allt l'i, ma non si vogliallo a imitare, essendo anzi errori che mo. Sono | Igure, scrisse il valent'll In « inventate per iscusare i falli, nei quali sono talvolta incorsi per una la « fiacchezza anche i più celebri autori ». –- Cavalca, Boccaccio, Dante, l'e trarca ecc. ecc. ecc., che duraste gli alli e i decellºni in escogitare e ci Ill porre gl'immortali nostri libri, e vi si udiaste di l: rlo più chiaramente e leggiadramente che per voi si potesse, solleci'i, sopra tutto, di dare alla vaga, tersa precisa vostra lingua un tornio ed una forma facile ad un tempo, decorosa ed elegante, siatene pur grati agli acliti a sservatori della posterità che a guardarne noi poco sperti vostri lettori scopersero ne vorstri componimenti i solecisilli, le magagne, gli scerpelloni nei quali voi pure, e quel che più monta, tutti ad un modo, con tutto lo studio e saper vostra, portatevelo pur in pace, talvolta incorreste!....  (247) Alcune volte l'omissione di per vedere, per sapere e simili la luogo molto leggiadramente anche senza la soggiuntiva se. « Ed è lecito º il nrola d'usare queste sorte negli olſi i temporali a cui prima tocchi « la volta: come si fa degli ufficiali della città... ». Pass. cioè per sapere, per stabilire ecc.)  ARTICOLO 24  VENIRE  l)el Vario uso e valore così del verbo venire come di molti altri se n parlerà alla distesa nella III." Parle di questo Direttorio.  Quello che ora piacermi merilovare è una certa forma di dire, bella, brevissima ed evidente in cui il verbo reni e non è quell'ausiliare comu I missili o con le guidasi e lorº la passivº in qualsiasi verbo transitivo-attivo, e che tien luogo dell'ausilia e essere, ma è al arnese mercò cui l'azione transiliva-alliva volge ad altro rispello, prende un ordine, dirò così, in verso e ci fa l'effetto di cosa che dall'oggetto soppravvenga al soggetto o di azione emessa indipendente nelle dal concorso di mente e volontà del soggetto, sì che il sol parli ipio aiutato dal verbo venire semplifica e t duce ad una parola le voci: a crenire ad alcuno lo lui la mente, impensatla mente che.... (286i.  Intendila questa bella maniera nei pochi esempi che ti allego. E' tutta italiana e classica, nè so di altra lingua che ne appresti un'altret tale. Solo coi verbi così del li dei netti dei l alini, parmi di sentire alcun che di somigliante. Ma lasciamo ora questa cosa, che troppo vi sarebbe che dire, ed anche a ragionarlo e discuterne poco o nulla rimonterebbe; e passiamo subito agli esempi.  « ... e venutogli guardato là dove questo Messer sedea e... il renne considerando ». I3occ. e essendo avvenuto ch'egli vide... . « A queste la rete che coi diciale bene e pienamente i desideri ro stri: e guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro: e come delli li arrete elle si parliranno o l'occ. (che per mala ventura non tv venisse di nominare).a Credetlimi, quando presi la penna, dovervi scrivere una convene role lettera : ed egli mi venne scritto presso che un libro ». Bocc. (ma trovo all'incontro di avervi scrillo.« ... spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si restì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano, le venner tolte le brache (li.... m. 130cc.« La prima cosa che venne lor presa per cercare lu la bisaccia ». Bocc.  « ... le quali i bisaccie, son si somiglianti l'una all'altra che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra ». Bocc.« Fornito il suo ragiona e disse a Simone: melliti più dentro mare, e gilla le reti a vedere se nulla ti venisse pigliato ». Ces.« V atti al mare, gilla l'anno, ti verrà pigliato un pesce sbarragli la bocca e ci troverai lal monela che raglia il tributo per due o. Ces. « ... così andando si venne scontrato in quei due suoi compagni ». I30 c.a ... facendovi qua e là nola, quelle bellezze nelle quali ci venisse scontrato ). ( ( S.« Perchè io entrando in ragionamento con lui delle cose di que paesi, per arrentura mi venne ricordato Lelio . Filoc.Fu un giorno al suo Padre lui lo ama ricalo d' un grave sospetto: cioè che cercando la propria coscienza con ogni possibile diligenza, non gli veniva trovato mai nulla che a suo parere, arrivasse a peccato re miale ... gianni mai avvertiva ch'egli sapesse miai trovare... . Ces.« ... gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla conti apposta parte scom)illa dal li a ricello, con lui insieme se n'andò quindi giuso ». (avvenne ch'egli perse per ventura il piè....). Bocc. « ... venne questa cosa sentita al Fontarrigo ». Bocc.« I ll imamente essendo ciascun sollecito venne al giovane veduta una ria da potere alla sua donna occultissimamente andare ». Bocc. a Mira lavoro di tribulazioni e d'affanni che ti dee venir adoperato nell'anima...». Bart, che ti avverà di dovere anche a tuo malgrado ado perare..... (287).  NOte  all'articolo 24  (286). IRecasi, la mercè di un sil fatto costruito, ogni verbo a quella cotal proprietà che è sol privilegio di alcuni, i quali senza mutarne altri menti la voce si trasformiano d'uno in altro es - ºre; e dresi p. es. perdere alcuno irreparabilmente fare che altri rovilli, spari-ra) e perdere, altre si, checchessia (cioè rimanerne privo, sì che il primo d ce azione diretta, il secondo quella che non dal sºggetto all'oggettº, ma oggettivamente in relazione al soggetto intervielle Conf. Natura e essere di alcuni verbi et . IParte II.).  (287)Che tu dei adoperare -offrire) non solo è inen bello e languido, Intl am(:lle inesatto e lìoll V ( l'O). N. ll Vi -(ºlti l'idea della le cessità dell'atto, indipendentemente dal concorso della volontà. : Tra. Dizioni e forme notevoli e il cui retto uso adopera anche alla vita e all'assetto C0Struttivo  Le cose che abbiamo vedute ſin qui sono senza dubbio gran parte di quello oride il costruirre classico è altro dal volgare e moderno. Ma non si starà contento a questo solo, chi desidera istruirsi davvero ed è veramente vago di riformare il suo dire e conformarlo a quello dei clas sici, recarlo cioè a quel candor di coricelli, Vigor di espressioni e tornio di periodo che è sol proprietà della lingua degli antichi.  E però, prima di passare alla Parte il I., la quale somministra ordi natamente il correlazi. I1 e coesione con certi verbi e voci previlegiate un copiosissimo corredo di lingua, e le dizioni più elette dell'italico idioma piaceni mentovare collettivamente alcuni altri capi nei quali il moderno non sempre s'accorda coll'antico º dai quali la costruzione italiana prende talora sapore e leggiadria.  Natura ecl essere vario «li alcu 11 n i vo rl ,i, suscettibili cioè di vario foggiare riflessivo o irriflessivo, coll'affisso o scenza, e capaci di Cloppia ragioi i ce li agire O Cli valore a cloppio orcli 1 ne cº rispetto, tra 1 1sitivo e il n transitivo, attivo e I neutro.  Intendo qui di offrirli, o mio le! I re, partite serie di esempi che i mostrino quasi in azione corle proprietà e passioni di alcuni verbi, negli accompagnamenti che prendono, nei casi che reggono e Irelle lalicelle che in cellano o rigellano 13arloli, e come essi prendano or un essere ed or un allro, e diventino quel che vuol siano chi gli ado pera, puri alliri o puri neutri, o neutri passivi o assoluti. Ho detto negli accompagnamenti che prendono, avuto cioè riguardo al vario ordine dell'azione, non al vario messo o rispello in che sta ogni verbo, e in ogni lingua, col suo corredo; chè non si vogliono qui riprodurre tutte quelle inſi nite categorie, classi, divisioni e suddivisioni che fecero e fanno tuttavia grammatici e linguisti: il lime, del resto, e in Filosofia utilissime, ma non mai a far di leggiadria, sapore ed eleganza. Di que verbi poi, il cui governo, sulla penna e lingua a classici, relativamente al loro oggetti, dipendenza e corredo si discosta come chessia, o è altro che il volgare e comune d'oggidì, ed anche dell'uso e valore vario di molti altri verbi, si dirà alla dislesa nella Parte III., ove, lra l'altre cose, si ragiona in proprio delle convenienze grammaticali e concordanze reciproche.NEUTR [ ASSOLUTI, CIO È VERBI coMUNQUE RECIPROCI o RIFLESSIVI – NEUTRI PASSIVI, ATTI V I PIt() NOMINA LI () TRANSITIVI PASSIVI – A IDOPERATI ASS() LUTAMENTE  Sono alcuni verbi che nelle menti e sulle penne de Imigliori nostri scrittori si trasformano assai voli e dallo esser loro comune e volgare e tornano di attivi prol li il trali, o trailsitivi passivi, neutri assoluti, liberi da ogni affisso o particella.  Piaceni fornirtene un elet o saggio: per lui del rest o, anzi pochissimi al gran numero che potrei allegare. Studiali, intendili e senti il garbo, il sapore, la forza che viene alla frase dall'uso dicevole e giusto di una tal malliera e striltli.  ACCIECARE - « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca, in e tanto che pecca manifestamente e fa faccia, e non si vergogna » Cavalca.  Al)I)Ol.ORARE – « Or lorniamo a Maria Maddalena, ch'era illella ca a Imera e addolorava sopra i suoi peccati ». Cavalca.  Al FONDARE andare a fondo) – « E più galee delle sue affondarono in « Inare con le genti ». Vill.- - v. - - - - - - -  « ....più volte si videro su l'affondare, e poichè non potevano dar volta, « gran che fare ebbero a una litenersi e torcere finchè.... » Bart. AGGHIACCIARE – «Come fa l'uomo che spaventato agghiaccia » I)ante. « Ghiacciò il mare...., fu grande freddura e ghiacciò l'Arno » Vlil. ALZARE - ABBASSARE – « Ma già innalzando il solo, parve a tutti di « ritornare ». Bocc. – Simile al to rise degli inglesi -- il cui causativo to raise).SCInarido al continuo per la ci là tutte le campane delle chiese, infillo che non alzò l'acqua.. .. ». Vill.L'altezza del corso del fiume, che per lo detto ring rgamento era to nuta, abbassò e cesso la piena dell'acqua ». Vill. – Equivalente dl sinkem tedesco e to sink inglese – attivo senken, to sink).« Poichè il sole cornincia abbassare e allentare il caldo.... » Cresc. ANNEGARE - AFFOGARE – e Mescolansi le compagnie con l'acqua ora « a petto e ora a gola; perduto il fondo, sbaraglia i si, annegano » I)a V.« Mal credendo che un legno si lacero potesse esser sicuro, mentre  faceva tant'acqua e le pareva di continui annegare ». I3art.  « Alla guisa che far veggiamo a coloro che per affogare solº quan  « do prendºno alcuna cosa.... » Bocc. APPIGLIARE – e Sugano l'umor del campo, e non lasciano esser nu  « triti i sogni nè debitamente vivere e appigliare ». Cresc. APPRESSARE – « Più e più appressando in ver la sponda Fuggelni er  « ror ». I): lillte.  « Quando il cinquecentesimo anno appressa ». I)ante  APRIRE – « La terra aperse non molto da poi... – qui non ti conto con, e « la terra aperse ». I) il tam.ARRATBBIARE – « ..... per quanto ne arrabbiassero i demoni, mai però  a non ardirono più a valti che ... » Bart. « ...ed all'uscio della casa, la donna che arrabbiava, lato vi delle Ina lli, « il mallClò oltre.... » I20 cc. »« ...nel soddisfare alle loro passi il arrabbiano, sinºni: no, sono infe. « lici ». Cosa riASSALIRE – «Il fante di Rinaldo veggendolo assalire, come cattivo, mi ha « cosa al suo aiuto adoperò » Bocc. (cioè: veggendolo che era assalit , lui essere assalito).ASSII)ER ARE – « ...assiderarono tutta la notte, senza pallini la ascill « garsi, senza fuoco, ignudi, infranti ». I): v.ASSOTIGLIARE - INGROSSARE - - . Il collo digrada va sottile, e nel ven « tre ingrossava, e poi assotigliava, digradando con ragione ſino alla « punta della coda ». Vill. Parla di certa serpe di fuoco apparsa in  aria). ATTENERE – « .... lanciato da banda tutt'o ciò che attiene a costumi ».  Bart. ATTENTARE – « ... desidera ido e nº n attentando a fare imprese e ho  a non fanno, che non attentano di fare gli altri ». Bocc. BISOGNARE –- Questo verbo mi darà ina) eria da ragionare le più ava lli). « Come costoro ebbero udito questo, non bisognò più avanti ». B c. – Il Bartoli guarda come l'ha egli pure identica la stessa frase . I  « Bonzi come riseppero di quel così vituperevole cacciamento, non « bisognò più avanti, perchè si inettessero tutti a rumore ». – E qui dagli ai puristi, ai trecentisti, quando un Bartoli non solo ne parlava con sommo rispetto, ma di loro da vizi e studiosamente si arricchiva.  CALMARE – « .... il vento calmò e un altro 1; e scosse e le dava alla nave « appunto per poppa ». Bal'.  COMPUNGERE – e Forte nel cuor per la pietà compunsi ». Dittain.  (.()NCIARE i maltrattare – E la fa Iligiia di casi vellendo costoro cosi  a conciare, corsero a (iesti cori gri a n pianto, e sl gli si inginº celli:ì rono « a piedi, e dissero: Signore, la Maddalena e caduta in terra e pare « limorta e... ». Cavalca.Il Puoti nota che li el vocabolario noi e registrato questo verbo in forma neutra, come ve lº si qui adoperato,  CONFONDERE – « .... onde se si messo nel pianto confondo, maraviglia non « è ». Dittam.  CONTIA ISTARE - Allora, vedendola la badessa e si contristare, disse « a lei : or che t'è addivenuto, figliu la mia Fufragia, perchè così a crudelinelli e piangi e contristi ? » ( avalca.  CONVERTIRE - Si prop, sero di convertire alla fede di Cristo ». Vill.  DEGNARE - «... nè v'è uomo, benchè povero, che degni far servizio della « sua persona ». Bari. Simile al daigner dei francesi).  I )EI,IZIARIE a .... e se talvolta le llloghi a mare trovava llo ad avere « un uovo di testuggini e alcun poco di pesce allora deliziavano ». Bari.  IDILETTA IXE - Vergognisi chi le reglia in virtude e diletta in lus « suria ». Nov. Ant.  DIMAGRARE - INGRASSARE - I primi quindici di dimagrano e negli a altri quindici di ingrassano ». Cresc. a Ingrassando e arricchendo indebitamente.... ». Vill.  I) ISFARE a E di vero inali ſul lis fatta nè disfarà in eterno, se non al di « del giudizio ». Vill.  DOLERE – . E cortamente di lui tanto dolsi quanto donna del far di « buon marito ». I)itta in« La speranza del perdono si è data a chi la vuole. E colui l'ha per a mio dono, Che del suo per rat, duole ». Jac. Tod.  ESALTARE – « Della detta pugna esaltò si esaltò il capitano di Mela a no, e il re Giovanni abbassò . Vill.a IDC lla sopra detta vittoria la città di Firenze esaltò molto ». Vill.  FENDERE - Vnche se ne fanno convenevolmente taglieri, e bossoli, « i quali radissime volte fendono ». Cresc.GLORIARE - – ... pensomi che l'ºmºnima sua fosse tratta a quella beata  a contemplazione di vedere Gesù, Figliuolo, suo carissimo, così gio a riare, attorniato dagli angeli suoi, i quali così volentieri gli face « vano festa con somma letizia ». Cav. Traduci: colmo, circondato di gloria).IMPICCARE - – Di questo verbo, otlre a molti altri di egual forma enatura, si è il senso passivo assoluto (non per riflessione si ggettiva cioè, ma d'altronde) di cui è capace, e senz'altrimenti variarla – simile al vapulo dei latini – la forma attiva. Pare però che solo l'infinito di tali verbi abbia il privilegio di ricevere un cotal senso passivo.« Fu condannato ad impiccare ». Vill. I cioè ad essere impiccato). « La battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e 'l figliuolo messovisi a  « piè per impiccare ». Vill. – Conf. più avanti sbranare. INCHINARE (far riverenza a... } – « E voleseIni al Maestro, o quei mi fe  a segno Ch' io stessi cheto ed inchinassi ad esso ». Dante. INEBRIARE – « I)ando loro lle celli) a beccare, Sillbito inebriano e lloll  « possono volare ». Cresc. « Egli giuocava ed oltre a ciò inebriava alcuna volta ». Bocc. INERPICARE – « All'alba scassano i fossi, riempiendoli di fascine, inerpi « Cano Sll lo steccato.... » I)a VINFERMARE (anmmalare) – a.... E da questo discorse un uso che niuna « donna infermando, non curava d'avere a suoi servigi un uomo..... Ol Che.... » BOCC'.« Egli è alcuna persona, la quale ha in casa un suo servo, il quale inferma gravemente.... ». BOCc. « Avvenne che per soverchio di noia infermò . Bocc. « Avvenne che il detto Patriarca ammalò a Imorte ». Vill. « infermare, ammalare a morte ». Bocc. Vill. Caval ecc. « La povera donna cadde tramortita e ammalò gravemente ». Gozzi. INFINGARIDIRE – « Non badavano n.ITe faccende pubbliche, e insegna « vano a cavalieri Romani infingardire ». I)av. (Conf. Pigrizia Pron tuario).INFRACIDARE – « Infracidinsi l'ossa di quella persona che fa cose de « gne di confusione e di vergogna. Lo infradicidare dell'ossa signifl « Ca..... ». Passa V.« Il nutrimento dei frutti infracida leggermente, perocchè la natura « non l'ordinò, nè produsse ad altro fine, se non accio hè infracidas « se ». Cresc.INNAMORARE – « Concede alle anime che di lei innamorano agevolezza « di Volare in cielo ». Fioretti.  INVII,IRE - RINVELIRE – « Ma poichè si vide ferito invili sì forte... ». Part.« ....la quale (merce) allora appunto rinvili che egli non la voler ». Rart. « Il ladro surpreso nel fallo invilisce ». Vill. LAMENTARE – « Una donna in pianto scapigliata e scinta o forte ia « mentando.... ». NOV. Ant. e Giusto duol certo a lamentar mi mena ». Potrarca. LAVARE – « ... prestamonto lo menai a lavare ». Firenz. LEVARE – « Io sono costumato di levare a provedere le stelle ». Nov. aInt.  « Ma vedendolo furioso levare per batter e glie... » BC ( c.  º llll'altra volta la ino  MARAVIGLIARE – L'anime... maravigliando doventare sinorte ». Dante.  « Con tutto il maravigliare n'eran lietissimi Mll I,TI l?ILIC.ARE – « Mla cldo e l'a llie lìte :  « adosso in aggiore », lºore.  « I)ebb no alunque studiare i padri come  ». Fia Ill.  multiplichi  e con clue Iniestier ed uso s'allmeriti, e divenga fortunata  ſilli.  - . . . . . que rime 1tlti i cresce a io e moltip  Il lonte ». I)av. l'ENTIIAE – « SI cl, e pentendo e per lollando  l)allte.  « Assolver non si può li noli si sieme puossi ». l)ante. « (.lli (li trolls PROVARE -- La Marza car, vellla cert: quali a Inosca dello Iara ca l'ovello dl lilll'allle o lo Provan benissimo alla ril nei luoglli caldi Prontuario . I? AFFIXEI)I).ARE IN IS(..VI.l) \ I RIE ( tale a lui  a contro il Sallesi ». V Ill.  al s'affr, tti si s old fa di pentire ».  la calca gli multiplicava ognora  a ſalniglia, ! ». lPall.lol  licheranno llaraviglio -:1  fo, l'a ll vita  Ne pentire e  llSciIlllllo ».  V ,iere iil  l'laln.  la ll pero in sul nero  e - apore  ». l):) V. (. . ll  noso aleli f. Pianta -  a è quasi sempre d ' e a ed e leggieri a pesarla, e tosto raffredda e io sto riscalda . Cresc. « I Fiorentini si tennero forte gravati, e il riscaldarono nell'i gue: ra  IRIIP AI : AIRE L'inglese to repaire ( on I. lo stesso verbo, IParte Il I . « Nella quale Fiesole º gran parte riparavano dei suoi seguaci ». Amet. « Come vide correre al pozzo, corsi ricoverò in casa e sorrossi dentro ».  I30 ('.  « .... tutta la lla V e dis armi: i ta dalle opere in m te, mal  nu:i:a  e dalla tempesta, e.. aver bisogno di ricoverare a Mºnla ca e Iulvi  a sverl):n l'e ». 13:art.  ROVINARE - Piuttosto vuoi rovinar colla caparbietà tua, che esaltati a col buon consiglio di chi li vuol bene ». l 'ieronz.  a Mentre che io rovinava e li è col reva precipitosamente a fiacca collo)  o in basso loco, Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo si  a lenzio parea fioco ». Dallite.  a L'altissima scimmia del tempio di S. lteparata ſu da un fulmino , il  a tanta furia percossa, le gran parte di quel  M:I ( Ini:n volli.  e Rovinò g il mister, mente da un lalzo della montagna ».  a l'asst, l' illla volta sull traileo che Il tº t. (A') fatto ». Segn.  pilona lo  rovino ).  l3,) i t.  rovinare... non è gradi  a lºietro aveva gia preso la china giù rovinando... se non che... »  Cesari. e Clio non rovini , lli vi i l i lil: r. :i bali: l'i slli trabocchetti, i 'l:º  a sopra saldisini p.I vini : i I, lov Ilie troverete ? . Segn.  SALI) AIRE - It.A MI Al AIR(i IN AIRI. I rite g randi non è mal trovato - e a saldino in ventiquattr'ore e che perfettamente rammarginino ». Red.  SBANI)ARE -- .... le ( -a coiiil ritte isselli iti, perchè al grido a del st ) Ve li sbandarono , l . . .  SI3I(r()TTI I º I. – La li ill:1 - 1/: pll'1 o sbigottire, con voce assai piace vele rie, ose.... » I3oce.  SRR.AN ARF - Illvii “i i sll Ille. la do iº la annata di lui ad un  e desinare, l: qual , v. d. ll -t: IIIedesima giovane sbranare ». B.)cc. Aggiungi i modi : mandare o menare chicchessia ad annegare, a uc cidere, e simili, ci e ad essere annegato, ucciso Indi a quattro dl, col ta:nto -piarne, scope, ta, fu mandata uccidere , I3a t. ccc., cliº li  son frequentissimi in tutti i lor li bilogia il guai del trecento e cinque ei to; e li segi :iti a bella cosa a vedere: dura a sof frire; – « Case vaghissime a vedere, comodissime ad abitare ». 3:1 rt. Demonia crribili a vedere ). V |!! - V si lt l'1, l'ille, elle mi racolo furono a riguardare ». I3 ... solº i maravigliose e pau rose a riguardare ». Vili. ... l: Il l: -:1 e l'il 1:1 i lt , il N' -  a stagio gravosa a comportare, che per lo loro piu' volte gli venne dosi dºri di ll 1 le; - l . I3 , . . . . . . . . Forl II ( ll dire che abbia Illo cºntinua in mt boscº 1, scrivi il 13 arioli, IIIa Il li sempre si agevoli e piare a intendere che i 1: pia in di . . . .i e, v. altri si av veng: i il : l II; 1 - il 1 l ' I - I riti l' ignII llo. I ' ' ncere poi di troppo ilt! - In ant III:I: 1 re, che amp ma , o creda po tersi mai trovare un verbo :itti, o chi in qui, sta o simile gui-, non siasi talora uscito a riche in significazione assolut: niente passiva. E s che i rutissimili (.ss e v. 11 ri . di lirl II i qual . In Forli' ciarl, .le .::i: dimi ed altri la intendono e - i ga: o l Iversalme , sarei tº itato il rigil:i ril: i re corri ti 'i : 1:1, li i leli iti :itti vi si getti : l II l de' verbi: fare, lasciare, vedere, udire. Ho veduto, udito, lasciato... a mare liare, biasimare... Tizio a Sempronio - rubare, prendere, por tare, lavorare e il na cosa a chicchessia o checchessia.Mlal, l . Io: Ilo il cli: no i lil I la 'ti i lil Il di al front i rili e Inl Itt e il :ì il tro: i :l ll 1 : i : li si . I l it ,Vli sia però lecito di osservare le villa di irolti esempi in cui il soggetto i porant e il preposizione a ion piò cssere l'i cells itivo a rentrº dei lati; li, e li : : lì il ve li vi ttiva, a tri menti che - orcendo e guar 1:1 dollo la sintassi: e bast, per tutti il - guente del Boern cio : Va -- e l og: 1o di suoi a Chiassi, qui ivi a vede cacciare i d uli i Vallicº: il nº . io va ti ucciderla e divorarla a da due cani ». Si di: • i :) I cacciare, 'l'uccidere e divorare che l'l1:ì. Il no di mi li ssi: -si V . , ( belle sta, il lil:) di scorretto: velt e-ser i: i ti li lì i rivali, il lill cavalli ºre ed eserla cioè: e la stessa essere ) u ( Isa e divorata da due cani. Qual'1 do invece s'oncordanza sarebbe e sconnessione troppo rincrescevole e male ancora si atterrebbero le parti al loro tutto, se si volesse riguar (lare il cacciare quale verbo di significazione, noi Imeno che di fur ma, attivo, il cui soggetto, cioe', cavalliere accusativo agente, ed og gettº , una giovane. Ed oltra ciò si ponga mente a quel che segue, che e appunto il suallegato esempio: Illvita i suoi parenti ecc. , Qiii è omessa o sottintesa la ra tisa dell'aziº alle o l a o da, e però lo sbranare di senso non altro che assoluto passivo. Ma e non e egli forse quel medesimo cacciare, uccidere e divorare del periodo precedente?  SI) IRI 'CIRE - « Esse Ildo essi li oli gular sopra Majolica, sentirono la nave a sdrucire » I30 ('.  SERIRARE rinchiudere ecc. , Olm! che dolore ti venne quando tu il vede sti serrare là dentro, fra le mani dei lupi rapaci, che desideravano di velldicarsi di lui ». Caval.E pensonni che questo ti fosse si gravide il dolore di vederlo così rinchiudere e con lui non potere essere alcuno di voi, che quello del la morte non fu maggiore. » Caval.Allora una delle suore, la quale vide visibilmiente gittare lnel poz  u  (  e zo, gridando forte.... » Cava! Tra due l: essere gittata (lal dellº - lli , nel pozzº ). SM V I, I'IRE - - « (..il iarolo a smaltire ». Cres .  STANCARE a E avvenendomi così piu volte, e io pure volendº mi me - a tere per entrare, stancai, sicchè io rimasi tutta rotta del corpo... ». Ca.Val.STRANGOLARE - Aveva ad un'ora di se stesso paura o della giovane, « la quale gli pare, vedere o da orso o da lupo strangolare. » Boce. TEI)IARE - Alquanti cominciarono a tediare e a dire.... » Fier. TIRARIRE i tirare) -- . E come a messagger che porta uliv . Tragge la gente « per udir novelle, E di calcar nessun si mostra schivo... » Dante. a () ( corso lor l'asilmondo, il quale con un gran last me in mano al « rumor traeva. » I30 ('C'.º . . . . . il topo che nelle sue branche era stato, riconosciuta la voce del « leone, trasse al suo rumore, e ricordandosi di tanta grazia ....» Voi gar. di Esopo. a Maravigliando pur trassi a lei. » I)ittani. « Vide ontrare un topo per la fenestrella, che trasse all'odore. » Nov. V nt.« E la fama di questa opera di santa Marta s'incominciò a spandore e per tutte le contrade d'intorno, e per tutta la Giudea di questo modo a ch'ella teneva, sicchè tutti gl'infermi e poveri traevano a Betania, « e chi non poteva venire si faceva recare, e vi si riducevano come a « un porto. » Cavalca.  e Un piovºnº i grillorando a scacchi, vincendo il compagno, suona a a martello per mostrare a chi trae come ha dato scaccontato, o quan ti do gli ºrde la casa i lillllo Vi trae. » Sacchi,« ... tutto quasi ad un fine tiravano assai crudele. » Bocc.  – Nota la questa frase: tirare ad un fine, per aver la mira ecc. Anche del vento del mare ecc. di cesi che tira, v. gr. violentissimamente a ll e beccio ». I3a 1 t.Per nº lì tornare a 1', dire le stesse cose, vi piaccia qui di por mente ad altre II1:ì il lere che si ill bllo: le e dell'ils . Tirare da uno e cioè sol Ili gliarlo); tirar via un lavoro, tirar giù un lavoro cioè non badare che a finirlo in fretta, anche st; pazza idol ; tirar giù di una persona (dirne male se, za Ibla discrezione al III ndo ,: tirare al peggiore: a Egli 1tlti io che ſi evin (i i lil I::lco tirava al peggiore ». Da V.; ecc.  « Ari ippò l'insegna e trasse : : - la il I grida 'I l ... » I)av. “ . . . . . . e scorrendo per le vie s'intoppano negli alimbasciatori, che udito « il l ril 1g ( 111 di (i e II, 1 lli , a llll traevano, e svillaneggianli...» I)a V « .... la vaghezza di ricolº oscere i gran personaggi, sicche in calca la « gelite - ll al trarre il vederli. , ( es. l ri. TI IRB.ARE – . Il cielo e lill!) io :i turbare. » Nov All. VERGOGNARE - SVERGOGNA IRE .... a qual cosa -oste no, per lui, li a sia il lo, temendo e vergognado ». 13ocr'.« Allor: il crav: lo tilt , svergrgnò ». I v. Esoi). Conf. Disonorare, svergognare – Prontuario).  V( )I,(iERE - V ( ) I, I AI? E . ()r volge, sign( l' In 1 , l'ill decimo allllo, Ch'io a fili sommessº, al di-.  go ». I'et: Noto e 'n ulso anche og  gi(lì, ma chi pensa e vi sento Ina i 'a fol'Irla assoluta ?) a Noril lan'lo III oltr a voiger pr . In queste ruote. , I)ante. « Il tifone voltò e preso altra via, la burrasca subito rallentò...» I3:art  SERI E I | I.  VERBI RIFILESSI VI o con L'AFFisso, AvveC NAcri è superfluo, o NoN NE CESSARIO ALL'INTEGRITA DEL SENSO,  L' posto di quello le si è vedi o lestè. Egli è un colal vezzo de gli scrittori, oggi rarissimo e per pc o smesso, render reciproci alcuni verli : he (li la III l'a ll l solo.  I 'alliss , mi li, ci, si. : Il paglia verbo si rive il Ft il naciari , a come forse meglio lirebbesi, riflessivo, ha virli al l'a di concenl ' ::: l'azione nel si ggello, quasi come quella sperie di cerbo medio greco che i grai lilli alici dicono sul biellivo .  Nella Serie IV seguente ragioni: Isi di alcuni verbi, il cui soggellº non è agente, ma causa dell'azione d'allronde. E come altretta i mi parer ble da riguardare i pronominali di questa serie: pensarsi, sedersi. cominciarsi, entrarsi, morirsi, ecc. ecc. volendosi esprimere azione che il soggetto non solo fa, ma si fa fare: e però, per esempio, mi penso, voler dire: faccio me o a me pensare, o faccio sì che io penso: mi vede, chec chessia, mi entro, mi comincio, mi muoio V. g. di cordoglio, di crepa cuore, ecc. ecc., significare: faccio mie vedere, entrare, cominciare, morire. e, che è lo stesso, faccio si che io vegg , entro ecc. E quanti più altri co. strutti e modi, che misteri della lingua si appellano, ci verrebbero piani e ne sentiremino la ragione intrinseca e logica, l'original candore, se l' genio studiassimo e l'indole della lingua, la natura cioè dei verbi, l'ordine dell'azione, il vero, non storto valore delle frasi ecc.! Sturdiali i seguenti  esempi, e saprai come e con quanta grazia.  V V EIASI Sapete ormai che a far vi avete se la sua vita vi è cara.» lo c. AVVIS ARSI – . .... la qual cosa veggendo, troppº s'avvisarono ciò che  « era e ..... » IBO ( ('. e perchè... s'avvisò troppo bene con lo dovesse fare a... » Boer, « Ma io vi ricordo che ella e piu malagevole cosa a fare che voi per avvelt Ilvo lli v'avvisate. » l Bo .CAMPARSI - - « Appena si campano le dºnne con gli occhi adosso; che a farebbero sdlmenti a te gli anni e quasi rimandate?» I)av.  ( ()NTINI AI? SI e ... liguarda ll do Emilia sembianti le fe”, che a grado li fossitº, che essa i coloro che detto a Veano, dicendo si continuasse». I3 cc. I) I BITARSI - « e saravvi, mi dubito, condannato in perpetuo. » Caro. EN'ITIRA IRSI «E grillingtºndo alla terra, in vendo l'entrata, senza uccision a vi S'entrarono o. Vill. a Ruperto vi s'entrò dentro. » Vill. l'SSERSI - « ... e messosi la via tra piedi non ristette, si fu a casa di «lei ed entrato disse.... » B i .Sempiterne si son le mºzzate, le ferite, i vermi crudi, le stati ran. « golose ecc. ) I):) Vanz.“ In ogni parte dov le noi ci siamo, con eguali leggi siamo dalla a lla tll ril trattati. » Boi ('.“ Io mi sono stato, da echè..., il più del tempo a Frascati. » Caro. l'AIRSI - e Che monta a te quello che i grandissimi re si facciamo?» Boce. “ Divano º sta di non tener più conto di lui che si facessero cogli nl « tiri. » (esari.MORIRSI – « Finalmente, dopo due anni, fra le lupo si mori di vecchiaia».  Fioretti. « ... e così morendosi in poco d'ora, mostrò quanto ciascun uomo sia « mal Infol InatO.....» SCglì.  NEGARSI – « E' il vero che l'amore, il quale io vi porto, è di tanti forzi « che io non so come io mi vi nieghi cosa. Tra luci: che io faccia al lile, « induca me a negare a voi cosa ecc. , che voi vogliate che io faccia º  BOCC. PARTIRSI (v. Dividere – IProntuario, – ... dell'isola non si parti ». I3ocr'. PENSARSI – (Conf. Pensare - IParte III,. – SoInigliantissimo il sich  denken dei tedeschi. – Pensarsi è una specie di pensiero, una fol'Inil  d'induzione, d'imaginazi lie, d'invenzi Ile. Nel pensarsi e sovellle ll il iImaginamento o supposizione non tutta conforme al vero; nel cre dersi è il silnile, Ina Ilon talnto. -- Solº parole del Tollll I laseo. Le Spa - lo per quel che valgono. Io dico che pensare viale formar giudizi, e pen sarsi, un imaginarsi pensando, un farsi o formarsi pellsieri relativa IIlente a checchessia.« Quale la vita loro in cattività si fosse ciascun sel può pensare ». BOCC.« La sera ripensandosi di quello che egli aveva fatto il dì... ». Fioretti « ...mi disse Parole per le quali io mi pensai Che qual Voi siete tal « gente venisse ». I)ante.“ . . . . . sappiellolo che nella casa, la quale era allato alla slla, a Veva « alcun giovane e bello e piacevole, si pensò (Traduci: si fece, si recò a pellsare, escºgitare) Se per lugio alcuno fosse nel Inllro...». Bocc. º . . . . . . e si pensò il buon uomo che ora era tempo d'andare .... ». Bocc. SPERARSI –- «... e sperandosi che di giorno in giorno tra il figliuolo e 'l « padre dovesse esser pace.... ». Bocc.USCIRSI – « ....io vi voglio mostrar la via per la quale voi possiate « uscirvi di prigione ». Fier.« S'usci di casa costei e venne dove usavano gli altri Inerendaliti ».  TBocc. SERIE IV. VERBI CAUSATIVI, cioè INTRANSITIVI o NEUTRI – siA si MPLICI, si A PASSIVI – I&I,CATI AID USO E FORZA TRANSITIVA.  Alcuni grammatici non la guardano tanto da presso e mettono in fascio liransitivi e intransitici, o transitivi di fallo e di apparenza soltanto, dando nome di attivi transitivi o di azione transitiva (imperfetta, come dicono essi) a certi verbi di lor natura neutri e però sempre intransitivaper Iliesto sol che loro risponde nell'oggetto in cui, per cui, su cui, od a ºi º è o si riferisce l'azione, non un caso obliquo, come vorrebbe il natura messo o rispello, ma, per certo lui il vezzo di lingua o tornio di frase, l'accusativo o caso rel.. - ll che avviene, vi i per elissi di I lº svela is o preposizione espri mente "in dell'azione, rispetto aila i stanza o termine cui si ri "sº, lº sºnº : . io h Fei io se stesso, e la sua donna comini  c'Io ct piange e . I 3 º li, o solº a se stesso...: .... cominciò º ſi correre il regno saccheggiando I; I. io è il dire pel regno:  (  Ma pure ingendo di non aver posto mente alle sue parole passeggiò º due o tre volte il giardino, sempre ril, inava (iozzi: « venivano il giorno cerli pescatori al lago di Ghiandaia per pescarlo ». Fier., º Tristo chi vi per cui rimando aliora le solita te libiche pianure ' . Stroc  chi; e ci si dicesi : nº l'11tri il liti in se', nel I e le scale, il monte, ecc.: rotſionati e discorre e un jail! ; liti ti un pº' irolo: andai e una riu. – ... la via che ad andare abbiamo . I ce. passati e il fiume: passare ll no con il coltello dare ad una donna in uno stocco per inezze il pelo e passarla dall'altra parte I, centi si, desinarsi qualche ºsº, ecc. ecc. , vuoi per rili li erla p i licelli, preposizione, o altro aderente al verbo con piani e ai per - con i re un paese: obe dire - ob - audire il padre, la madr : riandare un lavoro, la vita ecc. – (ili cominciò a spiana e quella grand'ella, qual gli pareva che fosse riandare l'ulta da capo la sua vita . I; il I. , n. ll per reva azione di  rella che dal soggello agente Irapassi all'oggetto paziente. Ma lo è di verbi si illi e li vuolsi o li ragionare. Nella Serie II. allegai ai verbi al liri-pi o nominali che sulla penna a classici ci si pre sellli II l ' il lillili il neutri se in plici, la cui azione, cioè transitiva e ri Ilessi sul soggello li a emoli si rel: il lasitiva, non più emessa. lira il rimanente e inerente al soggello. Qui invece mi pongo alcuni altri neitli i di lor nallira. In alli al sl 1 il lei e altresì il cagionars, altronde della rispelliva azi si rie, si gg i è riori : hi la fa, ma a chi la la lare. Nolissimo, a cagi li d'esempio, il doppio uso del verbo Non ci re. l)i esi: la campana, l'isl 1 lu meri lo suona, lila allresì e bene: io suono, ed anche: io suono la campana, il cembalo ecc. Il primo è neutro in Iran silivo: l'azione del sil riare, ni: ridar lu ri suono, aderente al seg. gello, del sogg l sogge! I ci: il si rondo e il lerzo invece non è verbo che dica azione chi si s Io, il cli: i ar . vale: io laccio sonare io faccio sì che un isl 1 Imen lo renda silon Vl tried sino modo spiegasi il III zionare al livo dei verbi qui soll shie ali: e il di p. es. cessare chec  chessia torna a questo : fare che una cosa essi, linisca.  (*) I, a lingua tedesca è ricca pi assai che l' Italiana, francese ed inglese di tal maniera neutri intransitivi. Lasciando stare il gran vantaggio che ha di collegare a nodo di una sol voce qualsivoglia verbo con la rispettiva dipendente preposizione sia dell'oggetto diretto che indiretto o complemento, gran numero di verbi neutri (che, spogli di ogni affisso, reggono un caso obbliquo, o l'accusatlvo con preposizione, e però d'ordine e rispetto indiretto relativamente al loro corredo) trasforma ad altro rispetto e indole quasi transitiva attiva, premettendo ed affigen dovi la particella be, Es : den Rath be folgen (den Rath folgen): dem Herrn bedienen (dem IIerrn dienen ; einen Freund beschenken ; don Feind bedrohen ; Etwas bezweifeln Etwas be sorgen; Jemand behelfen, beweisen, befallen, belasten ecc. ecc.Si che di alcuni anche il Vocabolario ne riconosce l'uso attivo, ma li pºne accanto tal altro verbo che risponde bensì al senso della cosa, ini non n è l'equivalente letterale e non ſi mostra come il suo valor ma lui l'ale, l'azione neutra resta lullaria, avveglia che dipendente e soggetta a chi la ſa fare. Dice p. es. che cessare, attivo, vale rimuovere, sospendere, sºlirſtrº ecc. e ne convengo quanto al senso, ma non quanto alla ra. gione intrinseca e letterale della parola, secondo la quale il cessare non è propriamente azion transitiva del soggetto che cessa, v. gr. un pericolo come sarebbe il dirsi rimuovere un pericolo ecc., ma egli è sempre azion leutra della cosa che cessa. Si è il pericolo che cessa, e il cessarlo non è, a rigor di frase, un rimuover! , che si Iacria, ma vale far sì che il pericolo, comunque non abbia più luogo. Il qual modo far fare, onde spiegasi la forza transitiva di cui è capace il verbo neutro, vuolsi applicato a qua lunque altro che comechessia il comporti.  NI3. – Si fa qui menzione di quei verbi soltanto il cui uso alliro - causaliro – il V Vegnachè ordinariamente assoluti o costruiti neutral mente – è virtù, è particolarità antica e classica. Di allri molli, dei quali una tal proprietà è tuttavia comune di generalmente nola, non accade or cuparcene. Nostro compito è richiamare a vita le smarrite o poco nole hellezze, proprietà, virtù e dovizie dell'avilo, italico idioma.  (*) Di tal fatta verbi è ricchissima fra tutte l'altre viventi) la lingua inglese. E per menzionartene alcuni eccoti : to fall (cadere e far cadere, to drop (cader giù, gocciolare e far cadere o gocciolare, to drink (ubriacarsi e far......), to fly (volare e far.....), to sink (calare, andar giù e far.....), to wave (ondeggiare e far.....), to fire, to well, to play, to please ecc. –. Nella lingua tedesca, invece, si è mercè di una piccola alterazione che il verbo di neutro si rende nel modo esposto attivo : Steigen (ascendere), steigern (far ascendere) ; folgen-folgern; nahen - nahern (e anche nahen cucire); sinken - se nicen ; trinken – tranken , dringen - drāngen; schwanken - schwänken ; erharten - erhärten ; erkranken - krānken; fallen - fallen , stiche In - stechen ; schwimmen - schwemmen ; springen - sprengen ; wiegen - wagen ; einschlafen - einschläfern ; liegen - legen ; sitzen - setzen ; stehen - stellen ; rauchen - rauchern ; abprallen - ab prelien ; fliessen - flössen ; schwallen - schwelten , lauten - làuten ; (es lautet so...., es wird geleutet) ecc. ecc.  Io non so di niun grammatico o filologo il quale parlasse mai od accennasse a coteste verbali analogie, rispetti e relazioni etimologiche. E quanti, a cagion d'esempio – non esclusi Ollendorf, Filippi e Fornaciarl –, s'ingegnano per molte altre vie e a tutto lor potere, e per dichiarazioni e per esempi, di mostrare e far capace il lor discepolo dell'uso e valore, l'un dal l'altro assai diverso, di clascuno dei surri feriti verbi stellen, setzen, legen, quando una parola soltanto basterebbe e farebbe più assai; dicendo cloè che ll son verbi causitivi : stellen di stehen, setzen di sitzen, e legen di liegen.  S'io lavorassi o dettassi comunque una grammatica, distinguerei quattro gran classi di verbi :  I.a – Attivi transitivi – lo anno. L'azione transitiva è mia. II.a – . Attivi causativi. – lo guariseo alcuno, io risano, io suono, io cesso  ecc. – Mio l'atto causativo, ma non gli l'azione stessa del guarire ecc.  III.a – Meutri relativi. – Io corro (una via), io piango (alcuno) ecc. (Conf Il ragionato testè).IV.a – Meutri assoluti. – io vivo, io dormo, ecc. Il dire: vivere una vita.  tranquilla, dormire un sonno dolce, placido ecc. non toglie al vivere, al dormire la sua forza neutra assoluta, ma é sol modo elegante che torna nè più nè meno all'altro: vivere, dor mire placidamente, e pºrò altro non è l' accusativo che un verbale o simile spiegativo dell'a zione o qualità del soggetto, non già vero accusativo od oggetto paziente. “ Dormito hai, bella donna, un breve sonno. , Petrarca.CESSARE – « ...da troppo più erano in lorze, ma il Saverio ne cessò ogni pericolo ». Bari.« ...e cominciò a sperare - e nza sia per clie, ed al quallo a cessare il desiderio (lell: l III olt . l 3o t .Così a dilnque, l la sua pr inta e si riazzevol risposta, Chichibio  cessò la mala ventura e la il 1 ossi col sito - . . . ». Bove. E se pure i liti e li rig . Vi volesse soprarſi lº  cessatelo con pazienza e sopp rti / i 'le. .. .. l'a ll dollini. Eglino si l vera lo sotto i rii il l i s'1-s . . . . . .it , livºr cessare  la neve e la notte e le sov l instil V a . l ore 11 i. Cristo pregò il lº; i dr . lle cessasse il calice le! l -- i il di lui ».  (  la Val. e l'el terna li slla voli e, lil cessossi e la lº tissi da FI l elize ». V ll I.: s cessarsi di q. c. 1 - lei tºls e, rilla nerselle. ( :) | Astenersi lº l'a lt 1 l:ì i l . La terra fu cessata dai livelli lº stilt la c. l .  « l'el cessare i pesi d llllo si, it : i cl l - e gli stessi , con la Illiato ».  ( es: ali. « Per cessare ogni vista di tiri, la gran le zza s. Cesari. CONVENIRE. - indi convenuto, le ini, e il dizi: io, che è participio non  del neutro, ma del call sativo ccn venire, e si n 1 l I a chi è fatto con venire o gli fu intimato di convenire« Questa (l'anima , dinanzi da sè, il Clti i lu lu parte del mondo, può a convenire chi le aggrada » (iitll .a Chi conviene altrui il giustizia di pi st Ilnolli ». (iiulo. « I)ilmalizi a gillsto gill di 1 , i : i - o sia le convenuto ». Bo c. cioè siate stato chi: Irlat , ( 1:111 o vi è lll' '.CIRESCERE - « Questo luovo tono di vita, crebbe in lui lo studio della Virtuſ ». Cesari.E indi a poche linee torna a in ora la stessa frase : . Questa piena de « di alzi alle crebbe il lui lo stll dio della Virt il il segno... ». « E crebbono assai l: l 'ilt: i (li tºis: l ... V Ill.E questo pellsiero la illlia Ino a va sì forte di l io: che lì lì si potrebbe a dire, e ricrescevale l'odio di sè e della sulla vita passata, che con grande empito si sarebbe morta s'ella avesse ci eduto che piacesse più a I)io». Ca Valca. Il testo li rincrescevale, ma niuno degli intelli gellti dubitò mai ch'egli sia altrº tale che ricrescevale, il quale sta qui non in significato neutro, come nota qualche espositore, ma cau  sativo retto da pensiero, il quale non solo la innamorava ecc. ma adoperava ad accrescere vie più l'odio di sè e c. Noterai qui anche l'altro causativo: si sarebbe morta. E chi dubitarne se da quel che segue chiaro, a parisce che per lei sola si rimase che d'odio non morì ? DERIVARE. - « .... cºme il giardino con fare il solco deriva l'acqua alle piante, così.... ». Segn.« ....che può e deve per sè, senza ch'io e litri in queste vane dispute, « derivare (il folgern dei tedeschi) a tutti questi capi infiniti ed effica cissimi con forti ». Caro.FALLIRE – « Ma il barbaro amore questa promessa falli ». Rart. « Guarda in che li fidi ! Risposi: nel Signor che mai fallito Non ha « promessa a clli si fida in llli ». IPetr.« Onori avevano grandissimi e sfolgorantissimi; come altresì fallendo il loro voto, erano seppellite vive ». Cesari.Nola qui le frasi: fallire il colpo, alli, e la ria. Fallire neutro, vale : li tallº all'e, V Cnil lilello - le lire e - V el sagi li ''I raro, commellere fallo,  andare a vuolo - si leiler n : - la debolezza vostra per conto della « carlie è maggiore che non crediale, ed a passi folli la lena vi fallirà o. Cesari. – « Sentendosi il marchese agli sll'eli e pallendogli tutti i pal a lili da scioglierne... . . ( es. \ i rolli: il falli la speranza ». I liv. Ml. (Conſ. Dilello ecc. Pi ritira iFINIRE –– a Per cessare il pericolo o finir la vergogna dell'essere sl Iriale sullla bºcca dei suoi 1 ratelli.... ». Bart.  « Chiedeva lo riposo per interce e di non morire in quelle fatiche, a Ina finire, con il pi di viver , si duro soldo o l)av.« Finite i peccati.... Io vi prega v. 1 che finiste le oscenità dei teatri ». Ceskani.« III camera dell'ill fºr III o, (Ill: Indo peggiori, gli albarelli e le alilpolle « Inoltiplicano e l'apuzzano e lui aggravano e finiscono». l)av. – IPoni niente triplice rispe:to o ti e differenti maniere del verbo finire: a) - a ... di sollecitarlo non finiva glanina i p. Bocc. – Finire di vivere O finire Selz'altro: a Mall vive il do 11 ll IIi erit:i Ilo di bell finire ). Passa V. b) - « Un lavoro di grande artista dagli altri si giudica terminato « quand'egli illon l'ha all ra finito a suo inodo ». Grassi,c) - Finire la vergogna, finire le oscenità, finire un infermo, come sopra. –- Nel primo modo è neutro, 11el secondo attivo tra lisitivo, nel terzo attivo ('allSativo.FUGGIRE – (Conf. Fuggire - Parte III. Chi avea cose rare o mercanzie « le fuggia in chiese e in luoghi religiosi si ll ' ». Vill.  MANCARE - « Questa asprezza delle grida era Imaggiore che dell'arme « per attrarre l'aiuto a quella parte di quei dentro, e mancarlo ov'era e l'agguato ». Vill.« Nè a lui basta l'avermi mancato la sua difensione e l'osserni il v - a cato, ch'egli rsi ride della Inia rovina ». Fiorenz« Mancare ad alcuno il proprio soccorso ». (iillb. A on f. ll - i vari di questo verbo - Parte III .  MONTAIRE a ..... e così in poco d'ora si mutò la falla co fortuna ai Fio. « rentini, che in prima con falso viso di felicità li avea lusingati e « montati in tanta pompa e vittoria ». Vill.Anche i francosi dà mmo nl loro il rallsitivo monter va l'il'e altresì i rall - sitivo. I tedeschi mutano steigen in steigern, e gli inglesi to rise I'm to raise.  MORIRE – Nei preteriti) a Messere, fammi diritto di quegli che a torto « m'ha morto lo figliuolo ». Bocc.« Tutti gli altri, coll'arme in mano, uccidendo, l'illmo presso dell'altro a furono morti ». Bart.)lss 13 rullo plaliani e ite: Velestlla? l?ispose Caliandrillº: oimè si! ella  m'ha morto o lº i .  - - - - - e ln , il i gl I l va 1, l. (.li la lill Il lesti nostri Pontefici e Sa cerlot, º hanno morto questo Gesù Nazzareno, per cui... » Cavalca. , Vedi un altrº º semplo dei Cava a s. ti o Crescere,.  Mista l'o di illma: la pel lidinº la super bla era il veleno che avea morto l'umana natura ». ( es.Fu incarcerato ed a ghiado di coltello, morto ». Dav.  Avendovi morto la ſua 11 l o elito | I solle .... » l)a V. Fra l III olti isl lel verbi, morire le ultra linelli e il toreno: e Morire di alcuno e lº i loro esser:le l'i: la morato, morire v. gr. d, uno scoglio, di una spiaggia i fili : I l a tºrto e lº iallo el'a lln  sentiero s gli Imbo. ( .li e in liesse il 1 l la n o della lacca Là ove piu . he a mezzo muore il lembo ». l)ante.l'ASS ARI. Conf. Passare - p.lli III. (i la Iri Irla i lioli fu qui ponte,  Il 1. lo si lui e passo slli li e spille Illit lillique... » e l'rego un ge:11: le li i portasse a a.ti a riva di un fiume. Quegli, , per natural cort sia, o per che pur gi a lesse dell'anima, volen e tieri il compla llli e passo llo ». Bart.I mi: rilla I e i soldat , , lire il v vien le lunghe navigaziºni passa vano il tempo e la noia giocando illrsieme alle carte ». Bart. - Passare il tempo, frase notissima e volgare, non vale adunque, rigo rosamente parlando, trascorrerlo zubringen) come comunemente si crede, Ina sì rimuoverlo, scacciarlo, farselo passare (sich die Zeit Ver tre ben , cioe parsa lo in senso causativo. Se così non fosse come il lig e vi: e la noia? I a noia non si trascorre, ma si rimuove di Zeit Ilind di I.: ll e W . Il vertreiben, non zul rilmgeilm), MI: il l?o, le o, moli e l'altri, con i fertili e la cla scudo al mio pensiero. ') po . . er detto che alla donna conviene talvolta di Inorrarsi in ma 'I: onla e gravi i 1:1, se questa la nuovi ragionamenti non è rimossa - :: - il l ' :: : il cli, degli innamorati il lilini i lorº avviene. Essi, se :I l il 1 : Irri li vezza il I l ' - I ' , gli i filigge, lì:almn Ino di , di illl :: 1:1 re a da passare quelle ». l 'r erni . .I )i , he lo n vedi che codesto passare e il rimuovere sopra detto.  I 'I l ? I)I.I E Tinete eum qui potest animi: In et corpus perdere in gehell ma li ig: tris , Vlath. : ' '| ... Il cui numero la loi , scritto essendo completo, ed egli tolse  di I lil : do e lo ebbe perduto senza riparo » Cesari, Perdidit I)eus II emoria III: Iddio ha perduta, cioè distrutta, la nº e Ilioria dei sll per l'i ll Illini ». l'assia V.  (!) È ben altra cosa il dire perdere checchessia – cioè rimanerne privo – e dire: perdere uno, perderne l'avere, la riputazione ecc.  Quì perdere denota azione diretta di volontà che fa che altri si perda, rovini; quando nel primo modo è cosa che, indipendentemente dalla mente e volontà del soggetto, al soggetto co me clessia avviene.  A gli esperti del Breviario romano ricordo la bella discussione di S. Agostino intorno al doppio senso dell'espressione: perdet eam del noto eflato di G. C.: qui amat animam suam perdet eam, cioè o l'uno, o l'altro: colui che ama veramente la sua anima, perchè sia beata l'IOVERE - NEVICARE - TONARE – Sue beltà piovon fiammelle di e fuoco alimate d'uno spirito gentile ». Dante (Convito).a .... e però dico che la belta di quella piove fiammelle di fuoco ». Dante altrove Conv.)« Il Saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che a e ili nacquero ». Filocolo.Sospira e suda all'opra di Vulca 'lo, IPer rinfrescar l'aspre saette il Giove, Il quale , tuona, rnevica, or piove ». Petr.Questo e i precedenti esempi in strano chi la o non esser certi verbi, che si chiami lo illip I somali, si rigi il sili, elle lilli che non siano slali Ialora adoperati - e lo si può ſulla via anche a maniera di al livi, sia retti solamente Vegge il la cagi li che il lato priore ». l)ante: Innanzi che la ballaglia si comincli - si porre una piccola acqua ». Vill. Pio rele, o Jian ne, e li o in lei il voraci le possessioni . Segn.  Quando il giali (ii ve lona Pell. e par el l e il libe che squarciata « lona , l anti , sia reggeri li ricorsi il II Il caso. Nè pol rassi perciò mai lidariri i re di errore il dire come elletri e le till illegali : le stelle pio rono in luenze: i nu voli pio con sassi, e c.  SOLAZZARE - Non avvali pe: ne, Irla di pipistrello era lor inodo, e e quelle solazzava, - che ti venti si trovean da ello ». Dante  TIR.ASTI I,I. ARE e \l trastullare i fanciulli ill el le;l p. 13ocr'.  VENIRE - - - E l' ste detta fu quasi tutta se la raſsi e venuta al niente  senza colpa dei nermi. I n. Vill.  nell'eternità, darà opera che sia perduta, eloè resa inerme, la farà perdere nel tempo: oppure: colui che ama la sua anima nel tempo la perderà nell'eterno.Quanto all'uso di perdere a maniera assoluta ti è forse noto, ma non ti verrà discaro un qualche esempio: « . . . Essere tutto della persona perduto e rattratto » Bocc. « . . . e mise il mare in così sformata tempesta che quattro dì e qnattro notti corsero per « duti a fortuna senz'altro inlglior governo che . . . » Bart.“ Guarda come ciascun membro se le rassomiglia ch'egli non ne perde nulla , Fler. Nota ancora gli usi: andar perduto di checchessia o dietro a chicchessia i perdersi d'animo; amare perdutamente ecc. ecc.CAPITOLO III.  Voci e rnaniere il noleclinabili  Non sarà certo alcuno, per ignaro e poco sperto in opera di lingua - il quale leggendo e studiando nel clasisci non s'avvegga che anche nel l'uso di certe voci o maniere indeclinabili - oltre a quelle che ad altro oggetto l'agiolai ed illustra i più sopra - consiste talora il vago e l'effica cia del discorso, e vi è molte volte diversità tra l'antico e il model'In.. Anche a queste forme vuolsi adunque por mente, e farne oggetto di | esame e di studio. Le dispongo a ordine di classi o serie sol per divisarne comunque la materia, non per logica ragione che me ne richiegga. Assapora, studia e sappi quando e con le usarne, discretamente cioè e con lo senno, sì che alla frase lorni garbo e naturalezza, non mai al fetta la e l'ill ('l'eso e vole ricercatezza.Ti verranno anche qui, come al rove, scontrati esempi già addot.i. Se il ripetere lalora annoia, in opera di forma al tutto didattica torna anzi - utile e grato, e vale qui più che in altre discipline il noto proverbio: Re petita iuvant.  SERI E I.  MIA NIERE A VVER BIALI o I o RM : IN C: EN FIRA I, E Albo PERATE FREQUENTE M ENTE I) A I ( I, A Ssl ('I A I) Fs l' RIM l. 1: E l I, GI: A l M ( N ) ( E SU'PERLATIVO 1) I QU' ALITA, AzioNE, o Cosv Ql A LSI Asl.  Le quali tornano solo sopra alle volgari: immensamente: incompare: bilmente; inesprimibilmente, assoluta non le : onnina nºn lo nel modo mi. glio e, possibile ecc. ecc.  COMI E ME(il,I(); II, MIlGI.I () ('ll E. ....; CI IE NIENTE MEGLIO; CIll: NUl.l.A  l'III'; ECC. ECC. - – - Spacciatamente si levò e, come il meglio seppe, si a vestì al bllio ». 13 , c .« Senza liti, la cura e prestamente come si potè il meglio... » Boc .  . - “ . . . . . riprese animo, e cominciò come il meglio seppe..... » Bocc. . “ . . . . . . a dorni il meglio che sapevano m. Bart.“ . . . . . tutti pomposamente in armi dorate e in vestimenti i più ricchi  a e gai che per ciascun si possa ». Bart.AI,  « Voi l'avete colta che niente meglio» . Cos. « .... con quella modestia che io potea la maggiore ». Fierenz. Inv. costr. con quella maggior modestia ch'io potea. )  - -  POSSIBILE; QUANTO PUO' ESSERE; AL TI "ITO; IN TUTTO; ECC. « .... purissinra l'aria ed asciutta e secca al possibile ». Bocc.« Vi terrò sermone di nel quale io sarò parco al possibile ». Cesari, º . . . . . pregandolo di porgere, quanto per lui si potesse, alcuni subitº, « ed efficace l'ilno (lio ». Balt. e Luigi ne fu lieto quanto potea essere, ma.... . » Ces. « E però al tutto è da levarsi di qui ». Bocc. « () che il prete fosse al tutto ignorante, che non si pesse discernere i peccati. o fare l'assoluzione..... » Passav.a Fortezza al tutto illespugnabile ad ogni altra forza che d'assedio « () (li fa II le o. B:ì rt.« Si pose in cuore e determinò al tutto di visitarlo personalmente ». Fi , retti.a Malvagia femmina. io so ciò che tu gli dicesti, e convien del tutto l'io sappia...... » Boce.  “ . . . . . non ha bisogno delle 11 i lodi ſi è cll'io l'a lti le lodi slle e e però Inc le taccio in tutto ». i l IIll).  PIU' CHE ALTRA COSA; QUANTO NII N ALTIA(); ecc. « Assai più che  a altra femmina dolente, a casa se ne tornò ». I3o . e Lo scolare più che altro uomo lieto, al tempo impostogli andò alla a casa della donna.... » Boc ('.  “ . . . . . il che voi, meglio che altro uomo ch'io vidi mai, sapete fare con a Vostro sºllino e col V ( Stre ll ( Vello ». I30 ('.a Vergine madre, figlia del tuo Figlio, l'Ilile ed alta più che crea a tura, Te: Irlino fisso d'eterni i collisiglio.... » I)allte.« .... d'altezza d'allirno e di sottili avvedimenti quanto niun'altra dalla « I):ltº Ira dotata ». Bocc.« Più tosto si richiede onostà e modestia, la quale fu in lei quanto a in alcuna altra ». IPandolf.a ... la rendi (Malacca j, collo industrie della sua carita e coll la virtù e dei miracoli, illustre quanto mi un'altra ». Bart.  PER COS.A I)EI, MONI)(); C()I, AI, MIA (i (i I()R... l)EI, MONI)(); II, ME  GI,IO IDEL MONDO: PUNTO DEL MONI)(); SENZA.... AI, MONI)(); ecc. – a .... e quantulinque in contrario avesse della vita di lei udito, per a cosa del mondo nol volea credere ». lºoc ('. --- (Simile la fraso del l'uso : per tutto l'oro del mondo – nicht um die ganze Welt) « Alla maggior fatica del mondo rotta la calca, là pervennero dove... » Bo( ('.« Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, così rabbuf a fat () o mal concio d'Olm l' orº ». Fior.a Io gli ho ragionato di voi, e vuol vi il meglio del mondo ». Rocc.« Punto del mondo iron potea posare ne di, nè notte ». Bocc. « Ne la Inella Vano senza una fatica al mondo ». Fiel'enz.  A CHIEI)ERIE \ I, IN( il \: \I. I)I SC) I PR A: ( ( ) MIE I)I( ) VEI, I)ICA: ....E'  I N.A FAV ()I..A \ I)IIXE; Sl: NZ A VIISI IN A: ec . . . .... ed a chiedere « a lingua sapeva onorare cui nell'alimo gli capeva che il valesse ». l30 cc.  « Il popolazzi, . . asso, st L. e ti emend al di sopra, ridicolo, impau e rito ». I ): v.... un catarro che li accolla io questi gi il 'ni come Dio vel dica». Caro. « .... colle l'a II lilli , fierall 'i! te è una favola a dire . Flereinz. « La giovane, la quale senza misura della partita di Martuccio era stata dolente, ti derido illi e il li :iltri . sser. In rto, lungamente  pialise ». Doce.  SERIE II,  AVVERBI I) I TEMl PO Ass v I I REQUEN I I VI po I ( I. AssicI E D AI MoloERNI RARE VOI,TE EI) AN('l I E S (' ) N V ENI ENTF VI l .N l'F, A l)() l'ERATI.  Solº, e ben si vel . io il amezzi e talora anche vºi per sè insignIl lill. I l l sentire e del pensare rivelano assa i volle, chi li Is I l s , che di gentil e di fino. Ad intendere a che li gli oli | lesl Iraniere avverbiali siano cosa da non dove si l rais li tre pas e il por nelle alla sconve nienza di allre voci che venissero sul gale, per quanto equivalenti c  (lell'lls .  I , A I PI? I VI \ (.( )S \ \loid 'il: 1 o, e st . In tla prima cosa che faceva, clle dI va, che li l' I, le ill e I e I blie i . ( olf. Al llla si Sel ie . I - il I l I so: volte, i vi si va via , la prima cosa a visit to il corpo di l l lo so S. Z :lolo º lº i :li. ( n'egli era  a levati , la prima cosa spendº via il rile, i ora zione mentale . » l3: l 't. ( o s.VI.I. \ l'IRI MI V di primo in alto il prima giunti (.lle lisogli a sciolla Il 1 Se la l - i lrn 1. ll il I alla prima acconsentono º , l):n V ( in tilt to li alla prima ti sti lou, i l:t lizione ... o V ill I ) \ Iº lº I M.A ... Illando l'alto livlio Vl sse da prima quelle cose a bello. » I ): l.llto.« Lasso che male accorto lui da prima ! » l'elr. Parla dei primi istanti dell'amor sul .)IN PRIMA – « In prima si commette in occulto, poi l'uomo accieca in « tanto che pecca manifestamente ». Caval. « Io voglio in prima andare a Roma ». Bocc.  DI PRESENTE subitamente incontamente).  Matteo Villani elle questa forma di di e continuo alla penna, e per quanto a me ne paia, non mai usata a significare il ro che su bila mente: nel qual senso la rove ete nel primo libro della sua Cronica delle vol, allilelio cinquanta. I3artoli. Ma non inferire la ciò che sia inal Isa! anche il senso di : al presente. L'ha il Caro, il Lasca, il Segneri e noi,  altri: « Ma forse che di presente non v'è l'Ics Iso? Segn  di presente e gli cadde li Iurore ». I3ore. a ... tutte le Imadri che avessero fºr ll illlli ferirli gli o tav: l'1 , l . detto monastero e la badessa li piglia va e pi Vagli llel mezzo del a chiesa...., e di presente erano saniati d'ogni info, Irlita. , Cav. ... e poi le fece il segno della Santa Croce nella sua fronte. All ra « il demonio incominciò di presente a gridare e... » ( a V.Se l'andò di presente alla madre e contolle tutta l'ambasciatº. » Nov. Ant. Le illimicizie. In riali trascono di presente. » (ia la teo. a \ppena avvisato da lui questo peso l'intrepidimento, di presente º so ne riscosso ». CesI)I TIRATTO – a ...il domandò se..., ed egli di tratto rispo- di si. ( -. I) \ INI)I INNANZI – « E da indi innanzi si guardò di Inai piti. . » I3o: . a Chianrossi da indi innanzi non più... Ila.... » (iia lill).l'EIR INNANZI – « ....o tennero per innanzi Messer Betto sottile ed iniel: a dellte cavaliere. » Boicº a...o fatene per innanzi vºstro piacere. » Rocc. I).A ORA INNANZI - « ...da ora innanzi spenderemo la nostra diligenza « in cose... » Bart.  « In fede buona, discio, io voglio da ora innanzi credere come il re, e cioè in nulla ». Da V.– Così dicessi: da oggi a 20, 30 ....dì: Mi seguiterai da oggi a venti di º. Vit. S. Girol.DA QUELL'ORA INNANZI – . E da quell'ora innanzi gli pºrtò sempre « onore e river olza. » Fioret.  I) I MOLTI MESI INNANZI. . . . ... con le collli cl) o l or Ill ort , l':n ve: i rii a molti mesi inmanzi. » Rocc.DA QUINDI ADDIETRO. A te, corpo mio, sia pena e vergog vi e  « confusione la tua mala vita che ti hai fatta da quindi addietro, se a tu ci vivessi conto migliaia d'anni. » Cav.  DI POCO Inolfo) TEMPO VV VNTI. . . Di poco tempo avanti a marito a vomiltºn lº..... » IBoc ('.  DA POI IN QI A CIIE.... - - « Da poi in qua ch'io servo a stia Vltezza a non ebbi mai motivo di querelarmi. »  POI AD UN GRAN TEMPO per buona pozza di poi - , senza che  a poi ad un gran tempo non poteva mai andare per via che... » Fioret.- IPOS(.I.A A NON MIOLTO) : IP()SCIA \ I) l E, TRE... ANNI. – . ...benchè il « perfido, che convertito non dalla verita, lira dall'interesse, si era illdotto non ti d essere, lila a filigersi cristiano, poscia a non molto apostasse. » I3 irt.A lui al che si deve la conversione cleposcia a due anni si ſè di... e d'InCli: sllo forlin. o I 3: i rt.l'OI. – v. Poi in significato di poichè, congiunzione, Serio 5.) « tue giorni poi lo i lidir no rel: ma la detti (iialma. » I)a V.a Le mie scritture e dei miei passati allora e poi le tenni occulte, e  e l'inchillse, le quali non chi e la potesse leggere, nè anche vedere ». IPalld()|f.DI POI, I).AIPPOI postea, la liber. dal au I e - Il giorno di poi  a che Curiazio Materno lo sse il suo Cat ne... » I)av. Fecesi questo primo ufficio a mano e di poi se ne fù borsa. » Cron.  M () l'(ºll.  - S'arrende Cappiali , si lv ro a dappoi la rocca, -aivo - a l'avel e o V Ill.  l) A IPOI CI IE...: POI CIIE .. posi ea quan Ne furono assai allegri, « da poi che l'ebbe il signor Tav rit.  a E molti enºni , quasi me razionali, poi che pasciuti erano be; le e il giorno, la molte alle lor , a se, senza al il correggimento di pa store, si tornav: lo satolli. I3 ) .  r . « Quale i fioretti dal lot il no gelo , li lati e chiusi, poi che il sol r e l'imbianca si drizzi in tu! ti : pe: ti il loro stel . . » l)a nte.  - Poi che innalzai un co pit 'e riglia vidi il maestro di color che saillmo se dor tra la fil sofi a larniglia o l)ante.  IN QUEI, TANTO in quel frattempo i 17 w is henº « Quando -: ti o  a un colore e quando sotto un'altrº allungava sempre la cosa, e secre  e tamente in quel tanto attendeva a In tte, si in I tinto. , (iiaml). I F. I I I V () I TIC: \SS \ I I) ELI E V () I 'TE. Non a quella chiesa che.... a ma alla più vi in: le più volte il portavano. Doce. .... ed a Luigi non ebbe assai delle volte questo riguardo ». Cos. I N MIFIDESIMO. - Gelò in un medesimo per timore e avampò per a rabbia ». I3art.  IN  (*) Nota uso altro del comune d'oggidi. « Da poi o di poi, scrive il Bartoli, sono avverbi  | - « di tempo come il poste a dei lattni: non così dopo, che è preposizione e vale post, nè riceve « dopo sè la particella che, come i due primi. Perciò i professori di questa lingua condannano « chi stravolta e confonde l'uso di queste voci facendo valere l'avverbio per preposizione, e « questa per quello che è quando si dice : da poi desinare, o dopo che avrò destinato ; da poi  « la colonna, da poi mille anni, dovendosi dire dopo desinare, da poi che avrò desinato, - « dopo la colonna, dopo mille anni.. ... Due testi son prodotti da un osservatore in prova di  « quello ch'egli credette che in essi la particella dopo abbia forza d'avverbio di tempo: ma, « o 1o mal veggio, o egli in ciò non vide bene, però che poco dopo e picciolo spazio dopo, « che leggiam nel Filocolo (e ve ne ha d'altre opere esempi in moltitudine) sono altrettanto che « dire dopo poco e dopo picciolo spazio: nè perciò che dopo si posponga per leggiadria « perde il proprio suo essere di preposizione, cambiando natura solo perciò che muta luogo. » (Torto e diritto),TUTTO A UN TEMPO. –- Si vide egli una volta venire innanzi quel  « figliuolo scialaquatore che tutto a un tempo illil izzito di freddo e e smunto di farne, a gr. ll fatica poi i più reggere lo spirito lli sulle a labbra ». Segn.AI) I NA; AI) ( N () R V. - I. - lio, e il riº lite illl collo ad una le l gi che e l'azioliali . (iiillo.E fatto questo al padre - i ti e, con i ti o dino li avere ad un'ora a cio che in sei mesi gi loves - e dal re ». I3 cc.a Tu puoi quali lo ti vogli ad un'ora piacere a Dio ed al tuo signore ». l3a) ( .FII ad un'ora l: ti inta II: i r; V Igli, e il ti: i ta a rieg l'ezza solº l'appli - , ch, a pena sapeva che ſi rs dovesse Bar!.a S'io avessi mille cuori in corpo, credo, tutti scoppierebbero a e un'ora ». ( a vill.....e lo slle - rel. l: elie l l' il, clli ' lei i 'o che ella fosse spira 1:1, a un'ora piangevano i figlill lo e la IIIa - dl e o. (..i Val.AI) () IR.A: A TEVI IP() ZIl re e lit, Zeit, frilli - e il ' . .... il III la ll (lſ) ll ll (le' suoi quanto al ra i vos- li Illi. : I 'a via e se ad ora giunger e potesse d'elitro rvi . l?oce.Io so grado alla ſor . I: I: pi oi, la III: ll ad ora vi colse In a cammino che bis 2: o vi Ill di ve la mia piccola ci sa . Bocc. . – Quell'ad ora, se il il ring oliato al (.: p. Locuzioni e lillich e, pilò al 11 le sigllifici:'e': in u il trio mi cºn lo ſtile - e i l Zeit Ve! llia! 1 llissell.ALI,()R \, CI IE.... - MIo -s . ( r , l il all ora che - guardali do voi egli crederebbe º li voi sapete l'in - ll - ci , Bocc. - - Allora che e il coin: sto li ai l'ora che, cioe a quell'olti nella quale. Vu, i vederlo? « .... cominciò a rilere e disse: (iiot ſo a che ora, verº e il di qua allo 'n oltr i di noi in fo: - ti re, che mai voluto moll t'avesse, credi ti cºllo e gli ori (le -se che tu fo: - i il ln igli r di « pi:itore del miº endo, con le ti - \ clii (iioti o prestamen! e rispose: a Messore, e ved, i cllo e: i il ''t l 'oblio allora che.... . . ., col Ile sopri). AI.I,()R \ \ I, I.() R . . . . E allora allora ve: i cori in 1 il to a venire ill a torno alle gote il poco di lanuggine ». Fierenz. « Se la Irla il giò allora allora in sl1: pro - ilza ». Fiºr liz. « .... fil percosso da un accidente di filºiosissima gocciola, la quale allora allora i 'a in atto di sopraffarlo e co- Il lorº ndosi... ». Segn. CIII E' CHIE E'. a ... fatti ch'è ch'è solº l'1 t . . ri o. I ):) v.  CIIE..., CIIE parte.... parte () e - o re : ni) che re dei rom inni e che a imperatore ». Dav.QI ANDO..., QI VNI)(). Quando sotto lº col re prº testo e quando  a sotto il li filtro.... ». I3: i rt « Quando a piè, quando a cavallo, º eco il che il destrº gli vi lliva ». T30C ('.l'N POCO.... I N AI.TIRO (un po o orn, il poco di noi - Intanto ecco a (Illi, cianº i l un poco e ci:n nci i un altro..... noi siamo a .. ». Cos. I)I CORTO, DI POCO. I)I FIRESC( ) ( id) , l di corto si attºri il tv l e a quindi a mezzo anno seguì . I3art.« I più furono dei grandi, che di nuovo eran stati rubelli, rimessi in a Firenze di poco ». Vill.a ....mercecchè questo era timore di uno che aveva di poco cominciato « a peccare ». Segn.a .. . forma generica di teli fare che sul l usa l'e il demonio a riguada a gnarsi quei che l'ha di fresco lasciato per darsi a 1)io ». Segn. A (i IRANI)E ()IR.A. - . Va, figli la mira, e clla Ina queste mie suore, che a ti aiutillo, e fatelo buono assai l'unguento e domattina il lande ete a a grande ora, si colme tll la i detl () ». ( a V.Si parla dell'unguento col quale la Maddalena di ve:a ungere il corpo del Maestro suo nel . ionumento. E adunque fuori di dubbio ( le la frase a grande ora è altretta le cli a buon'ora. Ma il valoroso Cesari nota questo modo nei dia gli di S. (i regol io, e gli pare clie signi! Ichi anzi l'opposto, cioe' tardi, ad ora avanzata.I PRIMI A ( III: A (i I? AN VI \ I I IN( ) - ... ll e il colpagno prima che a a gran mattino, chiamandolo e scotendo o per farlo lisen Ire del sonno, se º le avviole». I 3:art.A I, I NOi ( ), V IP () (.() A NI) \ I I : I ) ( ) l ' ( ) I, I N ( , ( ) V Nl) \ IRI .. A V Vlsa: l.losi o cle a lungo andare o per lorº o per il litore le converrebbe venire a dovere i piaceri di Pericoli fare, con altezza d'animo seco pro  pose.... ». I3 cc. e .... (ºd In questo con 1 il tar lì , ll la lollo la pezza a vanti e le perso la se ne avvedesse l'ul e a lungo andare, essendo un giorno il Zeppa il casa, Spinelloccio venne a chiamarlo ». Borc.  Così si dilra fatica a difenderlo, ma spero che a lungo andare la verità verra pur sopra . Caro.« Chi si vergogna di apparire malvagio è facile a lungo andare che all ora si vergoglli di essere tale o. Segl).  I)ev'egli telider sull'uditorio le masse deila divina parola, senza restarsi per stanchezza di lati, che a lungo andare gli succeda, o sºlldol' di fronte.... ». Segn.e Dopo lungo andare, vincendo le naturali opportunità il mio piacere, soavemente m'a (ld l'Inel tai o, Borº.  Si dostò il silo mal illnore, e che a poco andare livelltò l'ov (ºllo, fl'e  lesia, rabbia ». Giuberti.  Non so però di millm altro scrittore e li ll sasse mai il modo a poco andare il luogo dell'altrº, a non lungo andare. V me pare di sentire nell'a lungo andare dei citati esempi non tanto il significato di dopo lungo tempo, quanto quello di continuando su quel tenore, andando avanti cosi, il quale significato mal si cercherebbe nel modo: a poco andare.IPrima di passare ad altro ti piaccia, o luon lettore, notare di questo andare un altro uso avverbiale bollissimo ad andare d'alcuno, e si gnifica: conforme alla durata del tempo che impiega quel tale a fare un determinato cammino a l)icosi che, ad andare di corrieri, sono  sel e ovvero otto giornate; ma elli vi peliaro ad andare più di due  mesi ». Mold. Vit G. C.  NON MOLTO STANTE; POCO STANTE. . . . . . perchè..... non molto stante partorì un bel figliuolo maschio ». Bocc.“ E il buon pastore vegliava sopra le pecore sue; e io nni stava allora “ presso a lui e piangeva di cuore, imperocchè io vedeva bene a che partito e ci conveniva venire. E poco stante e disse... ». Cav. “ ... dissº; e poco stante - e ne vide il buon esito ». Bart.IN POCO ID OR A -- E cosi in poco d'ora si mutò la fallace fortuna ». Vill. .... quandº le si coinil: i) a cambiare il sereno in torbido e 'l vento I'l'ospel'evole in coli'; il rio e si font , che in poco d'ora ruppe un'or ribile tempesta . Barte così i lorendosi in poco d'ora, irrostrò quanto ciascun uo, lo sia sempre Inal in Ioriato, di ciò che passi nell'intimo di se stesso ». Segn.  SEMPRE ( il E. , 2 ni , olta ch ....: per tutto il tempo che ...; - so . It als...:  so l' Ilge :ils . . sempre che p -so gli veniva, quanto poteri “ll In: i fo: zii li i vesse, la lont: in: va ». I 30  ....ti fa l'ſ, con il iº lira? I ra che tu io da uno li ricorderai. Sempre che l Il 'I viverili. (I e Il III lili , , lº e  - Add II e le forme avverbiali, bisognerebbe compi l'opera e porre Iri al mi allri modi di In li e costruire il to italiano, dai quali ap prendere le lo Izi li varie ri la livinnelli e il tempi , e corre cioè accell li: l' e il I e II limiti e il quando di un fallo, e con le esprimere la durata di checchessia. I cori e lo spazio di lempo decorso. o la decorrere da un prelisso le minº, e come gli aggiunti, le circostanze per rispello al pre semle, al passato e al ſul tiro, ecc. e c. Ma questo lo vedrai nel Prontuario s: II , la parola Tempo.  AVVERBI I I Morbo A : UII A Ioi A, oi: v. SEMPLICE E e RA AR ricolATA (*)  A I3U ()N.A FEI)E ( red 1. ll Il lllll III a buona fede llo la Cagioli della a ai 1 l' - Il I la lorº ita . ll I)1 , ». (.a V.  Di buona fede, con bucna fede in buona fede solo i nodi, loli si lo dl f.  ſei eliti dall' Ilegato, ma anche diversi fra di loro: Semplice uomo e di buona fede o V ill. Il pr, ritente ritrovisi in buona fede »  a 'I'utti gli il milli del boilo enti lorº porta i con buona fede ci è con le alta o. 'I Irl.  A ſ;I ()NA EQI ITA' -. il suº - gliore si ptio a buona equità lo le: ( o ri lilllari cari l ' s ll lo » lºt) ,Sill','': a buon diritto li lil I l di ragione; a Sotto  nome di Ghibellino occupa questo patrimonio, che di ragione s'a spetta il Guelfo ». Salv.  (*) Conf. Particella A, Cep. I v.A ROTTA – ... In zzando in un tratto il bel discorso di suo fratello, e si parti a rotta ». Fier. cioe pieno di mal talento, stizzito ,tutto veleno ecc).In tal guisa scrivendo a rotta se ne compilerebbero i grossi volumi.  ( es. Simili le frasi scrivere in borra, borrevolmente --- abboracciare un libro. I)av - Caro - Gillb. A I) ()V EIRE - ( osa fatta a dovere overnarsi a dovere » A FII) \NZA - Non ti maraviglia e se lo te dimesticamente ed a fidanza a rielli e del do o. IBoc .A FI RORE: A FURIA - Quando il rumore contro il re si levò nella  terra, il popolo a furore corse alla prigione a Bari. e Temevano gli uomni li lt il:giurio ed esso (i ('. lº sostoli ho gran dissime essendo dannato così ingiustamente ( a furore di popolo ». Cav. ci è abband intito, dato in preda... ) a Carlo v'andò coll'esſere to, a furia ». l, l'll i. A SI º V VIENI () .. . prende questo servo e quello per lo braccio: Te, ficcal qui. Fuggono a spavento, di lino nel luine: rimas() al blli ggiIrlai della morte, con due colpi si sventra ». Da V.A (.() I 'SO I. \ NCI VI'() .... volmita le sue bestemmie in una foga di ben nove versi a corso lanciato, senza il fiatar di mezzo ». Ces. \ SI, A SCI (): \ I 'I V ( ( A ( () I.I,() Cori ele, precipitarsi a slascio, a fiacca collo v. Correre, IProntuario).e due schiere di lenici a fiaccacollo, della selva nel piano e del a piano nella selva si fuggirono in intro a Dav.E gia so: i gialliti dove il fossi on firma l'resso alla terra, e la fin tanto forte. Ognilli a fiaccacollo VI ruina: Chè 'l ponte è alzato e si in chiuse le porte ». Bern.A SGORGO; A RIBOCCO . ... fonti... le quali doccia no a sgorgo per dar a bere e saziare a ribocco i slloi V ml: nfi di Villo dolce ». Medit. del | Vlb. (lollº ( l' ) ( (º  A ( IR AN I 'IN A a.... ll'el a tanta la grande gol to che vi veniva, che a a gran pena vi capeva » Cav.A (( i RAN) E ATIC V .... ( con le luci tanto confitte dentro di quelli  e occhi) che a fatica vi si vedevano ». (iiamb. a I)i cento mila, a gran fatica un solo ». Segn. Traduce il noto effato di S. (ii l'olio in co : Vix (lo con tull) l Il till I lolls lllllls ». )a Quel figliuolo scialacquatore che tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame a gran fatica potea più reggere lo spirito in e sulle labbra ». Segn.a Quella povera vedova, la quale vi avea a gran fatica riposti due soli piccoli ... » Segm. duo minuta).  ... a fatica poterono le insegne campare dalle folate del vento ». Dav. ()ttone, contro alla dignità dello imperio, si rizzò in sul letto e con e preghi e lagrime gli raffronò a fatica ». Dav.« A fatica, risposi io, gli ha potuti per un grosso nuovo cacciar di a mail a un pescatore ». Fir. As.  \ MAI O STENTO a mala pena) - .... e a malo stento si tonno ch'ella nol a fe ( o o. Iº nt ('.A GRANDE AGIO -- a ... tanto che a grande agio vi potea metter la mano  « e il braccio ». Bocc.  A TORTO – « Messer, fa IIIIII diritto, di quegli che a torto In'ha morto  a lo figliuolo ». I30cc.  .A NI IN PARTITO; A NI UN IP. \ I Tt ) egli a niun partito s'indl Isse a coin  a piacermelo ». Dart. (Conf. Partito, parte III . « E certaIllelìte se ciò non fosse, il clitori, li li credo i già che Irli sarei « contentato a patto veruno (li comparire stamane su questo pulpito ». Segn.– Keilles Wegs, un keine il Preis. - Simile l'altro avverbio dell'uso e classico : per niun verso, per niente , v. Serie seguente).  A CREDENZA (senza proposito, non serialmente e daddovero) – . E'  a debbono essere da sei o sette anni che un brigante di quei lilli ha a tolto a litigar III eco a credienza e Vieille alla volta lnia ard Itamente ». Car().« Sicchè lion ( 1 edo far I)io bravate a credenza quandº i lºg 'i a fferma a che repentina succedera la morte ai mormoratori ». Segn.  A BALl).ANZA -- a ...e questi a baldanza del Signore si il batteo villana  III e ille.... » Bo(:('. – « Che a dirlo latilio, soggiunge il Cesari, non si direbbe più breve di a questo : I) Inini patrocini fretllesi .  A MAN SALVA senza tiri re di punizione o vendetta ecc.; impunemente)  a ....e quello con tutta la ciurma ebbero a man salva ). I3oce « Senza che al ll no, o marinaio o altri se l'acci orgesse, una galea di corsari sopra venne, la quale tutti a man salva gli prese ed andò a Via ». RO( ('.« E perchè tante diligenze ? non potea egli averlo a man salva ovun a que volesse? » Segn. (parla del fratricidio di Caino).  A MIA POSTA; A TI"A, A SI' A POSTA; ecc. – Somiglia all'altro mento  vato sotto A, Cap. IV: a suo senno; e significa gosì in disgrosso: con for Ine all'ordino posto, secºndo aggrada ecc.« Io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti». BOCC.« .... mi disse che tu avevi (Illinci una vignetta che tu tenevi a tua posta ).a ... Ma quell'altro magnanimo, a cui posta Restato In'era, non mutò aspetto ». Dante al cui ordine). Lascia pur dire il mondo a sua posta » Caro. aspettava solza mandarsi a lui dinunziando od entrare a sua posta, come avrebbe potuto ». Ces.... del resto se volesse andarsene, facesse pure a sua posta ». Ces. Il tempo è cosa nostra..., e a nostra posta sarà d'altrui, e quando Vorremo ritornerà nostra ». IPandolf. Farassi, disse Malerno, altra volta a tua posta ». Dav. Non si doe a posta d'alcuni milensi levare a mariti le loro consorti de beni e del mali, e lasciare questo fra le sesso scompagnato in preda alle vanità sue e alle voglie aliene ». Dav.« ... ma lascia dire e tien gli orecchi chiusi, Non ti piccar di ciò, sta pure al quia; Gracchi a sua posta, tu non le dar bere ». Malm.  (r  (l\  A  \  \  A  .A  V  - Oltre agli altri significati della V o posta, olre i son noti o del l'uso, nota anche quello di agguato, e però la frase: stare in posta. – Si pºsero il cuore di trovare quest'agnolo e di sapere se egli sa pesse Volare: e piu notti stettero in posta ». Doce.  MIIC), A SI () AVVISO zza e chiarita, che a suo º avviso a Vanzi va per sette a rili la bellezza del sole ». Cav. (il II).A – Vennono i Magi a guida della stella , V it. SS. PP.  " ... (Illi, l'alt alllll III e lo gliti li l'Israel a guida della colonna ». Vit. SS IPI .  SECOND A - Venendº giù a seconda di l iilline eri in un grosso al e bero attraversato il l leti o le! ! util, a ( -1)ITO: A MISNAI) ITO per i pp, li o Illiile ()Inbre Ilio e St l'OI Il Ill I e il Il l a dito ... I l liteINDOTTA - Scrive e in a indotta di un qualche amico ». Giub. TENI () NE; A RILEN l'() co. l l:: Fal e clle clessi:i,  opei a re, lavorare a tentone; il nºda , procedere a rilento. SI PI? () lº() SI 'I'( ) - Fra - della era te a sproposito, gramma t ( a 1 rbitraria... , Mla lizl3 Al RI)()SS(): \ BISI) ()SS( ) I .el l. Ville a cavallo senza sella e guarni Il lent : fig. alla peggio, alla buona, alla carlona.“ ... titlito è Irleglio, il dicit re lº tºga rozza e a bardosso che in cotta  las Iva da Irie reti I ce .. l): V. . . . . . tilt. I3rotier .... E ogni liofil Ill se le scolla, Veggendogli una cupola a bisdos « So )). Bll roll.I II)()SS() Non un sol l'eroerin º ome in l'annonia, nè soldati veg º gentisi pit | rti seri ti a ridosso, ma molti a viso aperto alzavan « le Voci ». l)a V .Ridosso, sost. vale: renaio lasciato il secco dalle acque. –- Cavalcare a ridosso è lo stesso che cavalcare a bisdosso.RANI) A \ RANDA (appresso, rasente, ed anche a mala pena, per l'ap punto). Dal tedesco Rand margine, orlo, estremità....« ... A randa a randa, cioè risente rasente la rena, coiè tanto at costo a e tanto rasente che non si poteva andar più là un minino che, a IBl1t.  « Quivi fermammo i piedi a randa a randa ». l)ante. « ...era apparita l'alba a randa a randa ». Morg. « ...e poi gli mise in bocca l'na gocciola d'acqua a randa a randa » Segr. Fior. IBACIO (al rozzo, all'uggia º contrario di: a solatio. « I susini simiani nelle orti, lungo i muri, a bacio fanno bene. Dav. (.()NTR VILI ,l ME (che ll ) m l'i( ove il llllll (º il dirittll l':ì \ Qlla dro a con trallume – faro che li ossi:ì a contrallume.  SPRAZZO (sparso di mil utissime macchie l'anºni a sprazzo, lavorati a sprazzo.SEST'A misuratamente, precisamente, per l'appunto) -- I)a sesta, com  passo. Nota il modo: colle seste. Parlare celle seste, cioè parlare cal colato, misurato, compassato.  « ...e menandogli un gran colpo che passò a sesta per la commettitura « dell'osso, gli spiccammo il braccio » Bocc.A SCHIANCIO – Da schiancire – schrag treffen, schief Schlagen. « Tagliandolo a schiancio in giu dall'urna parte, salvo il Imidollo... » Pallad. Fobbr.« Le sue pertiche del salcio, si ricidano rotondamente, o almeno li n « molto a schiancio ». Cl.A SGHEMBO: A SGIIIMBESCI() / di traverso, obliquamente, – «Sull'elirio a sgembo giunse il colpo crudo . Bern. Orl. « ...campi divisati Per piano, a pl Imbo, a sghembo ». Bllº lì. Fier. « Capito al pizzicagnol, chieggo un pezzo di salsiciotto, ed ei Inel ta grlia a sghembo ». Buon. Fiei'. « ... Se non che a sghembo la lancia lo prese ». Morg. « Pare ogni palco appunto un cataletti IRestato, come dire, in Iºlel a Galestro. Che la natura fece per l'Ispetto, Ed ogni tetto a sghimbescio « Il Il canestro... » Alleg. – Tagliare, lavorare, operare, camminare a sghimbescio. A MICCINO a poco a poco, a poco per volta) – Fare a miccino, collº all Imare con gran risparmio; dare a miccino; parlare a miccino.« ... E' un dare a miccin la ciccia a putt I, Vccio ch'ella moli fila cia poi « lor male ». Fil', rim.« ... Senza chè qui fra noi I)el buon si debbe far sempre a miccino ». Alleg.« Favellare a spizzico, a spilluzzico, a spicchio e a miccino a è dir poco e adagio per n In dir poco e male ». Varch.A GHIAIDO – « Fu incarcerato ed a ghiado morto » (cioè di coltello). l)a V. A M AI, OCCHIO – « Antonio, mirando quel dischetto a mal occhio, dice « va e pensa Va infrì sè stesso: ond'è... » Cº V. A SOLO A SOLO; A TU PER TU a quattrocchi, da solo a solo). « I)esidero di fa Vollare a solo a solo )). V. S. (i. l3. « ...mangiare un poco con lui a solo a solo ». Rini. Ant. « E' mio marito, e non è ragionevole ch'io Ini p inga a colitenderla a seco a tu per tu v. Varch.« A tu per tu d'ordinario indica, se non contesa, almeno un non s . che di lì (r)) amichevole o di riottoso ». Tomln).A IOSA – a Idiotismi lombardi a iosa, frasi adoperate a sproposito, « periodi sgangherati.... » Mlalz.– Simili: a ufo, a macco, a diluvio, a masse, a larga mano, ad usura, a oltranza, a gola, a buona misura ecc. e Iddio renderà al bonda lito a mente, a buona misura, tormento e pena a coloro che fanno la su  « perbia». Passav. – Retribuet abundanter facientibus superbiam. Sai:Il A GUISA CIIE...: A MODO CIIE..., DI... – « A guisa che far veggiamo a h a questi palloni francesi.... ». Rocc. i a ... schiccherare a guisa che fa la lumaca ». Bocc. ti « Fare a modo che la madre al fanciullo quando lo fa bramaro la  « poppa ». Fioretti.  « F: l'( a modo che alla Maddalol)a.... » Fioretti.  - - - - - entrò in una siepe molto folta, la quale molti pruni e arboscel « li avevano acconcio a modo d'un covacciolo o d'una capannetta ». Fior.A PEZZA: A GRAN PEZZA di gran lunga, di lunga mano, a dilungo )« Iddio la IIIa lì dato 1 elill, a lille desll'i: - i lol prendo, per avvell « tura S III lile a pezza li rl III i ti l'lleri ». lSucc. « Tu non la pareggi a gran pezza ». l 3 a ... che Villce a pezza le forze il ii il II alla natura ». Ces. « ... che a pezza li in poterono i no, l'1 :li a liostrº ». Giuli. ...al qual peso pollai e gli a gran pezza lo! I SI se lliva sufficien a te n. Ces. ET - A buona pezza, a pezza sia al 1 ora per: da un pezzo. Il Corticelli lo fa altresì avverbio di tempo a vu i tre, º io e a dire col significato di: a lungo andare , indi a gran tempo e . :: il l: l V a Illel lil - go della Nov. .º in cui il 13o a clo, il ricolllla lir di Tebaldo, l'e  putato uccisº dal 1. l re: ti sºlo i clie : l i vº: lo ſtesso, dice: l' 1. l e I edeva no all or I e II la lr e 11 , se i vi ebber iatto a pezza i in li e a lilolto l'Irl | o s, il 1 o l -se che lor e lì i rio « chi fosse stato l'll (iso .Pezza per tratto di teli e ti In e te l: il sito dai classici: ...a e le quali, quando a lei i i nip . . - rido e la buona pezza di mot  a te.... , l 3 , . \ V , l: do ss 1 di buona pezza di notte e il ogpl I lioli o il l ' Illi: e... l . . . . ed i: questo con I lilla rotto una buona pezza iva il l i soli: si ll il V . . desse º lº) . Erano a buona pezza pia . Il l ... » lº . A I) II, l'NG ( ) ...lila po . I sa – 1, piti il V ".go, a dilungo le pi Vinci e ill « gannò ». l)a V.A (..ATA FASCI () Fa cela di voi gli l a catafascio ». l 'a taff.  Io non fu mai. lle solo di gloria Vago, lº vivi , a raso e scrivo a Ca « tafascio ». Vlatt. Fraliz. l.ibli ( i rte a catafascio.  \ I,I, I S.ANZA ( )ltre i cliest . : se si lal::lo ba nelletti regali... ll !)  e inoln Ine: l'e, all'usanza (li (1:la, di co- e dl gla il valore, ll lì.... ». Calo. « .... se la faceva la maggi . parte le 'a nero, all'usanza dell'Indie, e con l'iso, e quando pit sontuosa ine:lie oil... » Bart.  ALI, I SAT(); AI, SOI, IT() .... lle resta V a dl di rilli all'usato di strane « tentel)llate ». Fiel'.« ... e ne rinfocola V a l'iberio, per ll è al solito lllllga lllente in lui a V a vampati, ne uscisse o saette il rov in se . l)av.“ . . . . . non ga e al solito, Irla cori tlc it to . .. e co; i visi, benchè a ce on e ci ai ln (stizia, pil V ( ralli elite cagles lli... . l):ì V.  AI, CONTINU ( ) Sonando al continuo, per la città tutte le campane. .. » V ill.  AI, TUTTO - Conf. Tutto, Cap. III e l'elisorili che Marta s'inginoc a chiò a piedi di lei e disse: Madre dolcissima, al tutto sono appa a recchiata d'ubbidire, chi io sento n. ll'admin la mia che l vostro par « lare Imi conforta ». (.a V.  AI, CERTO – - a Se....., al Certo i denloni ne farebbero, gran rumore ». Iºart.  AI.I.A SCOPERTA – . .... potè poi mettersi con lui alla scoperta in più a ragionamenti. » Bart.Al, DIRITTO – « Il Sole..... feriva alla scoperta ed al diritto sopra il te « nero e delicato colpo di costei. » Bocc.ALLA DISPERATA – « ....nnellare d'attorno bastonate alla disperata. » BaI l.ALLA SPIEGATA – « .... appunto culme la nave... sulla quale tornò non e potesse levar mille fasci di lettere, che dicessero alla spiegata quan a to egli veniva a raccontare. » Bart. ALLA SPICCIOLATA – . Tagliare a pezzi alla spicciolata. » l)av. – Andare alla spicciolata o spicciolati vale: andare pochi per volta e non ilì Ordinanza: l'O( o dopo si Inossero gli altri bravi e discesero « spicciolati, per non parere una compagnia. » Manz.ALLA SPARTITA – . Le varie scienze brancate non hanno più alcun « Vincolo coinline che insieme le c' III ponga e le organizzi; si no a ce « fali, vivono alla spartita e tenzonano fra di loro. iub. ALLA STAGI,IATA – Andare alla stagliata per la via più corta i : « .... E vanno giorno e inotte alla stagliata. Non creder sempre per la a calpestata ». Morg.ALLA DISTESA – « Ben è vero che quella grandine di concettini e di « figure non continua cosi alla distesa per tutta l'opera ». Manz. ALLA 1)IROTTA – Piovere alla dirotta. « Che lavorio non si pigli alla dirotta per alcuna cupidità, ma piut « tosto per servizio dello spirito ». Ca V.ALLA SCAPESTRATA senza ritegno, – « Ruzzando..... troppo alla sca « pestrata..... ». Bocc.a Correndo alla scapestrata e senza ordine niuno, cadono nell' ag a guato ». M. V. – Simili, all'impensata; all'improvviso; alla spensie rata; alla sciammanata – « Mi diletta oltre Imodo quel vostro scrivere a alla sciammanata cioè scomposto, se llcito, o, Caro; a fanfara – “ . . . . . non usavano i vecchi nostri far le cose a fanfara ». Allegri; alla carlona; alla rinfusa; alla sbracata; alla cieca; a mosca cieca; a chius'occhi – . Negligolza dc lettori che passa lo il vizio, a chius'occni» V ill. ecc. ecc.  ALL' AVVENANTE (a proporzione, a ragguaglio ... dispensavanº loro a oltrate all'avvenante ». DaV. a .... e fece fare... le monete dell'argento all'avvenante ». G. V.  ALLA MEN TRISTA (a farla bucina) – . Passato il quarto di, Lorenzo, se a condo il consertato, non ritornò; talcli è già altri il farºvano molti, « altri, alla men trista, prigione ». Bart.« Stava in gran dubbio di sè, certamente credendo che il re, alla men « trista, il disgrazierebbe ». I3art.  ALLA CIIINA – « ... i piaceri sono monti di ghiaccio, dove i giovani cor. « rOIlU alla china ». I)a V.  ALI,A BRUNA – « Uscire di casa, ritornare, il sene alla bruna , i di notte « tempo ).PA RTE TERZA  Verbi e alcune altre voci generalmente note, ma dal cui retto uso all'elocuzione garbo ne deriva e vigoria  (APITOLO I.  Verloi di particolare osserva , Aio1 ne  non quanto all'ordine dell'azione, che se ne è parlato alla Parte ll º Cap. 2º, ma quanto alla varia maniera di usarne, così cioè da risultarne ora un senso e ora un'altro, e quando una frase più che altra concellosa eſlicare e chiara, e quando Ina forma di dire piacevolis ima. In assello di espressioni elegantissime, nulla comuni ad altre lingue e al tutto con forini all'indole, all'original candore dell'italico litigliaggio.Uno dei capi che formano il carattere di una lingua è, senza dubbio, l'uso frequente e vario di certi verbi previleggiati, onde quel tal linguaggio prende una piega, una forma che lo distingue da ogni altro, reca un'im pronta decisa e sua, e rivela l'indole, la natura della nazione che lo parla I; sli a entra al to do, io ſo, lo gri, i sel. I pul, lo li arr, lo li hº to trill, lo shall ecc. ecc. degli inglesi: al bringen, Schlagen, selsºn, lath rºm ziehen, reissen, allen, hallen e er . l i l des hi: al lati e doti lºrº mºtivº quel gal dler, falloir, aller, ceni, e crc. d . I rili esi.Niuno per fermo potrà mai farsi a credere di saperlo l'inglese, il tedesco, il francese se non conosce appieno l'uso molteplice di cotali verbi. Ma e dovrà poi dirsi che noi italiani conosciamo l'italiano, lo par liano, lo scriviamo, quando molti usi e vaghissimi di alcuni verbi sºli º gli scrittori nostri del trecento e cinquecento e loro valenti imitatori, o ci sono al tutto ignoti, o non vi badiamo gran fallo, fuggono al sensº º quel ch'è peggio, non pigliano al rina ſatiri di apprenderli ?Mentre nel Prontuario trovarsi in diversi luoghi. “ioè quando sºlº una parola e quando sotto un'altra, l'uso e il significato altresì diversodi ognuno il ſitº si re bi, in questo Capitolo sono invece raccolti in pro prio, ci si il li del is fli e, iro, i molti sensi e gli usi inoll piici di questi si illli i crli. \' scopo poi il liv sarne in qualche non lo la I al ria,  i , li i di li 'il ſole e portata loro, due orditi (listi, ci :V ci li pi li, si incli di più ampia sv al l: VitaliiD. llli i cºrti non si li prºnti, il che anche di questi, cioè dei 'oro Ilso l g.gior grazia e vigoria. Il dis( ºr sor. -  S  1 º  Verbi più notevoli, ciò è a dire rigogliosi e fecondi di più ampia e svariata vitalità, e sono: andat e, dare, fare, prendere, levare, met tere, recare, portare. it jutlatre, sentire, stare, tornare, venire.  Arm ci are  Noli II l via di etill irli qll il I agioli alimenti e andarmene in discus si ti sul come e ind , che a fil e ass. I li II e i di ºrgan, a il più delle volte a lin, ia, gialli rina approda e laio a anche trilore; imperocchè allo si ling r . a p. l si la fatica con (edio e danno di chi legge e li in pro º cli il lr Iriesi e gli anni in istu diare, raccogliere, e vergar car lei e per passi di quanto scrisserº grammatici e il logi rh , e li arreco subito alcuni sempi colti li i migliori libri di Ilarsi i lingua, dai quali potrai di leg gieri a ndere l'uso vario e vagilissimi del vei bo andare: e metto anche pegno che pur leggendoli nel tendovi un po' di studio, saprai senza scandagliarne altrimenti le rip. ste ragioni il logiche, convenevolmente imitarli e rifarne, occorrerlo, d aitrella!.  ... e son cerlissimo che cosi a cre' l e blu conto coi dile, dove così andasse la bisogna come a risale: ma lla andrà all imenti . Boce. (410). Manda vanglisi di Ilona e d'Italia gli aguzzamenti dell'appelile; le poste correrano dall'uno all'altro mare: se n'andavano in banchetti i grandi delle città: rovinavansi esse cillà.... . Dav. ll .(neste cose belle dicerano in pubblico: ma in sè discorrera ciascuno: questa colonia in piano potersi pigliare con assalti e di molte col medesim , a dire e più licenza di rubare: aspettando il giorno se n'andrieno in ae cordi e lagrime: un poco di gloria rana e pietà pagherieno lor fatiche º sangite ». Da V.“ . Somiglianº si può dire anche il genio e la natura degli abitatori I tillo va in delizie e in piaceri di musiche e di odori e di n. 13al l “ Lo ingegno di Verone degli anni teneri se n'andò in di pignºre, in tagliare, cantare, cavalcare ». Dav.  “ .... lullo il dormire di questo molte m'è andato in un sognar continua di nomi, cerbi crc. ). ( es.  “ ... e per non andare in troppe parole ... Se in.  Che fama andrebbe al lui mi i secoli di ieri e I;a, 2 ... ºbbºlo per rili poi ci li ti resi nel l' u tutti e ne andò gran timore per lullo, il regno . I al I. I tempi vanno u mi irli , N ſi i St ! ! 1. l’ulla la città di isti i patiti ne andava a rumore I3. I 413 , ... la gen I e andò a fil di spada q io ti l ne volle l'ira e il giorno ... l ralosi il pool ogni cosa andava a ruba . (0 utndo questa cili, la l 'dei lgo in presa, andatoci a ruba ogni CoSa ... . . . . . . . .ln questi mutnici e si li sº quel luogo il quale andò a ruba ed a Sa CC0 . I .Ma º non crei propri iani e il liri i titoli I e il I il enci si che face rain , i monaci qualche li ha o di quelli in blio che, le quali miseramente anda vano a ruba T, il lil.  º mi ios li si i 'le, che li ci mi i ssis si incli il non irresi ſtiamº mai andando me la vita?In queste cose l'isogna andar cauto; ma lo si e va il capo cantis  sino.... \ :.  A chi con in el l e così i ti e mi isl 1 il ris va la vita pºi giustizia i  a ... e giudicò che e' lusse al pi p si andassene G che volesse dire che egli ci ſi presto al gni suo placer . Fi, l'.  ... vi andasse anche la vita, io sono e sarò si mpre al l ostro pit ( e re ... Ci s  a I', il lil, i cl e ne andrebbe dell'onor stuo ... . . . ( : l', n.  a E se n'andasse il collo, sempre il rero son per dir li Sacchi.  () ual delle due ri pa; lunque più con i nerole: che ne vada l'onor vostre, orrei o che ne vada l'onor divino? Si, si. r ho inteso : ne vada pur , (lile. ne ratula l'onor divino. pl i cli, sull' isl il nostro . Segli  a Sim il cosa diceran quel di Tci n. eh il pm a rosso le ren d'Ital e andrebbe a male se la V era si spirl issa'.... . I  ... ma in vano andaremo i pri, gli i? .  « Lo stral rolò: con lo sl rale un volo Subito mi sci. che vada il colpo  a vôto o l'iissi).Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' alto allora a sdruc. ciolare ». Mar lili. V es .  º I) il nulla º quando Ma io ride che li detti lei Sacerdole andavano a quel medesimo ch'egli intendea... Sal Isl.  Ortando la cosa fosse andata per lo contrario.... ... Fier. (416).  “ ( r se li tºsle i tgton son in mileste. Se le tocchi con mano, s' elle ti vanno, con chi intoli.... . I 3el ll .  i na circºla dirà: quell'uomo mi gol in una fanciulla saggia: quel l'uomo mi andrebbe. Son molte le cose che la bano al gusto e che non vanno (tl e il roll le re . l'orn Ill.  () irando tlcuno o non intende, o non ruol intende e alcuna ragio ne chi della gli Nict. Nuole dire : ella non mi va, non mi entra, non mi ralsa, non mi rape, non mi quadra, e il re parole così lalle o. Varchi.  ... l'ira e li cruccio, il 'nendo, andava disposto di lui li rituperosa mente morire 13 cc. (418).... ma non che la nl o di rivenisse di loro, che anzi non ne andarono  pur leggermente offesi ... I3arl. « Quanto all i più sa della lingua ben app s. nelle sue radici, lanto più va ritenuto in condannare ». Bart.... e da principio va ritenuto lipoi comincia a poco a poco ad arricinarsi alle pristino compagni. Si gri i 19« .... se prorar lo potesse, andrebbe asciolta ». Ariosto. a Le trecce d'or, che dorruen fare il sole. D'invidia molta ir pieno , IE A1 at li fre'don ne va poco contento IPull . Mi l' .« Perchè lal, che qui grande ha sugli Argiri Tutti possanza, e a cui l' (cheo s'inchina, N'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso ». Monli. « ... nè però fu tale La pena, ch'al delitto andasse eguale ». Ariosto, « Si potrebbe indovinare che noi andassimo facendo e forse farlo essi all res) n. 130cc.« Concediamo che spendiale in Noren li con rili, in allegrie e, quel che anco conceduto non andrebbe in men che onesti amori o Menz. pros. () uesto ſarà il mestier come va fatto . Mtilln).a Le ragioni contrarie, a roler che sieno bene e pienamente rifiutate. vanno con chiarezza e con fedeltà esposte . Salv.e dunque non va segnato mai in principio d'alcuna parola quesi 3 segno . Salv.  a ... acciocchè resti si potesse e forni di cavalcatura cd andare orrevole . I 3 o . ( 20 .  ... o Nseri utili al loro i I3oluzi: con unº º l'andarsene rasi barba e ca pegli ». Bari « Von area cominciato nella religione ad andar dispetto e vilmente ». vestire alla buona, cienciosanielle . Fior. Ces.« ... perocchè il rigore toglie la con lidenza: e dove questa lor manchi andranno con voi copertamente, che appunto è quello di che il demonio si varrà m. Bart.  Con lor più lunga via con rien ch'io vada . Petr. (421 . « ... io vi porterò gran parte della ria, che ad andare abbiamo, a carallo . Bocr'.a ... ma la bestia voleva pur andare a suo cammino . Continuare, proseguire. Fier.« ... e dove..... da niuna parte il loro cammino a sè vietato sentono ii fiumi, riposa la mente le lor umide bellezze menando seco, pura º  cheta se ne vanno la lor via . I 3 : Illo. ... Lu (lor lco se n'andò al suo viaggio ... l' 1 r. ... Ma lasciandoli gridare balassi a ir pel fatto tuo v. Fior. 122,. ... ed ella colal salratichella, facendo rista di non avvedersene,  andava pur oltre in contegno ». Bocc.  « ... un vento sempre intavolato per poppa e così fresco che anda vano a più di cento miglia al giorno . Bart.  a Siale in procinto di rela, che non andrà a due anni che di costà chiamerò molli uli roi n. 13arl. (23 . - -« Tulli i cristiani di quel poi lo iurono intorno al l'. Cosimo, a pre garlo con lagrime che non frammettesse troppo a campar la vita, chè il perderla andava a momenti ... Ilari.a ... Ma poco tempo andrà che l'uoi ricini Faranno sì che lu potrai c'hiosarlo ... T)il rile.« ... e costoro si levarono tutti smar il talendo questa parola: poco andò che noi reulen mo....». (.av.« Essendo già la metà della notte andata, non s'era ancor potuto Telmullalo adultorm en la re . I30cc .« Ouesla notte che è andata, si sognai ciò che l'è apparito ». Stor. S. Ells [ach. « () uei area poco andare ad esser morto . Pelr.  Si notino Jin (il men le le ini (iniere : son..... anni e va per...... :  « Io la persi, son quattro anni finiti e va per cinque, quant'è da settembre in qua n. 13occ.  a Signor mio, son questi 1)ebili premi a chi l'ado di e cole? Che sola senza te già un anno resti, E e va per l'altro, e ancor non te ne duole? ». Ariosto.  Vada questo per quello:  « ... e non credo errare ad aggiugne di mio oi namenti e forze a'concetti di Cornelio alcune colte vada per quando io lo peggioro ». Dav. Andar del pari con... : 42.1 ..- - - - - ma i fatti non andaron del pari con le promesse o. Bocc. - Bart. Ncn andavano in lui del pari la gagliarda del corpo e la genero sità dello spirito . I3art. - Basti Germanico privilegiare che in consiglio dal senato, non un con le da giudice si conosca della sua morte, del resto vada del pari I)aV. Andare a chi più..... « .... perciò dove il fatto andava a chi più può in forze e in armi, i cristiani di quelle spiagge quasi sempre i rstarano al di sotto . Bart.  I t  425 . Note al verbo Andare  41() Similmente di resi con le vanno l la cellule? N lì so come vada questa cosa. Come va la sanita? Gli affari non vanno bene,  4 1 1 - - Nota la frase andarsene in chechessia, e io è a dire: distrug gersi dietro a cherchessia, perdersi, ma -sare il tempo, non far altro che....  i 12) - L'andare di qui sto e del seguenti i senipi e al ufficio pressa  poco di essere, correre, trovarsi, mettere, soggiacere e Ma è chiaro che -arebbe guasta la frase, non le andarne d l grato, a voler mettere un di questi verbi al luogo di andare.i 13) – Maniera bellissima. Simile le seguenti: andare a ferro, a fuoco, a sacco, a ruba; andare a fil di spada, e vale essere in preda, abbandonato a... ecc. Frasi, del rost, che a tradurle in altre lingue converrebbe dire: uccidere, consumare incendiando, rubando ecc. o che altro di somigliante, – « L' andare a ruba, osserva il Tommaseo, affermasi di tutte o quasi tutte « le cose in un luogo co; tenute, quando l'essere rubato può riferirsi ad a una o poche ( se tra moltissime ». Mi par di poter asserire con sicu rezza che ne anche il tedesco idi Ima si apprestarci un modo simile a questo andare a...., o altra frase che torni se ttosopra il medesimo. 11) – L'andare chechessia di questo e del seguenti esempi significa: trattarsi di ....; essere in pericolo, esposto a perdere; avvenire, seguire che chessia ecc. Leggili, intendili, che è maniera vaghissima e nostra. (415) - Ognuno vede che l'andare di questi esempi andare a male, andare a vuoto, andare in vano, andar bene, andare a chechessia, andare per lo contrario )val quanto: riuscire, battere, cogliere, tornare e simili. 416 – Significa: non riuscire, riuscire altrimenti che il concetto avviso, riuscire nel contrario. Bocc.417 – E' il Zusagen, anstehen affarsi dei tedeschi. Simile a questo andare è l'entrare dei modi: mi entra. ci entro; questo non mi entrerà mai, ecc. e significa, l'uno e l'altro: capacitare, appagare, sodisfare.  418 – Andare, coniugato con certi partecipi pass. Ovvero con certi ag gettivi, piglia talvolta il valore del verbo essere, conservando però seni pre l'idea di una cotale progressione e continuazione nella cosa di che Si tratta, (andar disposto di...; aridar ornato di...; andarne offeso, andar ne contento; andar metto da una colpa ecc.) e tal'altra fa l'ufficio del ge rundio passivo de' latini, e vale: dover essere, voler essere, doversi ecc. (Gheraldini); - - Quel tal delitto va punito; quell'atto caritatevole va pre  miato e Cc  419 – Nota la questa frase andar ritenuto, guarda i si da. . , proceder con riserbo ecc.120 – Anche l'andare di questi esempi, accompagnato da altra voce  agg. partic. o avverb.) che ne indica il modo, e ad ufficio del verbo essere, o meglio di contenersi, di portarsi, governarsi, procedere e va dicendo.421 – Pon mente costruzione o maniera di connettersi delle par le che si attengono a cotesto andare (andare una via, andare a suo cammi mo, andare oltre, andare a tante miglia ecc.) Il quale la senso di percor rere, proseguire, seguitare, il suo viaggio e simili,422 – I nbekil Inl Inert seilles VV egs gehell SI Inile a Illmina l'e al V lag gio suo: « Ma poichè i regni e gli stati camminano sempre al viaggio loro a e dove prima furono diritti indirizzati, non fla Inal li or an . Il a passo ». Giamb.423 – Andare, parlandosi di tempo, indica lo scorrere, il trapassare del tempo, e la durata del tempo impiegato in checchessia. Nota costruzione andare a ..... – Ricordo qui il modo avverbiale, affine a questa forma di dire, a lungo, a poco andare ecc. v. lProntuario, Tempo - avv.) Un altro lISO molº. In alto dissimile, di llll a ndare, cioè, il sºlliso di passare ecc., è quello della nota frase: « ma lasciamo ora andare questo: « quando e dove potrem noi essere insieme ?» Doce.424 – Questa maniera è simile all'altra già addotta: andar eguale, andar vilmente, copertamente ecc. ma è forma di un assetto singolare e va però notata a parte.425 – Chi non ha le belle ma Iliere italialle Ilon uscirebbe dalla forma comune: trattasi di ..... a perciò dove non trattavasi che di chi prevaleva in forze....... NoDare  Il suo valore, dirò così, naturale e comune all'equivalente di altre lin gue (dare - latino, geben, to give, donner ecc.) è quello di trasferire una cosa da sè in all'ul, consegnarla, renderla e simili. Ma poni mente va ghissimi altri usi ed efficacissimi di un colal verbo, assai diversi dall'or dinario di altre lingue, inoll plici e ſanti che appena se ne potrebbe rac C () l'l'( il mul) el' .  Gli esempi che allego contengono quei costi utli e quelle maniere, ch . mi parvero meno note oggidì ti volgari, cioè, e a poco sperti), ma opportu nissimi e ancora a sapersi, chi vuole impararla daddovvero la lingua ita liana e usarne l'el talmente  Metto prima alcuni esempi di un dare quasi assoluto, cioè adoperato. per elissi od altro, senza l'oggellº e il mal i ra di assoluto cec. Poi altri i un delel'inilla lo costrullo, egliali di lornia, non di significato i dare im, mel: dare del: dare per mezzo a ecc. Seguono undi alcune maniere di un dare ti forma transitiva, e inallelle all i nodi o Irasi antiche e dell'uso.  Il sole e alto e dà per lo Inugnone entro, ed ha tutte le pietre ra st it ltte- o lºo . . .37.  " . . . . . . Sono posti i primi, quando lo veggano li ella vernata già secco, a levar la scure e dargli alla cieca tra capo e collo, tra tronco e rami ». Segn.  “ . . . . . . e ancora raddoppia V. Il dolore e il piant e davasi nel petto e diceva: or II lisera.... ». (a V.  a l)icoti, Signore, ch'io loll lo virt tl da clò, e tll il sai. E davasi nel  petto e piangeva sì forte che pareva che il cuore se le spezzasse in corpo , ( :) V.“ . . . . . e gittato il cappuccio per le ra e dandogli tuttavia forte.... ». Boce.  « Un muletto di Libia avendo scorto nel fiume l'imagine del suo corpo e meravigliato di sua grandezza e bellezza, dati i crini al vento volle cor rore come il cavallo ». Adriani.  “ . . . . . ( con questa tenzone il porco, uscito lorº tra le brache, corre per ulo androne e l'altro porco dietroli, e dànno su per una scala.... Torello levatosi e 'l figliuolo dicono: o imiè! Inale in lobiamo fatto. Dànno su per la scala dietro ai porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di quà, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria (scº sinº tra bicchieri ed orciuoli per forma e per modo che pochi ve ne rimasero Salvi ». Sacc. (438).  a Su, andiamo, diss'ella, ma sei mi dà nelle unghie lo concerò io come ei merita ». I):) V.  « Non prima l'innocente colomba uscì fuori del mido, che diede fra le ugne di un rapace sparviero ». Segn.  e Poichè si diede nel sangue e che "a nominanza era rovina, si attese a cose più sagge ». Dav.a Lorenzo de' Medici a uno che voleva dar nel sangue, ricordò che gli agiamenti a Filenze si vuota: no di notte ». Da V.La prima e ben grailde II al I vigº.ia che dava loro negli occhi si era Che uomini di quel conto.... ». Bart.« .... raccogliere alla rintlls i ciò che dà alle mani ». Macchiav. E come e vedeva i nemici in posa, nuovamente ridava all'ar. Ino ». Bart.« Il colore del tuo abit dà che si fornaio ». Cav. 'Inostra, appalesa – verriith).Diamo che a casa vostra nulla deloba arrecare di pregiudizio l'iniIni cizia divina. Diamo che col malvagi conquistamenti voi la dobbiate eter 11are. Diamo i le le lobbiate a l escere credito, aggiuli:go le autorità, a qlli stare a dereilza: vi pal' però che vi torlli ( olllo di farlo? ». Segll. Coil ed la II 10, assentianro) t439 .« Per la qual cosa la confida:izi dentro le dava pe: lo fermi o li e la pure si convertirebbe . Cav. i 10« Non mi dà il cuore di venire il cilielli o con sl potlºrosi nellli i n. Segn. 441 .E vi dà il cuore di lasciarveli sta, e nel Purgatoriº piu lungamente?» egn « La mia coscienza non mi dà di piacere a Dio ». I3ari.  S  IVARE IN NEI.: a Essere venuti quatti quattº pe; tl a getto di mare per noi dare in chi gli pettoreggi. cacci e prema... . I)av. gerathen).Il sali o, facendo intramesse al ra . colito, dava in affettuose preglio re ». Bart. prorompeva .a Ma su, fingiamo che abbiate tiato in amici di lor natura piu libera li.... ». Sogindovrà egli dura una gr ali fatica per mandarla a live) o a r Inter e in uno scoglio, o ad arenar lolle secche, o a dare nei corsari ». Da V. « Allora Sonzio fece dar ma corni, nelle trombe: piantare scale, salire al bastione.... ». Giali) b.“ . . . . . i quali, quanto prima videro i nostri, diedero tutto insieme in corna e tamburi e grida disso! la ntissimi e all'usanza dei barbari ». B: rt. a l'erò qualvolta voi scorgerete alcune persone che volentieri in luo gli tali convengono a trastullarsi, dite pur senza rischio di dare in temerità, dite che ...... ». Segm.« Allora il Bonzo, dato in un rider sboccato, volse le spalle ai Padri C..... ». Barf. (442).  T).AIRE I)I l NA (()SA IN, PER..... : a ... e, dato dei remi in acqua, si rili se' , al ritornare ». BO . a ... comandò che de' remi dessero in acqua ed andasser via ». lRocc. a Se...., io gli darei tale talmente) di questo ciotto nelle calcagna,  che cgli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa, e il dir le parole  e l'aprirsi e 'l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutt'uno ». Bocc.“ . . . . . e inginocchiavansegli dinanzi e dicevanº: Ave rex Judeorum, pro fetizza chi li percuote; e davangli delle canne in sul capo, tanto clie le Spille gli si ficcari no insino al cervello ». Cav.  « ... le dicevano l'altro suore: e verrà a 1 e Eufragia e daratti del ba stone. E in Illantille lite che la ll dl va ricordare Eufragia, cessava il dia Volo (li tol'Illentarla a. (.a V.  “ . . . . . poscia a se ne disino die di un coltello per niezzo il ventre e.... ». l)a V.  « Cielò ll llll Inedesimo per timore e avvampo per rabbia, e dato barba ramente di un'asta per mezzo il petto a quell'infelice lo squartò ». Bari.  « .... Si chè, (Itlillido venne l origine e diede della lancia per lo costato e si a perse il cuore del corpo di Cl isto, il s a ligu, li us i fuori tutto ». Cav. « ... vi possono dar su di spugna liberamente i pittori sopra un qua  dro, ». Segn. A 13.  |) \ IR PEIR A | EZZO) (l, li... (alla e mi l un ct, ct mi scot ciertt . - - - - - ond'è conseguentemente il dare che la lino per mezzo a tutte le l"il bill leriº ». Bari.  « .... le altre filsto dessero per mezzo delle nellll ll , il V Ve!ltandº i fuoclli e ſerell (lo (l'ast:) o (li Ill ( Selletta ». l 3ii l'1.“ . . . . . Inl egli la diede per mezzo alla si apestrata e senza ragione ». I):av.  • I) AIR V ( )I, I'E: a Tu dai tali volte per lo letto, che .... » lº i c dimen trsi . a Messa la chiave nella toppa, dandovi da quattro a cinque volte, l'aper se e....» (i Ozzi  I ) \ E SI () I RIPI E I) \ N NI IN... e simili Dava ilì ogni cosa storpi e danni al lilli li I); v. « Solo coſa li scioperati che noi: sanno la l' altro e le illeli:ì 'e la font ini, e  e dare storpi e danni nella fama altrui. » Ces.  l .Alt E I E SPALLE collar le spalle o I)all'aiuto di l)io e dal vostro, gentilissime don me, nel cluale io sperº.  armato, e di buona pazienza, con esso pro ederò avanti, dando le spalle a  questo vento (della mormoraziolie e lasciandol soffiare » Roce.  I) \ IRE STIR A MAZZATE : e .... i quali cavalli in quel terren il sangue loro e di loto molliccio. davano stramazzate e sprangavan calci. , Dav.  DARE PIRES\ a, di... (dal pretesto, motivo: dare appicco - reranlassen, « Vero e che queste osservazioni .... daranno presa al lettore svagato e  malevolo d'affibbiarmi un altro bottone che però non mi farà troppo noia avell (lo l'occhiello. » (iiub,DARE CARICA AD UNO DI Q. C. : «.....lo Volle seco...., lo colmo di onori e linalmente gli die carica di VI i eri. » Balt.  DAI BRIGA (sich michts aus Eturas muchen): « Ne anco Imi dà molta briga se, per compiacere a un amico, ho dato da dire u molti curiosi. » Caro.  I)AR NOIA A... Ed accordatisi insieme d'aver per giudice Piero Fiorentino, in casa cui  lano, ed andatiseme a lui e tutti gli altri appresso per vedere perdere lo  Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. » Boce.  DARE GRAN VISTA) (sich schòn, gul ausnehmen -- onde vistoso): « Tutto va in delizie, in piaceri di musiche e d'odori, di portar la Vita con grazia, di vestire abiti che dànno gran vista. » Part. appariscenti,  I) ARSI IN (ERIE(.(XIIESSIA, A ( III ( CHIESSI A (applicarsi, abbandonarsi  t...):  e Calalndrilio, Veggendo che.... si diede in sul bere. » Boce. . si diede allo studio e della filosofia e della teologia. » Bocc.  I ).AIRE NEL MIC), NEI TU ( ) In mein Fach einschlagen –- in casa mia, nella mia bev (t :a Voi date proprio nel mio : l entrare in discussione intorno a questo [ . lll tr. » ( es. - I 3:ì l'1. l3 .  I ) \RI ( III: IRII) I 13 E (da e male riut dal ridere : e Diè tanto che ridere a tutta la compagnia, che illlllo v'era a cui non di lessero le lnascelle. » Boi ('.  I) AIVE I MOLTO BENE I) A MANGIARE ecc. a A te sta ora darmi ben da mangiare, ed io darò a te ben da bere. » Bocc. a Dar molto ben da far colazione. » Fiel'.  I ) \ IX I ) I CC) LIP( ). I ) I CC)ZZ( ) (in... ('('('. : - - Si scagliano di anci , il verso lui e Vanillo a dar di colpo sopra i di rupi del fondo, dove s'infrangono. » Bart. “ . . . . . e V: Illasi a dar di cozzo in una ville. n Bart.  I).AIRE | ) I SIP.VI.I.A : º Adoperò la sua Madre, che già conosceva assai disposta, a dargli di spalla n. a S. Luigi per indurre il Padre a...). Ces. I) A IRE I)I SCI() (CC). I )l.I.I l IRIETICC) ecc.  l) Al l I)I IR E, l)| ( ( )NT E e il lilolo) di “ . . . . . Se mi avesse l'o (ld lIo so clic m'avrebber dato di sciocco il vulu l'e che l'oratore sia di necessità legista e filosofo ». I)av.benche gli tolgon ) ogni appiglio di darmi dell'eretico e del miscre dellte. » Giul).Non vi do di signorie, per le, quando scrivo a certi uomini che sono uomini daddovero, soglio sempre parlare piu voleliti ri a essi medesimi che a certe loro terze persone in astratto. » Caro.« Augusto si trovò questo vocabolo di sovranita per non darsi di re, nè di dittatore. e pur III ostrarsi con qualche nome il maggiore. » Da V.  I ) AIRE AI)l)| | | | | ( ) ( ilira si, in limorirsi, sbigollirsi Sich u b Schrecken a Vinti dal timor della morte, davano addietro e rinnegavano ». Bart.  I) AIA NE' IRI LI , l vale sulla e', i lazzare, r. Scherza) e, saltare, Prontuario): « Ora è ben tempo, soz I, I)a stare allegramente, E dar ne' rulli e saltare e cantare l'er questo rovinevolo accidente. Buon. l'ier  DARE VDOSSO VI I NO, VI) ( N V Cosv (investirlo con parole e con jalli - angrºijen, sich re g 1 e il n. 444 ) :  con le fa un ser it , che, vedendo l' - le sue l e al cosi il gulal dia. Colì a ver le bagaglie abbandonate, non quello investe ma dà adosso a quelle e fallì ( Sllo bolt Ill ( n. l)il V.  I ) \ IR E AI ) ( SSC) \ I ) ( N I \ V ( ) IR ) significa : alle mele ri con assiduità).  I ) \ I RI SI | .I.A V ( ) ( l V | ) \ I,( il N ( ) : Diasi pur sulla voce al presuntuoso che sale - ha o ha i ed io di... » IDa V. « Io conosco un auto e a cui per questo peccato si diede più volte sulla voce e, sventurata nel. e, n loro profilo. » (iiill).IIa i sentito come mi ha dato sulla voce, con le so avessi detto qualche sproposito? Io non ne n solo la tio caso punto ». Mlanz. – E' Vgnese l r r l  le ricorda a Lucia (lulei ripiglio sgarbato della signora i 15)  I) AIRE A VISI) EIR l, l) \ I l A ( IRI,I ) Il RI : « ....e dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare, che andar  voleva alla perdonanza.... » Bocc. « Fra Alberto dà a vedere ad una donna che l'agnolo Gabriello è di lei  Innamorato ». Bocc. Conf Far vista, far sembiante, far veduto - sotto fare). 1)ARLA TRA CAPO E COLLO (sentenziare di chicchessia o checchessia senza pietà, senza alcun riguardo, con poco senno ecc.) –  l)Ali DI MANO, DAR DI PIGLIO :  « ... die di mano al coltello e sì l'uccise ». Pass.  “ Noi per questo, dato di mano alla rivestita ampolla, col marchio.... ce  l'andammo.... ». Alleg.  « Lo duca mio allor mi die di piglio, E con parole e con mani e con enni, Riverenti mi fà le gambe e il ciglio ». Dante.  « ... i più severi centurioni dànno di piglio all'armi, montano a cavallo... »  IDaV.  « Draghignozzo anch'ei volle dar di piglio ». I)ante.  DARE I TRATTI (essere allo stremo della vita: « .... braino che ella, che nelle sue mani dava i tratti e boccheggiava,  nelle mie basisse, spirasse e intrafatto perisse ». Dav. « ... e incominciò ad entrare nel passo della morte e dare i tratti ». Cav.  446). Note al verbo Dare 437 – ll dare di questi primi esempi torna sottosopra ai verbi: bat  lere, percuotere, arrivare, colpire, cogliere ecc. Prova, recalo in altre lingue, p. es. in tedesco, e non lo potrai far meglio che usando le voci proprie: schlagen, elnschlagen, klopfen, gera then ecc. ecc.  438 – Dànno su per una scala è lo stesso che: fuggono, si diſilano. Dare o darla è spesso verbo di moto, nota il Fornacciari, e ac cenna per lo più a un moto violento e quasi di urto.  439 – In questo caso anche il tedesco adopera il suo geben (zu geben); anzi è la forma di dire ordinaria questo: vir geben zu, per: concediamo, accordiamo ecc. 440) – E' appunto l'einreden ed anche l'eingeben dei tedeschi. 441) – Simile anche il modo: dar l'animo (Conf animo, Parte III). 442) – Aggiungi le maniere consimili: dare in vacillamenti, in ver  tigini, in frenesie (Segn.); lare in escandescenze; dar nelle gi relle, nei rulli; dar nel ge mio ecc.443 – Anche il modo: dar di morso a.... va annoverato qui: « E lu darai di morso al calcagno di lei io. Ces. (Et tu insidia beris...).  444 – « Dare adosso ad alcuno, figuratamente, vale anche nuocergli COi detti, co Cattivi il flizi ... (il) el'ardini. – Simile al detto: l'agliar le legne addosso ad uno. – « Tal ti loda in presenza  che lontano Di darti addosso bene spesso gode o. Leopardi. – Nota altri modi con questa voce addosso: andare addosso a mimici - I bav : l are un processo addosso ad alcuno (Bart. - DaV.) ecc.  445 – I)are sulla voce è un riprendere, biasimare, censurare, chia rnando all'ordine per vie indirette, per certi segni, avvisi, ml Ila/CCe GCC.  446) – Dicesi anche: fare i tratti, e pare che significhi, anche questo, dare i tralli; cioè agonizzare: ... e la Madre e tutte le altre stettero chete, in silenzio, mentre Gesù faceva i tratti e pas ( sava di questa vita o º av  Fare  Lascio le dissertazioni intorno a questo verbo, e mi faccio subito agli esempi, non trascritti dalla Crusca e d'altri Vocabolari, come fanno ecelli compilatori di grammatiche e dizionari dei quali tutti, quando presi a lavorare questo libro, io non avea nozione alcuna –, ma colti, al solito, nei migliori autori, lilli da me diligentemente cerchi e stu diosamente analizzali e sviscerali.  A maggior chiarezza di idee e ad agevolarne alche meglio lo studio.  distinguerello sei ordini liere di lare: la - che sta per quali il tre altro verbo dianzi menzionato. IIº - aggiunto ad un indefinito sì come vezzo od ornamento di frase (il pianger che faceva, che vede a fare ecc .IIIa - a valore di esse e o così che potrebbe stare anche essere (esser ll lile, esser buono eI Va - ad uso di varia significazione, cioè in luogo e forza di uno dei verbi: giudicare, ripulare, ottenere, conseguire, importare, fare in modo, passare, renire (parlandosi di piante).Va - pronominale farsi) e col significato di inoltrarsi, sporgersi, af facciarsi e simili.VIº - finalmente, ad usi diversi e come parte di questa e quella frase, cioè a connubio di altre voci e di un significato inseparabile dal medesimo. (449).  --- --  I. « ..... onde ella amava piu te e l'amore tuo, ch'ella non faceva sè me desitna. » CaV. (450)« l?el lo co.municare ille,iorire s'avventava ai suoi, loll all l'illelit I che fac cia il fut.co alle cose urtte. » l3o .- - - - - che io ho trovato dolllla (la III lto più che tu non se, che li leglio m'ha conosciuto che tu non facesti. » 130cc.« Il cuore non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolves se.... ». Bocc. « .... le dice che se ne guardi; eila noi fa e avvienle. » I3 a « Quantunque quivi così muoiono i lavoratori come qui fanno i cittad.  (  Figliuolo, Messer (ieri non ti manda a me. Il che raffermando piu volte il falinigliare, nè potendo altra risposta a Vele, 1o 11 , in (ieri e sl gli li dis  se: – Tornavi e digli che si fo ci re: che ti mando . – Il lamigliare, torna a to, disse: –Cisti, per certo Messer (ieri mi manda pure a te. Al quale Ci - sti rispose: – Per certo, figliuol, non fa ci e, non mi ti manda, o Bocc.  « I)i spettacoli e d'ogni maniera divagamenti non potea pur patir di sen tirsene dir parola e partivane coli quel disprezzo che altri fa delle cose  Sozze e della Dl'll tll ra. » ( es. a .... e percio' che amore merita più tºsto diletto che afflizione a lungº  andare, con molto maggior piacere, della presente materia parlando, obbe dirò la Reina, che della precedente non feci il IRe. » Bocc.a non meno la grazia ( i a Inor del Soldano acquistò i l suo bene adope rare, che quella del (..italano avesse fatto, i 13 .'I'll ci il celll quasi coine se noi non conoscessimo I l 3 a 1 con i collle fac  ci tu. ) Bocc. a .... li quali per avventura voi non conoscete come fa egli. » Bocc. Itil V Vedeti oggi Ill:li e torna ll II 1 , coiile tll escº l' - le Vi, e non fa l' far  beffe di I e ti chi conosce i filo di tllo come fo io. , B º  a Tu diventerai molto migliore e piu costumirato e piti da bent la che qui  e non faresti. » Bocc.  a ... e nol credevano ancor fermamente, nè forse avrebbe fatto a pezza  (indi i lì0m molto), se ll : l caso a V Velllllo 11oIl 1 sse ch'e lor cllia l' elli fosse  stato l' ll cciso ». 130cc. e prega V: i lil. Inolf ( ll II, il III trite ch'ella di V -- andare il lil 1 l 'a  sua, com'ella prima faceva, e molto piu..... m ( il V. a Quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio, ad perare, che  a fatto non avea il: altra parte. » Bocc.  Ed ecco venire in camicia il Fontarrigo, i quale per torre i panni come  a fatto avea i dalmari, veniva..... l3o a ... non v'è oggina , chi ad un amicº, terreno non creda pil di quello,  che faccia a I)io. » Segn. a I)avano vista di non tener più conto di lui, che si facessero degli al  a tri. » Balºt. Ces.  « Ma veggiamo forse che Tebaldo meritò questi cose? certo non fece: voi  medesimi già confessato l'avete. l 3o . a Niuna cosa è al mondo che a lui dispiaccia, colme fai tu. ) 13 r. 151 a .... ilſſuale non altrimenti gli lol corpi cali di li nascondeva che fareb  be una vermiglia rosa un softil vetro o Bocc. « Come suol far bene spesso molti altri, non m'ingannava. , Fier.  1t)Non potendo egli per le sue malattie intendere agii studi quanto face vano gli a Irl, º d egi I l Istora Va Illesi e il 'dite coll ..... » (.es.  a Dio tranquillasi assai piu ti sto che in li fan l'onde di turbata peschie a ra al posar (l, vei iti. » Salv.  a Amatemi coln, io fo Vol. (io/ zi. ) !  e Cosi l i poppavano colti i madre avrebber fatto ». lSocc.  S'io mi conoscessi così di lieti e preziose, ci rime io fo d'uomini, sarei blloli gioielliere. I ,il Vlati  II. Ed era si gri il de il percuotere che facevano il Sielli e le lololar, , che slavi, la V il 110 Il loro o il il iie l relli.Nel fuggir ch'egli Assi i lill ta faceva lie, una foltissi Irla sei vil, gii in cell le ll ' la g 1, l. 1 Isg, i Zl: 1. S - li.l'el Issa i cori e se li 1 , l su tv li intendere e del guardare, ch'egli i' leva ch'esso facesse le ,i di 1 min. 13 , .()n l'e ( olls gli ::. in l. ii dare che fanno per mezzº a tutte le ribal (l, l' e.....! I3: il t.Qlle rigoglio dal scperchiar che fanno le linesse de gli il ll ' ( ssell (lo 'll - I ll . ( ..:Per esaminar che facesse egli in desino, ogni azion sua..., con quella Sotlill-siIrla a ' ll ratezza º le farebbe ! l ... I l di pill roso e maie a milm:a  “ to........ !! ( sali 1,3;  -  Il III ore il plli ſi te e il martellar che faceva il povero cuor di l.u cia.! Mla liz.pero che tro) po lisa: il si logorava a disciplina del santo, la l'ecò il pit l i-erlo, si illo e Irl) Il lt , il battersi che facevano con alcune a discipi ille, o il de ci si ill si Vºle, tl a V a Ill quella dei santo.... Dari. a ... al Illale il saporito bere che a Cisti vedea fare, sete avea generato ». I 3 mcc.« I)a (Illel ol'l'el' che gli viddero fare il lla volta (ll ... I3:l rt. colll'elera il d a loro, per venir me: io dissecar che questo faccia, non perciò se lº svil I llia. . ll : :lzi... » 13 arb.I l piangere che lo l il re in teneriti fino alle la grini e vedevamo fare al mostro fratello, ci reco ad altri pensieri, e avremlino a condisceso, se non  clie.. .... a I3: l l'1. Ne I llli loro a spe, e ne vide i gli eletti, quando nel darsi che fecero per lo mezzo dei barbari, mist ro tale sp: vento... ». Iºart. il l. Il liv fa l la teli per atissima stagione di pri  Il l: i ver, l . . I 3: l ... . . . ll vi fa lin'. I l la derisi e greve º I ai t. )l re a ciò al spiaggia di Malacca fanno venti freschissimi, o l'art. l'etiche, a ragione di tr Inn ti che vi fanno spessi e gagliardi, esse « (case) non abbiano il mio volte sopra al chi. » l?art.a Ben so che per te farebbe di lasciare il vincoli e li poso della carne a e alrdarne a Cristo ». C: Vali. . io -il ebbe il lile).e Niente ha i sapor di biada e perciò tu non ti fai a me, nè io mi foa te ». Fav. Esop.« Non fa per te lo star tra gente allegra, Vedova sconsolata in veste negra ». Petr.Fanno pei gran disegni e mutazi e Ilori e da la dare ove la posa piu ti rovina clie la tern rità. » I)ava zMa perchè nell'acqua chiara ! ! - i lig lio la l et le ia V gg li : la torbida fà per chi gli vilol piglia ' , III: ng ſare. l)avanz.  Noli può fare li Ill re : I l e - - al 1ori la lol ( III il tal11:1. Sºg Il  ..-e egli dice , N 1 il por io può fare ch'ei rion si p it ,  e se n'esce ri le 'le, quell'avel tº Inlito gii accresce il dl! . » Da V. in quanto piu' alie d ' Iº che agli uomini, l' I, olto parlare e ling o  quando senza esso si possa fare si disdl Bo 155  l Ia' tll a Irli in olii o li or fan sedici anni, i l .. . ( l Slla V a 56  IV. a Suo cimitero di Illelia part la lino ( 1 Epi :ll'o ti 111 i su: i seglia -  e ci, (le l'anima col corpo morta fanno. » l)a 1; e I epili i go, suppongo io,  giII il 1 a 1 Ma il popolo che vuol ci ala e il faceva chiari at ali adozio e, a I) avanz « L'anſica III e Imoria fa il torri pi di icato dal... , I): v.a La tua loquela ti fa mi i lifesto manifesti rien! Di qui la riobi! pa tria nati. Alla quale lo sa lui troppo mio' si o I): inte . i s'ipno , ti appalesa – verráth dich.a I), Pietro in ritiro a Solo quel divario era oli e la S. Vg -tillo faceva da Fausto Manicheo si primo mi:i stro : S. \ mily g io. L'uno tilt 'tori e leggerezze, l'a lt) o frutti e -: il lezz' o I): V. Lc fo partito per di qltà ». Fier. a Dunque hai tu fatto lui bevit re. e V. , o di siti - 'e gli dai taccia) Colli i clie ha il ll ll gli fa l'i . . . . . . . 11: li l 3 , i ll l 1:1, Illeſ le co; to fa lrlestitºri E questo fa cli: i lio: e Itil, i ni li stili lo i libri li . ( s.  i Mla poi li è 11 11 si | lo fare i lic lºl - 1 , ' - ri - i l. 1 , , , l  a dio alcuno, nè posso - I gri e 'a e l' a i 'tr... ll ' Ina - - a ledir Cadmo e chiunque fosse altri di quelle teste matte che ritrovarono a questa maledizione dello scrivere . » Caro ottenere, fare a meno)  « Mentre che.... io non poteva fare ch'io non mi doleSSì almaramente. » Fieren.  rate che al nostro ritorno la cena sia in essere. » Caro fate in modo,  procurate) I)eh se vi cal di me, fate che noi se ne ineniamo una colassù di queste papere. » Borg.e perciò una canzone fa che tu ne dici qual più ti piace. » Bocc.  l'areva che non ti l'i sole, il la a Sinigaglia avesse fatto la state. » lºo: . passaio, trascorso (ono fatto fù ii (li chiaro verso la si dl lizzò. , Bocc. | - Il sul far della lotte e presso della torricella nascoso. » Bocc. 157)  l'altra urla de l'en li colli l?olna li.... Susilli non se lº cura; fanno per tutto, purchè grasso vi sia. » I)avanz. Colne ogni altro frutto tra  piantasi il noce : fa per tutto viene adagio: dura assai: appirasi agevole: la ombra nociva, onde egli lla il nome, o Da V. 458)  V . . Il quale come egli vide fattoglisi incontro gli die lel viso un gran punzone. » Boc i 150.  « Onde non è mai raviglia, che la llclo, la lit I anni al presso come si e det to, vider co'a ll no della compagli 1.1, gli si facesero tutti incontro a domall darlo del loro padre, e se v'era speranza di mai piu rivederlo ». Bartoli. « Chi volesse cimi ( 1 lt; lr sl lol a V i rl facessesi innanzi a l):ì V . « Ma ancora aspettano di dirle altro, e fannosi innanzi, e mettonle un cotale pensiero. » Caval.a e allora si leva rollo costoro, e il maledetto Giuda si fece innanzi, e ba (“iolla) e disse. » ( a val. a Ver me si fece ed io aver lui mi fei ». l)a lite, Non posso farmi nè ad uscio, nè a finestra nè uscir di casa, che egli incontamente non mi si pari innanzi ». Bocc.« in vista tutta sonnachiosa, fattasi alla fenestra, proverbiosamente disse: chi picchia laggiù? » Bocc.« Fattoni in capo della scala vidi e sentii tutto ciò che passò tra loro. » Bocc.« Spinelloccio è andato a disinare stamane con un suo amico, ed ha la a donna sua asciata sola, fatti alla fenestra, e chiamala, e dì che venga a « dosillal' coll (esso lì oi ». ROC Cº.« Fattosi alquanto per lo mare, il quale era tranquillo, e per gli capelli a presolo, con tutta la cassa il tirò in terra. » Boce,a li contemplava dalla riva in lotta con le onde, perchè da oli passion « Inosso fattosi alquanto per lo IImare, dopo Illolto affaticarsi, li l aggiullse, a li prese entrambi per le vesti e tirolli a terra. » Bart.  « Così senz'altro dire, la buona quaglia starnazzando l'ali per ia gabbia con più empito che poteva fece tanto rumore che il padrone senti, e fattosi e alla fenestra cacciò via lo sparviere. » Fi( l'enz.  « E facendomi dal primo dico.... ». Ces. 460).  a Fatevi con Dio, e di Iile non fate ragione. » Sarch. COllſ. l' 1 rte I. Ca po III.)  a Fannosi a credere, che da purita d'animo proceda il non saper tra le « dolllle, e co' valelnt'uomini favellare. » Bo -. 161« Il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a credere, per al tro Inodo in Vrebbe lorº limitato il cinguettare . Bocc.« facendosi a credere che quello a lºr si convenga e non di sºli a che al e le all re. » IBO(''.« I vestimenti, gli ol'namenti e le caliere piene di superflue delicatezze, le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune o Bocc. « Ma questo io mi fo a credere che fu un giuoco, l'n tranello, un lavoro « l)i quel malvagio | risto!.... » Buonar.e Pognano il torto a tua gente, la quale molestando i paesi pacifici, si a fa ad uccidire uomini, bruciare templi, sparare donne, sforzare vergini!...» Lett. Pap. Nic. « Chiunque si farà a considerare quanto ..... !! , ( l'ulse: i « La vide in capo della scala farsi ad aspettarlo. ) Bocc.  VI. FARE COL SENNO, COLL' UMILTA' (e simili. 462). (rl lidogllerra ebbe morire ed in sua vita. Fece col senno assai e con la « spada. » IDante« Fd ella incontalmente lasciò quella risposta, e prese conforto e disse: e io farò come la Cananea, coll'umiltà e coll'improtitudine e colla perseve « ranza, pure per avere da lui misericordia, perocchè m'è detto ch'egli è tut « to benigno e misericordioso. » Cavalca.  F VIR SENNO (53). « Senno non fai se llor: lla i telli ſi gli Idi. » l)ittaln. « Meglio di beffare altri li Vi glla rderete, e fareste gran senno. Bocc.  Fl\l8 RAGIONE (che..., di..., con...I. Ma io fo ragione che i nessi tornassero tutti affrettati, e dissero: ve « duto abbiamo che questo maestro è testè passato per cotale contrada... » Cavalca i 464)« Allora domanda consiglio di tua salute quando vedi le cose del mondo « andarti molto prospere, e fa ragione che tu se' atto allora a sdrucciolare. » Martin Vesc.rai:  e Ora per non i petere.... io fo ragione di non tenere un disteso ragiona  lIlCl1to. » CCsari. « E peroc he.... fece seco ragione di rimandarmelo ». Ces. « Ma volentieri farei un poco ragione con esso teco, per saper di che tu e ti rammarichi. o lº intenderIileia con..,« E pero a te, siccome a Savio,... ti convien confortare, e far ragione che Inal ve lli: a 11 mln l'avessi, e lº si lalia a indare. » I30 c. 465)« E - I fate ragione, che pe: quellito egli potra, Sara Selmpre il primo a a rovesciare sopra di voi la sua colpa o Segn.lº co; i forni 1 e lo ch sll edette allo sventurato Saulle fate pur ragio « me, l tito:i, che avveni del bri a tutti i peccatori. » Segn.« E in esso luoco, fate ragione che il Signore venga a purificar quelle anime, quasi lentro un cro, illolo terribilissimo, finchè depongono tutta « l'antica storia. » Segn.E pensonni che Gesti i Marta disse: fa ragione che tu mi vedessi in a ferino, come si mo . -toro, hº giacciono qui entro, e in così gran Drsogno, « pensa quello che li fa resti a ine, e fa a loro ». Cav.« E però dico che i lutti l sua sollecitudine pose di far bene l'ufficio, che a le era dato di lui, il quai ella vedeva che tanto gli piaceva, che poneva in sè la p rsona e l'era se: vita. Ed ella cosi faceva ragione di non partirsi a da lui punto; e qua:ldo serviva il povero e l'infermo pareva a lei servire Cri e sto nella sua persona, o ( v. a E fa ragione ch'i' ti sia sempre allato ». l)ante.  \ V EI ) l I ( ) - – I VIR SEM1  I \ V IS I \ \ V IS | | | ) | --- l' A | 31.VN Tl. .... , ella a tal - i vitiche1ia, facendo vista di non avvedersene anda va i colti e in colite- io. Boa l l' allora fe vista di : andare a dire all'allergo che egli non fosse atteso a en I, p. I d p moltº ragionamenti, postisi a cena, e splendida In nte li riti , va i se viti, astutamente quella menò per lunga fila al l: il l - lll'a. » l oe l'appa ma i ti r; parevano molto religiosi e molto costumati, e gran vista facevano di cosi essere ». Cavalca (66).l'il, l'io li in voi i 1. ll scostarsi da Itolina, e ogni anno faceva le vi « sto li voler visit lº serviti e le provincie. Mettevasi a ordine. Ineve vasi, fermavasi, o, ivi in inet , orire la ti gallo, onde di evano gallopiè. »  l):n V:ll 17. a E fatto prima sembiante il sere la Ninetti messa in un sacco, doverla a qu . te t - il. 1. Inizzerare, se la rimeno alla sua sorel  a l:n. » i 3 t . E quando i s rso i litro fecero sembiante di meravigliarsi forte. » H3 ) .. Fatto adunque sembiante d' , li conoscerlo, gli si pose a sedere a pie a di. . I8o .« Quindi vicini di terzi levatosi, essendo gia l'uscio della casa aperto, a facendo sembiante gli vs si a' tr Inde se ne salì in casa e desinò. » Boceº -. ... e cosl ad Andreuccio fecero veduto l'avviso lol' . » Pocº. 'diedero a vedere, a conoscere) 467,  FARE AI L'AI TALENA, ALI ..\ IP.AI.I.A, A I.I.E (..AIRTE, AI .I E ( I ) I, TELLATE, A SASSI, AL MAGI IO, (e simili). a e per vilificarsi faceva al giudo dell'altalena. » Fioretti. « QuiVi si fa al pallone, alla pillotta. » Lippi 468) « Noi abbialno carte a fare alla basetta. » Cant. Carli. « IDicesi che c'era un tratto un certo tempione, che si trovava un paio di si gran tempiali, che facendo alle pugna con chiunque si fosse..., non si a poteva mai tanto riparare che ogni pugno non lo investisse nelle tempia. » Caro.« Siccome, se tu fossi nato ill (il e ia, dove e corrottºv le esercitar l'a rti a In e cora giocose, e gli Iddii ti avesſero fatto nerboruto coine Nicostrato, iº non « patirei che quei braccioni nati a combattere si perdessimo in fare a sassi a o al maglio, così ora dalle accademie e dalle scene ti richiaino a giudizi, e alle cause, alle vere battaglie . Dav.« E' facevano al tocco, per li avea a Inter: 1 primo di loro. IBllonerotti. (469)  FARE A CIII PIU'....: FAIRE A FARE CII ECCIIESSIA a gara – um die W ette). « i quali con altri magistrati fanno a chi più adula. » I)av. « Ma lldendosi allora ()tone e Vitelio, con iscellerate all'Illi, fare delle cose) umane a chi più tira.... ». I)a V.a che è quanto dire che più di mille e mille lingue fanno continuamen a te a chi più squarcia il buon noi, e degli innocenti. » Giul).« Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che filro presentati pri « ma alla sposina, e dopo al parenti. Mentre alcune monache facevano a a rubarsela, e altre complimentavan la IIIadre, altre il principino, la bindes sa fece pregare il pricipe che..... Manz.  ſ'.ARE A FII) ANZA, V SI( U IRTA' con..... a perdonatemi s'io fo così a fidanza con voi. Bocc. « Coloro che fanno a sicurtà colle riputazioni e per sin colle vite, non solo (le” cittadini, ma.... » (iilib.  FARE ALLE PEGGIORI con i contenersi, governarsi nel modo peggiore) « Augusto senza dubbio inizio l'I: neilla a fare alle peggiori con Agrip  a pina. » Dav. « Egli tanto più il 1 furiava, e facea con tutti alle peggiori, fin lì è il re il  a Inandò cacciare come il Il ril):I l I liori li pii l:ì gi . » I3:urt.FARE A MICCINO : consumare, od altro, con gran risparmio. Miccino vale pochino e a muccino a poco a poco. 170)  FARE A SAPEI? E a crerti, e, ammonire e simili. « E quando tu la intenda altrimenti, io ti fo a sapere da parte sua ch'egli « Sala tanto (Illa Into e ispetta a Sua Maesta. » Fier.  FARE DEI. SAVIO, DEL SUPERBO - I)I.IL PAZZO -- DEL BUON COMPAGNO –- DELl. UOMO e simili da sl l'aria... den gelehrten spielen ecc).Allora il corvo, che tacea del savio e dell'astuto prese carico sopra di e - d'esserne (il re... o lº le reliz.« Il che udendo la testuggine e volendo far del superbo anzi del pazzo, « senza rico: darsi dei e aminionizioni datele, plena di vanagloria disse.. » Fier. « .. . . Volelrd , far dell'uomo essendo lo stie, Illalrdano llla e e rovinano « non stilainelli e. . » Fiel'.« Ho fatto tanto del buon compagno che me – il lio acquistati tutti. » Caro.  FARl, \, FARSEI, A CON contentarsi.... stai con lento a....). e Domandò come Silv: la facesse, quello che fosse della moglie e.. » Fier. « Se la faceva la miaggior parte dell'itino all'usanza dell'Indie con riso; e e quando piu sontuosamenie con in poi , d'erbe condite sol di ior mede « Sime. » I3art.  FAIRE I ,i ,( ) V . . l) il liut ) Ni lºrº in l. FARE ILE BELLE PAROLE e simili. « acconciarsi le parole in locca. » l80 parlare lorbito, in quinci e quin di ecc.)« Ed ella, facendo le belle parole, rispondeva che le era a grado assai, ma « la dimora, l'eta, l'ufficio.... e º no pur cose (la polmderarsi.. » Fier.  FAI? FORZA AI ) A I CI NO) – FAIR FC) I Z \ l)l Q. C. I 'ARE I)i FORZA ci avvisò di fargli una forza da al ll ma l agioli colorata. » Bocc. « Colnili ciò a gridar forte: Aiuto, aiuto, che conte d'Anguersa mi vuol far forza. » Bocc. , il « La reina faceva ai giudici forza dell'appello. » Dav. « sa tanto ben ciurmare che incorrendo in contumacia, turbando posses a sioni, e facendo di forza, la cagion gliene comporta.... » Bocc. F AR M1 T TO AI) ALCUNO (v. Parlare Proml.). 'FAR FALLO A abjallen). a donne le quali per denari a lor mariti facessero fallo. » Bocc.F A R CONTO DI... CHE (daraui gefasst sein, sich cturas u oill be mer ken – bedenken ecc.).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui, trionfali dolo ill lor stessi,  a e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver  « ranno. » Bart. e sappiamo che...., e sian prevenuti che....., e ponderino  bene che....) a Dunque dovrò starmene tutto l'inverno tra questi geli e durare si lun  « ga fatica...? Fa tuo conto. » Gozzi a Le saranno adunque, ripigliava il ragazzo, candele? Fa tuo conto, diceva  il padre, le sono appunto candele. » Gozzi.  FAR BISOGNO A. Q. C.  a e le nozze e ciò che a festa bisogno fa e apparecchiato. » Hocc.  FARE AI) ALCUNO SEI? VIZIO IDI SUE I3ISOGNA Bocc. I)av. I3art.,  I ARE CEFF ( ) .472 . a farebbe ceffo a questa fiorentilliera che cosi le propri la nostre appe.  con barbarisino goffo e sllo e cellsll rel'ebbe così. I a V .  l'ARE ACQUA a Cercar di al III la sorgente ove farvi buon acqua. I3art. Fier. a poi ripigliò: forse il dite perche quella nave qui una volta fè acqua. »  l3al rt. 473;  I AI? CARNIE : I n di ch'ella acquiia, era ita a far carne. » Fier. º e Ini venne veduto quell'iniquit so giovane colla spada ignuda per ogni canto far carne, e gia giacerne i suoi piedi tre, tutti imbrodolati di sangue, che ancor davano i trat ..... » Fierenz. |  FARF II. TOMC) Conf. Cadere Pront.. FAR CERA (da Kairen). “ lo indusse a....., a far gran cera. » I)av. FAR GREPPO quel raggrinzar la bocca che fanno i bambini quando vogliono cominciare a piangere) Crusca (474)FAR GESU' congiunger le mani in atto di preghiera – vive in Toscana FARCI II, CAP() .- FAI? E TANT ( )Farci il capo vale averci pensato tanto o pen-acchiato o provatosi di pensarci, che nºn se ne intenda più nulla, nè anco le cose chiare e che si vedevano alla bella prima.Fare tanto di capo vale sentirsi stordito o da pensieri noiosi o da mal CSS el'e o da rumori.M'avete fatto tanto di capo, dicesi ad un uomo parolajo ancor che ne in parli a voce alta, purchè coºfonda ed uggisca la mente. Così Tommaseo, Gherardini, ed altri. FARSI RELI.O:“ . . . . . . che se ne fa bello per aver tradito le tre legioni smembrate ». Dav. l'AIRSI LARGO allargarsi, agevolarsi la strada – avere i mezzi di farci rispettare e di avanzare presto nella via che prendiamo.) « Coloro che per le corti colla virtù e colla fedeltà si fanno far largo ». Iºierenz. « se non vi fate largo coi donare.... ». Cecchi. --- Farsi largo colle chiacchere, coll'ingegno. -- C'è chi llell'ultimo altrui si fa largo donando, chi domandando, chi piangendo, chi ridendo, chi co mandando, chi in Inacciando, chi lo dando e via Via. \ V ER A FARE CO)N..... I)I a bella donna con cui lo imperatore ebbe a fare ». Dav. che ho io a fare di tuo farsetto? » l8oce,  Note al verbo  Fare  449, – Non curo di molti altri usi, vi oi con uni ad altre lingue, vuoi notissimi e frequentissimi an ha oggi, p. es. far lare nel doppio significato di ordinare di fare, e di cagionare di fare  fare apparecchiare checchessia anferlingen lassen – fare all'l'ossire ullo – l'hre Arligkeiten mitchen mich erròthen –  Lessing.  fo0 Anche il to do degli Inglesi ha tra gli altri molli, un uso pres. sochè eguale. Es. The day techn J sau him ho looked belle lham he does nou'.  fol - Quel come lai lu sta per come dispiace a te. Nola inversione illicola di costrullo e dell'ordine l'azione.  4,2, (iozzi chiude parecchie volte le sire lettere così.  3 - Nola anche il secondo : che ſarebbe il fare cioè del primo gruppo com'egli stà per un verbo del primo inciso sottinteso adoperando..., che adopererebbe..... º, o per l'anzi detto esa m in tre: colla quale esaminerebbe ecc.  4 , Per dimolare lo slalo di essere del tempo, dell'aria, del mare sillili, o loperano i buoni scrillori assai sovente il verbo ſul re': come latino i francesi il loro laire. – Guarda come,  i , - Mlodo a lille l'altro antic e dell'uso far senza (una cosa) ci è pol el sºl le limitinº l'e - esser star bene senza.... ».  fºſi - I granimalici li apprestano indi la regola: « Fare stà per  lº minare, compire, rattandosi di Iempo, e ad esprimere quan lilì passa la lo mi trovo più semplice la formula che anche il Tuesto caso il verbo far fa pel verbo essere,157) – Nota di questo gruppo le maniere: lorº la state, l'autunno ecc. il farsi del dì, della notte ecc.  458) – Analoghi a questo fare sono i mºdi lar buona proºº, fa, gran prova, provare. Conſ. Pianta. Pront.  459, – Metti a serbo i modi: idr si incontro: larsi ºººoi farsi in nanzi...; larsi alla porta, alla fenestra: larsi a credere e simili.  460) – Simile: « E iatlosi dalla in attina venne lo raccontando... » Ces. - - - - - Dicesi anche: farsi dappiº, per cominciare dal primo prin cipio.  it:I – Pon mente al senso del pronominale farsi degli esempi an tecgdenti, e ti sarà agevole intendere come il modo farsi a credere non sia come melle qualche vocabolario, un credere a dirittura ma un accostarsi, recarsi, darsi, inclinare a credere. Simile anche l'altro: larsi a fare checchessia – cioè mettersi prendere a...  4( 2 – E' ingegnarsi, studiarsi, faticare ecc., adoperando il senno, l'umiltà ecc. – Far colla cosa sua . Non gli dar noia.... chè egli la colla cosa sua Cavalca pare che dica sempli cernente adoperar del suo.  463) – Vale operare saviamente, metter giudizio emendarsi. E' modo elittico, simile al precedente ma di significato assai più ristretto e talora diverso. s  464) – Traſduci : mi penso, mi arriso. Si adopera questo: far ragione che..., di..., a più altri usi e significa quando supporre, repu tare, e quando stimar bene, opportuno ecc.; mentre far ra gione con alcuno vale intendersela, fare i conti e simili.  465) – Far conto che, dicono i ...ombardi. Simile anche il seguente del Segneri.  466) – Far vista, far le viste di ecc. è altrettale che fingere, dare a vedere (v. Dare); sich stellem als ob....., Miene machem, sich den Anschein, das Aussehen ſi bem. Pilò però significare anche semplicemente sembrare, parere: « non facendo l'acqua alcuna a vista di dover ristare, presi dal N. N. in prestanza due mar lelli. » Bocc. Anche il nodo detr vista (conf. 1)are) è usato dal Sacch. e dal Cesari (e lorse anche da altri che non ricordo) : senso di lar rista, sich slellen ecc. « 1)avano vista di volervi « andare. » Sacc. « I)avano rista di non tener più conto di lui « che si facessero degli ºltri. » Ces.  468) – Nel traslato: fare alla palla dei quattrini vale spendere senza riguardo.Si fa alla palla di checchessia quando avendone a josa, non si bada a risparmio. Anche la frase: lare alla palla d'uno ha senso non guari dissimile e vale traslullarsene, dargli la balta, prenderne giuoco, fare a sicurlà de fatti suoi ecc.  467) – Questo modo far veduto pare che abbia un doppio senso, e si usi tanto a significare far si che altri pegga o gli paja di vedere, quanto dare a vedere, lar sembiante ecc. « le iè ve duto di uccldorli » BOCC.Così pure dicesi : « far vedulo di commettere, di perpetrare ecc. In questo senso usasi anche l'altro: far vedere. » venne un medico con un beverag 21, e lattogli reale e che per lotuſosta ICIulu. I « e lo 5 allop oddo.15 Un'; Iso, o IoitIt: otp lºp o  puqquI I ouuº ollo IS.It All I lºp olioIA os IOI o II.) BAIA ost.I I » – (3 li  - ll T. -uui uu.o Idl I « mhop Imi lood ºzuos e.lolu uluti ſoli al QuUIels e][0.Alu l ol[.) e Illo,I u Ip (IIIII O]UIelo.) ( UIII º II ) o, pullo Iod pm bam api Ip osn, I o IIIssItini il o, o od o lou il timbrº p Is.IopeAAO.Id Q olduioso 0.Illi, lot o I] Ioli manlaodm oil al pm b  uod mh.op, I le.I]tto toIIIUlis onl. I pi ln() eztl.).Io]Ilp eloN - - (gli  uol.opu or) p. I : ossa: I a 9.Iu 5IoA opotti lot ou. Il sopo I oddiº o IliioosLI o IIo N .  tºzuoloIA In I “uz.Io e Insn alu.I -oUoS UII eoUIuisis (olduttoso ottil III liop) pc lol lp o. Di opotti II un illup llp, mo:) Iols )llo, no!) loo oolpe, il Co, sopo II o II.) o | | Il I Isti.Il '.I]od ( OloA [oſ [0, oluooo IlS sopueSu lost Oiolo le prof pl.oool I o : OICI e ouuu è Iopulso.Id el ouo ez.Io] el º .it / l'Is Out oli ut: qui o ostº.I | Ip Ici.I e “o.IoSuII.ilso,o un N (Io.I I o Io ti uli Iso, JUIO )) o.Ioi II.I]s -oo Iap ouo o Iez loſs ottºz.it I lop Il pd to Il prato i pl II IIenb eplau ooo ufos « lama luo pm ns. oi ml III o uso o il n.IIIIGI ) dd SS IA ( o.llitt.top non lº pztof l l lo Io : l UIonios o Ilop mz.tol ) un loo ollopns Istº.Il flop “ps.iol pun o. pf pr.toi trof. II lod o e opuoguoo UION luppoI SS )IA ( mr lo? oso).to.) o un ll fiopuo.rmi o e o Iel 5ueu e olotto; Ind lºttout IIIonb oIopuolo.A » oso).Ioo o oIlluo3 opoUII UI! QUIolº II io.A.Al ' IoitII.I so,o un o.I(Ittios o po “pzuol asoluoo pun otni ollout: Qn i S o,oo I luoloIA o Inslui “o.Iol -od p osnque po osta,p o IoA).Ionº olle (Inp QoloIII ons IoToA In olrmu5epuniº o olio;iuti.Ilso,o ol.In pur o ooºoooº I top ellione ulu.5oIUe,I opuooos ole.A oum.o)p pm vs.tol pum olmi o pcaoſ 1D.I – Ily  outloollll D o 1 pp out.), lui lo o.tpll pd oII.) Ie IsooICI – () , luooo) glo e opuºluo, “l.It ds-p o lred as ou5oAtto II opu0.oos o elp mld o oun opuello 5  l Is o “eso.) eull UI! Il looo) lu o lº odopo.A o[U.A O.).ool / D olm, I – (6),  (o topo.to llbollmſ ollo ossols ol ooogl . lg olt, uouLIOppe otto “llens o lo)s QUI o loq ooo I lo! [5 e Aup OlogIS Ital Ip o luouaol Ili  iFrenciere (Pigliare)  sia lº cºsi di lºro - il mo: into a chi non ha mai o l: lingua italiana – quello che si è mola , sin 'I I. ( Il les (il n ad ( SS ( l' \ i re cosi di questo cori li ai ri veri tra loro - r. 1 ,ºrticolarità di della I i licli, e lassici, q o no in una º i il Zii, il colal girlo che non la clin a pezza , ali di si ! "i sanno che cosa voglia di e prende, ma i I l ' s ci ii, alla l' hissimi, che ne usano i d , e , l in A , is simo e i I i di classici del medesimi sono da Lilli il si e al ci a uno lors, ma li avºltº il peregrino. Chi lo intende, a cargoli d'ese p . Il valore, ma i le poli 1 ai linelli all'uso : bo i  l'rende e dilello, prende i mali con ri. p, i lorº con l i . . . . . . . .  consolazione: prendere p , i ti ; i mal . . . . . . . ) : i i 'ti li' li ti , prendler guardia. Sospello; lo : l ' s . . . . . . . - losi, i di qualcuno e .: pt ºutlc i l preso ad atleti no bene, ci pass . p pºi lº i dire: il fare clic li ssi, i pi nel I e il I i gio . . . . . . . . . . . . EpptI re li. Il sol li : V g: li e lode. I re. E ci l  si si | | | e cose. e prei I l i s 1 si lilire e maniera li i pir . - di  il Italo.  “ .... pil per istrazia, lo li, pr diletto pigliare i : l si  e Iſ) di Illesl e os º prendendo annni irazione. . . . . . il II l r chi alla toll :I n. I) ,li ( 1 . (. . .  a Ella d'altra parte o il I e - e clerlo ; o secondo l' ill Iorli; i vi , i i miglior tempo del  lo II e il -  mondi è mrendendo il li tl ( . Il li l , l . . . . . . . . . . si o di non avvedersi di qll st .  a Tu puoi di quindi v lere il 1 l - i N si - li l  Inattilla va tlitto solo, prendendo di porto i . (illata Hilaldo e I liv . ri .I l ril, 1 , E molta ammiarzio i seco prendea,  a Chè gli parea ognun fiero e gagli E \ - jardo » l'ulc. Luigi Morg. a Ed ella Maddale: 1: il corti. Il nte la s lo [Il ' , , , - -ti e prese confor. to e disse: io farò come la Callanea ». Caval l. a Laonde ( gli diceva : Se io (Il test gli dis, la di me e.... le mi metterà il odio, e cos l III li il l: l li , i « moll avrò ». Bocc.a Bergamino dopo il Illanti ril, li ! I vi - ge:Idosi il lil IIIa l'', li richie  a  - I prenderà g -dere a cosa, che a suo inestier partenesse, ed oilr a ciò consumarsi nell'al bergo co' suoi cavalli e o suoi fan incominciò a prendere malinconia:  r  ma pure aspettava, non la endogli lie: far li partirsl . Bocc. « ... e nondimeno di queste parole di Gesù presero un grande conforto nel . . ll or loro». (.a Valca.e Nol) Vi si l a 1 i lil l e la coinsolazione li vo: prenderete le! Seilt il' .... che egli non vi debba essere altresì utilissimo il vedere....». Cesari. Senza questo, i lus, ira vºi li i ogni fatica, che ci si prenda intorno » Borg. « La seconda cosa che e efll ace rimedio contro alla disperazione, si è la virtu deila e ilterza, che la prendono vigo osaliment.  col) folt:ì e sostit ss i v.  « Menagli questo cammielo e digli che ne prenda servizio ». Cavalca. a E voi appresso con III e o insieme quel partito ne prenderemo che vi pal rà il migliore ». Bo c.« Ora il n dl avendo gia lº l l: presa grande amistà con esso loro, il tanto che lui si la l util Vallº li l l'o, - zia 'liente per lì è Vedea no l el' fettamente in lei Cristo abitare; per la qual cosa di lei niuna guardia o sospetto prende anc..... » ( . I v.: 1.« Di che la donna avvedendosi, prese sdegno, e...» Bocc. « A \ onla I sta i presi - . 3 i ari. o Il re, o la -  sciarlo a B) c. 5? I  V edi, a noi e presa compassion di te » I 3o o??”. La buona Iellini il l Ill st V e del do, me le prese pietà ». 13o e. « ....subitamente il prese una vergogna tale che ella ebbe forza di fargli v II , il l l Il l3,Gran duolo mi prese al cor, quando io intesi ». Dante. a l 'Il cavaliere la domandò, se ella ne togliesse a fare un altro : rispose « che nò ; che non le era preso si ben di lei, che ella si dilettasse di farlo » IB() ('.« Con la piacevolezza sua aveva - la sua donna presa, che ella non tro « vava luogo....». Bocc. (fatto innamorare di sè).  Prenderete subito tiltti a Iuliilli il re i tº o di me... » l)a V, 'comince rete ,23).Il quale facendo rumore, che molte strade d'Italia eran rotte, e non abitevoli per misleanza dei conducenti e trascuranza dei magistrati, le prese a rassettare ». I)a V.sol per onore di lui prendeva a condurre quella, per altro troppo mai -  e gevole impresa ». I3art.  e voltosi al popolo prese a dire in questa guisa ». l'8art. - .... stabilito com'egli fu nel trono, pigliò di modo a preseguitare i Catto  « liri che.... » Segm.« Ed ecco che ella medesima prese a trattar di rimuovere dall'Imperio « Neron, suo figliuolo ». Segn.  « Anzi cred'io, che il rigetterebbe la se, ed in cambio di voler più protog e gerlo contro ogni altro, lo prenderebbe egli il primo a perseguitar » Segm.  E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna, prende a a fare una lunghissima dice ia.... o Seg .  Ti piaccia ancora di por niente ad alcune altre frasi nolevolissime oi verbo prendere ed anche i cerli usi del derivato Pi esa.  PI (ENI) Eli TERRA – di una mare, approdare, alle ra e PI ENI) Eli MIARE – PI º ENI) I.I è IP()IAT ( ).In quel ritorno g.i avv (-lili, di prender terra il C: la lorº. I3art. e così le rinaio, alle ore il ſos - Illor: li sta gioli , prese mare e navigo... » I3:ì l't.Erano i quattro d'ottobre, quando i nemici, preso terra, e ordinatisi in pit squarire, baldanz si | 1 o il 11ti -- lo ii il solº a li l e, si ill  via l'olio al il 1 l l'olta rsi St .... , l il l'1.  1 | | | NI) EI? (..AS.A SI' A NZ V ſe i nati e slanza, cºn l rai e ad albergo, slan zare,  I 'I? I.NI ) ERE I IP.ASSI o Nimili ). 4 a ci ritornò e presa casa nella via ... non vi li gitali di litorato le... »  Bocc. a colsero in gran numero chi a prendere i passi, e li ad avvisare di  lui per tutto il paese di cola fino al mare e l'art. a Floro s'ammacchiò; vedendosi poi presi i passi dell'uscita succise  Da V. « si spartirono chi quà chi là, e in un tratto presero i passi ». Fiorenz.  1 l ? l .N1) EIRE l'N SAI,T ( ). « e posta la mano sopra... prese un salto e lussi gittato da l'aitra parte Docc.  I RENDERE UN VOLTO, UN VSPETTO sereno, allegro, soltre, giocondo, grare, terribile ecc. UN MI \SCIIIO ARI)Itli e simili lari. ('('N. ecc...  l I (; LIAIA LA MIA LE - sbaglia r la struttlet.  « Ma io mi accapiglio teco, o Materno, che aver il ti la natura l'latitatº lº « su la rocca dell'eloquenza tu la pigli male, hai cons - uito il megliº º il « attieni al peggio ». l) V. 525. l'RENDERE Q. C. IN FESTA EI ) IN GABBC) – PIGLIARE A GABBO. « Inteso il motto, è quello in festa ed in gabbo preso, mise mano in al  a tre lnovelle ». HOC ('. « Che non è impresa da pigliare a gabbo Descriver fondo a tutto l'uni  “ Verso Nè da lingua che chiami Mamma o Babbo ». Dante.  I ]RENI)ERE SC)N NO. “ Aveano ciascuno per suo letto un ciliccio in terra ampio un gomito, e lungo ti e, e in questi cotale letto prendeano un poco di sonno ). Cavalca.  I 'RESA – Pretesto, molico, Anlass, V eranlassung) AVER PRESA, 13UON V PRES \ V DIRE A FARE – opportunità, ap picco, buon gitto o  l)Al? PRESA A...... r. l)ai e . a Sesto Pompejo con questo presa di minicare Marco Lepido lo disse da ! ! iellto, lmorto di fame, vergogna di casa sua....». I)aV.  FAR PRESA. a Sono imbarazzo da leva l V la colli e le centine e l'arma dura quando la r vòlta ha fatto presa ». l)a V.  Note al verbo  Prendere  520 – E' il to take degli inglesi nelle note forme: To take delight; to take pleasure; to take cold; to take a turn; to take airs; to take a run; to take ship; to be taken ill; to take up, ecc. ecc.  521 – Conf. voce Partito, Parte l Il.  522 – Notalo bene l'uso e costruzione singolarissima di questo prendere. Torna quanto al senso, pressapoco, all'appiglialºsi, apprendersi di una cosa ad un altra. « Amor che al cor gentile ratto s'apprende » Dante – « E veggio il meglio, ed al peggior m'appiglio ». Petr video meliora, proboque, deteriora se  quor). 523 – li alla lettera il fangen (an lungen dei tedeschi. 524 – lnvece di occupare ecc. Si dice anche « dell'occhio che prende un vasto ozzi onle ». Bart. –- l)i una sedia, di un posto ven  duto e simili, dicesi che è preso. 525 – Cioè in cambio di far l'ol'alore fai il poeta.ne rarr  Le vere  Ha molti vaghissimi usi, e voglio si principalmente notare i seguenti:  I ,EV AIRSI IN CONTI? ( ).....  . Ma vedendolo furioso levare la r battere un altra volta la moglie, leva º tiglisi allo incontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la do Illna.» BUcc.  Coll dollnes a placevolezza levatiglisi incontro, prese a garrirne lo e.... » I30 ('.  “ La quale veggelidol venire, levatiglisi incontro, con grandissima festa il l'it'eVotte. » BO C'('.  LEV . A IRE I)I V. ANZI  « E non pareva potesse avere niti il 1 Imedi , pensando che quel corpo del Maestro suo le fosse levato dinanzi, ch'ella nol potesse vedere, nè toccare; e gri(lº Va..... » ('i Valt:a.  LEV AIRIE I)'INN ANZI V.....  .... Veduta la alterata, e poi dirotta nel pianto, parve da levarlesi d'in manzi e fare il rimanente per via di messaggio. » I)av.a Pensonni che Malia il 1 ori il ciava a ridere e a Caltare, e a levarsi loro dinanzi a quei clie la riprendevanº duramente, e non le stava a Illire, sicchè costoro riºna e Vallo con Vie n1:1ggior dolore.» Cavalca. 600).  I .I V VIRSI IN SU PI: I RI; I \, IN ( ( ) \ | IPI A | NZA I ) I l NA COSA (Bart. ( es. ! (50 l .  I ,EV VIXSI IN AI , I'( )  . ()h Imadre carissimi, noi ti levasti in alto, perchè tu lossi Inadre di cotale figliuolo, e per lui.... anzi quanto era inaggi ºre la prosperità, tanto piu ti profondasti in umiltà. Cavalca. 60? .  I,I V VIRSI A VI ( ) IR E I ,I \ AIR IR l VI ( )| è l I (50.3. LEVAR MoltMORIO bisbiglio ecc. d. q. c. I E VAR POPOLO (604)  « E ben liè.... alti esi non line o ani: Ived va le I' 1to l'lti l'll tºru si leverebbe a rumore. » l3:i l'1.leva losi il popolo a rumore, andava ogni cosa a l ulba o Giamb. il popolo della citta di Modena si levò a rumore gridando pace, e ('a ccia l'11e fuori la Signo; in e solº l: t . , V ill. (i.“ Alqualiti discepoli s'avallo e (i lilda, e l'elison che alcuno di loro lo riprende Vallo le iniglia lilelle, e ci lil e li aveva levato gran mormorio del l'unguento intra tutta Itl lla g it sºli e i tutto indegnato per la ver gogna e Ile a V ed i VllI:I ( I V: l' ipells lni le si levasse un gran bisgiglio i le genti, e molti gri di V le liti Illi e sa, e il ti? han:no In orto  (ies Il Nazza l'en lo . . . ( :) V: . Salvo S i lº 'lzi non levassero popolo, attizz: tssero contro. » I3a r . Ciò li rebl o I levando pc polo il Fuli Ine si era latto ill Arnull gucci, e il bel tendo le rile: il lizie d l'ortogliesi a ruba, l'1 nave a fuoco, e la li1 , V e allo li l al t.  LEVA IRI IN V VI \ | | | | VZI ( ) N E ſe i protra riq lui e  l'iello il palese illello, le . - -s . I lilt lil e i parvoli; e nel se greto rise! V: lui l' , lo l ss , levi in ammirazione l'altissimi e menti. » VI ) l'ill. S. (il'.  I l V V | | | | ( ( )N | | (50),  ll el l e levare i conti . lle : vev: i l)i V ( llll le ll ' o  sospiro.... , Dari  LEV VIRSI IN COLI le reti di lei la e meller sulle spalle  .... pastore, e li e o per la l a sti, il liti e riti o vandola, la si a Ievò in collo e le elle l 'i g! ea zii e les", l'ass: v.ti ovò un pover Iº e mio obbi lido lato, ed egli si levò in collo costui e portollo in lei in luogo, dove egli il servi sei mesi e lasciò la pace e la a quiet, sia per anno del prossimi » ( vale a  I ,lº V V | RSI I ) \ SI | )| | RI, I ) \ I ) ) I ? \l ll l ... l) \ I .l.(i (il l RE, l) \ SCIRI V l.IR l .. e simili.  . La quale non altrimenti lo se da dormir si levasse, soffiando inco  Inilli i .... a l?o .  LEV Alt SI \ COIAS \ rale nellersi a fuggire relocemente, ed è bel modo di nostra lingua .lº dicendo queste parole Antonio, quell'animale si levò a corsa, e fuggi.» ( il Villt':l.Piacermi finalmente inclilovare alcune altre maniere più notevoli a dell'ilso:  LEVARSI IN PUNT A l)I PIEI)I.  e e la madre guata va se fosse irreali, i fattori il suo dolce figliuºlo, e per  a chè ella non era molto grande, e levossi in punta di piedi, guatò in mez  « zo degli armati, e Vlde il dolce Maestro legato colle mani di dietro sic Irle l:1 di o,.... » C: Va a.  I ,EV Al? E l) \ I , SA ( IA ! ) l'() N | E l e il re e la l I e Nilm o U.EV \ I ? E \ I, S.V  (IR() I ()NTI: II. N ( ) \ | | | | I.... 13 ( I l (rli I .EV AI? SI I)EI , VIENT( ) ; I3art. – LEVARE LA PIAN I \ ali un edificio, di un terreno – I.E  V AR MI I LIZIE – J.E \ AI? LA LEPIRE – I E\ \ RSI AI ) IIRA, ecc. ecc.  Note al Verbo  Levare  600 - Questo le rarsi al in nanzi al l gli In vede, ma l' tirsi, andarsene ecc. I bicesi al che le reti si dannan si clicchessia, o levarsi checchessia dagli occhi e significa liberarsene, sgra varselle. lol'selo di dosso. . ( olle ( l'eslerà di darle, ella [ 1'0 verà sue scuse per le retrse lo d'innanzi. » Fier.Si inile: le rarsi dagli occhi checchessiat: le rare cl i dosso. « Si risolverono gli l'iorentini per bli . Inolo le rai si dagli occhi in alto e Iale ostacolo e per millma) gilisti più confortarlo. a Stol'. Sonniſ. –- I)i le rarlo mi l'ululosso Irli studiel'ò » L'occ.  (01 - Simile: salire in baldanza. « I)a si felice principio i litori salirono in tanta baldanza, come nulla potesse durare innanzi alle loro armi » Barl.  ( 2 - - ()sserva la correlazione (li le rarsi in alto -– hoch lalren – e profondarsi in umiltà.  603 -- Simile la frase: la r rumore di checchessia, indurre cioè a tu nullo. dare, da discorrere, prorompere il disdegno ecc. « Il quale facendo rumore che molte strade d'Italia erano rotte.... le prese a rasseſ are. » I)av.  604 Piaceini ricordare anche il nodo: essere a popolo, a rumore ec' ('.605 – Simile: « lerare le partite, p. es. della coscienza con Dio. » I3: i rt,N/lettere (Porre)  fili a quegli degli prºl e lo sel degli inglesi isº º lº gri, º l ' s ii del mettre dei fran i ' s I.  Al ii l ' - I - volgarissimi 629, nè la  li si l sl i  l  pi. Ma sono alcuni altri non corrono spedita reni e li - maniere poi di quo  l | laii ( i l I t . ! ! - l - l  - ss la gran lunatica, sa l' i crº, ci: ci - il - i e il vago della frase  il sisl ei s ci , il ss; li il sia, è ad ufficio e valol e  º il signi lº i - s porli il suo proprio let i r, i - : i i no del verbo con altre pa  i . \ I soli linelle, che anzi li li  ii considerazioni e all  is | | | i l !  l sl glº: i  \ | | | | | | | | | N A S. , VI A V , l SU ). ( All I I I I Rl, | N A | | | | | | | | | | | | | | | | V | V ( il l V l l ' Simili.  mise cinque mila fiorini d'oro contro  a mitic ' , i l . - , metter su una cena a lovella da re i .. . . l 3 -) : l l . . i . - i i lo s; i ti sul metter de'  pegni pegnº tra loro messo loro, I , nºtito pegno i - i ; . - i l: i nei i ore il collo a tagliare, e i : lessano che la Verità  l); i V.  : l l . , ( -.  il  \ | | | | | | | | | | ll piatti lº t' ('.  I mette ld , e più forte illli , Va' . ( I t si -  11: - , -1; I l - e mai il tronco avrebbe i l: mettere I l il 1 fi . . . . . . ( i  In li vere - i rii e assai lo il sull mettere e gel' moglia e o, Ces. 630)METTERE SIPAV EN I ( ) - VI I I I I I E \ N I \ I ( ) \ | | | | | | | | , A \ | | | | | . . AIETTERE A VIVIII RAZI( ) N . \ | | | | | | | | | | N SI El ' ( ) e Nilli lli.  Cadde e voltandosi i ra i ple li a 'a - e rite, messe tanto spavento e odio  le i soldati si li filº roi o li I ) : t: Ig it li , eſ . Quel giovane.... fu il primo a mettere in lino agli altri. I3e: 1. ( ell. I ri vo:aggia li, confortarliQuando Agricola mise animo a tre coorti Bavere e lui l ingi e di venire a alle Inalli con le spade ». Da V 63 Ali (III , i se mettevi l'amore tuo. F ( a Per la qual cosa, vedendola di tanta buona f riliezza, sommo amore l'avea posto ». Bocr'. « Con quei ti:lti lo avi In Irli d mirazione ». Salv. VI a ie . it - lo il I l s .  : :: I l lit: i mettono inella moltitudine am .  a me, miser pensiero, .lon gli voles - Il tel rili lpe, pari o all'alltica. l tirar « d ll rallle 11ttº ». I )d V.i diedero a pensare, fecero sospet e den Verdacht erregten 63?  \IETTIEIR AI.E MI ETTEI E r. g. Il PEI I; I \ N( \ | | TT | | | | V .. STIt II) A. muggli, i niggili. MI ETTEI MEZZI e simili.  l?el ſ to loos o il fiel ( il V al mette ale , l ' ll I, II ig. Vlorg.  (figura, a III, corre col gra il V el . it:  “ . . . . . . nel quale era e il ratto il diavolo, e -la s a costei legati colle catene le malli e i piedi, e giti vi . . sº i e ai lo schilli e strideva co' sl1 i denti, e crudeli mugghi e strida mettea, il 1: lit , che chiunque l'udiiva spa.  ve: lta Va ». Cavalca.  Allora qllella stridento , e mettendo grandi e crudeli ruggiti, lol telr1ente l'assilli.. . . » ( a Val n.  º il 'tli la milizia lioli nello che l'eta avea messo il pel bianco ». Bart.  .... per la qual cosa non gli valse il metter mezzi e pregare . Cesari.  \I ETTEI N E. VI V | E. \ | | | | | | | V | | ( i | | ( ) \ | | | | | | | ( ( ) NT ( ).  “ E (Ill si ciò fosse poco, come metteva bene al suo interesse, ci si faceva girls ligia, dando ragione a chi se la comperava . Bart. -L'esser bistrattato non e' in previlegio mio o....., ma di tutti univer. saliente se onlo che il farlo gli metteva bene ». Giub." l'elisa ggiInai e delibera a quale partito ti metta meglio appigliarti , ('esari.11on perhè alla l'epillollica mettesse conto patire mali cittadini ». l): v.  nè i figliuoli, ma i rovinati; sovvertendo i cavilli dei cercatori ogni casa ». DaV. \ | | | | | | | | | N N | ( ) M ET l'EItE IN ASSETTI , IN Alt NESE – MIET I ERE IN ESSERE di far q. e.  MIETTERE IN CAR I \ zu Pap er bringen nel tre par ècril – lo sel clou n .  e se l e la III e li e il Ille, i nto Ittendeva a mettersi in punto ». Giamb. il pll'esso (Ill sto lilli - misero in assetto di lar bella grande e lieta est: l . 13 , .l'ol le e- il ribe dato o lille con Colpo del colle e del quando ,e che e si luroli messi in arnese di cio che la eva l ' bisogno ». Fierenz. (si for I S il ('si il .... e – l llla la si metteva in essere di baſ taglia . l 31 lt. l)a V.Irli la bisogno mettere qui in carta ( o poi le ll leo I contorni delle co -1 l Ilia l'ille..... o l8al t.  V | | | | | | | | VV ( ) | , V \ | | | | | | | | V I \ V ( V.  lolla li l'al' e sl per ol li tºlti mettevan tavola il s si .ora che l'usato  si meteSser le tavole. .  \ | | | | | | | V S | ; N V ( \I | | | | | | | V l , A l' ( C ), Mll. l l'EIRE | N VV V | N | | | | V ,  l le 'il l Illia di Illesle lol o l'agielli soglio li , i li; li il mettere a sbaraglio le la Vita il , ( es. i vi G3 istelli, minacciava di met ierlc a ferro e a fuoco, - t , sto lioli i l V lo i prigl n. o l8al l. 635 l  lº sa e con lì io, e, a disposto a metter la vita in avventura, e lui e il venil - , al site Ina ri . l'8art. esporsi al  pe: i  per i volo li lo del l - l at si  \ | | | | | | | | V | , N | | N | | | \ | | | | | | | | V | | | | | | V \] | I'l'll è l: l"N I)l S( ( ) | | | )| | , I N SI | | | ( \ | | | V | | V , , Nim ili.  Se. ... I certo I (lelli rebl . . . . . . . . . . ll tiro e, e ogni forza use ; per metterla al niente. I 3. l .(), si va Il lino, si saprò mettervi a terra si reo pretesto. » Segn. N i letto i ri; 1 , l'a! di di l: i ve: Irle fù per mettere la repubblica, se I rsſ o ll -i ( V V in discordie C armi civili. l) a V.dols e si li. ... . ll e il V e il messo ( es al'e in su le cattiviià e risse. m l)a V.MIETTEIRIE (i UERRA, CONFLITTI. discordia. dissapore, e va dicendo, tra cristiani, amici ecc. l)av. Bari. Ces.  METTER Por giù r. g. I \ P Al IRA, L'ALTERIGIA, UN PENSIEIRO, UN AI3IT ( I )NE ecc. -  e tanto che, posta giù la paura del l e- e dei i atelli e lii - il colore in tal guisa si addimesticò cl io ne ma qui e son: le qu'il 1 l III I Voll. 13 ,  a Pon giù l'alterigia e studi:iti di prendere un viso ilare e gli vi e.» lº art  . Pon giù i ferventi amori e lascia i pensieri triatli o Bo  MI ETTEI RE IN N ( )N CALE \ | | | | | | | E IN I 3 ASS( ) - MIE I TI lº l: l N S( ) )() - MIE IT EIRE IN I ( ) IRSl - \ | | | | | | | I: IN IP AI ' ( )| .I.  Per lilla di lina ho messo E. ll 1 II lite in non cale ogli i l el-i ( . l ' ' 1 l'ill ('il.E chi, per esser salto virili solº rosso, Spel a 4 ellenza: e sol lº l Ill Sto brama Che 'l sia di sir grandezza il basso messo. 1)ante.« . .. mi par necessario definire prima e mettere in sodo il sostanziale valore di alcune espressioni.... » I3art.Chi farebbe i re votare i loro tesori, pr (Il ce ne Impi sotto la III i loro popoli, e mettere in forse la loro maestà, se questa spera la non fosse? I 30 .e in altro non volle prender e I - i nº di lover'a mettere in parole se lo  delle sue galli; la', e.... » I3o  MIETTERE IN V.JA con....  \li raftivella, cattivella, elia non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aja con gli scolari.» I;  º cimentarsi, intrigarsi, avventurarsi a voltº la fa r , voler l' il cºlle agli scolari, misura le sue forze cogli -  METTER MI VNO A o per q. c.  “ .... e messo mano un di di noi per un tagliente coltello, e nella logli un gran colpo...., gli spicca inno il braccio. , Fiereni. e Messo mano ad un coltello, quellº apri nelle reni , Bo 3;I All. N l VI ( III ( S \ ( ) \ Q. C.  -  .... pose mente alla sl i 1: 1.  I s e, ponete mente le carni mostre e lui è stallino. » I3 n. 1:.  Ponete mente atroci spasimi, lil: se l: in lenti e divili la li l: i les li Se i 1.  Ponete mente effetto i li e le e il via il cºsi della lor debolezza. E  \ | | | | | | | | | | | | ,( ( | | | SSI \ A SI N N ( ) | ) l...... ( 3, ,  e gli misi a suo senno, e iroli  -  \ | | | | | | | S | A N \ :3S \ | | | | | | RSl Al, l'ACElAE – \ | | | | | | | SI SI | | NZ | ( ) \ | | | | | | RSI IN | A | è ( Il I ( C.llESSIA – MIET | | | RS | S ( | | | V ( ) | | | \ | | | | | | | SI l N V V | V.  dal si misero al ritornare.» Bocc. I rimisero al ritornare. l 3 al E mettiamoci ai ritorno. 4 , N -- li siti, si s Illal alle; te si posero al iacere. I 3: : 1. . . . . . . . i si metie siienzio. l 3 l: i . () il l  i VI inelli - la si mette al niego.» I ). l .le sia l i lliesto. Meini . S'era messo in prestare Scpra castella , l in tre loro entrate. »  netiersi sulle volte e lo i leggi i ve. » l?ari. cioè, tor isl l l: i veri il  si per la via, l No!:l, si mise. » l 3o .  \I E I I I I I I I I I I V \ I | A PEIR VI CI N ) da e la sua vita per Nell'all .  \ | | | | | | | | | | V \ I I V. I V S \ NI | V . I l . SOS I \ NZE ecc. Udas le ben  ('' . . ll l in 1 m., 'il bis. Nel ' ' li l: osi e se c'è bisogno, mettiamoci la vita. . ( i ll.(i e il ( ! ! ! , il III le pose la sua vita per la nostra redenzione.» ( : v. l ' :l.« .... e lui beato che fu il primo che ci mise la vita! » Cesari. « Però vi esorto a passarli travagli per il lodo , le no, ci mettiate della sanità. » Cal O.  MIETTERE SU UNC), c) MIETTERI AI , l' N I ( ).  « è istigare alcuno e stimul i r , a dov e dli o la r il il na Inglilia o V Il  a lania, dicendogli il modo, lil po-sd. ( del liti o lill la, o lil a. i litº , - - si chiama generalmente commettere male i l a 'ti i liolo e ! Iltro, . . . . r Inti o al Ilici che sia imo. Val li  Nola gli appellativi: commellinale, un teco meco : « d'uli con melli  a male, il quale sotto spezie d'amicizia vada la riferendo i testi, e ora a quelli si dice egli è un leco nero . Varchi.  METTERSI AL TIEIRZ( ) I ( C. I )] .I , ( il V | ) \ (iN ( ). e Andavano dotto letti sto i rieg Li, messi al terzo e alla metà ! ! gli: -  dagno, a cercar le case, e le var i ti Irer -- las, i  a o l'edità colltro alla legge, i l): I V.  Note al Verbo  Mettere - . 628 – Eccone un saggio : to set al monuſ li I linellere il niente : lo .. set ad usork (porre in opera : to sel on llame li eſtere a fuo- - co: lo sºt sail nel tere vela: lo set aside mettere da parte , - - " lo set one s self (imettersi a.... : so se lo m in l. ere giù -  lo se out (metter fuori, pubblica e lo pul dorn por gilt, nettere a terra : lo put in u riling In Ilere in isc l'illput in mind mettere in alti , ricordare i to put a question; lo put to death ecc. ecc.  269 – Mettere in abbandono: nelle e tulosso una cosa ecc., nellere le mani adosso, mettere sol lo l'armi; mette i si in tla i mº; mºl tersi a correre: mettersi, porsi in animo di 'jar checchessia: mettere in campo; ecc. ecc.  i30 – lndi l'appellativo messa, pallone o germoglio della pianta. « Quel rigòglio è pur vago. I rallo e l'odio dal soperchia che fanno le mºsse degli alberi, essendo il succhio ... Cesari.Analogo al mettere delle piante è l'altro modo: mettere pr - sona, cioè crescere di corporali Ira.  631 – Si dice anche, con valore di egual significato, dar animo. Il modo meltersi in animo di far 1. c. vale proporsi di farla ». (5:32  (5.3.3  (3  (53,  (5.3(5  (5:3,  io m'ho più volte messo in animo.... di volere con questo nu ſolo provare se così è p. Bocc. Conſ. avanti Voce Animo.  Neh! questo metter pensiero non.... è ben altra cosa che il mettere in pensiero. -  Avrai avvertito differenza i ra il meller tarola (a, e metter la tar'ola. Il primo è la r lanchetti, dal pranzi, il secondo ap parecchiar la tavola.  Sinile mettere a repentaglio - Giuberti adopera il verbo git lare ecc. • Pronto al meno no cenno di gillare ad ogni sba l'uti/lio o.  Noli ricol (lo si allo stesso modo e valore siasi mai usata la rnia nelle e al sacco: Giul), ed altri l'adoperano in senso dii ripio, 1 e, mette da parte, far tesoro. « Debbo saper grado al Padre Curci che non abbia sdegnato di mettere a sacco la lingua e lo stile delle mie opere . Giub.  Melte mano in checchessia o di lar checchessia significa co m in cicli di palla rue e c. Col I Muno (al). 2.  ( Se il m o l?a l'1 e I.  Al clersi al ritorno re, e simili, è il laniera elitica e vale accin gol si all'azione, all'ill, presa del..... Mettersi o porsi, in ge le tale, e la r q. c. è all rolla e che il cori linciare, apparecchiar si, porsi nello stato di farla. Si dice anche mettersi coll'anima e col col lo t... ( Si mºlle con l'anima e col corpo al dice al la r l ich '5 st . lºl'. (ii il d.Re care  Sil primo significato è il l di poi la e, si rire. Il talu, i (Illali cosi' io llllle di ſua coli n e o di votarne il recai ed holl 1 e ... 13oº'. e con il significa i resi in li lig Il al miele a recare d'una ill alil a liligi la v. ecc.  Mia poli III lil al li isl 1 l issi di quies era, e il I rili li alle 11 la Iliere: lº e' st e il no, una cosa ci l 'c li ºss lat, a far lecci es . sia, recarsi a....... liele Illilli il V e io i reati e sigilli, i ſilando condill re, ridurre, indul re, e quando i riliire. I l ...., il V ( l e va dicendo).  .. li Ille-t Il l: l ' 1 tl i i l: - i mini recasti. I3 o 20 I - I i ls ' il - l si l: recarsi a condizione di privato. a ( a s.  .... sol che esso si recasse a prender 11 glie. I3 . Vedi modo e sappi - , oli di l: parole il pil i recare al piacer mio. 13o . II lis- 5000 fiori il loro i litro a 1000. . ll e io la sll, di reche a rei a miei piaceri. I3o .il Vello già liledira: o gli animi d i s.it i baroni, e recatigli alla vo glia sua.» (riallil,I ti: l l'orri i- di 1. I l s. vel . l i r, casse la madre e prin cipi e..... a dover esser cori I lit '  ( 1 -  i Qllesti recando a suo proprio quel con il Villlierlo di I o Izi, a poco si 1611 le clle coll..... » I Bill'1. - -  l'eputaldo, considerando sullo la r pri .. . e Ne recava a prestigio i miracoli, e la santità ad ipocrisia. l?art. attribuiva, o aveva il conto di..... a recava la mia rettitudine ad ipocrisia. (iiil lill). . niun altro l'olila 11 , di sua grandezza il V e il V l Ito dlle lipot i il ll 1 i corpi, recandosi le cose ancor di Iori il la a gloria. Da V.« . .. lle v'è uomo che legni di fir se Vilio della slla persona che sel reche rebbono a viltà. » I3:1 rt.Mangiavanº i carne il venerdi e il sabato, e come cosa orali ai passata e in usanza e comune, nè a coscienza sel recavano, nè a vergogna. Bart. 52, « Non si recava a vergogna di fare, bisognandolo, l'arbitro con lo dal la belti.... » Balt.« E dicesi nella storia di Santa Marta che non sia niuno che creda ch'ella desse il corpo suo a ſanta vergogna: chè quello unoli lo sarebbesollel to, le ll I ratello cogli altri su i parenti e amici l'avrebbero e li al celata, impero, le se l'avrebbero recato a vergogna.» Cavalca (528) E vi sara cli per contrario se la rechi una carica a piacere, a premio, a riposo, e.... S - :).e generalmente o il lancio, il ril ci rechiamo ad un genere di empietà e offesa a qualsivogia a ilmale, quando egli non ci dà noia?» Segn. ll – e le : l le , Fi, al di l orlìa 1 di sl , ll la l'ott 1, e 11 in fillelllo d'in sse; li t. It con 1 l ils: l ' , no; i clle Vilì c'ere i - ilì molte haitaglie, ne recò a più alto principio la cagiona e oltre  - io ho veralmente era, i sse i ll , si era il V V ei lilli , il vi: ill, 'i . I l i pic lo es reit , del re doll i – l .  e/ se \ , Va. l .  ; le I) i l rist l li , a . l sei za niun risparmio,  N si | | | ( V.I RSI | N S .  il strelto alla 1 si sta i ltto in se mediesimo si recò, e con sembiante  1 a V e a 'e ll it l aºs i tre lisse l3, i li.  | R | ,( V | è SI IN VIA N ( ) | V | | Si VI \ N ( ) I RI ( AI SI IN ( ( ) l.I.t ) ( | | | ( ( II ESSIA  \ oi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un malviso e tilt to tu balo V e l'anall et g ti per le sca', el a idrete dice: do; lo ſo lot , il l)i lle o il cog el'o . . . l ' ve. I 33llfli liti o recatosi in mano uno de' ciottoli elle 1 a volti a Vea, disse: l)el V ed si -se egli teste nelle l e lil a Calandrino, e : ... o I 31 . . .(olli e il li elobe Il., 1 , li lega i recatasi per mano la stanga dell'uscio, lioni e sto prima di latte. Il 1 le pel si la stanga le raddo di malmo.» I el l /.e recatosi suo sacco in collo riposo ni li che egli ehloe  vinto il ſolito.... 13: l'I.  l: I VIRSI CO) I I ESE teme le mani al petto, per riverenza, di rosione, piu'll .  i let: Illesi , e latto, recandosi cortese disse.... » Sacch.  | V | | | IN | ,l ( I  Iſetti, il gran tempo, sia i mas osi, ci appare chiamo a recare in a luce o all's Licht lo ingen). Giamb.r- a -  li ECARSI UBBIA DI.......  « Per dilungarsi dal morto, e Iliggi l'ubbia e le seri prº si recava le « Inolti.» Sacch.  IRECARSI A MIENTE (Itidui si a memoria, sorreni e .  a Và, e non volere oggi mai piu pecca e. Recati a mente, e vedrai che.... a I Passa V.Onde meglio è, sostenere la vergogna degli Iloii, Ini che quella di Dio, a recandoci a mente (Illello che dice la Sci Itt il ra 11 l lilol della « parlando in persona di coloro che il rollo di risori, cioe  Sapienza, is ll terril itoli le giusti; i (It.all.... » l?assa V.  IRECARE IN I N ) nellere insieme, a comunanza, in cui molo, la re un fascio ecc. ).  « Voi siete ricchissili, i giovani, li lello e le llo, i soli io: il ve voi vogliate a recare le vostre ricchezze in uno e in lar terzo possell: ore oli V oi insieme e di quelle...., senz'alcun fallo mi da il cuor di la , e, le.. . . Bocc.  l? EC.Alº:SELA (o anche recarsi assoluta non le maniera elettica e ralle offendersi, pigliare il traie, pigliare in offesa come falli a sè, o coll'a blatiro della persona, o coll'espression della cagione ecc.. e recaronsi che gli aretini avesso i loro rotta la pace, a V Ill. « Checchè egli l'abbia di III detto, io no, voglio, che il vi rechiate, e se 11oli corile da uno ubbriaco. o 13 , la consideria oli le c, fatta vi da un ubbriaco).  -in da 11 a V I  Nota al Verbo  Recare 526 – Simili i modi: recare a fine, a perfezione checchessia cioè ſi nirlo, perfezionarlo, recarsi a menſe, recare in uso ecc. V. il presso.527 – Nota qui la frase: recarsi checchessia a coscienza, ciºè lº ninrderne la conoscenza, e simili.52S – Così dicesi recarsi checchessia a noia, a onore, a Ilºil, º lº  rore ecc. cioè stimar nojos, ecc., reputa il “ Mi liº una grande ingiuria a stili , mi di si p o giudizio che ll il  mi debba ripulare a farore, che li esser N. N. si degli di stºri verini ». Cal' .F corta re  Al l lano i rili Is , elellico di portarsi per portar rici. Qui vogliº lisl rilenzi, il re alculli usi notevolissimi e ina niere assai fre le li sºllia per il la ai classici quello che li li fa il moder li e poco spello del pari tre latliano , cioè l'uso del verbo portare a va lore di esigere, richiedere, in prorla e, comportare, sopportare e simili; e le maniere: portati dolo e, poi, la r no a uli che chessia: portar osservan sot, onore, ricerca sa, l ispello a lui li sssia, portar amore; portar pena: portar per i lenza; portati pericolo di al'.... poi la r il pregio valer la pena : portar opinione. I rl ( es. porla in pace checchessia: portarsi d'ai il no e Val di elido  () i noli e gli ºri Ilde - i tizi ile , lollo prº sstuma oltre alla sua forza, e fa cia le imprese piu che non porta il sito potere? » l'assav. e lº sta che i polelli ssilli dispor di lei, e se non quanto porta e il dovere. » ( all'o.Nelle passioni l'a lliIl r. Il liti S.s: lite portar dov: ebhe la sua lla il ril, lIl l . . ll la V , º l?a l'lo.Il segreto della profondi - si lli: za di l) lo portava, che solamente dopo 10 secoli.... » Cers.a Vennero le due g lov il lette il dile giallo) e di zºld º do bellissime con due grandissimi piatelli d'argento in mano pieni di varii 1 litti secondo . lle il 1 l ... loli portava. o lºMla io credo IV e ne dett pil re assai. A |fe si a quello che porta il tempo, 11 le lilt:: via l il 1 l Ces.  I :i natura del l s i porta così e io, il - e lº può altro. » ( -. Non portavano quelle idee che egli dovesse avere presto un numero « o  d'i!) finite V i.... . » (' -. Conservate il vostro, lion spendete piu che portino le vostre facoltà,  fuggite i vizi, seguitate la virtù. » Pandolfini. .... questa volta parmi aver la cosa certa che il sogno portasse che... Ces.  a Portando egli di questi cosa grandissima noia, non sapendo che falsi,  propose di averne parere con mosse lo prele. » Bocc. So, i testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che le neva  di farvi grande. Caro.  l'ex donerà questa inia presunzione all'amore che le porto da fedel solº Vito l'e. » (art).  ... i quali del giovane portavano si gran dolore che... » loce. « E bene bisognava ch'egli li fortificasse, chè da ivi a pochi di avevano a a portare smisurato dolore. » Cavalca,« Di che il padre, e la madre del giovane portavano si gran dolore e malinconia, che in aggiore non si siria potuta portare.» 13o .« Ma Iddio, giusto riguardatore degli alti il merili, 'e mobile Iemmina  -  conoscendo, e senza colpa penitenza portar de l'al: ru pe cato, altra mente dispose. » Bocc.  -  « Percio' lì è quando io gli dissi l'amore il quale io a costui portava, e la dimestichezza che io aveva si o, Irli capo II li spaventa, (livelli loin l.... . I 3 , .  le all o!'  « E da quell'ora il li illzi gli pcrtò sempre onore e riverenza. » Fioret I.  E 11 lì è da falsene il raviglia. I lil pensisse lo sterminato bene ch'el leno portavano alla persona sia o C i va. a.  « E se il confessore lo riprendesse dei suoi vizi, porti lo pazientemente: chè sono inolti che, per essere tanto umili e gli isti, spesse volte si biasi  mano eglino stessi: ma se interviene, che altri gli riprenda, non lo portano pazientemente, ma iº degli I no.... » Passav.« ....porterà espresso pericolo di riceve e vergog :i e dal lillo. , (iia lill).  a Sfirmiamo che pcrti il pregio rilett : s tl dl Ill st luoghi. » Segn.  a ... lion portava il pregio ch V | V I rom pesi e il sonno per risponderº a III e, di cosa massimamente chi lilla II, II i V a l o  Ma sai che e' portatelo in pace. » I 3 . « So tu ti porterai bene d'altrui, convien cli altri si porti di te, e Fioretti.Ajutare  L'aiutare dei pochi esempi che qui arreco non è l'ordinario e comune di presta aiuto, socco so (ail lelen , ma si rassomiglia al to help degli inglesi, nei costruiti fig.li lo help forucard, lo help of the time, to help lo ecc. ecc., e dice cosa, in generale, che cresce altrui virtù, o dà I nodo d'operare. Noterai ancora i nodi aiuta, e alcuno, aiutarsi da chec chessia; aiutare uno di una cosa: aiuta, si al lar checchessia ecc.  “ .... e che l'Inilia cantasse il na . il Zone dal Lillto di l)ione aiutata. » Bocr'. (guidata, accompagnata .e Ritornò si notand piu da patira , le da forza aiutato. » Docc. sorret to, sospinto j.Fa Itisi tirare a paiiscalini ed aiutati dal mare, si accostarono al pic ciol legno. » Bocc. sorretti e sospinti .Ma quel povero Iritto, per aver a con le tar troppi vervelli, e di varie e mature, spacciata Iriente si inti e di l::i i : si iroli e forte aiutato di lavo a recci e di concime. l):tv.« Al lllla lolloni - e al 12a lo! ese, e il lile! :l ajutaio, lº rese nulov , con siglio. I 3 r . . . . . llQlle - le parti si posso lo aiutare e collo balillage e co.i soppalli.» Fierenz 571).E se Illesio può fare il senno per se Inedesimo, quanto maggiormente Il dee 1are chi dalla opportunita , intendi necessita e aiutato o sospinto.» l30 c.Ajutava le parole col piangere, col darsi delle mani nel viso e nel letto. Se n. aggiungeva Virtti alle parole .Ma se il lla pl o la par li a lia del celerino per via di medicina se ne a prenda, con lierà lo stomaco, e aiuterà la Virtu digestiva, e farà buono il lito. » Cl es . . ll orrera a rinforzare, a ravvivare, a promuovere). « Per fare ancora i vini piccanti, saporiti e dolci, aiuta assai, dopo la prima sera, che siell 1messi... i grappoli inel tino. Soder Vit. (gi va, adopera .  Tuttavia, se la pers, ma fece quel cle eila potè, e non ci commise ne e gligenza, e ledettesi a vel i- il mio confessore, la buona fede in questo caso l'aiuta, e 'l sommo sacerdote lidio compie quello che mancò nel de  fettuoso prele, o Passav.  A.IUTARE I) A CIll.CCIIESSIA, E ANCHE DI CIIECCHESSIA. « Vedi la bestia, per cui io mi volsi, Ajutami da lei, famoso saggio e Cln'ella mi fa tremar le vene e i polsi. » IDante,(difendimi da.... ()ppure maniera clittica: aiutami a fuggire a difendermi da loi).« Or ov'è 'l naso ch'avevi per odorare? Non ti potesſi dai vermi aiu « tare? » Jac. Tod.« Anche ::lolto è da col Sidlerare e da Il 1t la Vigliare che, essendo solo, tutti i 11 st.li idoli gittò il : tel l'a , e iº li ill la cosa gli poterono luocere, nè da lui aiutarsi. » Caval. (life! 1tlersi .  a Pero ('ll è : i Frances lli non atavano li Romani dalle ingiurie de I,OIII  e liardi e dei Toscani; ne il Pap 1, ne la Chiesa l ' tiranni che lo perse a guic 11t). » Vill. (i. 572 .  e lo fo voto a Dio, l'ajutarmene al Sindacato. ioe d'aiutarmi da que sta cosa al...., o di li, 1 l'ere, il ll'ajuto le l.... , Boc .Io vò infino a città per a illla m a Vi enda, e porto queste cose a Ser a l 3olla corri d' (i inestre, o, c le m'ajuti di non so che nn ha fatto richiedere per una comparigione.... il giull e del dificio. Bocc.a Sempre o poveri di Dio [ile!!o che lo giadagnato ho partito per  n  mezzo, la lilia Ineta col Veri e il l is tra Iletà dall do loro; e di ciò m'ha si il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di loelle ill me - glio fatti i fil 11 l inici. n 130 .  e Alberſ o d'Arezzo era te ! 111 egio, le per delolto il quale gli era addolmandato e mitra ragione: onde e si ra Intl lido a S. Franco che di ciò il dovesse aiutare. » V ;1. SS. Tad.  A.I l I'.Al ' SI A......  a .... Ti o, ipo -olio rimasto dei lise le mie speranze: III lºt'e Voi, lìoll O sta inte si g l al lilot I V , di rai VV i dervi, il V e il test i pillttosto a prevaricare, e non vegognandovi, quasi clissi di al collo la lite ingorde, indisciplina e, le quali allora si aiutano a darsi bei tempo, era pola 11do per ogni piaggia, carola ndo per ogni prato, quando antivegg, no che gia sovrasta procella , Segn. s'ingegnano, pro iº lo trachten, tàchent).  Nota al Verbo  Aiutare 571 – Parla del seno delle donne che per parer più pieno si può.... . 572 – Così l'ediz. fior.; – La Cro Sca e La stampa delle Soc. tip .  Class. ital. leggono un po' diversalmente: lion atavano (aiutat vano, nè liberatrano i lio mani. S e ritire  \' illo solillo al Isi pi ii e in no comuni oggidì. Si ado lº' i ''l ct ''l Nºttso, il gºl l pprensione, coscienza, notizia di chec lºssli, li guardi come il latº glise. Nota i nodi: sentirsi, sentirsi (il capo...... ; Nºn li re dl il 1 l gelsi, avvertirlo , la r sentire ad alcuno; N. il lir (le'l gli e' cio, li ul, l'', l'a mia l o ecc scºni lir bene, mi alle di checchessia, e simili.  lo soli i ll ella sento di me. , Rocc. \ V e i tit Illa ira solº ai la lollia le quasi non si sentia. » Bocc. ll (Illi, le si alte: il letta ogni parte del corpo loro avea considerata, lls, el l -se deli a Illa, le chi ai? I n l'avesse pulito, non si sarebbe sen tºto. » Bo se al 1 o l'avesse punto mi li ne avrebbe avuto il senso). l) l'1 e le lla I d glli il test i e le ii senti al capo. » l3oce. I me ne sento alla borsa. ( ... ll I.  S. Bernardo di e li mi ni loro stupido e che non si sente, è più di  º  ll I ligi la lla Salt l' 1 ss. l 1 no li il senso li sè stessº, i. ( olli lel quale - la i vizio della super leia, e non si sente, cade nel  V Iz lo lella lissili la del' 1 a 1 ne, e I diio palese il suo peccato, acciocchè  la co . fusione e la nla li la lel peccato brutto lo fa la risentire, che prima  er: il sensibile , l ' s sv .  \ V e I talit ezza per l ' s lllite dell'allina, che della morte del si sentia niente. ti i.a Il rumore dell' 1 al 1 : :: van ls li a grande, e quello che più lor gr. l V il V a el . . ll e-- oteva no sapere, il l ossero stati coloro che i pita la V e vallo. VI: ( li, il l Illa 'e liti e le atl a il no altro ne calea li in aspettº i di li lov erlo in Ischia sentire, fatta armare una fregata, S I \ i ll lito. (. . . l 3o .  le: le [lli li elite, e con le addormentato il sente, cosi apre l'uscio e vi sene dentro. o lºo ('. \la poi che ella il senti tacer disse: o l?o « Non potrei sentir cosa alcu ma che mi osse più grata, che ierl'esser le!la slla lollolla gl azil. » ( asil.si mise in cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avreb be per effetto; e per interpositi persona sentito che a grado l'era, con lei si col venire di doversi e in lui di IRoll la fuggire. » l'8o c. 529). IPer io hº se rigli' rdat , v'av: ssi, non ti sento di sì grosso imgegno clle tll essi Illella , oliosi ill to rose, che.... » l'80cc,I a giovane d'esser pil in terra che lº mare, niente sentiva. » IBoce. (530). (ollo il tavola il solitº l'olio, così se le scesero alla strada, o Doc C,e Senza farne alcuna cosa sentire al giov., III - III Ise o il via a Bocc. “ E col mandato alla lor fa nie, le opi : ' viº, per la quale quivi son trava, dimorasse, e gli 11 -e se a 1.1o v In Is-e, e loro il facesse sentire, tiltlc e sette sl si vogliarono i l ent: i l el laglietto. » I3o .\ Vvellº le 1:ll' 11 Ille cl, (.ri, e' o, ( Irlino al palo con un stio a Inico a ce la I e e fatto lo sentire i (i la l.lole, compose con lui, che quando un certo enno a esse, egli vi -- e troverebbe l'uscio aperto,  La fante d'altra parte lui nte di Ille- o si prend, fece sentire a Minghino clo (iia corilino l:ori vi . ilava e gli dissi » Bocc.  Venuſ o il dl si alleint e l -sendosi a Vl: ddi le ha 11 ovata morta, III rono alcuni clie per invidia e l dio h a l gli tto portavano, sul lita III ( )11 ( :il l)ll a l'ebbero fatto sentire. » le non si ppiendo per il I | tergli presta mia disposizion fargli sen tire più accornei:unc)lle cle per te. i ti collinettere la voglio 13o .  « Come il sapore del V Ilio vo clio, che per vecchiezza sente d'amaro....» Sollec. I Pist. 03.Non era nel bilono investigator. l i pieni a ve: la borsa, che di chi e di scemo nella fede sentisse. , I3o .a Io il quale sento dello scemo a 17 i che lui, lei vi debbo esser caro.» Bocc. « Ed oltr'a e io disse ti co- li questi - la bellezza, che lui un fa. s|ilio) ad Il dire. Fl'ite \ Il melt, li costei sentiva dello scemo. » Bocc. 531,.  Ttl st -:) Vissililo, e riel; e se li I)io senti molto avanti. » I3t) 5.3 ?). Vll'ill ontro chi, colli e tº. Sente si poco avanti lelle slle file desillo e se, che di se goli si ricorda, nè sa qual si vivesse sotto gl'innullerabili stati e che nel decorso dell'eternità ha mutati, segno è che.... » l' irrcllo morl) sente molto avanti nelle regi lli delle bilolle e l'eanze.» (i illlo.  a S. Greg. S. Agost., S. Ambr., S Girol., che sono i quattro i principali dottori (li Sa.'lta Chiesa, sentono tutti concordemente l'opposto. » Segn. e Cerf:n ci sa è, che nè lileno i suoi ni: i levoli stessi ne sentono si empia mente; anzi molti ancor de genili lo reputaron profeta di gran virtù.» Segui. a I Jacobiti sollo ( l'isti a 'li...., londillelli) male della fede cristiana Sen « tono. » IPºtl'. lloril. ill.e Della provvidenza degli Iddii niente mi pare che voi sentiate. » Bocc. « Allora udi: direttamente senti, Se bene intendi perchè la ripose Tra le sustanze. » Danſe (Par. 24.).e Ciascuno studias-e sopra la questioni della vision º de Santi, e faces a sene a lui relazione, secondo che ciascuno sentisse, o del pri) o del con a tro. » (i. Vill.a Del suo pelo del cavallo) diversi uomini diverse cose sentirono: Ima s pare a più. che baio scuro è da lodar sopra tutti. » Cresca Questo Inedesillo pare che senta Santo Agostino, quando parla della « l'esul'l'eziolle di Cristo. » Vled. Vit. (r.  e Virtù, dice, è diritta niente di Dio sentire e dirittamente tra gli uomini a vivere, e operare. » Caval.  Conferisca gli tutto quelio le ella sente, come farebbe a me proprio. » Casa.  Nota al Verbo  Sentire 2!) Il V el'inchineri dei tedeschi: Analoga l'altra frase (v. appresso): la c all rul sentire chi ce li ossia cioè operare fare in modo  che la non i via Venga il suo l'ecclli ecc.  lo 0 lo che li on s . Il ll grazie del 13 o accio ed altri), osservava qui il Valiolli, e ne sono del III to pl Ivo, avrei detto: « La gio valle non si accorgeva se fosse il lerra o in mal'e o, il che sarebbe dello gl . ss lallali e rile. Il lºoccaccio, invece di dire: non si accorgeva , dice : nien l Neri li ai clie è molo di dire più scello; e disponi le parole il selli e lo ſullo con molta mag gior vaghezza. Zali ell ' e io li a Lib. I.  53 | Noli e ulivo re: Senli, di scºm, o v. g. nella fede) vale nati l' aver diſello di..... ; e sentir dello scemo è aver poco senno,  aver la qualità di clil è scenio. Sentir dello scemo stà da sè. e senti di scemio è predica o di checchessia.  Analogo a questo sentire è il sostantivo sentiva della nota fra se sentita di guerra.  32  .... mia egli con miglior sen lite di guerra, si era posto in ag gilato dietro alle spalle di una montagna, per rammezzal loro la via, e cogliergli improvvisi. I 3art.Stare  Lascio le definizioni, le discussioni, lascio i numerazione di qlI clie cose che o tutti sanno o nulla montano – che uscirei del mio assunto, e troppo vi sarebbe che dire a voler anche sol accennare a lui ii i modi e forme particolari dell'uso di questo verbo - , e mi starò contento ad ilculli esempi lei quali il verbo slare è ad Iso, e ad Ilicio di un valore che lnai o quasi Inai nei costrulli di una locazione moderna, cioè di chi solo sente e pensa moderna li crite.  Noterai le forme: slare checchessia ad alcuno, per convenirgli, osser gli dicevole anstehen, zustehen, ed anche per costare: stare bene per com venire, meritarc. esser ben disposto: stai si, stare per astenersi, rimanersi: slare (di checchessia per alcuno, per non essere, non aver luogo per call sa di alcullo: slare uno, due giorni ecc., per indugiare: stati si bene, ma le ecc. per contenersi: slare, assolillimetile, per non mi i versi stati e di clie chessia, per essere il ſiles' , ei lo slalo, condizioni e cec.: slal e a lot I e cli ºcchessia, cioè il dicali e il l IIailili di azioli e le siglli ſi alo del Vello che seglie ecc. ecc.  I qui li II lotti per i clie oriev - olio i 't alle donne stanno che i gli uomini, il quarto pit . Il ti line e le agli il fil III l Iliolto par e la re e lui lg , si disdire. I3o .e E sev o volete essere di quella legge - se il loro, a voi sta: Ina a valli lle.... , I 3 s -1 el l 1 l el Ill 'le) l .Sillito la vo' veller', s' , la dovessi la r per III: li o lil II rini, che la a non mi stà. » I, rºll Zo di Mleclici. V el l l ll : l: l s;ì l II e Il non mi Sta. » I 3 , .  Bene non istà a lei il clillo. A | V era la III gel'' (la ril - il sil 1 e il il ti ( Il'io Sollo, '1 : iStà bene l'attelldere il d all1 , l' . » l 3 m . Frate, bene sta, io li e me li di roteste cos Ill: ... , l o '. Frate, bene sta; baste: ebbe se egli li avesse ricolta dal fallgo. » Do . S78. e Io non son ancilllla alla quale questi ill: la III o almeniti stiamo oggi mai bene. , Bocc. -i al ddi allo).2ssendo egli bianco º bi º 1 lo; e legg l'1 li o molto e standogli ben la V li il l30 ('.e io potrei cercare luita Sie:a, e non ve ne troverei uno che così ini a stesse bene e me quiesto. » Docc.« Avendo studiato a Parigi per saper la ragioli delle rose e la cagio: a di esse, il che sta bene il gentile lloli 1 . . l 3o .« At colleerò i fatti Vostri ( i miei il III: lliera e le Starà bene. » l'80 .  a La qualcosa veggendo Stecchi e Marchese cominciavano a dire che a la cosa stava male. » l'8o c.  a .... di che noi in ogni guisa stiam male se cosl li lilllore.... » Bor ri troviamo a mal pallito).dis- l' ill V: e se avviso lui Ilai non doversi la a veduto, avesse: ina pur niente perden a lov i Si Stette. si aste i: il liss 1, il rio - a listelmell I30 ('C'. N isl , li lev si stava. . l)av. N si s si s i s; i liss . . - Si stesse, e l'80 . lº l' 1: v. I l il sitº Il le stessero. V ... :lle cessassero, si fer  Il luss ( l ' , -- ero  (i a noi o non istette per questo che egli passati alquanti di, non gli r! Inovesse sin – li pirole l 3 .  Per me non iStara -: i sia. » I 3, cº.  l' egali dolo, l e se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele  si li, ſi iss , l 3 , . S!), .  Senza troppo stare t a il lino e il territo visto gli rispose. » Bocc. - il 1 , sich lange besinnen).l ve: i IIIa pe: il nº te i ni ivi e no 1 po' Stare un giorno che li ssi . 3 ,Siette al quanti l i renz. l i no in Stara molto i l:ì l's il 1. , l lel . Stando pochi giorni.... l l as it giorni. Ne stette poi guari tempo e le si . la Iltale della Illin molte ful lieta is: l BtNè sta poi grande spazio le elli, si ni la Giustizia e la potenzia il I I ) I V - - , l sºl l e. . l 3 SS0'.  l I e Ilio - li - Il d. si iellza stavasi innocentemente. » Ca \ si. .. li o 1 i vasi . lº, e lo statti pianamente fino all'i nia tol nata. . liocc.  (.l, polendo stare, via, - ius o è he mal suo grado a terra : i l ier'.Compa il lato l'opera sta altrimenti che voi non pensate.» Bocc. L'opera sta pur cosi, ti i sa. I l Vtloi, stare il II; eglio del miº lido. » lºt ,E relet , porrete irrente le carni nostre come stanno.» Bocc.  Staremo a vedere , olle V i governel e le , Calo. Se volete chiarirvelle state ad udire. » Se n.«Che dunque mi state a dire non aver voi punto i rotta di convertirvi.» Segn. . « Non mi state a descriver di I lique il ll'Iliferi, caverne oscuro, schifezze -  º stomacose. » Segn. 881;. -  lºra i liolli all'i lli li col V e lo slal e' gran parte moli e dell' Is Ilo ſereno:  STARE CONTENTO A QUALCI E COSA con lei la serie -  ed egli rice! cò almorevolmente. La basso che stesse contento a dazi ordi  a mari. » (iiali. - e Ma siccome noi Veggiano l'appetito degli uomini a niun termine star  e contento. » Bo( C. « A me li li pare buono collli, il quale lo ista contento al suo pro  prio. » Palld.  STAIRE SOPRA SE In ne halten SS2,  a Alquanto sopra sè stette e cominciò a pensare quello che la dovesse o Bo) ,  Li Volse dire, senza pit | ns. vi clie e - e u ss (Il 1 l: proli: tt i Vl a guardandolo fis , nel volto, per V del e se egli diceva la V cro, le venner a Vedliti quegli occhi spal V n1 i ti...: stette sopra di se e li e però disse: l'otrebbe esser clic... Fierenz.  ST'.\ I º I, SU I,.... - - ST AIR E SI | , ( il V V | | | | | | | | | ( ( I ( ). ( sillli | | | 3 ( - ST AIRIE SU LA RIPI I \ZI( ) N E. SI I, IPI N I ( ) | | | | | A ( VV VI.I.E I? I A, I) EL ( ( )N V EN I V ( ) I .I . - SI' A | ' I SU I. ( VNI) E c'e'.  a Stavano sempre sul contradirsi e difendere la propria lt - i « Inigliore. » Bart. e Stalino Irti su la riputazione e gli ideg: « Messer lo corvo io lo paura che il vostro star sull'onorevole non vi a faccia lIlarcire in questa prigione. » Fierenz.a E stanno in ciò tanto sul punto della cavalleria che persona di Volgo « è Inai alm Inc.-- a loro col Vogli. » Bart.  : gli 1 il ri . , l3 l: i.  STAIRE A PETTO | ener fronte, reggere al paragone ,  « si scusò col dire che non ave: gente di stargli a petto. » (iia Ilil).  STAI? I, IN FIEI)E  a Pochi ne corruppe, gli altri stettero in fede. » l)av. SI \ RE IN SOLI ECI l'UI) INE V. g. de lalli altrui prendersi briga, es serne lui lo premi tra  SI \ It I A Ll.( ( il crisi liti, elorca, la II nella liti... reggersi secondo... ) l  Il e no, le tuito, stava a legge ma umettana, gli si ribellò... » Bart.  S I \ I Rl l?I l l N ( ) / e mi e' e la llo su di lui l Nilo partito – STAR BENE IN  (i \\llº E forſe da la persona SI \ RE IN CEIRV El.I ( ) (saldo alla pr 111 ss S I \ RE \ | I \ PIR ) \ A di Probe bestelen – STAR SEN E NEI.I. \ SENI ENZ V NO a lire al visi – STARE I).AI -  I 'OCCIII ( ) ( A | | | V ( ).  \la V to io, che gli stava dall'occhio cattivo, non lo volle udil e....» l'occ. S | V | | | | N N | | | | | SI' A | R| | N | | N | | N N l.  ( o la base del 1 al pil e quasi ai li o sta in puntelli il mondo.» Fier. si eI tto, le li se in esilio, p - e lo Io e il ti: i piè Inail o, stava in tentenne. o l: le ( liz  Si ponga nelle da li Ilio all'uso del sosta livo slanza per slare, tral le mº) sl. in lui ſia i c', lino e lo micilio e c.  (il voll:i li in lato veri pla, endogli la stanza, là g : i (oln e 1 I pia e in stanza in Ille ta i ltta? Fiel enz. E come le g . a V e li palesse il partire, pur tenendo moli la troppa stanza gli osse agio e di voli e l'avil o dilettº in tristizia, se n'andò. » l 31 .I ra gli alti Vlo i l o, cavaliere celebratissimo, e primo perso maggio nella dell'imperato e in petrò al padr e la stanza stabile nel . Mlea o, e per i o is reti ministri se ne spedire al regie patenti. » Bart. IPensando voler fare stanza il ga e continua fuor di Roma, e per la sei i re a l), il so solo ova rinai il consolato,... » l)a V.Note al Verbo .  Stare S7S – Questo bene sla è maniera in personale e orna all'altra: ( ) - ſimamente, sono con voi, siamo intesi, basta così ecc. ; oppure all'interiezione: capita, buono allè ecc. – Simile il modo del  l'uso : ben gli sta, cioè l'ha il ritata, e simili.  S79 – Conf. Rimanere – maniera eguale: rimane e per alcuno od - una cosa dipendere da....  SSO – Alialogo a codesto slare è il sigili il lo del trio(lo avverliale - poco slan le, non mollo slot n lº..... disse e poco slante se ne - vide il buon esito . I3a rI. , se li il climpo del pari orire ess torì un bel figliuolo maschi . I3 cc.  SSI – Simile lo slare dei modi: stare al campo è iè eſsser accani palo, – stare a buona spel al nsot. Pioli di compassione il  conforlò e gli disse che a buona speranza stesse, perciocchè se.... Iddio il riporrebbe li onde lorº lina l'avea gillalo o. 13ore.  ser venuto; perchè dalla ma di e ijilala non molto stante, par- - CC (”.  SS2 - - Esprime l'alto di chi si pone al pensiero, in dubbio, in so spetto. -- I tiri la nel libblos , sostene e, sopraslaT corri a re  Si lsi ci sia le molle per lo nare a essere, divenire, diventare, lor 1 (tre il 90S , pºi renire. ridurre, ripori e, iar ritornare, iar diventare lsali\ al lile. l iuscii , l i londa e ed anche per essere di nuovo ciò che alli i ſo alla cosa ci si innanzi ecc., finalmeno per andare a stare, prendere Nl ct mi s (t. ;)( ! ) .  l oggi, poli legali le lito, lo costruzione e l'ordine del l'azione, e lo si liri, clie lori ci ſi poi accadendo cosa tua.  lº a V v l It il il I e torna uomo Ine tll esser solevi, e lì Olì fal far l ' I l3 . . .l'alto i a | 11 he tutt , torno li sudole, e tutto trangosciava. » Ca valca 910,\ l spill 1, si rende l'ono alla Verità, e battez z.it tornarono non solamente cristiani, ma predicatori di Cristo. » IBart. . La nl IV Coletta - I lista e torna in aria. o Fr. Glord.l)el lle tornò in istatua di sale. » CeSari. I loro pompose botteghe tornano a orciuoli e zolfanelli. » Sacc. di v si liti il collo il l essere ... ..() il 1 ltra il ro lo ai la tornavano al buon ll mio forse tre e mezzo. » Sacc.? E il V V elli, colle del buon cotto che a mezzo torna. » CreSc. a S1, ll ' I g Ill la l effa iornò a vero. o l?art.a (i la , la Valle, le carni i listinte ... Egli era tornato ossa e pelle nuda. » ( es: l l'.La caduta di lºietro torno in fondamento piu solido del suo innalzarsi le lege poi. Ces.Ogni vizio puo in grandissima noia tornare di colui che l'usa. » (ri doll dare il.... l o C.A dunque le parole di Crist , tornavano a questa sentenza... » Cesari,  a tanto lo stropiccio on a qua calda che in lui ritornò lo smarrito colore ed alqua lte delle perdute forze, e le e rivivere) Boce.a inſer ma di gravissime ed i maldite infermità intanto che la purgatura del naso e le lagrime degli occhi e il fra ido Ilmore che le usciva dagli lui, cºn le lido: il terra in ontanelli e ritornava in vermini. » Cavalca. La qual cosa ti memdo l'aolo, fuggi al deserto e quivi aspettando la fine della persecuzione, con le piacque a l)io, che sa trarre d'ogni male belle, la necessità tornò in volontà, e incominciossi a dilettare dello stato dell'eremo per amor di Dio, dove prima era fuggito per paura mondana....»  (  l'avalca. I , lu go studio della volontaria servitude, la consuetudine avea tornata in natura. » Cavalca. º sel l'eca un inferno) a casa, e con gran sollecitudine, e con ispesa il torna nella prima Sanità. Io e.  e la quale ſia inina, rapida Ilente consiln io e tornò in cenere quel poco a che l'era rimasto, o ( es. le e divenir, .Ma il Si Verio tormolle all'abito e al ritirarmento.... . I 3:1 I t. io e le ſei e ritornare.“ Qil lio stesso ill, la I a bbona e Io e torno il vento in poppa. onde sall'ite l'ancore, ripiglia o! I l vi i gio. 13ari. Ie e tornare, .... e Sp 111a gli 1 11:1, V. , inza, i - II i cd 1 , tcrnò in amicizia i parenti i degli ammazzati. » l?il l di t-se il l....... e dei suoi zii - lli di II lo ristor. tornandogli in buono stato. Bocc. 911).a Tornato il re in istato e la città come era in tranquillo.... » Bocc. i -e fosse stato il piacere a Dio di tornarlo in istato, tutto .. s - si gulalaglia Va all i lede. » I 3art. No Il Solalilei 11, avea tornato l'uomo nel primo stato. Il la a V vantaggian (loit di 1 1 cippi pill dolli l'a Vea - Il bil II la .... (.esil loIII e di.... lIl lla nella memoria tornato una novella.... » I3o c. Tacitarmente il tornarono nell'ivello. , 13 , riposero a l'ill ('a la clle IIIali in casa tornatalaSi.... . I 30 .  lIn giorno di salvato se lei lo costo: il la 'nzi alia chiesa di S. ( i lill allo, a nella quale tornavano. I regim V allo I; ost l' V ( st Vo Nll II lo , Ca Valca. a lº fa venire Simone, il quale torna in casa di Simone coiaio. » Cavalca fatti Aspo-toli).a colmando il dile sll Zelli che il - Itassero, e consider: ss l' in quale albergo tornava il vescovo che i veri predirato a Cavalca.  Simile al ragioni lo è il tornare delle frasi: II, (.( )NT () T()IANA cioè non c'è errore i cl calici lo. I | Ierale: il collo si riproduce bene, risulta esalto, riviene 912 .  TORNAIR 13ENE esser utile, di piacere......  « Coloro i quali sono grati perchè torna loro bene cosi, non sono grati se a non quando e quanto torna ben loro. » Varchi.a Scrisse quello che a suoi i teressi tornava bene di far l'edere. Bill I. e fatela quando e come ben vi torna. , Bocc. l'( )lº N VIRE IN A ( ( ) N ( I ( ) \...... stal utile  lºlºsa che se a Dio fosse piaciuto di prosperarla, tornava mirabil mente in acconcio al desiderio del Palavi, e a grande utile alla Corona a dl l'ortogallo. , Bart.  l'( ) I N VI RE IN NI EN I E  lil liti º se assai, le ſtia li tutte in vento convertite tornarono in niente. . I ; ) -.  l' )| | N VIRl V (il l ()| | | ( ( I | | | )|  la Illal e sa tornandogli alle orecchie. , Fier. Il testo la r o' e tornate agli orecchi di.... » l?art.  l' N VI E \ I ) | | | | V | VIRI e c.  si pa rtl e tornosSi stare in Verona, e (ii:alm!  Note al Verbo  Tornare !)()S Sinile al tour ner dei francesi e più ancora al to turn degli in glesi: The milk, the beer, the urine, le cream, ere g thing li (ul lunn ed sour. l he jeu is going to turn christian. –  l'his young mall first intended to study Ihe lav, but after W :ards lle l urned Soldiel ecc. ecc.  909 l'illlo simile anche in ciò all'inglese: lo turn in an inn, e va dicendo.  9 () Nolalo questo modo: tornare in sudore, lornare in aria, tor mare in sangue e simili cioè diventare, convertirsi in....  !) | | Nola, la maniera : tornare alcuno in islalo, in vita etc. Co testo tornare tiene alcuanto della natura ed essere di quei ver lui che mi piadue di contrassegnare col nome di causativi (Par le 2. Cap. 2. Serie 4. Ma è l'uso e la forma al tutto singolare che vuolsi qui ancora notare.  912 – Tornar con lo simile a metter conto, metter bene, metter: me glio - è altra cosa: « Non li torna con lo recare all'anima tua  un minimo pregiudizio º Segn.Vernire  Olire alle cose delle alla parte I. Cap. IV Classe II, noterai di que sto verbo i seguelli usi:\ EN Il 3 E A.... V EN Il ' E IN.... : e il ct rich o V | N | | | | CI I IE( CIIESSI \ ecc., per dire nire, la rsi, rialli rsi di..... lo ruoli e c' Nini ill, sul Pil l'as tre rulen, su I l l'ots ka) mi mi ºn e le.  gli il II pe: a lo; i erano venuti a quattro, il le All - lls-ii e dtle ( e-il rl. , (iia lill). .... ades, a ndo i piti leggeri di cervello, il bril iati il danari, preci pitosi i ga bligli, venne a tale che.... l)a Valz .  e assile la Itosi.... a patire la la lire, il s II', sei , con tutti gli altri st Illi e disagil.clic ..., era gia venuto a un termine. lle il disagio non lo olfendeva e dell'agio noi si ci a V a (riali W e il briligen dass...., 11 - : dosi illeri, il venire a volte si furioso.... (i, allil, il (ſlale il tori, ea lilelli e il nºt e V a 1 il 1 l l li do a V e 1 - o ti il to Il sito altri 11 venuto in povertà, il ire gli il li ri . :) V:llieri, c . I I I I I I I 1 , divenne a tania triSiizia e mia iin coinia il si volev l l I-; e il l . » l' 1-- I v. desiderosi vennero il 1 I l l: V . . le; e.... , I 3 , « ... sino a tanto, he venuta discordia civile tra l ti: io e l'altro paese.... , (i 1,1 mil).« Tanto pili viene lor piacevole. Ili: i to li aggi e stata del salire e dello slli (olti ro la gri V. Zza. » Bo ('.  VIEN II? | IN ()| I. IN |) ISIPI,I VZ |() N l e Nili i li V | N | | | | IN S( I R].ZI () (.() N. . V | N | | | | | N | V \ | | (i i | V V | N | | | | V..... per renire, di l riraro.  venutasene in somno furore.... , l 3 , ('. calo il 1 alta trisi izia e il la; iia a irli: i - I ne vengo in dispe razione. » Fit , l'.Veilezia turbata li . Il testa per lita sarebbe venuta in qualche disor dine. » (ii: Il j).a M: la Belcolo: e venne in screzio col Sero, i telli e li fa Vella....» Boc . « Non ostante che tutti venuti fossero in famiglia, uniti che mai strabo -  - , le oltre le spel ea. » I3 ge.Chi mi sta pagatore l'Io venga a dimani. » Bart. Ces. Questa parola parve lol te olltraria alla donna, a quello a che di ve nire intendeva. I 3 , .  VENIRE AI) Al Ct N ) che che sia, conseguire, meritare. – VENIR | N ( ()N ( I ) \ ENIRE I 3 EN E ad ai tirio per riuscire. arrenir bene, al maltro all'attimo. VEN | | | V ( ( N SEI RT ( ) V l'Nllº I; l'()N PUNTO).  Nori gli potea venir molto polti tre li dottrina, ne di speranza, nè di autorita nè li gio! a s'avesse acquistal n. » C aro.( Il le veniva loro in concio di Il gere, ed essi ll facevano con lor sen e 11 . » I3: i rt.Col forte le 'la falli e la ali lo si levar l'assedio e tutto venne bene.» Dav. MI l'asciassero a pi: el e e bilo: empo per le foreste e discorrere a Irle ben mi venisse. l' el'el./partiamo d . ordo li la sto la soro, il to he ognuno possa fare della parte sua quello che ben gli viene. Fiorenz.ma per le ogni cosa gli venisse a conserto, appena fu in porto che s'incontrò il l.... o IX I l i.\ Iſili hè dove gl ii e venisse buon punto, al re lo mostrasse. » lºart  V ENIRE, VENIR A \ VN 'I per occo , e , v. occorrere, apparire, mo strarsi, affacciarsi. -  Aguzzato lo ingegno gli venne prestamente avanti quello che dir do a vessº. » I Bot ( .  « A rispondere assa glon vengono prontissime. » Bocc.  VIENIRE A l) ALCUN () ll. F AIR CIIECCHIESSIA (loccare, Jemand die lei le kommel,  . A te viene ora il dover dire. o Boct'.  VENIRE AI) ALCUNO DEI CENCIO VENIRE Pl ZZ0) – VENIRE DEl. CAPRINO e simili - ed anche solo venire per venir fuori uscirne  odore, esala l'e ecc.  E quando ella andava per via, sì forte le veniva del concio che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse, di chiunque ve « desse o scontrasse. » Bot ('. 920).  E se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe più a piacevole il pianto loro. » Bove,  Dianzi io imbiancai miei veli col sulfo...., sì che ancora ne viene. » Lipp, \ ENIRE DELLE PIANTE per reni, su, mettere, crescere, « Quella che mezzaliani ente - lo iglia, a liglia e viene. Cresc.  VENIRE ALLA MIA, ALLA | UA..... a Venuto s'è alla tua di condurmi oltre Imonti. » Vill e da hin bringen  \ EN II? MI EN ) a chicchessia - gli ºli p. I l:i, i lobi o delle  promessº e simili)  \ niti il partito il 1 e il l via lo venir meno al debito delle loro promesse.  I)a V. Risl - , si il ve: a 'I 111 ssa : l' 1 si lill la le giova il 18 di:lli ,  al quale non intendeva venir meno. B si ti: 11 e 1 li della s la propria ssi ,  V EN II I \ ( ENI ) ( ). I ) I ( I,N | ) ( ) , .......  e tll (l: ll II il l:lti S1 ll verrete sostenendo. I 3 i '. e venutogli glia ridato la d . . . [ 1 - Vi - e se l a... ... il venne con siderando. , I3 . Fi: no alla porta a S. Galio, il vennero lapidando. , ( ovale, e fattosi dall, Illia! til:: venna lor raccontando.... ( - I ri. L'utilita dell'udi e le ville º si liti di ora in colloscere, e le nel venirli stirpando.» Cers.  la lo) l'o a salitificazioli ( poll istal Ile! llo!) il Vel difetti, l'Il  Note al Verbo  Venire  ecc. è, in Irli Is . Il li sll l'e 'oli  920 - - V oniro (lel cºncio ll - [llella spiace  storcimenti e con l'azioni di viso e di p l'Stllil, - - - volezza o nausca che al rila di ce:icio o cosa illilipsilica che gli verrisse vedi la. scillili, il lills il 1. : -) () s 2".  Altri verbi di particoiare osservazione, del cui retto uso si adorna il discorso, ed anche l'idea prende talora maggior grazia e vigoria; e sono: accadere, acconciare, adoperare, apporre, appostare, appuntare, avvisare, bastare, confortare, cercare, conoscere, correre, divisare, entrare, fitggire, guardare, investire, lasciare, mancare, mantenere, menare, mattare, occorrere, occºrpare, ordinare, passare, pensare, perdonare, procacciare, ragionare, rimanere, rispondere, riuscire, rompere, sapere scusare, spedire, studiare, tenere, toccare, togliere, usare, itscire, vedere, volere.  Accaci e re  Il suo significato con Ilie, e proprio, e lello di arrenire per caso, inopina la mente, in lei venire, seguire ecc. Il lorno a questo non accade esemplificare che e molissilio e dell'uso anche più che non bisogni. Mla gli all i classici : l i al dissi i vagano il l sless , verbo accadere, in un senso assai pil ial , o elill Icannelli e vario. Gli esempi li diranno come alcune vo' e si rii ti: con il lotto, con il corso, ed altre con cºn il '. venir in acconcio, caler a proposito, reni e ad uopo, loccare, di parlenere, e si ilsi anche a sigilli al e, ora la r di mestieri, bisognare ecc., ed ora preceduto dalla particella non non essere bisogno, nichl brauchem ecc. ( cc. Conſ. Pall. I. Cap. III . E in ende ai ancora come un sifalto acca dere si avvenga alla frase e acizi ci si direbbe sostituendo altra voce  o quello che egli pressapoco º similica.  IPerche io ho compero un podero e voglio o pagare, e fa ne ini, le altri a Iati i miei come accade, a Fiera Inz. come si l: Il tali e il costanze, o collis bell Illi Vielle, ( c'e'. .  lolina illo...., e iº gli risposi a ogni osa come gli accadeva. » Fier. i cioè colive.lientemente, adeguatamente, o come lui la V e ol)poi tullo',  e .... e accadendo ti serva di me, o l'iorenz. all'uopo, al bisogno).  Io potrei, per confortarla, venire per infinite alti e vie: ma non accade con una donna di tanto intelletto entrare a discorrere sopra luoghi volgoli e comuni della risoluzio. e. ( i ro, non ſa di mestieri, o Illegio, lo i è oli velici e, dicevole, opportuali, i c. .  Etl alla donna, a cui il  ll , lº i io li pi i lito, li : ()r elle s'aspetta? So correi qui non la grini accade. A io sto conviene, fa d'uopo . Ma dell'Ilso di Inett l'It gelift zio insieme, come nelle Real di Sl'ilari: I e di Ilioli i sigli i al rilan: e in alci e l'Italia si vede, essendo ti- , olt: a 111 inta no e 1 li l 11o-tri, a noi non accade tratta e o l?orgh. lon 1 . ( t, il gli si app:i: tiene a .... e a III e il rio cadesse il ri; e il vi  11e di ei, avendo rigi a: il che '.... , Bo .. t . . ss , - appar lesse,  , i so, li i i ll io V  Non dis-e: i a lizi (ſt 1: Io la r cadde lº do il le? , ( es. o o se, a V . Vell veli : .- . ll ii l' .... accada : il la di II lº - stieri..Fece cos e colla pr -: i o!!a spada che non accade adorna le di l: I: ( e, p Cirle.... , ( : l 'o. i liti e, iroli e le ossa ri . .Qll:) !ldo il rili di leit I e II li ſi l acca dcno altre ti -si l: azioni. . (ri, Zzi. lion , li li la d'ltopt di.... . E lic, chi i : istiani - li Iile ! I po a si'l citudine di sal º : : -i. ] il ce: i letti I l accade, Sia il I l II toi, le cºl ltsinglliaIlio . è lI::l 'life-ti- iII: , S. .. . .Ali, il non accade , i 1- I lii : i g male! » Sºgli. Iila: lor: i ti lit li lit.... .N li accadrà, - . -i, li d'oro il 1 l izi l: i i sta il listino giornal li le t in . i ! e col Salinis a.... l) ils IIiti in In.. Segm. non sara bi - Ogil ( ....Non accade per ta: to i lie i t II li' li -so di lui l'in - l'Ize. lol dl }ivi , i, l1 Il cli . . . . . ll 1: i ', - , Il li Sºg lì.Vi bast ri e ai la s; e iº li mi l britto a o che fu commesso, mln . . . il mio lo; e qlla ido, altri, il e o lo o ign ra lite. A olesse e spritri, o, avvis it, lo amorevolmente che non accade. Segn, non con vie: -i - Vie . l .Il qui e disse al detto Fed rigo: \ndate a trovare un certo giovane ore e fice che ha il III e le velluto: quello vi servira li ti belli e gel o non e gli accade II io disegno: ma poi li è voi non pen-iale che di tal piccola cosa io v e in fila giro l ' ſ tiche. Inolto v lentieri vi l'iro Il m po o di di a segno. » Bell Cell (non è bisogno che egli abbia, o io gli fa ria Il litio (lisegllo .A cc orm ciare  la ssi sºlº il ro - se e se li rai ii garbo e non so che di eletto, ll Viºli alla II se la Iso i si litio di questo verbo. Guarda come, e il lilli | is ssi I, elio che non là ordinariamente il Il 1 del'11 . Sgrill I l pl plio, acconi da e, assellare, disporre accon cui mi cºn le mºlle e in buon ordine al l inger, si richten, lo dress, allogare ssi i i ssa a conciati e le gambe, le braccia, la testa, ll il ct col Not, il luci col tr . (. ll 1 l. ll . . . . . di colecisti e cut ralli, uccelli, diamanti, l'ilari e ce : lesto verbo, costrutti e maniere leggi: i dri, e li ill sigli il l più aplo e figurato.  Acconcio le braccia i li, l l io l'. (.lle si s .... e, a da l idel e .. averla veduta quali lo s'acconciava la testa. (Illanta diligenza, con qualita il ll Iel: l i - - , l SI | o! | i ti va, la V Via Va, intreccia Va, ol' il via i l lil'Il sil i l i 11 il lo e le li li sappiamo acconciare le camere, ne lar, in olte , sa le a . . si lati: lo sta si richieggono.» Bocc. E e il tro i la si pe ll it lta, la quale molti pruni e al loscelli avevano acconcio il modo di iolo o d'una capillnet a. » l'ioret, Racconciava , i le , (.es.E' e all'il: ci lire i diamanti non si possa lo acconciar soli, i l':  i , il l: -- l tra l ' o. » l8ell. Cell. i vz: ezioli e le lezza elle e si veggo:lt il lili iE si acconci i lil, . . . . . . . . . i lor ronzini, e il lesse l ' va ige, e lº \ sl e I I I I se li ve : ero a F l'elize. I 3 r . ri è st l'illi, il ll(ili ni: elido . lle a vela l': i slis- gl tl , e g O\ el'll Ssel:ì bene. Chi libio, acconcia la grù, la II - a filoco, e col sollecitudine a cuo .VI esse l' . . . . . . preso, e per acconciar uccelli viene in notizia al - .Acconcia il tuo i i possº esser tolto....; se l:ai d. ll: acconciali per modo li si sappia sieno tuoi.... » Morell. ( 1. ( 1 , il\ vello a tu qll il Coni e il figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più a li le cliniora e il l Inglilterra e lº allogati, i messi a posto”.  Seglioli al time parlicola i manici e usi diversi del verbo Vccon cia e conciare .ACCONCIARSI p. es. alla mensa. Fior.: ed anche in significato di porsi a sedere, mettersi a giacere acconcia mente, assellarsi ecc. .  Si acconciò gentil IIlell, e i ti voi: .  Egli verrà la 1 Voi il 11a bestia nera e o li liti,... (Illa ndo a costata vi  salà e Voi allora Vi Salil Salso. e colli e slls , vi siete acconcio, così a Irl) do e che se steste e ries . Vi rc II e IIiani a tito, se :iza piu o ai la bestia. »  I 30 ('.  \ ( ( ( )N ( I \ ItSi esser utcconcio ut, o li lati che ce li c'Nslal ciclot I lati si, russº  gnarsi, esser disposto. Il to, tppa i cech lato.....  Io lo :l po-so acconciarmi a l el I e re.... » l 3 , .  \ (livelli le li I): 111 .. . a pl i ro a ... - l'e. sospil i....  non pote; gli rendere la lei dili i donila: per i quali cosa oli | il pazienza s'acconciò a scstenere l'aver perduto la -la pl es Inza I 3 , .e Io non posso acconciarmi a perdere il fi l'io a file si cal . Cesari. « Io mi sono acconcio a biasimar to I 11 che Asp) , gli lotli. » I): I V.  Io sono acconcio a voler vincere Il -: i cºnti. » I 3 . E come io sarò acconcio, V -st ) e alla va º lº i .  Non è ia carli e acconcia di sostenere . r i ve l Fr. (ii in l.  Quanto più se puro, piti se acccncio di ricevere Iddio e Fr. Ci lo d. Quivi volti i navi in tiri ſia rico, in acconcio di lavorarvi. » Bali.  i la V l',1 : vi  m  a E ve le; do l' Argilla i in concio di cavalcare. 13o (disposto, appa  l' chi lt).... i  A( ( ( )N ( I \ RSI ctconciati e atlcino ( ( ) N ( I | I ( ( I l ESSI A conciliarsi, (te  cordarsi pacificatrsi .  \lla fine... s'acconciò col Fiore: il il li :lti i ( illelli (li l si allit,  to: Il ssi iI Vleli agli 1. o V ill. (i.  Lo e pri: la II :ito il ole, per racconciarlo con Messer :) lo li Valois. o Vill. (i.  ... col quale entrata in parole, con lui s'acconciò per servitore facen  a dosi elli: II; il r l: Fiºmille. » I 3 ( .  Nola questa forma singolare: acconciarsi con alcuno pºi se ritore.  \CCONCI \ ItSI NEI I VNIMI ) capacitarsi. I 'carsi a crede e persua tlersi. (ili ei trul. \lti Silli SI, V ii e ! :i 'li, l'Isalli, e ci sia  - acconciar nell'animo. ) aCCc: i ciar ine! l'aninno , l l3 - li V . I  distinzione e  \ ietti li ! I Ve!'l, l: (i iallllo. (ieil.  la melitoria e le |! l - , vi  E acconciare nel mio animo, e non ini parea lecita  - l - e--  l - lº s;  - li S liatori. » I 3: u. Lat.  \ ( C )N ( I \ A Nl VI \ / i pati si alla no le col ricevere  l Set 1 e mi cºn li li il ciliotti lº si con ll li ecc.  Vi es . ( acconciasse i fatti dell'anima  t: glla le, e l a li: il 1 e il  . . l l: l. sl a i (lisse 'lie egli susa, i l si che egli la voleva Z: eri Vil. SS.  I Pil (ll'.  v( ( ( ) N ( I \ | RS | | | | | | A N | VI \  il n. i da i falli dell'anima .  ct no io rsi in ciò che riguar N e ciate dell'anima  Il n al! Si  li: i  pilli ! sto cle vi accon - i lì piu al tempo,  V ( ( ( ) N ( I \ N ( ) \ V | N V | | | | | | (il ('c'e'.  F.1:  e volesse stare a ctl i l'u .  - I l a bottega. E Vi , l Acconcio con Maestro ,  la rasse  i . . . . l acconciateli  I tl. lillo , a io lì è inil \ l.  ( N ( I \ I tl. VI ( Il N ) pr millo. Il tra Ilia I l . l i nºn lati lo ecc. su l ich len.  \  ii  farò acconciare i l Illia lii º l i  si tr . . . . . lle tll ci vive: ai. » l 3o .  ... Aloi li . m'acconciò questi  ll e g le I); o V el li o, o ( a ri . Sll : il l lilli 1 , l is s'. ll I  Il 1 littl. I);l V.  lliti sei lili la ll !! ll glie lo concierò l'eli io  lº \ IR E. I ESSI A IN A ( C ) N ( I ) li.... in vantaggio..., facen do cioè se r , e checchè sia a suoi lini ecc.  l?erg: lilino i lor:i, senza pil nl o pensi e, quasi molto tempo pelsato a il V e -- e, subitamente in acconcio de' fatti suoi disse questa novella. » lºoct'. (  \l) Eli li reni e, lo ma, I N A l in 1 l propºsito, reni in luglio, rec. . Qui cade in acconcio , I , i : i S. l l si i lºrº di ioso voli in ... , se iTorna in acconcio l i - . I l S. , , , i Nºi voi i 11 - i  º se stiti - il re: il 1. º , a tra i -, z º di e, dal e più acconcio ci veniva,  i l ingrºssare il vo . Il V  Ad operare  Per poco che al li sappia di Lingua, si accorge ben osſo che il voi , di loperare dei seglie il I sei il pi è ai l i costi dei lorº il rio e con illo ad ºgni pelli volgare. - No ai soli a l I I I I : alopei a e bene, ma le o anche solo taloperai e, per lipo i lati si, gore, narsi, con le nei si; alope) tre, operare, la r opei a con alcuno li e..... l 'pri ti e', operati e che.... pºr lati sì, procacciatºre ci : e inali, il ciclopici ai ci ... per conferi e, esser utile, gioca c', o con lo si i e oggi lo on influire.  l eggi a Iuo prò e al dile o al resi.  V i lido col e si e-s, li iii , ol, i quaie avea l adoperato per le a slie III: li I. , I o el1 I (verrichtei). a ll re quariiunque adoperasse i º pr. a, an's Werk seizen). a Mi la V z1 : ve il nr ad operaio i  i il 1 il lil. . . 13:1 rl.  Ne ſilesi , gia ch'egli vi adici rosse. l - - -o sl 11:1, l'III e l11 Il 1:1 s ... , vis il l i | , , v – i V , 'l 1  l il 1 Isse, Irlett -- ed egli il pil ct, i vi l -i, iniorino ai i quali s'adoperava con l' it (... ss. (); il roli e il lil cli: a C0pera l.ene o y I l a co; i do ci i ri! tura il - ii Is Izia, - li l ad opera male e vizir - Viv | - li si diporta, Si ccntiene lº : 1 –- verfahri, vvandoli , iti).e .... li oli mi ero la gr. z ,: i Si - berte a deperare, che [ileia (i ( ri: la no tv e ! 1, governo di vita, ecc.)e il V , e le si illi, o il la il lili, la liene, virtuosi, troppo modesti, le belle adoperando i lileil lido - lo appregiati....» Dav. Col, iv. I l l ita 1! Il sºlfi . . niente ad opera malamente, tutto fa bene, ogni - le glova, e il s Salvani non agit perperamº. lo II el'o, il ri . . . . . . . . . . . - o, dove il confortar ti vogli, si adoperare, e il e . . . . . . l: -, redo re al novelle, le soli i lilli 1 º te ti -Cosi certante iº e Ari it – V ssc, adoperò colla famiglia. » ( i s. si \'.v)lli: li : Il la l o i ri: le tv l In- ll It ! ! a, e tali o col Re adope rarono. l'egi e 1 , il l / s la i3 (fecero sl, operarono in modo, procacciarono).i lil:n le li so il il vi: ti ſia di m 1, operò con l'apa Gregorio - , hº.... » (1 ialml). id.)ed egli, di e, operò talmente con Cesare, s . ll e li perdonato il 1 l id.E tº it , adoperarc no gial l V el:a che... o Bal t. ferirla ndo ll ma l operarono li, il 1 e Carlo, ripassata la Mosa si torllasse llel rºg il s; I ( - i.... .... e farebbe opera li . it la liri º la sc a lìoln n. » I) tv. id . Io vorrei che i 1, ne faceste opera di villa N .N. » Caro (vi adopera sl pressoºl li º il colle per a sua gracilità  Es ) vi il dl -: ma , in egli era il s ii ei cui i valta - at , di si' nza, di compagno, di  luogo, gli sempre adoperar tanto e S: il riori, ch ... » Cesari.  che dunque a soste itali: rito dell'onore adoperano le ricchezze, che la poverta non la ia molto piu i.lilalizi? Io :. il fluisce, conferisce, giova ,  « Ma loll di Ilent la ceV a, che poteva, per rientrarle lnell'allini : li la trielit parenti e li adoperare, si disperse, - Il 1 ne dove - sº, di par la rl esso stesso, lº giovane, effettuare, procacciare).  State alle li e di buona v glia; che molto più adopera il valore e l'ardire dei pochi che la inutilissimi i tumba ro, a, quando la fusse ben  t infinita. » (iiamb pro accia. . ol' 'Isre).  Si moli da ultimo la maniera: in opei a li.... i pel in fallo di.....)  lonio ( i lissimo e di gran traffi o in cpera di drapperie. » lºocº. e trovato le in opera di buon garbo, di de enza e di dottrina Vill  e va l'aspettativa, mi sentii i liar, al c il rilore. (i illh.App orre  Olll' ai valori e ieller. Il proprio i tggiungere, arroga e poi so pi di Sel, il re la confusione del polso e PI 11 cipio tu del mal della il tale, con le li N appi ne ........ l ( ) ll il l i lieti di appori e il 1 - i gi li - - iulo. , p e iº le : li ra i sl: i lig il ' . . . di ripula 1 e' accusa e, in colpare all riti di qualcosa, aldossati gliela, nel lase apporre ad uno una cosa: l li il 1 i v. l i - gi; ella follia | I l il 1ale : cippo i si  Imparano Is , c live , l ' gi! I lag esempi.  I rito 1 a l er . . . agi 1 -- lei, e ora apporle questo per i- usi li - e. . Bo , .E- ii e il V o cl II , l ' Irli i g IIIai sonº la mente io sven t 1 at ) ::: V , le la cui marie e apposta al mio marito, la quale luorte io l it ti: B . .E le appeni tu ad alcuni quello il 1 i il III col silio t'hai fatto e  iiii? , 13 ,  (r, i 'lo: i -- : ci t st: l) il che mi apponete di coolnestare | e e lil iio la c. 1, l Illa. . (i illl).E Ve; 111 e il rili lag ill: r. 1 lo si, e s'appose, ( l'eli t loss ( sua 'Iloglie, ei sºlo a l'i! ). » Mallia ! 11.  l'att i l 'sti 1, lis - e li, il dr. Ino. l la illg. elier asse non ti apporre sti a cento. . l):ì s'. Il 21 i liti, vi resti li li lilla i lorº le co; 1 o  Corsi di relli i quei gr. ll li il mini, i l io l .go per certo che si appor rebbcno. » - n. Inoli s': i galil; e) ebbe o  Nota al Verbo Apporre  5,3 I) a º nel segno. ragionando, è il pporsi, le collge lire, o forcare il lasſo e piglia e il nel bo della cosa. Var cºlli.App ostare  (Dar posta, star a posta)  ''sl - di chicchessia o  si illeso, cioè (lulalido si: s - , l .\ - è issa e il luogo e le tipo  s'. Il V : - s ci si s s' il ct ch ein dei tedeschi,  l suo pit ) e', e in quel luºgo | | | i rt (I sua posta, con I. Parte II ( I l . ll  i , i', º i apposio c;uando i lollio . si - i disse l'ogii quella  :I - le glali lint re è e....  l'. I l l - l'avea apposiaia | 1 g l'allo. , (i azi. Appostato il piu ienebroso tempo i l tacite, , lei , ioè nel quale il so: i s - l. : - , i lil a :. ll sell on clie:almente . ll . :is: i ... . . . . . . . . .... ( si ll e lo appostasse sull'ingresso del Campidoglio. ll mi - la al liri o di s in ital re, di frecce e l Segì).I :: dove aveva appostato, l et al pullm: o ill sul villf 3e; n. l va o, lis- llo, i retto il colpo).VI it l'ill si Is sennaio. Si sta, la Iat il asta illega vi lo, i . Apposta ove colpisca, on a o va l), l ' orlo tutto gli l'avvenuta I l o ( il l .\ v . . . l l ego lº appostar gli Austriaci, a . . . . . ti tasse il la a sul pi e-iudizio. » Botta te :I n lo lo i in loli - li alidati i ti.  le r data posta il l lie tiva e noi i vlt il cli'io il vi trovi a  Quel mal. Ieri in una siette due anni a posta d'un sold it . » lo c.App urntare  'A | | | | | | | | | Il lo si ' i loli - li ai i . riprei il l 'o r .  tippli il latre il ct cosa al di la uno. l'l'ov l' . ( ppm ti litri e li e .... ii.... l'i: il 1 III e appuntiti e un colp , e | illlo presi di illil: l. I gi  i - t ' ' ) - ! . . . . .  l; i si. -: i l fu appuntai o  V tº! :lli lo sono, i Padri - - , i : : : ' I in pirole. , I):ì v.  I  l . .. . I t'i .- I: - - I . , fi, i I l - I li. . I ): I V  , le liti, il li  il .... -; l - . . . l is -si l i - i l. S: 1' iot:  vi si appunterà l l i' 13 º 1. E di li a coloro la  II, il 1 , Ser Appuntini. , ( S.  S l it  1:  AppuntoSSi che s- i  t ... , I ) l V.  Appuntò coi detti l' 1 l i tutto ciò  l: 1:1 Vl: .  S. 11 , l appuntò un ci: Ip o l:  film inò il capit: o o | Ianti lo ci illavº i .  Avvisare  (Avvisarsi - a v vi sco)  Allego si ripi non del verbo il livo a rristi e  I tir e risapev. le. I vv . 1 i re,  I menſe, il quale in viso a chi og:  g:iela  i Il  lº 1 . . i.  s', i lice: i :l  I l il  altro, si al l o rimase agli sciope::lti l 3 l:  ali in lil ( :  I )i, ci si lti liasin i d il  il; ºlio rilli -  , , l ' il 's si t. e tt l'olarsi, ordilla) e tº .  i di l: colpire il  l' - . ! ! !:ì 1 -,  i ri'app lº ri: sv )  I s II, V a 1 , gl, \ si appuntar noi l - I  l ' ' il il i il  appuntare : eppur un apice, 'i  - e tutto appuntano, a  l -  i; - ! :) li ... la  isso il pari pt Ito, e noi  la r il riso, il vell ,  I tivvisi , e. l' Ili. .  issili i i -s ( l' i l'i: l' " Il liti i ligi ri . . loli l'illoleri. Ira del leill ro assoluto, o prono I l hº gli sli, le il valore simile al s'avis 1 e avis dei francesi li irri in tutina i si. I ti sei sl, la si a : ci lei e co., il cili i so, se ben in avviso,  I l si ggi ci si po spelli in opera di lingua ed è a  ' s i cli l'oli gli esser :ili le liti e il prelibar l  I  l: ! . I si li : al avigliosa gran  ! . . . . . . v avviº arcno : lei, i - in esser velenosa dive  I il avvisava li ss e passa r . » Bocc. sup  I l .. li-:i avvisando - - iº l e dissoluti. » I30 ('. - i l avviso il s.se; desso. » Bocc. lo avvisò i li i' alcuni luogo ebbro lo II : -i, si l e o lº .i l s ! I 1... ss, il ssetto, 1 ist e dolente se ne tornò ; s.l, avvisando - ti - r. -I:It i ... , Bo ,li-s, E e Seco avviso illi Illa, i no ll doversi I ve -- l 3o .avvisando i l e ella gii piacesse poco) trove s ii e lº .l I | tesi . ll e l: e avvisò il vocabo  l' . I ells  l'e li it , S'avvisò a coluso  ss e trova: e di ... l . . . l ' ' , | 2, . I atto e deliberò  I l e' s si s i vi e - ssi di vole sapere - : ! ed avvisossi del modo nel quale ciò gli i i l3, ... l , S  ( avvisati - - In che Illes o così ti faccia? Saccº. I .V -: i - . S'avviso il l li llll:n ſ l /a d'alt lº lì:a : i | . . . .E per ivi set s'avvisò troppo bene, come egli - V. - ll ' : i .Il pil) , io si à il lia, s'io ben m'avviso, rispetto ad un altra assai  Il l: si Se; ll .  Se gli al riso al ris di un sinificato  ill: i go sl , lº sllo di crisi i '. : i l'avviso , le ''I I I Ilia della sua bellezza il  V i 1 l in tºs , l  \l: :lli il II lili il . V e e l o il sallo avviso. l): \ « Nè fù lungi l'effel si o avviso. » B cc. « A cui 11 in era avviso , li fosse tempo da clan , l ier. e li è già per -: per l'ill Ie 'il' gli vi ad pe risse, ci il qll 'lo smarrimento non vi rimase avviso da tanto. » Bocc. 579, acc ol - rilentoe fatti suoi avvisi accettò la proposta. I3 po; id I a ta li li le e l'i cosa.siccoli le usanzi su l ess, le li fatti suoi avvisi, spedI. . 13 i fattl i s Il ri . al li, .I)omi: i lidò il pilot se vi era avviso del I a lisca il lº i rt s si s orgea  a Apple la avvisato da lui questo peso il il p . In 11 e-cºit se ne  riscosso a Ces: l'i.  Note al Verbo  Avvisare 5, S - Nola il linº al 1 al riso rsi li ti ma i sat. d i siti si il mal cosa, e vale la d ' a lei la pens. Il ct, i | I l s rie, ci - ci) ruſ e rsone'. I )i si ti li hº i risa e il noi cosa, per il rei tir lei, notarla. Appena arrisalo da lui questo peso di ieri di I e di presente se ne riscosso ( esari,579 – Quanto è vago o lorev | Iesſo il is gg si direbbe: Il -  | perocchè a tali strette, non vi fu empo li peli sare, escogitare, o che altro cli si limigliari i c.  E a stare  Polli menſo doppio sensº di basſati e le seg: lili o il violi: ()nte sl'arle basta a me , cioè in è sul lirielli e li li li i lis alli: iº basto a quest'arte ho mezzi e forza per..... le lili l: i lil, le liri, l' 17 e il livalho ad imprendere... La prima è comunissima e volgare, le tre le chiali con esempi. La seconda all'incontro è maniera eletti, e di quei pochi che sentono un po' avanti nelle rose della lingulil.  Anche il bastare della frase buts/a r l'animo o Se vi basta l'ulmino di far che in accelli offritenegli Caro Conf.. il Valli l nino - è al  purito il bastare di questa seconda lo ilzi lie, e indica pressa poi esser (l'animo da tanto, giungere, per renire (l'unino a tanto, e vi dicendo.i la ro: ra . al its bastiamo, a 13occ. 5S0). - i r re i al l i rbicati e cresciuti, i il bastiamo a stir  : l . bastere;li e. . 13 or sar hl) e ta . . . . . .  n . . . . . . risentirle una copia i ra i on v'avv a quivi dipintore, che a  ta, nto bastasse, I le dele (li. I 3; i 1.  Note al Verbo  Bastare  ) Sſ) l'id è lo stesso lº il ci l dll e il vece, con le diremmo noi, il si delle donne lo slot l'atl e l l'uso e l'arcolaio, non disse lui slot, Ilia è assai. il so, orsi e rifigio di quelle che ama  mio per i celi è all'all ssati l'atto e 'l luso e l'arcolaio il di l': i  Cercare  E il cristalli lil e I l nl 'l Nucl e il Salili i re, slidiare con il tenzione, I l is e, il laga l' , col sill' 11 lt ll ſi asi: ci ce l un libro, cercar le di se ci I citi una perso il ct - . l)i si il cc i col 1 e una città, una terra sigilli passa ossei validi . . ei clo, la co .  li oli al lilli e soli i pi:  ( )li le!'a il e lilli e, V agli illi: il litigo studio, e 'l grande cercar lo il volume. o l)il lte.i Lercol 3 al 1 , e , i li, li i e i buloi. » Caro (ricercare una persona sig: i ii a il l e 1 i lie i ': li .\ clotto) etti si -si il te: zo e alla metà del gua dagno, a cercar le case, e ieva l s : il 1:1, e, per trovar e li godesse lasci lita C, alla l):l V .I 'e'.rso li corcarne la divina voi omià i ll Zio, le altrui, o l'ior,  n iºgge.a Cli ben cerca tutto il vangelo forse non trovera che un siffatto acqui e sto di tanto pop lo il solo un tratto in esse mila i lle sue prediche (i (  (Ill:llito il Sola ( [llesi a breve ( r; i t . e S. Iºietro, a (..  º rivolse ogli diligenza - l' e di Illili i lile. ll i s loi a cercar della sa e nità. » Gianllo. Elissi: cercar : utti i mezzi. Inet r . - mi premi per ria - V el' .a Sillitti ,.a Augusto cercò di successore il rasa slla. l)a A allA. - 1; 1: o lio. Indigo per il Vere....  e si liliso coli - I li stili (l: iige: z a ricercare falda a falda della Velità. » Fiel'eliz  “ El a Ve lº io cerche molte provincie cristiane, - per Lolibardia , a º al rallelo, lei passare º I II: iti, i vs en le le ali da 1 lo di Melano a l'avia,  ed essendo gia Vespl o, si s litri l'olio in 1:1 e il il l Ilio. » Boc .  Mla poi li è tutto il ponente, i senza gia i ſalti :i, ebbe cercato, i 11  t l'ito il IIIa l'e s ile 1 : : 1() , i V ess: il n 13 , . .  « .... e pot; ei cercare tutta Siena, e io ve li troverei uno che... , Boc . a A Vell dol' cercata iutta 'a . li col e ssell gia stali o Ill l II li-i ill l'itori la re. o Fle: :lz.Tutta la vita si fa a sposa l'i loliti li-simi pellegrinaggi, cercando i luoghi santi del Giappone. I 3 art.« E con i grandi ravvolgime liti Filire i quali ora alla ti inontrº la , ed ora all'opposta parte si aggira ricercandola la terra, quasi per tutto..... » (iiil Illb.  C confortare  (sc e riferta re - Conf. D is sua ciere. Pront.)  (on)orla e alcuno a qualche cosa, che si faccia q. c. ecc. e pel sili derlo, so Iarlo, in arlo, spirig, l' i lil e . S ºf I larinel è l' p oslo. N i li  per i recari e alcuni esempi.  Ed issa i beni a impa - , I li la trie e il torri li da tutti confortata al li gire, la valuti il podesta V litta, il III lo col l Ilio Viso, e ce li saldi v e quello, che egli a iei dotina li lasse B  I 'oi del suo alti i lite ri o li li lo- i' (Ill: el: otto lil ( st 1, assa  preso di quivi, aveva in un io a ccnfortar Pietro che s'andasse a letto per io che tempo ne a o l'o .e primi i che di quivi si pr isson, a cio confortandogli il Podestà,  i mi odificarono il grillel statuto.... º lºFresco conforta la nipote che non si specchi, se gli spiacevoli, come ll e A 1 , e ti º 1 ) : Ve lei lo i si. l o .I testo ma i ti o confortati da lor parenti e amici, che riconosces se oli e voli ſessare. » G. Vill.V e il nero, il V a 11 , l Il 1 confortarmelo che ubbidisse al ri . o I): I V .Gcnforto tutti a lasciar . si sa – glie, l'orazioni e comunioni Zulin ::lli li , Il l i. l)a V.s confortandomi al tornarmene a casa. » Fiel' )nz. - I serio i silo il confortavano di temperarsi e di allentare l'in i siti il sil i alti ( 'esa ri.Se io vi -si p a le!! come tu mi conforti, l'anima mia a noi e le ai le li/ si e io ho dato la carne lli: i.... ( il V .\la verido , sto o portata l'. I bias ial a ad Ell fragia, e a ciò per molte l a io li confortata - l is - e s' i lisse i olte l'ag : ille, e coll a Inaro  pi: il Quai a voi li s oi . . he a cosi i lte cose m'inducete.... »  C o noscere  (FR i cc n cos cere)  ( o mosco i NI ci li tra i set. -il ii so se con noi il re de I cl.,  significa in l'ulci se il '. 'onosce il no , , , l 'ce lessic clu allro, è di s'ill il 1 I l , is . ('onosce e o riconosce e una grazia, un ja col e la .... è lov e la, il I l il lirla a ... i liti rare di averla da..... -  omose, e della morte e simili li il no, vale riconoscerlo, dichiararlo eo li..... l?iu' , il N . . . . . . . . . . l ' , l ' l?iconoscersi di una colpa, di un  è liſossal l .  s io mi conoscessi cosi di pietre preziose, II e io ſo d'uomini, sarei il i vi ! lle e º I, Il Matt.per quello ne mi dice lº ſietto che sa che si conosce cosi bene di q: lesti pallºni sbia vati, e lº r.o i ll (º non si conoscono  il l fſe 1 l  punto d'architettura.... » ( es.  \ , il donº la rispose: I o la o si: Iddio, se io non conosco ancora  lui da un altro. n l3 , l . V qui - unità si conosce dal mondano lo spirito di Gesù Cristo. » ( si ri. a Opera da dover far da Irlatti, il che si conoscon meglio le nere dalle bianche. » Boc .a .... perchè levati quelli, la plebe irrilla oserebbe: e riconosceriensi po scia i complici dagli amici, o l)av.  « Dal tuo I (rdere e dalla i i la lo! lla le Riconosce il grazi e l: i vi itti It . l):al 11 e .  “ Basti G e Inalli o privilegiare che in consiglio dal senato, non in corte º da giudice, si conosca della sua morte, el r . -t val del pari. l)av.  º .... e riconoscendosi dell'ingiuria atta a questi frati. » l'ioretti, e Allora egli riconoscendo la sua colpa, fece penitenza, e donandogli perdonº. » Vis. S. S. IPad.  Correre  (Disc correre)  I la molli e vari Isi e formarsi di belle maniere. Nota le principali linello e Iri III li le seguelli esel pi.  e I | rall cesi a ºltrati delit corserc la terra senza il loll col trasto. » Vill. 585). .... coli in id) :i correre il regno -a loggia il clo. » IBartoli. Illustre predicatore che corre i puipiti d'Italia fra gli applausi le do a voti » (iiillo.e I ( Ini di Ibi: o il r.) vi Il viate corsa questa preminenza. » ( a l o. «... assai mi aggrada d', ssere co ei clic corra il primo arringo. » Bocc. 5S6 . Me felice s potessi correre questo arringo i velido aiutato l'opo la del « Vangelo. » Cesari.....egli II le lesiIII , del I II lillò (li l'iri la liersi e correre la medesima for tuna che lui, nulla curando, nè la perdita della slla nave, nè il pericolo della slla Vita. » IBart.« Di sette lance che corse li rilppe cinqlle con allegrezza e meraviglia  (l'ogli tl 110. » ( 1 l'o. a .... queste ragioni mi conforta ono a correre anch'io la mia lancia in  questo al gºl nonto. » Cesari. a Lasserò correr questo campo della poesia a voi altri Academici che  siete giovani. » Caro affendere a quella, dal e opera alla medesima).· I l II o tempo correndo le luci la citt non perciò meno l sta inte . ontado. , Bo .si li live sale e contagiosa fù l'infezione che fra loro corse quel l'a ll 3a l'1.tra gli 11 corre un intezione di febbri di ... - I pessima ragione, ll ... ( i vzi. Nello st: 11 - che allora correva. (rilllo. I ) , l'eta di Demoste le : il testa ci corre 400 anni o poco più...» Dav. 587). \ : corresse spazio di un ora. l3 .Corre quest'isola in lungo sette miglia, e tre sole in largo. » Bart.  Pe o mezzo a l.it , l e sa l:ndia corre di itamente da Setten I una catena di monti, e le sl - a da Call caso e scende a... » l 3: il  I agii occhi gli corse a -- . I3o elle gli SS  E al cor mi corse ( ia i colli e persona ſr. I l . . . l): i .  ln - correva per l'animo e.... » IBart.  ( (  I il pericolo slle liner all tizie di gran avrebbo in corso in mare. 13:1 I 1 S)  ( N ( ) l) l. | 3 | | | ill). ( ( ) | | | | | | | | | N V | | ( ). I | Sl.lº \ l/l ( ) l) l....  In questo a so dove corre il servizio e l'invito d'un mio padrone. » Caro  i .  se son pi ve lo disco , cre, usato a significatº: cºn lº  ami e la scom e e, derira e ecc. si lelle che nelal.  Mii la- i ere e buon tempo per le foreste, e discorrere cc me mi venisse, l'it''.e da questo discorse un uso quasi davanti mai non usatº, che...» l'80C'e'. a io lo - i tiri la discorrimento per l'ulta la casa º Bart. - mi - nza discorrere il fine, si lan io subito alla scurre e misesi a pende, in li di quei ciuoli, o l e ºlz. Senza lºnsºlº al come sia l'elobe  : il data a lillire la cos:lº.Note al Verbo  Correre 585 - l' idoperato quasi al livamente, ma con significato più esteso, figurato, che non farebbe a pezza un equivalente al letterale ('O l 'Cºm'e'.5Si - Notilla Illesla frase: col rer l'arringo, e similmente le altre che  seguono: correr una lancia, con i ri il campo ecc. Si - Noli ſtesſo impersonali ci col re. I corre di questi sei ripi, è del tempo e del luogo che, fila si scorrendo, prende e traccia di ill pillo all'alli o dei lo spazio I: la determina la linea.5SS –- Qui con lei e e ad uſiiclo di occurre e venire andare. Nola e frasi correre al cuore, correr per l'animo, e simili.Sº Q1 slo Iriodo: cori ei pericolo è con uno a molte al re lingue alie (i clah r lui ieri, ecc.  Divisare  Senlio questo di risare nei pochi i serpi che ſi appresso: a signi irare ci è mai rai o dimalamente a uscinander scizen dispore con ordine, scomparti, e parli e ed i licli, pensati si arrivare ( cc.  li loro l'illi i i parlare i 'loli i c. v. gr., ho di risalo, mi son di risotto, per dillol: l' 'i la propos, o, deliberato, deciso, non ad esprimere, come ſarebbe chi selle e parla i alianamenſe, che si è pen safo, ha disegnato, arriserebbe che.....  a tenelidº, per la rino che la cosa -- e passa 1:1 con i giiela avea egli di visata. » Fiel eliz.a .... ed appresso ciò, che i la' e il V sse, il ritº e il silo reggimento due  rasse gli divisò » a useiirald , setzte . 13o e dagli scritti del salto trasse materia di comporre il sil: ingata Irla tel', la II Il libro, Ill e li cºl bel ' : dillº diviso | Iti: la tra i cia (leil;a l'olen  zione del II loli (lo. » I3:ll'1.  « .... ed e-sendo : -s: i feriali lente dalla donna ri vili , le disse che cosi la resse l'il la r la corre Melissa, divisasse. , l?o r.  a .... la donna.... 1 i clonna Ilula 1 e (iiosef Illello che vola via si la cessi da desinare. Egli il divisò, e poi Illand fil ora lo ri:lli, toltinianielli e gli a cosa, e secondo l'ordine dato, ti ovaron fatlo. , lo .Voi avete divisata la cosa assai bene, sicchè mi vi pare compresa tutta e a Ilatelia dell'eleganza, o disposta, ordinati . Ces.di ſilelle sole vivande divisò a sti i cuochi per lo convitto reale.» Bocc. a Verall I e II la i lill. ll ora per te, da avarizia assalito fui: ma io la via e o con gli el l istone, le tu li redesimo hai divisato.» m'hai fatto il pil e B . . .  Sl, ma i Ilie la sinagolarissili la differenza, ch'io sopra vi divisava.»  lei o lì a te il sito per le usa da vel un buon scrittore, e si Il bo a al volgo. ( sl se la divisavan Ilie doti, i quali.... » Ball. si elisavallo, avvisa vi 1 . .\l l'i mi diviso, le rimastis: Iuori quav dalla soglia, vi mirino filgl ill: :ld . Segli Ini figli l'o).si che io mi diviso che non a rilisse; o i miseri di alzar occhio, non li orli : l pil le.. Se gli.11 ilare un vocabolario d'un per il : Itti i vei bl, divisatevi le nature e le proprietà di ciascuno. » Bart. do- ni di tal ne trarrazione, se non che troppo a me lungo, e forse a li legge in si evole : ills in elole, divisar qui le tante dispute chi egli ebbe.» 3:ì nºi.vestiti superbamente all'usanza, d'abiti divisati a più maniere di colori, con i filisslilli - il milli ntl ... Bart.  Ermtrare  Notevoli di questo verbo le manie e bellissime  a ENTRARE. MI ENTI VIRE IN CIIECCIIESSIA, ENTRARE A...., per cominciare, prendere a latº e ecc.  lºrin la che tu m'entri in altro, dimmi, -oli io vivo o morto. » Sacch. Non m'entrate in preccnii, nè in prologhi. Quando volete (lualche cosa che io possa, basta un centro. (art.lira non a 1 le con una donna di tanto intelletto entrare e discorrere e sopra luoghi volgari e comuni della consolazione. » Caro.I) una in altra parola entrammo ne fatti della fanciulla.» Bocc.  poichè io entrando in ragionamento con un delle cºse di quei paesi,  per avv. tu a mi venne ricordato Lelio. » Filoc.  | EN l'It Ali E \ All.SS \, ENTI VIRE \ I \ Vol. V, ENTRARE A MENSA  c'Ca'.  La confessione generale che fa il prele quando entra a messa. » Pass.c ENTIRAI? E IN TIM ( )I? E, IN ESI | ) EIRI ( ), IN PI.NSI EIRC), IN SC)SIPI, l' I ( ), e c (t (lice nulo.  entrata in timore - sei o III. Il cap tº re Ba 1 t. IP re i 'clie a g, ilt i, \ l). go l'e . . . . . . l ... I mili: i le - -:llito Vivo: e º dell'ill ia 1 1 : era r . ll - I ldei prossimi, entrarono in desiderio ci si pre e, in ancora spo: desse li ll , l ' t”. tº ll tº si ri' o 1 .... 3 I l Iin una settii malizia entrato, i vo i es -  a l It I lilt il 1 e il -  d ENTIR ARl, ad alcuno Al Al I EV VI ( E per..... ed io v'entro mallevadore per lui li l e se è le. llla III It . Fi ..Chi entra mallevadore, entra pagatore. - - .: Ilss II: Il V  tº I,N | | è A | I, I | |}I; | Rl, I V | | è \ \ | ) \ | , l N ( ); | N I | | VI è E SA | VN I \. I; IRA \ I \ I ) I.....: - N | | | V | | | | N ( i | | ( ) SI \ e c. I ) | VI ( l N ( ) : EN V IRE NEI . ( VIP ) \ I ) \ I ( il Nº in cig in cui si, clarsi ad intendere, osti il dirsi (t ( red º l ' ,  Ils. ll lo) I | riti si illi -:1; Iz.l i i dis, 7 entrò una febbri cella, e l'inna se lei III omistero. . (la Valcº.  I , qui ii a o o in a . I riti animi entrò smania nel Ilici; ve a lolli eti, dl e Vil:1 . (li paz/ 1. l): i V.  per la qual cosa disse che gli entrò si gran paura º le calde il tºrº , e quasi tutto stupefatto, ſi angosciando e sud (lii n non Kyrie eleison. » Cavalra.  a Di che la Minetta accorgendosi, entro di lui in tanta gelosia che ce li  non poteva andare in pisso, l e ella non ri - -- , l al! --  º  )  l'ole e col cºl ll i lili ( : : 1 , il ... tl bol: Issº. I 3 a gli entrò nel capo li li dove li te: -- . . . lle e-s; il vos - 1 - liotalmente vivere nella lor povertà. e 13 , .  I, MI ENTRA CI ENTIRO. (ne son persuaso, mi capacita. m i quali (t. mi ra .Fuggire  l Is: s e il re il sito proprio di partirsi I l il si alla I - - llando di evitare una cosa, Nºn solº, º ssd i si la clie' ci essia, e sinii, e quando con forma tran si vi o il sito va si' al re di li alligare, la luggire, la r portar via ! I l sillili.  N Ss , le Ieggi il 1 l I fuggire.» I 3 . « Fuggendo la - i liz si i vas i: in entenne ºri e o Cavalca. N fuggire il i f. sse a l?o . ( l III a - l: le fuggia in chiesa e in luoghi di re I : gl - , il l V , il - ro c n una lettera che seco avea fuggita a quel  li s Il  \lo, lisl ( r , , lº; i l 1.  Si il paiolo, e vale l'ergiversare, cer  ir si l gi, scappa! Io, gelli e .  v le lis lo stilli - e o il modo di prendere il battesimo, egli con si t! lle astuzia se ne fuggiva in parole, il ia i ghe giallo con promesse, l'... a lºrº rt.  Guarciare  Pongo esempi di I guai dare ad al ro uso che il suo proprio di dirizzar la vista verso il ciggello . Significa quando preservare, difen le re li ulem, bel dilem , 'lalido cusl uli e, con sei retro', e lalora anche con siderati e poi non le , gli ai lati bene, sta r bene in guai clic prendre garde), pone le dire, in gri ma 1 si ecc.  Dal qual errore desidera il no di guardare quei che non hanno l'ngua la lilla.... n 13 . . .I lolio, il -- , ti guardi la bocca, e ebl e II lili, li dirgliel , che gli si con lic Io ad imputridire. , Bart. Dalla stanza poi l ddio le guardi a ni. » (..) l' . Dagli amici mi guardi Iddi , he da nemici mi guard'io.» , noto proverbio). Ill IIIesso l' 1 lgiolie e il III lilliga III si ria guardato. . º Te, rarissili lo I rate, Ille, l la guarda « diligelli e Illelite. » Fiol etiia li crisi fi, al IIIe: i la guardavano il ritta Vi elit  . Al fine di guardar la sua pºlvezza a l 'i:  e che guardasse molto bene l Llls 1, ii le leſi i [ll:  e bedie:lte. e fedele: e p. io guarda li: i I lilllla pel solla senta giallllli: . - sia II, il  si n. 13 , S : l | | | |  º io i ſoli posso credere, le lil - te lo i « per io guarda quello che ti la li: e se l'11 e l: 3 onsidera, poi i lr 1 lite . io lion ſarei a lili si alti guarda i  ti piti di sl latte cose in ragi, li I. I3 - li ii glia i  Non accade esemplificare il rito al moli li ll Is : (il Altl) Alt I.E FEST E cioe ossei reti e lui e quello oli e presº i il lo  ( il V ) \ I RI , V IN IP( ) ( | | | ( ) ( V | | | | | N | I l its e il I ti q. c. con sler lo tsl -  -  nºn lo si ecc'. ( il VI I ) \ I V S( ) I I I I VI IN | E c'Na mi in tl e con il l . (i l ' A IRI) \ I ? I. \ ( . \ VII.I ? \, e Nilm ili.  Nolerai da illlllllo il ſigilli il del s II lil e o si ri . . . . . . . . . . . . . . . . . . che guarda un all ra:  que!! piagge , le quali gt ai lava, l , l i b - lei li di qll illo, o, l rivestire  Il suo primo significa lo è quello di ill e il I ss di II la cal . d'uno slalo, d'un beneficio ecc. il cili, VIII l iris I/ l il so stalli ivo. In restitui a concessioni di dollli li \la di essi il li :  li ti in resli e il luindi 1 o, ( i l  i rili – : l in resti e il mio i gl ii li –: c in cºsti di liti i v .  a enti e, d. l , poi , i - l  – cioè adoperarlo in compere o si assalirlo, all'olitarlo (ali fallen, ali in uno scoglio, in una sceca – ci è 'i - gli sll'alidell, allf cilie Sand  i . : \ ( il suo in un anello investito, il c Valli era : 11 .... e i I os - ini; d) l'investira altrimenti i lo; dal I ri, Iii: gli tv va, dato  e  s, li ve:lli i l. it: l investire e il .  I li, e la i si l aº, li è per molto  l ,  li e li si - ll s: i gli i il tisse, si lº ric:a  li ai tanto i parti e le ore li li : l . Io investisse nelle tempia. » Caro,  « .... liles is a so di il l I e spiaggi (ii Zeila: d,  a dove investi e l II , e l3:ll  Lasciare  Lascio gli isi più contini 60i e poligo al solito alcune maniere fro quel ſenelle adopei al dai Classici, ma niente volgari e poco note oggidì.  | \ S( I \ V | R V | { l N ( l \S( I \ | | | | | | | VI ( U N ( )  tra lo i veri a lasciate far me con lui, che voglio conciarlo si Il riti e lº .l) Iss le , l io vi sºs l , lasciate far pur me, lì e con l'io la troverò,  os a bai ei , tanto bella e Vo: li  I \ S( I \ VN | ) \ | Rl, l. \SCI Vlt ST VIRE I a lasciati di dire, l'assare in silenzio. A on ne parla ro”. \ on lire ecc.( ) a di: se ... [llo da pozzi sono d [li, pull e, s lº elle lunga mate  ria. Lasciamo andare, l'air (Illesto e le ini, che, .. » Fr. (iiord. lºred. I rosl 1 Ile poi li e - le quai, lascio andare. . Fr. (, i ..Ma lasciamo andare questa corn parazic ne, ; -  al : i re si s . ll - il 1 i l Io lascio andare e li I, to! i i se' st - e il top ( ', - l l'oi. ll (lasciato andare - -- - lei la lr1 si rii i i li: i li: i I l g il 1 li :i re S e il se i - \li - - -- li tit. º Slº. - l.: don 1, lasciamo stare . . . . / es. a rl I 1. - se, o il piu' il 1 , i -: i in ' t :lti li' les. I titºs « Lasciamo stare, l . . . . . ll II, i : : . - l l: Iss, l' , ' di lt 11t . Il... » V ill.lo lascerò stare la rabbia : l . l s s i M. ss: -, lazio: i re : re. I 3 . Mla oli e - - Il ti il V 11 i Lasciaria sia re ciº'egi i t -to - a io | Il ! io. e. . l .... . . . .. .. ( ) 1: - - . Lasciamo stare continuo (li I) io li li' l zi, 11 - di e 1 , il il : il: il , par i ( s; I l i (50!) . - 1, V S( I \ I I \ N | ) \ | | | | N ( :( ) N S \ SS ( ). ( VI ( li si di lui i lo - e ( ) , . ll lo un man rc vescio antia r gli gi i.ascia l s - . . I) li ve li . I !, i i t - .  e lasciato andare, – i l ss (i li lasciai andare in paio di calci pi: l'i: l'. Vli lascio andare un si fatto tempi orie, ( li Il I p. e I3: il FI, r ,10.  I , VS ( I \ | RSI \ N | ) \ | | | | | | | V Sºs - - I V  con lisce nel 'I e a.... Ne' in luti e lei i son  ; - la si lasciava andare al motteggiare. l . . .  V ºsci ..  ire in dotaria il 1 : l ' il solº Irla li hit : l . . Il V l  ( il l. Il tir , . . . . . - : i  li' si lascian andare alle vogl e le liti i :  Segni, Arist IR Nota al Verbo  Lasciare  (it), Q Ielo per es., a ce lo valore elillico, di lasciar fare « Que s il 1 lili i dirlo io : liti Iddio non lo lascia. » Fr. (i:ord io di pl el', mollere, lasciar di lire ecc. t di di iroli scrivo se non la soli, rila: l'alli e parole la scio . l ' (il d . ed alle la li lasciar scritto nel testamento..... clie. .... e la I Cina lasciò che vi e' in non po\ esse lorro, moglie se del silo ligliaggio. VI il Pol. ecc. ecc.\ di lascia i colli o alcuno | rascurarlo, non promilo verlo lasciati si indiel I o al no si perarlo : lasciar di fare, ecc. ( il l . ( ''NN (I l ' ( ) mi e't le I e Iºl ll . soli , col nullissimi e del i ls e bassi era avelli a crel II l .  ( I ) S I l esso la I l : non che potesse.... oppure non clima molti i se s'ella poli's e..... ll l il..... In generale questo  lasciatmo sloti e che, lasciar stati e checchessia ecc. è quando ſolº il di livelli il che colliva i non clico, e quando significa mºlle', ', li atletsciuti e ecc., si li alll a lasciar andare.  ( I )!) \ ggiIl ligi alici e li slo: "li si ispiri lascia lo stare il cli de' pitler nos li l.... l o c.(, N , ivi , di ques'a ll'ast : la scia i trialo colpi, calci ecc. l .i  v s ital, e fa gr . Il colp .  N/1 arm care  I )ell'uso di mancati e', e similmente di allire a forma transaliva (man tr . I i l etillo, il soccorsº , Valli e all' ui la promessa ecc.) se n'è par la o alla I al I 2 Cap. 2 Seric .  Il mancare dei seguenti esempi equivale ai nodi venir meno, ſar di ſello di... l e star di lare, restar di essere e simili. Ma nota singolar for lira e costi illo di un sì al incotro che non so se alcun moderno, il p co sperto cioè ed ignaro delle occaille bellezze e proprietà di nostra li igili, l'Isasse lnai.  e anc , di questo lo endeva la Maddai e ma un grande conſolio, che la mi irta di Gesù s'indugia , a pill tempo: nelle era certa non poteva mancare che non morisse, ma quel chiavello, che l'era litto ºlel cºllo e suo, lui penso la faceva spesse vol e riscuotere, e gittar degli amari sospiri. » Cavalca (620) (Juan o a... vedete che il tempo mi e tolto, domani forse non mangherò ch'io vi soddisfaccia. » l 3o . . 621).a Io non potei mancare ai molti obblighi che li ti pareva avere con ºutta « la casa vostra. » Fiel ( liz venir Illello .a L'aquilla... se n'andò da Giove e lo pregò.... Giove che si teneva dae lei bell Sel Vit , nella [llisto il I (i:I lillili le, non le potè mancare. . I Z. Onile ancor sindusse a e rito, che per lui si po teva II!aggiore, pagandoli, i lile il - III - l I riti o 1 -: ni si evil, goli il e borsa di Dio che rilai non gli mancava di quanto v' - - riti a me a lºro sllo e l'alt l'lli. m I3a l't. non gli fa reva d fel! , li  Note al Verbo  Mancare ſi20 – Proprio l'aus bleiben dei cdeschi. Ma i la bell il 1 o governo e ci si l IIZl llº.621 – ( )sservo i li. di Illes , c del ese, il pi . l' Iso di ill  siſal o mancati e ai sbloiben) . I l personale.  N/i a nte nere  Si Ils. I 1 A il l si i li isºl V : l che è il ' , e ci li ulissillo, I la ill: le li soste il l ', i rºſſº' , si l' eſiſ, i c'; cli) e il clero e slm Ili. (i: la rla  i 'i ll ll 1'.  - manu e nitori di un altra g Cstra l': I l (.:I: . Mante:rere a pianta d'armi , i lil. a .... \ , - ri ) , l e l'i; e cli) , a mantenersi, I te , I ? I l . ragioni colle quali essi mantengono la ior causa. I3: r" non - ea mantenere sue ragicmi - ti li lo . . . . . i, li : l 't a r . e semplice ( r se I e ! - . . . . a .... e per chi l'inge o iv h e le la V [a fisica lo Tta mantener le proposizioni, i clie e gli 1, i i.  N/1 e ri a re  Ne ad Ilico gli usi e le maniere più cara. Ieristiche, frequietilissime  622,  tippo i classici. I lilello, il sile, V (ilga l'illelle. (ggiuli. \I EN VI I I VIA NI - All.N VIR I 3 VST ( N VTE – MI ENAIA COLPI e simili. ll 1: V e menava l is lo le mani.» Da V. i Imei far le mani le.... » (ii:lln), ( . I meitai :: in Ceip 3 , l ità ell .... Fi, Uilz.  ( l' - er tulla la casa, gii -- menanrio d'attorno bastonate alla l sperata, e ciò per rac i ' :: : l 'mena ti ma ceffata Il latita i lilla di mano I alla spada e menò un  fendente e lo tig iato un recellio. . l  i menandogli un gran colpo...  \ | | N , \! I N VI: 'I SCI di un lago, fiume...... – MENAIR \ N VI A [ . . . . . . \ l .N VI R | | | | | | | – Al I.N A | è \ I \ V N '' i; i nne. I vant 2 figli di eli. - ! . ! . I I li i. pia di ellite si - nema i piu dolci pesciatelli di questi paesi ed l . . ssa Iar danno. 2 , Fierenz. I : i i li l è l'ozze, alla I ºne man o cro. S i vii ! ..l. I l v . . . . . I menava tant'acqua :I pm i I l ergli o vetture e le quali neri ino V I - I menava vermini. . ( a val n. ll e illlia dell ' , o di fuori gliela  "; l ., i menando marcia e vermini, e un puzzo intol  l  si , il til - i lº': i  \ | | N V | | Vlt ) ( i | | | | (52 Iliesti nel sima festa, per . . . . . . . . . . . . . . l e, g i | tesse la l cha () rimis la i mera:ºsse incºglie, l' . ll di 1 l le (lulello lì ledesimo Parsin:unda menasse Efigenia, Ill o Ormisda menasse Cassandra ».  º . . . » lº ,  \ | | N V 2, i v 11, 1, 1 : i menarlo il Saverio) con c ss; 13 i : del pari. I 3' : Mlſ, N.VI è SMI-AN | E  lie il Viglil I | . . . . l - ne menava smanie, In il a il l: il  b  :ljat per poterla va le 13 c.  t 11: me itava smanie .  All.N.Al ' ( ) IR(i ( ) ( i LI ( ) ( li..  I) esi, it  , l . : 1 :: il l nenare  orgoglio. , I'l' se Fi  \ I f.N AIR E S | | | V ( i V | N A  -, l  lorº ! ! ! ! , i . nmenava ovu: ii qua si ragiº  e rovina, , ( 1:: Illi.  \ | | N A |  ( i il li. ( º 'N.  | 3 | ( ) N l i ce li ' NN / 1 - il lui lotto 1, per il miti i lui 'cr. l al 1 l.  A | | N VI , IN | V | | | | | | “ Il N V qui \] [ N \ ( il  . . ! . i : l ' : :l  IN | IM V Nl lemer a pari ole. I ciance ecc.  I nne maio il re i re giorni in parole i  I 3 l .  El! l  i  11 il pi meno per lunga ſino  I l .  i rmerava  d'oggi in dimani. B: i  (i:º:  (52  \1 l a li e on e o menava d'oggi in dimani. ( - i.  i lo si si, l' . I I Ili  Note al Verbo  Menare  S i li cias si i. i issili li e v . " I ri. E volgare, ed è a 11 le lis si , i lr 1 tl , mi e' mai rsu Il le , lilli il la la niglia e fa gli menar su . Si h.  Il menati e di questi li li. pare il re tale che produrre, tre I ecati e º sil I lili.  L'u rore mi dicere le; la lini. Si rile: I rail al giudicati e al l una sl 1 e qui . N. Il cice gi li all'  al i sii isl l'allerile cli li il . I l sse e qiuali, atto alla medesi ma stre'ſ ut , (iiill). N/lutare  Tra r utare, perrr utare)  S li li ma alle li e oggidì, sulla : i la il alla liturnelite, le maniere: p, i lati si o nº i lati e li ce li ssia lui il mi luogo, da una cosa cioè toglier via, 'I si po' mi i lati e ulio ed una cosa  al li li lu . I - ll 1, i  \ I) Iss l Suff: Inarco: ( )  1); 13 i bel veduto, se egii liol muta di là, i iS - opravvenga, replli o  i mutarci di qui e andarne e. 13o . il l e l'en veder lui  mºnti iava mai gli occhi da lui. m ( S. I s VI tramutò a Castiglione, a sp e .i , 1 'la, le col piedli nè con  i llla, ol' (luà, ol là si tra mutava piangendo, lº( - e il telº dove ci permutiamo? »  S - e si l ss e luoghi dove l'uomo si per  N tre chicchessia del suo proponimento, si l si º li ille, la Mlad l'o e la lºadessa si sse per lui un modo la pole lel suo pl o poi, in cºn l . ll li l la ll al re dal monastero .  t i vi l I  C c correre  e di bisognare, far i sli, i i i s I, - , il ll pal i lide si con i poli e ob, a Valli, incontro, e il 1 l ' ' , ci º l: in lei venire, il reen il ', reni e incontro a... –- vorkom men,  'n l I 'I ml , li mi cºn silli Ill.« Egli occorse al III si lillo il caso. I gol so se ne voglia piuttosto dire « cl'udele che strallo. » Fiel elz.« Nella prima apri lira di uº, il cccorse quei la parola ... » Flor. « Dopo molte parole occorse di villa e l' a Bart.« Occorrendo le AIII e igo viene il servil e V. E. In'è pirso, poi li è per so: la fida |a, scrivere.... » al V Vell :ldo . VI: I ti: I.teneva la V [lli b. I servito ne l'a lllisto di (ialli e no: gli occorrendo per allora luogo pit si  le lis- c. ll -- sl ful  (iioVe, e le si Ilierle. Inoli le liote Iria Il 1 : e, a cltro da porvi le ll v a -1 e ſa | | 0. » Fiel'eliz.  lli ll V e' ('il logli il lil, il to ,.  C c cup a re  E | 11 n . . . . i violsi : esse e occupato da un aſ  ſello, dalla rirti di cliccchessia.  « ... I l l da grandissimo sito pi qll st:  giovalle, occupato. I 3o . « .... (Illasi da alcuna i timosità (l, - occupato a V e so.  «... e l: la Virtti di II la bev: 1 la occupato... in lo ev ra Iliori , (iia Irl). Io lili Ss , il l)i , e l Il gla i ll I ssa Il II li  altra volta vi dissi, o il gi : : le pi e in molti i vi: occupato; ch'io  I lli sul pe: lo....» l': -- I v.  C rci in are  con leggi: iri. I l gli allori clas  prescrivere, nel loro in ordine III: il liclle li  (il lill li I o II l sici ti significa l'e ll ll st il colpº: il lill . cliecchessia ecc. colli e ſil, e li li si lal iil I Il lil del ll . sporre, s'abilire, di risati e, con l'ori e con clic li e ssia ali di mºlti l ', li ſu l e' N, la la ſi l'Irla : orolin (tre con atleti no, oralini rc in Nic mi e che, con l'  ('i .  (º 'C.l ordinarono V eg::leil I e tiltti e tre fos sero insieme, a e l: il l: st i ta.... lo . .... se crdinatc Cine dovessero fare e dire.... . I 3 , . E st e, con lui ordinò d'avere ad illl'ora rid) le si gli ºli , sOrdinò con lui, il V: i villi llles ( la li le lºssle le) e, Il ll lºE l evano stimola [o, e siccome  egl o avevano ordinato, i . Il 1 a 1 i lil a ze: \ are i suoi peccati....»  ( v. l . E crdinarcino insieme come elle love-sero uscire Il lo; i il 1/ Ca Val :i. E li si s . p le i s / iol la; e? I doperarli in corsº lle - e il l . crdinare che niuno di lo; o per la I lOrdinata il v lo s . I l Ilioto grigia : - tlil. » I) i v.  Fassare  Nella Sez Io l' 1 l ' 2 ( p. 2 Sel e 1, solo allegali esempi il Il passati e ai lo li li a usi il ct.  I soglielli in sl ratio al 1 li : l ' si e li alie e di questo verbo, note volissimo, e il I e Ilissili le s Illa pellia si classici.  lli : passa i tlc il no (t. «la banda di banda, puts sare olli e, passati e i lorni in i lisci la l le puts Noire d'uno in ali o luogo, passati al vino di bellezza, di sotp e, passa la bene, passar notissimi,  sola e simili. I l soli i pll'ic le solo alcli e oggi  (lell' Is .  I : l : vi l le passò tra loro.» I ti it)  Ml lit e passavanº il cºi si l: - lì la le!!:i  li ... o lº i.  E o tiſi into le It V, e passan le cose, o l'it  l (',! l /. te lo do per te li o l la cosa fosse passata colli e gliela aveva egli  divis: ta.. o l'iter l/.  Conto lo quanto avea passato col l e Fierenz.« Le quali tutte Ccse passano su Inza a V - Vellg 11o. . » l'ier Iz. Deside. I va in il caso passa. 13 , .  e - l III : : l - l si l sia  sempre mal i Irlato , il che passi , , ni III o li si s - . , Sog Il. ()g! li cos: passo al contrario. l . I V. 6 , lº,':ls , ci; e le CCSe il - passar bene. 13: 1.  si III dialie i cvelle ci passiamo. , s - I 3 i “. . i : -1 : l I l . I jel, lo ero il tie-t: -: i Ill 1: II i l: : se - ll Iss di passarserie adita niente | 3 ll , st 1, s. ll 1 ( - Iº, io - , si S sa: i lei | 1. l se ne passo. I 3 , ti i? I l bene passare. » ( : l V l. 1 :i. : l 'N. ll si It ... sll ( ! - I i s l e Ileli | , se ne passava. :I passo mene qui ora brievemente. Vi SS. l' .lo a V ! ! ! ! ! It , passarmi al tutto di muover parola.... (iiill . - Ma per che io ci , l ... - Za li Ire, mi pare di pc cr passare - al pr - li e, vi li : l la lierli lie) - Ss ('ll lo 'll C ( i 1: Il 1 so di volersi del fallo commesso » da lui mansue lamente passare. I 3.ei e li i 1: o li passandosi paziente. Fior. E - l: l'agglia - se, io , Ill. Il lo ! ! ! ! I V ( le , l si passava assai leggermente. -. l3 i .  Il II III: 1. ll bh , l' - rili i li li I e il ... Ma me ne voglio passare di leggieri. pe. ll 11 : - illili allilnali .... po; : quelli li ti  Nolti i ricorsi i lorº li : I ASS \ | | | | | | N ( ) IN VI , I E l va il l per passare ol: ti III lili. . . . B i I) v e il 1 l si passare in Toscana. Ci si ri. - - - - - p, e vedendo . . . . . . - ll I | , il de / Il l l io, s'ils - lli , del a - o e passò in una gora i lì e il 1 l Z. I lanieliti passarono in icmulto. » l) i v . Iº V SS \ I ? I, I ) I V l 'I V  S it | 11:1 - ss: li gli 1:1 c'evade s'inti, e le passavano in questa via; ma egli non gli all'anima di G. C.) si re -si l e. ( a V al :i.Comiso, 1 la tila doll i i [llai - mi 1 , lo le tu di questa vita passasti, stil a iº l ' , ill: l 3 a  Dopo non guai i spaz , passo delia presente vita. » I3 .  Note al verbo  Passare  () () Il passo re di Illesi i sei tipi e il rella le cle accadere, avvenire. in terreni e seguire ecc. Al: sserva particola le cosl l’ullo e for ll lt l.  (i Nola la testa litanie a passare al contrario, cioè non riuscire, avvenire col il rari Iliello - e il che la segue le passare bene', ci è l'illscire ('.  (i 12 () uesto passo rsi di una cosa si: il tal se passer de q. c. dei l'alicesi è di varia significa i me. Vaio nºn arne parola, Illasi lºol forli al sl a pal la no, lasciarlo correre, quasi lo fermarsi a pulirla: ora con le n la sene, li lasi non fermar si a ll lov e o lillicoili, e si lili un gelien, il bergehen ecc.)  (i 1:3 Scilli ilel passa, si mansu e la mente, paziente mente, le fermi cºn le e simili per non farne caso, proceder sen sul lig , l ' loli e il rall e il till ' , loll dal Selle fastidio bliga (('c).  (i i l'. Il ſilenlissimo l'uso di passati e per parlirsi, andarsene da  lIl 1 ll I go . . ll ti i lo ) q c'h ('ll.  Ferm sare  Cerlamelle che a definirlo sia, come la il Tommaseo, esercitare il pen sie o | Iasi clic il pensiero si alll : cosa del pensare - sia come ſe c'ero già il lolli al rililologi, esser conscio a sè delle proprie impressioni – quello che io mi dil ei più vera nelle coscienza, non pensare, – non è Ian , facile e il rarvici e intendere il colme dei diversi usi di questo ver bo. Deliniamolo all'incolillo con più semplicità, e quello che veramente è, ſa e cioè giudizi con la mente, ed è subito manifesto e piano (così pare a me il valore logico, la ragione il lº inseca dei modi:  a pensarla –- sinonimo di lenlellarla - , sovraslare inne hallen, ille si elen , rallenere cioè la mente il riflessioni e considerazioni, sen za conchillolere, risolvere o Vellire ad allo;  lo pensare una cosa, cioè indagarla, e Ncogitarla, cercarla e trovarla  pensando:c) pensarsi, immaginare pensando - fare sè o a sè pensare, ecc. – ed anche:  d) pensare, senza l'allisso e in modo assoluto, simile ai verbi della 2 Serie, Parte 2 Cap. 2.  Non parlo dei 111 di pari sa i cui l i na cosa, pensare sopra i na cosa,  di una cosa, che è l'uso ordinario del V b pelsare.  ... era li a lui la pensava, l ... l) , V. lº da il di illi i 21 pcnso sempre modo e via gli li p s- ll ril l'e. » Fiero lº y. e Con I liti o id) abbiamo pensato un rimedio.... l Z E siccome a Veduto loli, . p; estini i ebbe pensato quello che eri da  la ! e, e il Salil il llo il disse. l 8,  a pensò un suo nuovo tratto il: 1 st z:1. o C sa li. a Oil:ia e la Viſ n loro il c i i liv - I loss , . i: 1- li il Sel può pensare.» 13 , . E si pensò il bilo n uomo che era l'elipo, d i rid: si me alla B colore. » I3 . Mi disse parole, le qll al 1' mi pensai ( li II: il V oi i tal gelite e Vellisse. o l): l ' i te. « Pensossi di ener modo, il quale il ddl esse.... o loce. « Sla tanto li me che pensiamo sarà presto gilari o del Il lo. » Caro 533. a Illa 11 in si a Va - lo s ... Il la la III e, pen a Sando forse, che si ill a rl) , , lov e l'll el', e: Il lido, V ne sarebbe e quali l'un altro si vi -:ils pe:Isa: dosi, irrina - ni ndosi . Fiereliz.  Nota del verbo  Pensare  533 -- trir den kºn er l'ird balal tricole, gi / se in \1 dl , ( li lico come si è del [ . e sta per ci pensiamo.  Perci con a re  (C coro ci cori a re)  Solio liolevoli sopra illlo i modi: per donare la rila ad alcuno, cioè lasciargliela, non ſorgliella: perdonare, condonare ad alcuno di fare, cioè accordargli, per le lere ecc., perlonare al jeri o al luoco e simili, slarsi. rimanervi dal applicare il ferro, il fuoco ecc., e finalmente non perdonare a denaro, a lot lica od all ro, cioè il sarne più che si può, senza riguardo ecc. l o elli v - se perdonare la vita. o l'iere 12.  ll I po V e le dosi di III, lta p. egava il leone che lo la s Isse e perdonasse gli ia vita. V , l ' i' / II; di Es po.  N perciorasse pietosamente la vita a Roma già - Il l il I I I I I I e l Si l  Perde maie, i, pcrdonate il lil, alle ricchezze, le i:ì li all'ute,  e il l i -, i isl al lilia? e . Ed a 'e la in condonisi di recar lo ve / le pendenti agli a ol'eccl I. » Se ll.Che :lol V - si ill o il litri interessi unani, io li Vi perdono ciºe arrischiate la I loa, che avventulliate | lº ri lli: zio, il che li ss i sa , i ta, li l.. . » Segìn. -col e gli ... oi , illi, e le e' ſù perdonato al ferro e al fuoco. (ii:Tilti i 1, non perdonando a memorie, magnificenze, librerie, spi: i lito, l I e I do la V el - 1 , V . , – lla slal'e il nido. » I );l v .  se polesle. ., 1 l l i gia che perdonereste a denaro. . Segn. \ V e perdonato a fatiche a spese a industrie, ed avrebbe tollerato di veder l illa del tri: 1 il pe: i - se poi li fa render beata?»  Fºro cacciare  llo is o V al I e il I e il I l re di pi curarsi, o procu  1 a 1 e ad al Illo che chi essi, i licl il sels , VII l essere illeso anche il  I 1 (lo : di malati e il p o ti º lo gi la di più l'allino di andare il procaccio, si e' li Is simile a quello del  p, r'alizi l'agi li lo stilope ti e' piu' al '. Si gli assi lilla nelle fare in molo, ingegnarsi, inclusi i inti si o si riiii.  (il è per or | , se | -s,l, le to e ad i vi i procaccerebbe come i 'avesse.» l ' .frastaglia trieli: e vi dico, i lle i procaccerò s. viza la , che voi di nostra e brigata si ete. » I3 .Volla procacciar col papa che i voli llli d 1- elisasse. » l?o . « Il llla e Veggendo la nave, sul tallenta in Irlaginò ciò che era, e coa Ina ndò ad un de lalnigli, che si li/a. Il dilg 1 , procacciasse di su montarvi,  e e L, i lati . Itasse ciò che Vi 1 - - o lº .  r a )ra si procaccia Viati.i:i di avell are agli al s oli, ( ! elisol II: la Vellasse e loro IIIo o il milmente, e co., lilolte lag rili . (ilValca.« Procacciante in atto di mercatanzia. , lº . . ) - I tos , l l Ilsl rios , . a Procacciam di salir loria che si abiti: (.li gia lo si pollici se il dl Il : l iode. » Dalì e.gli venne illio va cile i litoria , i i' si della reli gione, si , ra ils it la', pro cacciava tornare al regno. ( i : i i. E pensolini che la lon:.: 11 1 1 l vi aveva del o i S. (iii) valli che - procacciasse d'andare i l leili, e Il 1:1 11  e disse loro, a dire i lic va ri-s . . . . . - il  i: i lila i lilla. E pensº irri ste e - 1 elle e - I sl11: rr, te.... procacciava di favellare loro. ( il via l . e º pe; soli i clie il vºltº il rii ( - si VI: i dolina, e li ci sse: Carissili. Ma il c. v ! le li li, V e lere chi e gli scril I e F: i sei procacceranno che questo corpo sia ben guardato, e  Irla. 1 ler: li li i di l: -- li si li li li sa l bl e 11est: i stanza li li l: - tra , ( . I v Sſare .Procacciando d'aver libri i -1: l silt: l o (.es: l'i..... e senili e procacciava in vero studio di accompagnarsi coi laici,  e c. l e perso le di l -si l III: (  Ragionare  Notevole l'uso di Illesi i verbo I I I I I I I I I rilisi iv livo, col caso l'ello ecc. 2, a val I e di disco , ci e, se il pli e il di pi la re, emersi parla di di checchessia ecc.  e t - , la e 1 l , i -; tiri . I ll zza . ll (iesti ila -s , e per ragionare con lui quello, lo delibe: il to Insiellº. , Cavalca, a IP Srla e le m'ebbe ragionato questo l i l: i grilla li do vr ilse; a Per liò mi i ferº, del veli il pil pro-lo. a l)a te.e forse mi sarebbe igev che ragionato m'avete, a che Iriella : il rili al V Ita el l Ila. » I 3 .« Come il di Ill venili o ella Inandò per Illi si sale e ragionato con lui a questo fatto. » Borc.« All (li:llmo 11oi coll e-st, il il lºonia ad Impellare che..., ma ciò non si a vuole con altrui ragionare. » lº cc.Collllll iarollo il ragionare di diverse novelle, o Bocc. - .... insieme con il rarono a ragionare delle virtù di diverse pietre.» Bocc.  E' stato ragionato quello che il maginato, avea di ragionare.» Bocc. Io gli ho gia ragionato di voi, e vlt lvi il meglio del mondo. » Bocc. “ Se io sentirò ragionar di venderla, io vi dirò si e torrolla per te.» Sacch.  Nola da ultimo i nodi : entra e in ragionamento v. Entrare: stare d'uno in all o ragiona nºn lo tre i tgionamento: cader nel ragionare, i sul l tgionali e ecc.  e .... e di questi ragionamenti in aitri stili sul ſua, lo caddero in sul ra e gionare delle orazioni li gl: i lori i l a l)io. » B cc.  Rinn a ro e re  Restare)  (ill: il da colli i lill li si l Ill li Ilsill', li , elillica nelle, il Voll)o rima nei '. I in nºi sl, per cessare, lasciati li la re ecc., ed anche dicevano ri li di me si, i 'sl di I Ni (li che lessi:i, il logo della folla ordinaria, asle lie selle, non la re ecc.e Valli il picchiar si rimane. » l'80cc. l'er g . I li, che nel e li li e di Ille, le i l onllo e le el o nido, si stoppal on i detti art firi per il lo, che si rimase il detto sucno. V Ill.Per voi non rimase, il st il dele, che egli non si il 1 les-e colle - lle 11 la Ili. l 36a Tull ti via In li vo che per questo rimanga che voi non li ne facciate il pia e vostro. 13 i n i VV e il 1. pl te! is a, si tl al msci).Per questo non rimanga che li per venil e il II lo al corpo sanlo tro Verò io le; l lodo. 13 , i .a Madonna, per questo non rimanga la r il na notte o per dile, intallo che i pensi.... » Doc .a IPercio hº, quando io gli dissi al collessore l'amore il quale io a a costi li portava.... mi ero un rullo e in apo che ancor mi spaventa, di condomi, se io non me ne rimanessi, io li'a il re in bocca del diavolo nel profondo de l'i nferno. o lº e'.quanto pochI - n 1 lei che rimangonsi dalle colpe! » Segn. . () il -. o è mal I atto, e dei tll egli ve ne convien rimanere. » loce. - - - - - ess idono da alcullio loda l rossiva e inos l'avallº tra i dolori, che, pure per non dargli quella lanta noia, si rimanevano dalle sue lodi.» ( es. r  .... e oggi se ſiore ho di sapere, e nome, vien più da Volsi che dalli al a ringhi e voglio oggiinai rimanermene; perchè que: codazzi, riverenze ea corteggi a me sono con i bronzi e io iIII il gilli, e li riti li Il cast : li o!' « contro a Illia voglia. o I)av.º per cinque anni era con Intlalileite nel pt at , e li pil re: che se a ne potesse rimanere. » ( es: ri.a sfolzil Vasi di oli dll l'1 e l: I); Vill: l 3 lit: i d i lilli olii i cºlori di - i lo a padre che restasse di più opporre imp, dillio Io.... , ( es. “ .... ei percossº. Il lin fascio di legno, e tratti ne II: il « e nocchieru o che vi fosse, non restò mai di battermi. » Fie A. 537  Note al Verbo  l?ipararsi o al clie ripara i º il so, il II lil in qualche luogo, è rill  Rimanere 536 – Maliera elillica e vuoi dire che i lu solo di peso da lui se la costi non ebbe effello, ma che per la ri', la da lui sarebbe anzi il V Venll : 1.537 – - Aggi Iligi la frase : l in an rsi con alcuno, cioè resi il l'accor d . « e cosi gli raccollò IIa lo si era rimasto col giudice .. lierellz. | | - Riparare  giarvisi, ricoverarvisi, prendervi stallizzi, il bergo o si riili. l ipoti e rsi la checchessia, prenderne riparo, e di lenale sene, schermi il seno ecc.  e lº co-l facendo, riparandosi in casa di lil I rate! l la li  (Illivi ad Isllr: prestavano e ili pe: I lil. I d' I, ss MIli ci: Vd io e Il rito, al V Vellino che (ºgli il [..'Irld). o I3 , ,« Nella quale , Fiesole, gran parte riparavano le sito soldati. Aln . « Nella corte del quale il conto alcuna vol 1, l gii ed il figliuolo, per a Ver (la Illa ligiare, molto si riparavano. » I3o . « .... e avendo ll dito il nuovo riparo preso da lui.... » I 3 c. « tempeste terribili con poco schermo dell'a! | a ripararsene, per cal gione dei grandi spezza Irnelli i che vi la line, le cellule. .. . I a r . FRispondere  Si lis: per l en le e, l ali che si appr. pria ad usci, finestre li ries si | I go ecc.Vi si st l'1, ed ali e loro entrate, , le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano. l'8 c.E ,si i si l:n linzi li o gli rispon deva.... » I I.il rolliri to, di che gli rispondeva a stia p.'ol s olle, o Ces.  \ la ti tale sopra il maggior canal rispondea, e (Illindi s  ( si d . io, e - ta la io el l altra parle dell'andit , I Gime r spondeva nei cortile.. .. . Vl in 1/.  ( : :llo iella (.li es , e a tinto dal lato che rispendeva verso la casa parrocchiale , a in la I bitulo, il 1 bugi  a : il ii Il \ l: il la. Riuscire la I e di jiu il '..... in li le rispoliciere V. g., di una fi  I solº i di qualche logo.  il ri si il V lente a che il fatto riuscisse, l V e Illel inisero me li: i sliI l l: vi ll . e qui riusci la fede di Il sºlte. lti . . . » l al [.. 5.3S l . . . .. il che riusciva º ;; l'orto della sua casa. I leveliz. ! . . . ll le gabbia e gli altri o il certo I, li sl re d'un palazzo che riescono sopra una bella pescaia di dettº Villa. » l'itº l'eliz.E le 'tero a dove riuscire ad cdio e inimicizia Illani le 1:1, ed il ( s.  Note al Verbo  Riuscire  5:'S -- Nota anche il modo : riuscire nel contº aio (l?art. Fier. Ces: C' ('C'. IRorn pere  assolti alle il c. e di 1 , il I e pºi e' ipi di isl, scoppiati e, a Isbrerli li , re nir fuori, mosl riti Ni, renire al 1 ll il 1 ot, la nulli) , il ſuo Srl, il l i tic li e si il ( )sserva Colle.  spia º la r la e i d g romper nelle I):ì v. che il mare ſta il lo rompe la fortuna , si i º la ve .... » Bart. Ma :ì colm pass ºli d'ºl - lo d lo c . lI l a zato a rompere in questo lamento. » ( il .... Si V ) ll 11 e - I | Il ri - Ci10 ruppe la più Sfornata tempesta. .. » I3: it. . . . . ll si l il Iss ....... si ricco d'a ll sor, enti e pio a 'le. verno rompe, i cli è noli ha pºi il l si 3 l rt. Al romper de' primi alberi 13: e () li liseri e vili e le colle vele , il re i riposare, per lo irill ( o di veli! rompete l il sit I'' | il ti» li: il tragi , l)a 1! ( Convit.« IP:lrla il santo I)otlo e della penitenza, l silligli: il 7: che rcrmpono in mare . 5 (), IPass.  A 11aloghi al I o mi per e silciello, solo i lil (ii: l'olio di chi ce li ºssidi I l - , di risi) di cui i ne sfr millili e le alli: il ri: (ii Ili. l'uol li | redica o di persona e val lira hi:il di ogni vizi e delillo, si bilo il l'il': rollo palla e se l'I l ºrº al l (t poi i lil si al I olla e . A vizio di lussuria fui si rotta, ( ll iil I  I : i ( il bi' -ilm o ill che e' il ci li lo | 1:1 , . . ); I l ' e li o di po; con roito parlare disse a I io  - , i di loro chi sono pi posti a go . erno dei legni . li enz.  ! , si parti :: rotta ».  a MIozy Iºirellz. In t . . . .ti, i a crive a rotta. si 1, ero i rossi V lillili ». CCS.  Note al verbo  Rompere  , 4ſ) Quando il discorso non è di na Il giro e si vuol sare la so irriglianza del mal frigio si dice l o nº perc in m al '.Sapere  Nola il sale dei seguenli esempi, e osserva come sia usato a inves ce di conosce e, cioè il lal luogo e follia che penna volgare inon sapere di lole la conosce e lo elli in etile per saper lare, saper trovare, .. . . . . lill il sels l o spiacevoli e cagionato da checches si se pºi li rion Nat per lu nº, se per male, saper meglio,  peggio e o il  il I - sapeva ed il luogo della donna, e la  t o! : liss . 13 , .  V sapete bene il legnaiuolo, Il tale era l'area, dove noi I Ille- i le lel lmondo ».  ... si il gialli avi, le tl - e i llino da ni:aggiori miracoli, che lima losse, per ine sapevano bene la sua infermità di prima, e tutta la gas. s tripli di gelle ( i val.i ( o si º li elit: rl, impero che sapeva l'animo Stio ( a V alcºl.I ll (lº vi o li sapendo la mala volontà di Alberto , (ii:alml). l'er certi ti metti da campi che a gli sapea molto bene ». Balt. Non sapea aiIro bene o vantaggio che lolli li Ino; i do ». Cosa ri.  b) l urono oli ri quanti seppe ingegno e amore ». I o .Sappi s'ella :) : voi a 1 e e ingegliati di rilene) e la n. 13oce. Se e- l si, val lsi ve lel via, se noi sappiamo, di riaverlo ». l 3oce. \ li i: it : l . Il tº sappiate come stà ». I3 .V e li li io e sappi se con dolci parole il piloi recare al piacer mio a. l 31  \ lorni il meglio che sapevamo l?o l?art.  a 'l'empi rirs delle cose che sanno buono alla bocca » (che piacciono, il 1 ml, rano i gusto, vanno i versi, i l:llelli , l'iol'.  a Nell'all pero di chitidere o si arta la io, per riporlo, mi sapeva male e che una storia cosi bella dove - se l'Iliialle'e lllt la via sconoscilla ». Manzoni.Note al verbo  Sapere 5 (1 – Lascio i 111 di : super gi atolo .... e noi ve lº sappiamo grado quanto Dio vel dica ... Fierenz. --,saper di q. c. – ..... In li li perciò che li lo sappiamo « d'armi, sono punto rimane selli. Il prolili id arri, eggiar per poco. I3art. –, ed al ricli si generalmente noti ed all che usati. Sc usare Scusare ad alcuno checchessia significa lui e per..... rale rgli checcles  sia. Scusa i si da un incarico. di un onore è l'alleli nen dei ledeschi, dispen strNene, declinarlo.  gli Scusava altresi tavolino da scrivere , ( es. I) Io g! scusò  .... ll Il gi! io lli: It i li (. Il lun atto di III: rivºglio - a 11 in Ita . ll Ior- e la vi a  a la fortezza degli altri due , gli val-e, gli compe: so . I3: rt. :I III l st 1:1 - lli - , e o l il l:  N velli re º il l il  lii lutti, vo: ebbro piuttosto scusarsi . I) , l:iz. .... e vi va parla gli uli (a: di: 1 e se ne scuso I,  pe . . . li : l '  li enza. Iº e prima lo volle as lta: e cli .. . ( -.  Sp e dire  (Spacciare)  Dicesi | III o spedire che spacciati e negozi, alla ri e val - igarli, dar fine e in prestezza, dar loro crimine od eseguirne lo ecc.  I 'tillo e l'altro sti, per sbrigare. libera e mandati in orina, distrug gere: li la lida che spacciare in tal senso è piu forte ed incli e violente ed espresssivo talora più di spedil e.spot ist e il ses, i ve: id I e, esilare presto, agevolmente non  E spedirsi, all'incolillo, il senso di Irellarsi, sbrogliarsi, sarà tal \ l igliore di spacciati si.Sp li e lº si usi il ho io l in rial c. 1 | li la relole spacciare; sicci lire  - Il s s' , si e' li i  I ispedire erti legozi . lle gli erano assai l | 3: i t  ( ) s Vli - s III Ill: ll spacciare l'Imundò Lui l ( - l  a \ si essendo espediti, e partir dovendosi, Messer  ( I espedita; e le so, i1 il - ! i , i l 3 ,  lº 1, si l SI II il 1 e ia li e si inseparabili, li ! Si va per ispedirsene lo sv. Il relit tº ai assa la primo all'ultimo, N es 1 - oi i : Il mat . Seg Il. \ llllllll cosa, cioè alla dol. il pot, i ni spedire e mi spedirò brevissima e la pill dolce dell'I latina, tanto i vol a 1 e e V al cliI .. . . . In li spedito e "ri i colli li sa e la col vento in poppa, o  ll Illl), \ si vºli l e spedito in nel rito l'llo delle fatiche, V sgombro, libero, franco di  \ si lss 1 e 2 ti el: - S , ( Spacciato se ge il tº l l ) rls , l il s ol'l'eva. . » I): I V. spacciarsi la qua le briga. o liocc. E dello spacciatamente se a divise o tra loro. » l'ierenz. l est .l. I li : il li li di analoghi, con lo spaccia i nuove, ſandonie, chiac li c', ': spot cicli ll mi lit l . la sci: lil el l Spetcciarsi lºt' .......  si li util Napoli, il rils... . . . . . .  Stu ci ia re  Stu ci I co  N sl 1 la sl, slultati e di che ce li essa, il checchessia, le studia e clicci li essa, i cºsse V so, il lendervi con solle  Ilic, pigli, il si al cloro c.a e convolſolo per lo fa rig . I titti i panni i ' iosso gli stracciò : e sì a que sto fatto si studiava che pull e una volta, dalla prima innanzi, non gli pote, Bionde'lo, dire una pa! o 1, mi doll::l lavo ler, li è qll sto fa -se o. I3ore.  No:i lasciò il II la 11: i si studiava, - - ll il ei lidi i maggiori bo-coni ». Pass. Forto studiare il l re . ll - ll -si l ... I3 e “ Va (lo zel: i vezzosa li studi in ben parere, 1 A v . lI I ſi per il Ver nonni e pregio di ie lezzi, -se la gli ali a nſi an:ata: sper a chiati le molti mieli i pieni d'alloni : vi ss v.e Il campo - I: il c hene studiaio I l i il to - - ( il v; l' . No ! I V il r! - a te, ma studiate il passo , I): Il fe  Analogo a questo studiati e e il - si liv sl ulio le s - le I sei pi  Sta per cultura, affezione, indistria, premi di li solleci il ne.  I bassi , si per 'o litig , e , oli! studio, si ri-sezza dello el'r: i clivelli e le lissil II , e odori | ero III !E fi1g e 11 lo og Ili studio di V: la s i Z: st: si e n. ( il V: Il l.lº ! ) ll è lo studio il "l: V ( " , 11 l 'I:I - tll (le, 'il rolls il tt (line avea t riati il vo! I Si r I e II, l'i: 1. ll I-tri: l'si, lo si ll -  l3llo lo studio Vill. I l l'illll! ». lPl' , el'. lºrosſo si fa tl o studio di vita perfetta e I l lito, veline ogni l in questa « :i va ilzi 11(lo ..... r. C -a l'I.Questi pie: i l dicazione. ... crebbe r 'lii lo studio della vir' il n. Bart. Ma per le egli i il la ſi va in ai li sºlo - e io, conferi la corsa e l e s ii: i re, i quali i :ilm ira o di ſalito studio di perlezione, ne lo scoll fortd) ». ( es: l'i.(ollsidera , a studiosamente III: le V irti - -in a livelli e in larni il  | il il 'Si a.... .  i . i: l st il n; i ri'. Il te:i, ed il 1 st ) : -, il 1 l l il 1 a e santi invidia, dall'uno il riprende i : - il: zi, d ' 'ta, l o : la mi i suoi lidine di tie-fo, ed la carta li seguita l'o si sfu  diava ». ( a val.  1 bello slurli . in re o si riali , per ni. Slare di sl italio è ſl se elilli, il V ,le. - I li - ci del liti.......Term e re  ( Attero ere)  Se lº ritieni disco rere il conto e l'onde, che allo stringere va poi I che non per altro è così se non per l is si, il re sul lo alcuni esempi i più notevoli fra i molti i 'i ll il 1 di II lo nºi e vi gali ci o di operato e di varie significazioni - Il l l: i clivel st Iori e cosi lilzi ille.  N gli ese, il clie sogliolo:  lº I. I so di lenere per legge e, ritenere, in porta e portare, occupare, : lire, ci si r , si ri:ll.I terrebbe - - l:lza non l'attelluasse U al tutto ! -s ..... , l 3 l:\ e V : l l'ill: il la terrebbe llll esel - i l): I V .I le llll :lollo solo ne teneva mille di l . . . . Il il l lei sul i... (ii: Inl). stava di .....)I i s tengcno, le : l li vuol divenir beato  mo  Bo, ritengono, insegnano).  - , s. . . . . . . . . . . . . -: teneva i li , i liatura di quelli non si tor Ita 1 - lasse la lollo le arli ». l)av. (portava, il l , l . S S. ,' ' A ripagne che tengono gran i - i loTe', se -: i e letto a filo il lo ». l ' , SS. ) l\l I l emete li - i l: l 3oce. Te', si . 'ls ll' Illol te lº guarda Ito rov 1, appena gli amici ten riero I l l' ... I tl V .  º li I nel si e' isl e le st. a rl - la si river pillole di se ecc. E nctendosene tenere, subita il file con le braccia aperte gli corse .  N potendosene tenere, il dolla Il lo se li gliese losse o forestiera. »  Il lo il vide: o, ſemnersi, o Nºvell anl. I si tennero, si llll'olio in Inghilterra.» Bocc. (non sl arrestarono li : l .S - e li l silio, e si tiene e per il cosi è adulatore di sè ss . , V º l'eli,3º di Tenersi, allen ci si il.. . attaccato, legato, olbligato il  per l'e, .. al c. aver fode, esser a L'eredità s'aiteneva i mie, i lire pi stretto parente , Ambra. « I'( 'la, cals! e 1 , V s'a tiene il ... , l 3a lr . Ere le d'Il 1o, la lo; i t'atticºne quasi nulla Attenendosene S il li,  gellolt Ztl....).  Si vl it - : : l si . « E pure con esse si forte o d si gran colpo quell'albero e con tenersi a tante sarte, ll l'Int irli  E' pi 1 , la volta gl si caricano sopra bufere di vi 1! .... , l?art SS6, ſ" I e Irla Iliere:  i l: NEIt ( SCI(), IP ()I? I \ I.N | | | V I \, e si lill. l'ingresso, non sto con l'altro 'co'.  i ſicali e le per rielar  l' (Illa lo uscio ſi fù III' i l nut o? l . (. . Il lilli lo il 1 ll 1 i gli :iltri i l  ll il l Se Ml 17 Zeo vo) esse venire, a lui g a Iri Iri: i porta gli -se tenuta. S'i ll.  Lo Ialo a Illore delle cose. Il 1 la tiene la intrata della pelli tºllzil. » l3elti.  Simile: TENEI? FA \ El.I. \ per i sloti e di pali la I e cco  MI , l' 13e! oli e veri e I l Is rezIo coi Sere. . (ennegli ſavella illlino a V (“Il l'Ill III 1:1. » I3 r .  l'ISN EIRE. VI I I NIEI E I. \ IPI: All.SS \ e simili per  N S . I l ct i lui, mi e' lere in esecuzione, al lendere la cosa pi o mi essa.  E co-i v. illy i lo; p - attenuiC S :  MI i beni vi prego le vi ricordi il l: III e  l attenermi la promessa. I .  l'ENEI E I) \ N VI CI N ) per stare per alcuno, a lei il c ecc.. e anche l'ENI.IRE A I) \ I CI N . per esse gli diroto, allo zio ma lo e' ra dicendo. Chi stupis e, li gºlia. In sella ma li la e per tenere da chi vin cesse. n I):l V . a 'I'll .t: 'ls V - , cini | Cnea C 9 l l'uno,  V ed I ad un'altra donna tenere i s il 1 l (''le. » I 3 : .  ch, coll'altro , l 3 .  III, i ql el l . . . . I | Il t . Il  I | NIEIR ( IREI)| NZ V, Sl (il t El () il mat  cosa, poi oss . (la e il secreto di  ser lui i c. 1 li tr\la V e V ,i In 1 in la di tenerlomi credenza. » Bocc. Se lo ci º lº si le ti li tenessi credenza, io ti direi un pensiero che  l lo II v .. . . 3 . Il 1 s ii il va onle lo so tener segreto? » Boce.  l'ENEIR E I) I. I) El. per are le qualità di..... \li e l - - Fiesole ab in ritiro, E tiene ancor del mcnte del macigno, I si fi; a per tuo ben far nemico, o  I ): l ll ta”. Tenendo egli del semplice e molto spesso atto e piano de Laudesi.»  3 m .  I Per si s ZZ I l: l'ill orrore che tiene insieme del ri  tirato e del venerando, ( il ri .  | | N EI ) \ VI , l N ( ) | N \ ( ( ) SA, lu' i lat, i guardarla ('( ) )llº  dolla, procu i ctta la ecc.  Tengo da te lite o lei lo  'I EN EIR (i It VN I \ \l I (il I \ I loss leben. I anche di grand -- TENEIR SI (i N ( )| I \ S( ) | | | V. e sillili.  il il l'ono a spendere, tenendo gran  il l'I) leggiando.... »  - z: il l ll dissima famiglia.... . . ontinua in lite corle, di mando ed I 3 ) . Illelle e il laie, e tutti insieme li Ilenò se il gºl , l 'e ivi teneva signoria sopra di loro. ...» | | (ºl (': l/.  I EN EIt All NI E q c. S.Si Til lo) ll till al pl. I Tienlo ben mente. Clie di tu di lui? » IPass,  l'ENEIRE \ Vl Vlt | El I ( ) per i cºſtiere alla pi ora. Se o elillirill I - o d'a i to, lo Il varellol danaio, perciocchè  I lill I l: e le terrebbe a nnartello, o lº s .  Silll I | \ / solisti , cli, li i rilio a ppa: eliza di vero, e poi lo  reggono al martello. I renzo Vledici,  I | N | | | | V Iº Alì ( )] ,l. il grand slmo lolor punto, ve gelid si l ubare a costui, ed ora te  nersi a parole. » I3ore. SS8).TENEIRSI A POC ) CIIE o li... . per mancati e poco, a un polo che.....  l il pcco mi tengo e il 11 si l V : l ... l 3a rt. a poco si terrebbe di fargli sp a r i: esla dal busto. » I)av. e Tull lossi il giil l a poco si tenne che lol li la ndasse ill I)io. » I3ti l .Qll ('sli l' 1 l V il ll per lei l'8olizi a poco si tenne che non rompesse i trezzo le parole in bocca al re. » 13ari. e a po22 si tenne ll Il 'l g . . lIl l: ss e ll l: 1. ll lentº. » I3a l .\ III:il t 'ito si tenne , li ll i no! I lºo . po o II lancò che). e non so a quello che io mi tengo che io li sego le reni. o loce. S89)  Liis lo i titoli lelier: teme i campo disp. Il re , e nel parlamento; lemer cuslità: l 'ner con lo. le ne I e di metri les li tr. di matri simil N . . ed all 'i lllolli  le sollo I: fissilli ed il 1 l 'g: i 'li e le Isilli,  Note al verbo  Tenere  S85 - Si inile ſi ſti, slo, le nei c . ss it ella di Illi, Irla il clii : lento a dirvi. Ieri lo li | | | | | | | . . l ..., ecc. I r; I li prelie. l 'il pollai, li li sl i ti ci l e. Non voglio sollelizia I cle sia l al dlel' , Il si ſti e mi ero lei libri di il .  SS5º - Tè per lieni vasi spesso it is lil III e il liclio e classiche. Si ginifica : prendi prende le simile il lencz dei francesi.  SS6 Vlialogo è il modo : esser tenuto ad alcuno, per essergli obbli galo ecc. e di clic i sell e vi sat) ) le nu lo . I3 cc.  SS - E' lei il ra cosa che poi mi cºn le len ci ai miei le. Tener men le è la cli il lool e, ii l'l'ic loli -i. I li N le lui li I Na'im . ( sil I lili.  SSS -- Simile l'alli, lene e a piuolo e la spella lunganielle, ed a li che tener a bala, cioè il ... I per il lig , dal pascoli loil, lo parole ( t' '. ('.  S80 – I radici: lo si si il... o da qual cosa  i , sia | ralleli. Il . obblig: il , che il... E' il tenersi cl Ilia cos: ad un allla come sopra. Si si | or al l 'e ll il ', il l 'I l l e', tipº partºnº re, spettare, riguardare, con c'e' li l ', mi lui , l ' i', con il l ecc. (i II l la collo e il lido :  Nella lira e bri It i 'i: occo rit ... » Fie: enze. 892) e la \ e l'e lloln Inai in quelle cose che a lui non l occano. , all el l Z S9.3le leggi il mio esse: oliill ill, e l: tl e oli collºelntill lento di coloro, a cui toccano. . . . l. I 3 ) ,Qi lel il li illli le l mondo si spenga di fall le, si lle l . ll i non ne tocchi una. . l o . - TI (ccchera il va! ii , li ho perduto non hai. » Bocc. Eliorniti che li toccano il III | orsoli 1. Giul, che non riguarda lo) ( )iles o ti togli il tº it e toccò l'animo dello alate.» Bocc. Nill riso si v l .., liti ma les!: il tocca, niun giuoco. » Bembo. rili on le li rilate e tocche s on III te. l) avE pur i s l it toccavano i soliti dieci assi per un danario il giorno. » ve . . . . . . . l):ì V .  \ i le li si – li -se esser tocca. » rubata) BUcc.  Nola al re niti ie e ci si parlicola i del verbo loccare e suoi deri \ ai li : l occo, locco line  ( C VIRE I;l SSE, 13 VS N \ I l e simili, cioè ricererle, guadagnarsele. S!)  Si occo l: ve li e la sto male. » l'a! . l.llig. º l:Il quale, il V e ilo dal canto leg 'i Vitellesi una buona piccata toccato, l'Is - il l: i ti, , V al cell.I l toccarne il 1 , lº strappatella di fullle, e fa - e peggio il loro a. m I.: si  Stavano olle ſelleri li non toccar qualche tentennatº. » Lase. | ( )( ( V | | | | | , I ( )| S( ).  i tcccatogli il polso, i' 1 , V o li s. Il: le... » l'8art g l Il losſ o, egli non si risemi occandogli il polso e il settimº il lo trovandogli, tutti per costante ell ss ( lilor | o » l 30''.  I N A 13ESTI \ perchè cammini,  \ lid: V a ill: zi toccando l'asinello. , V S. ( , l .l'ARE AL TOCCO cioè cedere a chi tocchi Sºſ,  « E' facevano al tocco Per chi avea a morir prima di loro. » Buonerotti.  DARE UN TOCCO SOPRA UN ARGOMENTO dare un cenno e passa oltre).  I N A TOCCATINA I)I.....  « Rizzasi in più con gran prosopopea, Ed una toccatina di cappello.» Lippi.  l'( ) ( ( C) I )I.I.I.A (..AN II º VN V.  Che li cºlli pa 11: l'o, un toc co. » Vill  l: I I'( )( ( AIRE I N I VV ( )| ? ( ).  « Ne i pittori le sºno ritoccare il lavoro a fresco, quando è sec o. » Bor. glini.  Note al verbo  Toccare  892 – Si dico anche oggi, e col e gil: il forli la e sigilili : mi locci, gli toccò di redere ecc. ecc.  893 – Simile il modo volgare: tocca a me, locca e le ecc. No a dop  pio significato della maniera : tocca e al alcuno a la r che che sia. Vale cioè allo apparle nel si a lui il lati lo Quel che loc a cara allora a lare a ('alone nel Senato, e di che veniva pro « cisamente incaricato, si era la reiazione dell'operato da lui in Africa..... » Salvini , che essergli forza il farlo . Se così ſia toccheran ni a star e le Mlach. .306 . « Trovall a domi in prigione de l'Il cili, mi toccò a navigare sul quo e sſo Irla l'e . Magal. Va l'. () per il .  894 – Si costruisce non solo col caso olli | Io o l: l'ivo di chi le riceve - – toccare tal alcu no basl 1 i le ec . li l: i col l'ello e loInilia livo, cioè ad Iso e va' l' oli verbo neutro assolulo (Conf. Parte 2, Cap. 2 Serie 2 loccati e alcuno delle busse, simile all'esempio di sopra : l occati sconſille crc. - -: e dicesi anche elillicarnelle toccarne, se 17 il ro. (ili esempi che allego sono citati anche dal (il era l'elilli.  895 -- Si ſa gillando uno o più dita, e secondo, il convegno Se pari o dispari, contando a chi lo cehi.Togliere  (Torre)  Il sil prillo e volgare si gli ſcalo è ſuello di pigliare, le rar via. Ma guardi colli e le e vago I al I silli: i polli ai classici, e notevole l'uso il liche il lal senso.  Trovasi poi anche il lill glisi sa che pare significhi l'opposto li loglie i ri la I e lo gli hecclessia , e li on è altro, a mio  il vviso, ci Il loglie i re Isiliv , cioè la re che al rilolga ecc.  Ollil tit , il ... V e le cºlle il lempo m'è tolto; lo illa!)i 1orse non li lall, ll : il ch'io vi soddisfa la l 3 Sº)Ilena i logli i dosso Iliel poi, l'esercito, il l aggiunse a Marsiglia, togliendogli il tempo da.... , ( amb.No orre alcuno. » l)ante. (le il ſierº del li i tolse. » l): ll e. « . .. che pole! ( ll gli abbia N ' i torrà si endere questa roccia.» lº: i ll tºEl e o pit and: I mi tolse il rio, e lì in mi impedi, mi vietò Ma lui li do, io mi tolsi di soi o al letto .. . I levenz. 900 Togliersi dal sonno e dal letto, e lº renz.per lo miglior loro e Illrolio, lo zali a tormisi d'in su le spalle. » Fier. E per io hº il solo la so sl: i o non li aveva tolto, che egli non con - scesse, llle slo sllo e Irl , l e ss. r . ll rd venienza, si comio savio, a millno il palesava , 13o 90 |.... Irla I e il iv si dissº: l) il nullle toi tu ricordanza per no al Sere? Io boto a l)i che mi vien voglia di dirti un gran se - gozzole ». IB ) .e tolta buona licenza, se n. a do. Fier senza la li complimenti, si prese a liberta...Se vogliamo tor via che gente tillova i sopravvºlga reputo op portino di mill' arci li lill, ( and l: le altrove. B 90?) Itender enn , Ianto che app, ma il potea o, chio, torre. » l)ari e 903 e dal a rito il questa l'alti e toglien l'anda e la de e ratle. » I)ante.  si toglievano gli uni agli altri quel piccolo soccorso che loro polevano di re i silli, o l?: il 1. 00.... o ad Illbra li do il vose o ai proprio, o :i sperandovi con rili pro averi, o togliendovi il modo di fare un'alimenda onorevole. » (iilllmer. mise o el ºnn i molato Cirio: le pe: dè la sua liſl la lag iata, senza altro averle tolto, che alcun  “ In ci si fa la guisa i. e genia, poi, o dav:ì il i la llli gl bacio. » l?occ. (cioè dato)« perchè or che difender non ti potrai conven per certo clie così morta a e Irle tu se', io alcun bacio ti tolga. I 3 . . . io ti dia , Ili venga a Ito di darſi). 905)  Nola alla ora le bolle illalli, l ' :  TOGLIERE ( ) TOlt It E | I. \ la checchessia, cioè preferire, con len larsi di..... ,  e Tiberio tolse a comparire in le; so I , a ! !', e o , e di ndere.... » I) i V.  « Vinco io le battaglie pil pericolo e pil dire e per la giustizi:i tol « gono di morire. » I3: rt.  a MI:ì io sono illttavia il di Ir i l:I l orrei di bel patto a portare a i loro libri. » ( es. ll i.  si ripuli e ebbe o beati sº I ssa r , slie, l 1 l'ido io torrei di bel paſſo, d'esser qual s'e di loro il pil abietto e pov . . . » ( a r .  a Togliendo anzi per la sempre tra i - llai, e li rili : r per quali mille. » I30, c.  TOGLIERE A far che che sia, cioè cominciare, intraprendere.  « l Il cavalie e la donna idò e ella ne togliesse a fare un'altro: rispo e º che nºi le era preso si inen , l ui, ch', l: sl d let se li Ial lo.... , Sacch. a E debbono esser da ci o e i lini , l III lo igani e di quei film ha tolto a liiigar II le . ( recl, liz I e V , l: il lil V III in : l di alle 11 e o ( a ro. a ciascuno tolse a studiare l sprint re il e la parte del suo in e gigio. » (iiub.N il so, III: Cºstro l?ier, Ill r l)i I l st: In: lov i lilla Inalarl a collin, Ch'io ho tolto V ri-lotele a lodare, e l'8 l Il. r. 1 Il.Questo sci , o dello Sf i villa ha telto a voler vincere d'astuzia le volpi. » Cecch.  'I'( )| RSI | )'I N A ( ( )S \ T IRSI N V C s V, I) \ I PENSIEIRO.... rim (I morsi. Nn c / le re 90(5,  Si tolse del tilt to di comparire i .  a Cosi i miei avversari si terranno giù dal pensiero di più rispondermi e e dalla speranza di vincere. » (le-ari.T( )| | |? I | )I VITA -- 'I'( ) IR I)| | | | | | | V | | | | | | | | | | | | VI ( ) NI)() ll ('ciulo l'o,  a ()li re a cento inili , creatur il mare si redo per cerlo . sser stati di a vita tolti, o lo .  a Acciocchè una medesimi la ola togliesse di terra i dile amalli I ed il lor e figliuolo. » I30 .  Vle o immaginati di voi s' ingerla a formi del mondo.» Label. « vera niente io Illi fa i in V a Il , se i di terra mol tolgo. I 3 .  T()RSI I) AVANTI.  a l?oichè gli si fu tolto davanti, pieno di trial tal to n ebbe con gli altri a parole III olto disco lice.... » l?art. l' IRIRE I V F VME – I V SET E ToItNE UNA SATOLIA (907.  lei li l o, le i vi ve l e li la volta con esso te o, pur per veder fare il forli Ille: Irla il l' e tormene una satolla. » I3occ.  Note al verbo  (T cogliere,  S!)!) - Nola la lesia inti i ra: ii lempo m'è lollo: togliere il tempo (tel alle 11 il lui....  4)()() Tor I e, Torst, li dot... sigli ſi scostarsi dilungarsi levarsi.  901 - VI li ra e il lic . . bella tanto, la quale torna al dire: non gli  a reci ſolo l'uso dell'intelle lo si che egli non conoscesse...., od all' di s ti riglialle.  !) º I 'io lo l via, ma il varo, vedere pren loro modo e rut, ci si lal si ch .  903 - ci è ricco gel sole, i VV e li ' .  90 , cioè si prestavano.  !)(lo - l li libilarle? Parla di lilla slla alla la, ma non amalo, la Il le liti l'a si l): il re.  !)()(i lº pro isalire le ictu) gelo in lei l'edeschi. Simile il modo : p . I giù smettere Pon gli i ſervenli amori, lascia i pensieri in atti I3 cc.  007 - Si riii: una corpaccia la la ne, prenderne una buona  si ll: l. l 'iel el Z.  U sare  l sai e ad un luogo, ed anche usati e con alcuno, usare insieme'. Rollo nraniero buonissime, di frequentissimo uso nei migliori libri di nostra lingua. e sarebbe gran pc calo non farne conto e non volerne più usare, checchè ne dica il l'on il laser, il quale assel is e che non sono della lin gua parlata ecc. ecc. Significano i requentarlo, praticarvi, bazzicare, es ser solito a l ora i si, al csson e', o l e molare e Pilegen; l mgang mil Jº il, and pilºgan e .  Notevole anche il modo : esse usato, esse uso di fare, cioè aver l'a bil udine, esser solilo, non essere usatlo di checchessia, e simili.  (), a avvenne, che usando questa donna alla chiesa maggiore.... » l'80ct'. a S'uscì di casa costei, e venne dove la usavano gli altri mercadanti. » Bocc.« Le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. » Bocc.« ma pure accontatosi con una povera fon; Ili i clie molto nella casa usava, non potendola ad altro in li! : la 1; i ''i corruppe.... » Bocc. « .... io cercherei qui sta po- - ssi i li !. . . ciov e ne filmi, nè ruine di piove me li potassolio tv utº assortº iacircncelli, e l'el che rei che vi ſul - -. l':: : :) ) : l ' : - -  « In quel tempo usavano relia coi ti atia li. , Fioretti. « non colli e g ill', esse I, vi vi foc3e usato da molti anni. , l 3' r .  (ſ « Si (lio (le a Cl essi i gi ad usare « con coloro che ri !!i e ! , ; - i dile tt - « Vallo. » PO ( ('.« .... il quale il più del ' t com . . . . . . . . i usava. » Bocc. « Quanto più uso con voi. lii i l' .« Questi due giovani s II: usava: 2 insieme e pe tiello che ino « strassono, così - al vario, o pi iri li.... Ave id si « adunque quesi a pl ( III essi il litº, e l'insieme conti: uamente usando. » Bart.  « senza che, con le era usata di fare, li l -- : lì la lite. » Bo .  a º miglii , l'i oli 1 e (l'1 I l tº Sa: i erati 0. .  « In quella cav, i 1, dove di piangersi e dolersi era usa, si ra ornò » Bocr'. «Noi siano molto usati di far ria cr:::º, i s; » I30 .  « Della quº: l' orizi in e non era usato i ( -  a e que.li o n t e li ti o 1 : i e i piu « di tali servigi non usati. » l': i  Uscire (915)  (illal'da b l'1!si , e i ti: i usci) e di che che sia : ed aliche uscii e s e 7 il l '.  Uscir di mendicume – - Usai: cºi gaſ to selvatico –- Uscir de' Cenci – Uscir del manico (916) S  « Con la doſe - ll: il il l:. i usci de panni ve « dovili -si. I 2 c.  « Se io uscirò di mia natura . l re li li alcuno, sianni qui e perdonato ». Da V.e dilungandosi di veder costei olla gli usci dell'animo ». Bocc.  - E benchè quelle bastona : in avessero fatto uscir di passo, come a quegli che i trial, la rile: e li lti la illo, vi invea fatto il callo ». Fier. e Mla usciamo di Papa Urisi, io e All III: a un parti a clie mi diceste.» Tel'.l lo i tir i pi s v - e, si usci di lui.» (par issi, an dl -- elle . . cs:i l'1.. Questa lilla s'incon, in Il 1 lo ci Vi l ao e quando l'Aprile, ma in « Aprile finl- ed esce. » (i o d.Via ve: o l' rola v . . . esº, ere li | ra! ti ». Cosari. e uscito poi della furia.... , t , i fillo.  Nola alle ol a l: Il cosi la gºl l ' :  l S( | | | | | N ( VN V ( i N V (ii: l: l . l S( I | Rl, V | 3 V | | V ( V e si irrill  a Il [il 1 nº . . ! ! :: : sa: uscire non a bat e taglia, lo; i titi i ti i ) : ,  e filiali nell' l'all ss : :  I SCII? E al alcuno ( N I \ N VII I. \ NIE, CON IVAI313UFFI, ( ( )N I \I IPI si, il i.  a Ella m'usci con tºn ;, rºm r Gb: i to adesso ). BOCC.  Note al verbo  Uscire 915 – Collſ. I liuscire. 916 – disine Iere i cos vi: Irasandare i termini del proprio cº Silllll ( ( . t ('. N/ e clere  E' elegante l'uso del vello redere per gliardale, in luire, esaminare, scaldaglia e, investigal e, ( s.srl . . . . llle: « Pre il lo non dove ero li ' t . .  corsi stili alimente credere, senza « vederne altro. 13 , l l lle, l'indagi, li º ) «.... di che l'altra parte, che per avventura aveva più ragion che danaro, « fieramente sdegnata, volle vedarla a punta d'armi, e farsi da se giustizia « con le sue mani ». I3art.  « Vedere il vero e il falso l ' pt: 11 i ti : i3a t.  « Avvisato di vedere de' fatti dell'i: II. . . . . . . . - itti « e.... ». Bari.« .... Vola e Inill il 1 e a veder de' fatti dell'a inima sua e le  - - -  « in altra religione pil di gºla o li. I |.  « e vedi con lui insieme i fatti nostri ). I . « Vedi modo, e si ppi se con lo! I le , pli i a º il pi Inio».  BOCC. « Tosto pone la querela; propone di rili o le " I to I. vegga, l a. « mansi a furia i padr : per gl a Il cas . : : i I), i .  « S'egli è pur cosi, vuolsi veder via - 1 i sai io li lo.» I3 917.  Fra i molti altri usi di questo verlo . I l I e voi li ricorderò :  AVER VIST.A con ulla rislut (t l'ºut , li lli il 1 l 3 ) . FAR VISTA I AI R LI V ISTI, I A [ . \ EI ) ( I ) - I ) \ | R| V I STA – I)ARE A VEDERE I Vedi sopra l)arr, Fare  Note al verbo  Vedere  917 – Notale queste maniere, realer modo a ria se....: re ler l fatti dell'anima: senza reale, ne all ro; reale, il re o, il falso, vederla a punta d'armi di r i co .  Volere  Si usa a) per convenire, dore, si in vari modi, il più cºll'allisso ed impersonalmente, sì al singolare che il plurale - : b per essere per segui re una cosa, mancar poco che....: ( per opinati '. a rl'isti e'  Noterai da ultimo il modo voler bene. Il quale si adopera a siglliſi care tanto amare germ ha ben che sta lenº, o cosa simile. 922 .  « S'egli è pur così, vuolsi veder via se noi ºppºlinº (i li: i Veio. I 3 ( .  l  « E' opera si grande e malagevole che di io si vuole chiedere consiglio, º  Fior,« Andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal santo Padre che..., « ma ciò non si vuole con altri ragionare ». Bocc.«Se I)i() mi salvi, di così fatte femmine non si vorrebbe aver misericordia». Rocc. (923). « Elle si vorrebbon vive vive mettel llel fuoco ». BOCC. « Al combattere si vucI l en uscir spedito, ma nel ritorno delle fatiche, a qual conforto più onesto che la moglie? » Dav.« Comlare, egli non si vuol dire». Bccc. nº n convien che si dica). « Questi lombardi cani non ci si vogliono più sostenere » Bocc. (non con « vien, noi dobbiamo sostenerli.« Il beneficio si vuol fare con faccia l'ela, non vi lana, nè dispettosa... ». IDa V.a .... e che insegnando egli la verita, e la da chiunque si porga, vuol a prendersi e profittarne e si vuol prendere Bart.a colme.... così l'animo quando è in lotta o o infetta, e di focose libidini arde e languisce, con altre tali rimedi ferro e fuoco si vuole attutare ». Segn.  « Per 'rattat de Tai rl'iti usciti d'Arezzo volle ossel tradito e tolto ai « Fiorentini il castello di Larel no . Vill, cioè fu per essere, a un pelo cho....).« Pietro, veggendosi quo la via impedita, per la quale sola si credeva « potere al suo desio pervenire, volte morir di dolore ». Doce. (In fondi: le fu sì dolente che per poco ci me lova la vita). « Gli volle dire che..... –- In:a.... ». Fiel'.  « Pitagora ed altri vollero che esse tutte procedessero dalle stelle ». Sacc. (a V Vista l'olio, ills e gla l'o; 1 ).  « Pa: ente nè attrico lascia o s'avea che ben gli volesse ». Doce.  « Vi vo' bene, perchè vo cli e il lla ln rinto Siele ». Bocc.  « V cali io voglio tutto il mio bene ». I3o .  « Tra lol' 11oli Ill lin: i lite o di ſe' liza. VI:ì d'accordo volevansi un ben « matto ». Malma lì i.  « Con le pugna ſul to il viso le ruppe, nè gli lasciò in capº un ca a pollo e le ben gli volesse » l  Note al verbo  Volere  922 –-. \nche il lo rill degli inglesi la usi pressoche eguali, oltre a molti altri che il nostro colei e non ha, fra i quali singola rissimo è quello di far l'ufficio di ausilia e alla formazione del tempo futuro di ogni altro i b – I rill come, oppure I shall come – secondo cli  l' –.923 – Come il verbo volere sia per lorere, così pare che anche il verbo dovere abbia alcune volle senso di colºre.« Richiese i chierici di là en! l'o che ad Abraaln (loressero dale « il ballesimo ». I30cc,« e con molta riverenza mandò lºro galido la Madre sita che le « dovesse piacere di veri e il tie l logo di ve egli era o. Ca valca.Trovo inolta analogia dell'uli ell'altro, di testi verbi, ado perali in questa follia, e il nigen dei tedeschi ed anche col to may degli inglesi, i quali veri si costruiscono in guisa che non sapresti se meglio radurli rolere o dove e.CAPITOLO II.  Uso va a rio di alcune altre voci  Olli i Verli di illzi l'ecilali, si o alcune altre voci (animo, argomen lo, talalosso, lui nolo, colpo, con lo iori und, l'onlc, latica, latto, mano, netto, pello, pºi i lio, pati lo stomaco, cerso.... il cui uso frequente e vario è par li i lili di elogi rii si rili il . Si lornali o con esse di molte e belle ma nici e e le viene al discorso quel gri lo sapore, quel colorito, quella pu I A /a (li - il cºllo e il la al telistica del linguaggio antico e classico.  \len Ire le palli elle e le voci in generale della Parte I. di questo Di i 'llo io, li li sono che si ni vaghi, e adoperano più che altro all'assetto tegli in mi collosi e non li alla si irl Il ct del lisco so, i vocaboli di que sla l'arte, ed il l cie: la p . l rile, sºlo per sè, e precipuamente, for me cloculi e, con l'icienti di lingua. Da quelle le compagini e la curva, da [lles e il salgle e la polpa.  Arm irro co  (illarla come e in tranſ e guisa ne usano i buoni scrittori. Suona press'a poco quando disposizione d'animo, condizione, slalo di essere mo rale, e quando intenzione 926 , voglia, mi a. lalento, inclinazione e simili. Son , poi nolev li i modi: a re e, anda) l'animo a...; patir l'animo; essere, anal 1 e all'animo, la stati l'inimo: nelle e animo, acconciarsi nel l'animo r. acconcia e Cap. pl cc : dole ne all'animo; dire l'animo ad uno di....: rivolger per l'utnino; ecc.  già d'e è di 16 a li, i veri l piu animo che a servo non s'apparteneva, l lo la villa della se: vi in lizio il ... » l 3o .... e se tu non li li cuell'animo che e tue parole dimostrano non mi  pas er di vana speranza ». l o .  se dicessimo per correzione e non per animo di disonorarlo ». Mae Struzzo.  « Son testimonio dell'amore ch'egli vi portava e dell'animo che teneva « di farvi grande.» Caro.« Con animo di ienersi le liti e li ſale : l it il venisse miglior « fortuna ». Gialnl).  « Il valente uomo ſe e 1 og: i...., che giurerebbe Con animo di ' on oss. l : r. cosa : .  « secondº, che lle.i'animo gli caºgai.  º . . . . . . parlit - i li fellone aniins r i pieno di mal i alCºllt ();.  « Così slibiti i la forza di « fargli Inllta: animo ». I .  « IParii-si a dillolti e i S : :i , . . . gra:idissimo animo, se « via gli durasse, e I - 1 , ; s , di fare a Il « ( ora non Ini: - se. I3 ) .  « Ed avendo l'animo al di v . . . . . . . . gli 1 il gione, ed « Ogni giustizia dal lilla delle i i ti. li li lo il suo lellsiel di « Spose.» IBO .« Non gli va l'animo ad 1 [ . a dre. » l' Issa V. « Consigliata a mari a 1 si ebbe l'animo a at o . . .ite di De « Voin, ma tols e Filippi, figlillo. , l: ( : V. , lº: V.« Tu badi ad l ? A lizi ho sempre l'animo a casi vostri, e sempre « mai ruguino cose... » Anibl. « Luigi non avea l'animo ch: a li, l i il i -. » ( es.  « Se pure questo vi è all'animo, i d a li. . r?S. Cesari.  « Ed a Ile liento. Il lei lo va all'animo (Ill si g ) della prima novella.» Cesari.  « Egli che sapeva, che io ero felimini, perchè per moglie mi prendeva, « se le femmine contro all'animo gli erano.? , lº .  « Se vi basta l'animo di ſei rail. l 'in . . . . . . Il 1 li li . ) !!) (.:ll' ). « Non gli bastando pºi l'animo di 1 i si Il dll -- e ad « atto talora....» l'itel ei 17.« E Irli basta l'animo di A ti . . .. . l ie . liz. « Vi basta l'animo di I l Il « atterrirvi?» Sog n.« E mi basta l'animo di 1 V il 1 ll - 1/.l il i 1. » Fiel'('ll Z. « A noi non dice l'animo di pa . . . . . i da! . di ti liti libri e si lolloni.» Cesari.a se avrete farne del'a paroli di Vill: il lidi : ) di potere, in que a sta Quaresima, ancor piac º v', in se i mi dà l'animo ». Segn.« Ma vi dà l'animo in Illi t Impo si lill, i . e 'I ! clie, è peggio si illl' « bolento e sì tetro, quale si è l'ultimo della Vila, apparecchia i vi con Csame a distinto a tal confessione....?» Se n.« nè di fare morire alcuno dei suoi lion gli pati mai l'animo ». DaV.Il Ina le è ce ne ſiu cic ai l'anim 2. o C s. Part.  Qì la - i i , ' ' nette 1 - 3 ::inno : : i ri. » I3( 11v. Cell Qll'il. ll - oscia chè così  e Irli se rintuzzato l'attinº 5 si'C is r r;o. . . . . 9.30 « Qlla lido, lili si rivolge per 3 a: rap ità ... » Fierenz. a rivoltandomi per l'animo i : i uli. o l'ierenz  Note alla voce  Animo 92C, Simile al n. inl degl ii i : la mind lo buy one. – IIa e yon di minal lo ti il 2 v 92i – cioè secondo le g, i l va. W i, es il m su Mulh ucur. 92S -- FsNel ct ll a 1, il ss. cc : i andar all'animo è sil lillio i : sè i ct g ci li chè a grado l'era, di lui facesse ndr ) e a sangue quand'el li a noi ci ss a sangue, io la voglio per disp. ll si o apacissimi di calun  liare i lolloni º il lor casi di reisi , Giub. , andare («Se l  [llesl e l'agl il sol li a Il slo, si troll ii ranno ». I3uonerotti ( ('('.  929 - - Sinili: Sich gel i due n; sici : u n t then: cs dal in brigen: se latire l'orl . . . . Vlt i ti li I l eguali sono le maniere: (la re', di e l'utilimio, il cui oi , i n i cldi il cuore di Venire a il meno con si p del si li ti I. S gli. « E vi dà il cuore di las, la veli slal e il l IP. Il gol l il lill gamelle? » Segn.); pali e l' animo, sentirsela. Il teleti si co . e la (ſuale – inten zi Il senza l'agi o vosli o n li li allilo di poter condurre » ( tiro a Se io non la riveggo i n n't li do di descrivere.» Caro, S affidano di poter brava e lilli e di vincerla colla provvi dellza . (iilll). .N 'isi singolare trasformia, i tre graduazione delicatissima" di significati: Chi dice mai basta l'otti in indica con ciò e di polere e di volere: chi dice non mi basta l'animo indica non già di non volere ma di lì in pole Vli dà l'animo, il cuore', suona a un di presso: il cºllº il ri: della, mi sento inclinato, avrei voglia, sarei vago ecc. l indoº l . Iuantunque suppo sla, dall'idea di potere; non mi dà l'animo, torna a : non mi sento punto inclinato, sento, provo i tignanza, avversione a fa re, a dire ecc. Che se questi ri: 'lalanza venisse da senti mento di delicata e ſuità o di colli issione, o di simile affet to e non per pura avversioni alla cosa stessa da fare, da di ro ecc., allora esprimerolla assai meglio, che non farei con l'una o l'altra di delle frasi, dicendo: non mi soffre l'animo, il cuòre (« Ad Adamo non patì il cuore di contristar la suadonna » Ces. – «nè di far in rii e alcuno dei suoi non gli pali mai l'animo ). Dav. – A on mi basta l'animo esprime adun que impotenza: non mi dà l' animo ripiglianza in generale; non mi solire il cuoi e lip glianza ri e del iva da un particolar Sentimento.930 – Itintuzzare è lett. rivolgere a pil: Isi, ripiegare il filo – stumpi m(tellºn, e il di la l lla in ſol :i, l in lui zzati l'anima , ci è di venire avverso. Ilijuſſi e l'animo è il 'ril e addirittura,  Argorn e nto  « Argomento è voce che ha molte significazioni, e tra esse quella « di istrumento d'invenzione, di modo, d'auto, di provvedimento e si « mili ». Pedi 931,  « Qllivi : i foli era chi con i (Ilia 1 l di l:1, argomento, le sn la r . a l'ile f. Ze l iv () : -- . » I3. . . .« I medici con grandiss mi argomenti e con presti aiutandolo, appena a dopo alquan ) di tempo il poter no di nervi gºla: ire ». B .« .... e fa la l la fra il l. 1, e gi. I l 'gli il i vi i suoi altri argomenti fºnt li fa re, Illas gli y olesse ... - III: I rila vita e il sentirne il o l'eV 0 0 l'e.... » I3 ('.« .... a zi, o che il natur :) del III:I e no! p . Iss e, o le la ig it anza de'  Inedicanº i non conosco -se di clie si in vesse, e poi consigli il debito  « argomento non vi prende- se non - li te pi h I gilarivano, i pizi.... a Bocc. o presi e li argomenti per 13 « con quali argomenti di fila li II lit: i sl il ... ? l): V.  « Gridò: fa ſi che le giºrno, chi ci li' Ecco l'angel di Dio! piega le na ri! ()Inai vedrai di si fatti uſi illi, V (li che sºlº gna gli argemcnti umi ini, Sì che remo non vi lol li è nll: o Velo, chi le ali slle tra liti sl lo : alli. » I)alit .  « E d'onde debbono prendere cagi no e argomento di non pill l urt, ed eglino più per callo.» l'assav.  « .... il quale fermamen e ''avrebl ero il riso, se un argomento non fosso  « stato, il quale il March se subit Ilmente prese..... » l . ll Il Illotivo, llli appicco.)Note alla voce  Argomento 931 – « Le malattie delle femmine, prosegue il Redi, di molti argo menti della fisica son bisognevoli. – Per lo che i medici han potuto dar generalmente nome d'argomento a tutte quante le loro medicine. – Può dul que esse avvenuto che essendo il  serviziale il più frequente di tutti i medicamenti, sia rimasto a esso serviziale il noir e di argomento. Può anche essere che sia slalo chiamato ci go onlo perchè il serviziale è un aiuto che per poterlo usa e vi è bisogno d'un argomento, cioè d'un istrumento, quale appai,lo il cannone dei serviziati».  Aci osso  (A ci cossa re)  Guarda come si unisca a molte idee e ne renda più evidente l'ordine dell'azione verso chicchessia o che cle sia s inili all'hin, her, hiniiber, hine in ecc. dei tedeschi .  « Escono i cani adosso al poverello ». I)ante,  « Ella m'uscì con un gran rabulff o adosso. » Boce.  « Entra il l)iavolo adosso ad alcuni, e per la lingua loro predice le cose « ch'egli sa.» Passa V. 933)  « fa che tll gli metti gli ul gli ioni adossº, sì che tu lo scuoi ». I)ante.  « Oll - io veggo porre mano adosso a tua persona senza riverenza, cer ta Inente il III io dole, le cºlore - col piera.... » ( a Valca.  « Non pensando che, se fosse chi adosso o indosso gliene ponesse, un « asino ne porterebbe 'roppo piu che alcuna di loro.» Doce. 1934)  « por gli occhi a dosso ». 13 i c.  « Stammi adosso (amore e lpoler ch'ha 'n voi raccolto.» Petrarca. (935)  « Recarsi sopra di sè, e no.n appoggiarsi adosso altrui.» Casa.  a 'I'll rarogli gli occhi, e a impeto gli corsono adosso colle pietre.» Cavalca.  « No .l, altrimenti che ad un c. n 1 l estiere tutti qui ,i della contrada « abbajano adosso.» B , c.  « Avrebbe avuto mal giuoco a darmi adosso mentre i padri mi levano « a cielo.» Giub.Gridare adosso ad uno Vil. di Cristo) – darla adosso – Gridar la croce adosso a uno – Dandir la croce adosso a uno (nodo vivo, cioè dirne il miglior male possibile, perseguitare. Formare, lare altrui un processo adosso. (Bocc.)  « Addossandosi a lei s'ella s'arresta. I)an e. « A Celso adossava gli el'l'oli alf rili. » I)a Val)Z.  Note alla voce  Adosso  933 – Così dicesi : avere il diavolo adosso Passav), andare, correre adosso ad alcuno. – «Gli corsono adosso con le pietre. » Ca Valca.  934 – Parla di soverchi ornamenti delle femmine.  935 – Stare adosso, in generale significa insistere, importunare.  E a ri ci co  (E a n ci i re)  Un pajo di esempi, che ti anni niscano del valore ed uso legittimo di questa voce.  « Mi rallegro che abbiate ricuperato il bando di casa vostra.» (decreto, pubblicità, ecc.). Caro« E per bando il popolo ammoni, non queste esequie come l'altre del « divino Giulio scompigliassero ». l)av.« fece ordinare bando la testa sopra chi fosse trovato reo di tanta bar « bara ( l'Uldeltà.» I3art.« v'avea colà strettissimo divieto e bando la testa o la prigione in vita, a a....» Bart.« Diede bando di male amministrata repubblica a....» DaV. (940)“ . . . . . i liò i S 1: a li i vºli lº s ...... II. l. 1 la lo bandire per coià ir,  lo, e al passato i tiri l o il si.... » B irl i : e- si io ev , e l.llis i in itine del fra  tello la bardi, e l l i. E 'lo, li - a, noi lo handiamo  a ti: l ':17  Bandire la croca adesso ad uno v addS80 .  Note alla voce  Bando  () () I )al band, gli che che sia al cicli uo, è condannarlo per giu dizio, caccia l da un lu go e porlo a morte se vi ritorna.  Testa (capo)  I sei i modi anche oggi con il missili:i e \ lgari ed accenno ai me ll , lsali (lal V. lgo  Far capo ad uno :) I lil I e i i ti to o : io » – Far capo in un luogo ai da quivi, º l'in visi, fa: mia ss 1 – Mctter capo di un ſi li le : 1) Inn l a t: o ti li(illi lava i tl, la la il li, e I ll (ill:belli la faceva capo a lui. » Giov. V lll.I fr: ti.... v. lllero a l'i: l e, suggellº) . dºtti, e fecer capo agli anziani del popolo. , (i. Vi!!.Così fa cia il l dl e della famiglia, distingua le sue cose, e tengale a i l II odo che a lui sclo faccia n capo, ed a lui i sien, ovdi l'ate....» l?andolfini, E l d -omi che quando il Sig 1 e era l, ella città, continuamente si a torºla in allergo il più delle volte a lima ig e qu' a era grande all'e « grezza e consolazione a tutti i suoi divoti, ch . vi facevano capo.» Cavalca. « E i... Firenze facevano e ai le dette fontane ad uno grande palagio, a che si cimiamava Termine, Caput aquae. » G. V.« Quelli, che per con rada non usata camminano, qualora essi a parte « venuti dove parimenti molte vie faccian capo, in qual più tosto sia da « mettersi, stanno sul piè dui bit si, e sospesi.» B( Imbo.  « Per lo fiulrle del Nilo, e li fa i c' a l) I lili i : l in Egil [o, e mette capo « nel nostro mare. » (i. Vill.  Fare di suo capo º 1 a slo, - sulo mi do . - - Dir.... far.... di miº, tuo, suo capo il 1 l il V , Iz« NCE, sapendo far d suo capo . In Illini i sa del mio, il lo. , A.le. « Ma questa cosa I)inni li li on li fece di suo capo, IIIa i- I is - e, i.i: la zi « al suo padre, e il suo p li dlel l i l: nza. » V it. Plth .« Affel'Int) non di mio capo, III.) di s .it: te de lla ll rati « ma d'alculli (le Teologi , li la vostra le lezza è lº l'aria delle cose celesti. » Riel'el)Z.  Farsi da capo. « Qui si dimostra che il ift: - si e' qua  « di riconfessarsi da capo. « Me-sala, qui si da capo rifai! csi, disse: " I)av.  l  la ci sonº e lenti a  Tirare a capo – Venire a capo ondulr a fi; e, v ir, illa e il si le.. « Tiriamo crmai a capo Gueata tela, o lº« Se io ve le vo! re, io non ne verrei a capo in parecchi  « Iniglia.» I3o e'. « Volendo e pil fla III It , i no - e e, o ve le , sa o di troppº fatica,  « e nº !) st 11 venire a capo. F: (iio: l: li . « Iº gli 11 Il si verrebbe a capo il 1 le tl1te le co. (..» La l).  Ccrrer per lo capo a llar pe: la fa ta sia Entrar nel capo il lilaginarsi, darsi ad intendere, sli, la rsi a credere, .  E qll si o libi o Ini corsero mille altre o per lo capo. Amle[.. a (i li entrò nel capo, ! , V : seve, lie - -; il V t's - o - I lie a famente vivere nella lod povertà o I3o .  Farci il capo - fare tanto di capo V. Verli, Fare ( ip. I pala l'. I – Venire in Capo arra (!. re, sll len e, illt ( ve : i re .“ Sicchè lene Inostrò e trovò vi o illel elle V | olio li aveva s pitt ,  a cioè che in b ºve l'ira di Dio gli verrebbe in capo. , Cav: a. « Mi lide ) d. l''i vos: a In te, e farò li ffe e sche, n. di voi, qui nn lo  a quello che ell: V . I vi verrà in capo. » l' issava il 1.A capo erto, a capo chino – Andar a capo chino, ecc. ecc.  Si usa tanto letteralmente che metaforicamente, cioè a indicare dipinta mente la franchezza, la baldanza o la umiliazione di alcuno. Ricordo da ultimo alcuni del ti proverbiali: Cosa fatta capo ha (Dante l loc. G. Vill.), Scambiare il capo pel rivagno, pigliare una cosa per un altra, Mangiare col capo nel sacco vivere senza darsi pensiero, o briga di cosa, alcuna).  Note alla voce Testa  941 – Di sua testa non pare il medesimo. Significa: giusta il suo proprio intendimento, senza altrui aiuto o consiglio.« Diedegli certe scritture di sua testa compilate ». M. Vill. « Io non ardirei rispondere di mia testa a sì grave quistio ( ne ». Dav.Non è da credere che scrivesse questo particolare di sua a testa o Fierenz.  A proposito di Ics'a lon sala inutile far osservare alcuni usi di que sta voce al cui luogo non ſarebbe capo. Sta a per persona: « Si levò una tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la galea) percosse, nè ne scampò lesta ». Iº c.; b per l'estremità della lunghezza di qua lunque si voglia cosa, con le : l'esta del ponte, della camera, della tavola, della tela e simili: ( Egli ha allo in lesla d'una sua gran pergola....» Caro; e per intelletto ingegno: o l'ira u no al suo tempo ripulato astuto e di buona testa . M. Vill. di buon capo farebbe ridere).  Dicesi finalmente: senza testa non senza capo: Gridare a testa (ad alta voce); Gridare in testa altrui garrirlo: fan e all' ui un gran rumore in testa (Doce); far lesla (fermarsi, resistere, difendersi); tener testa, rifar testa ». G. Vill. (v. I3attaglia, Prontuario).  Cornto  Sono noti e dell'uso i modi: Conto aperto (od acceso), conto spento, conto corrente, conto a parte, a buon conto, aver a conto una cosa, ricevere a conto, lar i conti con alcuno, la r conto di che che sia (farne stima, averlo in pregio, farne assegnamento, far capitale), domandarconto di una cosa, render conto, dar conto d'alcuna cosa (darne avviso, notizia, e anche render ragione dell'operato , arere in buon conto (in buon concetto), avere chi che sia o che che sia in conto di....., tener conto di checchessia, per averne cui i : « Non gli restarono altri ninnici che i suoi figliuoli ecc. da tenerne conto Sogli. Si r., ed anche per orenderne memoria, in Letraclit zieh en, il V e il considerazione : « senza tenere altrimenti conto della sua obbliga la fede . (iiallo. ecc. ecc.  Di molti altri usi di questa voce niente volgari o meno comuni oggidì piaceni menzionare i seguenti: Persona, uomo di conto ioè di stima, di 1 pillazione . « davagli in commende i conveni a uomini di conto. » Dav. « In verità che io non sapeva di essere un personaggio di tal contu, « che potessi turbare i sonni e stancar l'1 pelllia di un ministro.» Giul).  Far conto che.... ), pensatsi, in Imagina si, sal ersi, supporsi, darauf gefasst sein).« Si addestrino a vincere il demonio in altrui trionfandolo in loro stessi, « e faccian conto che i pericoli passati son minori di quelli che sopravver « rannO.» Bari.« Facciam conto, che in campo alla pastura Un oro, sia costui, o un a cavallo.» Malrn.« I)unque dovrò si armene tutto l'inverno tra questi geli, e durare sì « lunga fatica?.... Fa tuo conto. » (iozzi.« Le sar i rillo a dll nelll.', ripiglia via i ragazzi , i lidele? Fa tuo conto di a ceva il padre, le sono appunto candele. , (iozzi.  Metter conto, tornar conto es - or utio, tornar bene, zutreffen). « A Gel'Irla Ilico mise conto voltare.» I): I V. « Non perchè alla repubblica mettesse conto patire mali cittadini.» Dav. « In ragioli di Stato, il conto lo l iornar IIIa i -, li ti si fa con un solo »I)a V.  Levare i conti.  º nel cominciare a levare i conti che avea con Dio, cavò un lento sc « spiro.» Bart.Fortuna  liscio gli esempi nei quali questa voce è adoperata a significare ora condizione, stato, essere a Ahi quanto è misera la fortuna delle dollll .... lº . . col l'a tt con intento indeterminato, caso, avventura e lasciaio ai re a beneficio i fortuna ». Fierenz.), e quando ven tu rot, ct r r nini e il I , buono ed è talora anche l'opposto cioè disgrazia, av rom in n le calli ro ecc. e le n lo [ili alcuni di un uso men comune, ci è il sig li tre pi elle, lui asco di noti e, mare l'ortunoso e simili.  Si crt ti ma i ve: lt , A sì forte, e in petuoso, che - 1: Vili.l'ill st , s, il 1 l e gran fortuna di pioggia gli sorprese.» (i. Viil.a \ Ife, in lio, io l a cos . Il l tempestosa fortuna esser na º | :) » l . e Ond ei pi , e ne rive in fortuna, l): nte. I.: fcrtuna - i lob pople:ì. » B art. li ria: e ci I l lo rempe fortuna, si or endi colpi la batte (na V ('.... . I 3: l ' 1.e li i- e l' In ill , sl - , mi ata la nipes: elle qualtro di e quattro molli corsero perdutº a fortuna, senz' ' 'o miglior governo che....» Bart. N : \ e li coi reva a fortuna il t :: il e o IBari, 950) \ ndo si seni fortuneggiando con avvenimenti or prosperi or a V V e 'si. I 3a 1 t.I questo li lo si elli, la va a il 1 l iltà fortuneggiando.» G. Vil. I bella , li in azione lei - i to Iri Il re, quando più fortuneggia, per « alleggi: l' a la rca. » (oll. l'al'.  Note alla voce  Fortuna  !) ,( ) N Iala questa frase: correre a Fortuna correre perduto a for i una, l he la sc itelle lo i rineggiare che ha un uso e si niſi il lassi e giale, ci è ali birrasca, avventurarsi agli accidenti forlilli si del mare e li i lamente, essere tra civili empeste.Faccia (Fronte)  Adduco esempi di faccia o fronte in senso analogo ai derivati slac Ciato e sfrontato. I.i soli chiarissimili ed il e lell'uso.  « Pure di dal e il ci II la l1 lilli e li S. , . . . ll , l el taccia .  « Con qual faccia, s a ci: il I II , - l . Il lidi e « la fede?» (il lido (iiudl ('.  « Adunque con (. . I faccia « add Llcile? ». (iil I l .  a Ol' e il 1 - le fronte il il 1 : ' ' , i - . . . . . . . .  « Poi che l'uoli o si º le vi! ll 1 o, fa callo º iro iile, i - - - a ratamente a ogni In . » ( IV al a 95  « Hai | ll ll lla fronte cosi incallita, i lle ', il l i « di doverti call Il bial'e il el Vis ? S, - il.  . . . . l  « Con faccia tosta - e 17 i pi Va: ll 11 , Il). 9 , è « In prima si coniII e II in o Ill o. I l tanto che i  « manifeslainen e li faccia, e li ri . . « Quel che tu in, l): a l ha fa coia, ( i, li i ll v o Lasca. Rilne. 9) i . « UOII10 Senza faccia - Il v.i . . . . . . . . . . « Vede e 'a lliere: i iacul, e « rere Iſlale . , Fl'. (1 o l'il. « Don Roi Igo 11 , l avrà faccia l:  Note alla voce  Faccia Fronte  951 – Cioè diventa sfortunato, si ucciulo.... l on li ha poi mol [i al li Ilsi e lo; i s'eri le sco perla, cioè aver bilona fali i tºni i l I ( n le; Mostrare la fronte (slare al posto la r II on le pp rsi : a prima onl, ecc.  952 – Un ragazzo ha faccia tosta, lº li ha ſron le incalli lat.  953 – Far faccia vale prender il II e, a lei il pil i Far crlr facce di olio in Toscana per la ri . ligure, e poi , i a dover dire o far cose. Il li li llo ci livelli rili il l ' il .  954 – ci è chi noli la senso di ver: liti e di 1 ss ('.  955 – non si ardirà a far.......  16Fatica (Faticare)  Ricordo i modi poc'anzi addoti: senza una fatica al mondo, alle mag gio) i folliche del mondo, di tr fatica, prender latica intorno ad una cosa, a la lira il V V el l con ſali , i pºli , a gre , ai) alicarsi una cosa (cioè alla lira si per i lilisla la ed i gi o alcuni esempi di un altro uso men nol e mieille comune agli sci Il ri di oggi di cioè della voce fatica il sigilili lo li li a raglio, per il latino sostenuto o lato, e dell'analogo la licati e il no, una cosa, ciò è l raglia, lo, allige) lo tempestarlo alal, V e voll e, i l ligar .  E I: la turiſti e !). ll la ed ass: i n , e in riini della persona, per la fatica il Irla . . . . . . . . . . l pa evano le sue fattezze bel e is si lite , l ' , , , , , - ( il'er le . In le , i ai altro pensare che di lui, e ogni altra cosi le v 1 - a eva grandissima fatica e per dil 1 lite si l V a oli , il 1 l quali, essendo cia si - , i faticarono la nave, dove la donna era, e' marinariLa loro si el e , e faticatº o ezia radio gli ali inni de savi. » Amm. Ant. l ' Illal (iiii , e ora il mare, ora la terra, cra il cielo di paura fatica Ill lo II e il I l fatigat .» S. Agost. C. l).  PRT atto  Mi acio, i nodi dell'iso, che li li è fallo mio: si fallo (di tal fatta di tal maniera : li fallo e Te! ivan n[ 9:50): in fallo, in fatti: fatto sta che.....: in sul fallo in orielli- : iallo l'arme: uomo Vallo, cavallo jallo, il lilla, biale. o si lili, latte e 9 l . e piacenti porre alcuni esempi di un riso assai ſi ſui lil e il loro i cl siri e non comunemenie osservato oggidi. (ilar la II Il nle iel , l a che va a mente, si adoperi que sta voce alto il significa e il negozio, faccenda, affare, interesse, e ora torerno della p rs not n 1 micr, ii , ' i cliessia e Nolerai le frasi: dire ſare, esse e checchessia di lall prici, le falli suoi (cioè di me, di lui ecc): andatr pei falli sui ri; a 1 e i lalli su i non potrer suo fallo (non mo strar che si faccia a posſa essere fatto mio, fallo suo (cosa che appartie ne a me.... : disporre ordinati e i lorº li suoi: entra e nei fatti altrui ecc. Masopratutto porrai mente al vario uso del nodo gran fatto: non essere gran fatto che....; parere gran fallo che...... essere clicchessia o chec chessia un gran fatto ecc.  « Noi abbiamo de' fatti suoi pessimo parli o alle milani. » Borr.  « Ed in questa guisa Bruno e Dil falli la II o, « traevano de' fatti di Calandrino il III -  « E se non era il g ... l in 1:1 lit , il 1 l i de' fatti - Il l III !! a dire.» Berni.  « Mossi a col il pass oli del fatto suo.... l  « Come se egli - lo so , o de' fatti ric stri - I ' ' : l. i  l -  li i ll it , l . . .  « E mangiato, e bevuto, s'and: i pe' fatti loro, B « Egli sarebbe necessario che ti l . Ia la ss da il: cosa, e l: sto s « è, che se nessuno ſi domanda ss e di cosa , l ... , o la r . - del fatto iuo...,  a che tu per niente non rispoli il -si - . . . . . l: i si v; st: (ii  « non li vede l'e ( 11, Il li Ildil e. ll tº 1 - in 1 l 'i a ir pel « fatto ſuo. » Fiert':1z. « Non lili da r no] , e , a pe fati i tuoi. VI 'In. « Chi fa i fatti suoi non si ill, i ti:I l 11 , l s . « Perseguitava una val Int. a quia li i -  « giungerli, on.le la line - li illa non ve li : l rime tii a fatti suoi, l a - a comandò ad illlo scarafaggi l . . Flei ei 12.  « Senza che paresse lor fatto, li colli, i cono a lorº, i lit: qi, lu - « qll Csto Sllo Illari) o. » Fiere:la.  « Se ne sta ritorna, che non par suo fatto. Vi rili.  « Dice le cose, che non par suo fatto. I3 i  « Renzo al suo posto, senza che paresse suso fatto la il clo « Inessun altro.» Manzolli.  « Il padre si lamenta del ſigilli lo, e si rie e di pin egli il a fatto suo. , Cavalca.« Un solo anno stette e visse in questa º o , linellza ed avendo tutti i « suoi fatti di votamente disposti, con grande part se ne andò i (iesi ( ri « sto.» Cavalca.« Ed (rrdilla () in Egitto (ng li suo fatto, - i : il l ... » I3 . . « ID'ulna in altra parol. I entrammo ne' fatti dell' :« .... e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani adosso, per i « ch'egli ti darebbe il mal di ed avresti guasti i fatti miei. Bo, c.« Troppo ci è da lungi a fatti miei, ma se più presso ci fosse, bon tia dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per vedere a fare il tomo a quei linac lei ogni e lo limºne una satolla o, Bocc.  « Non sarà gran fatto ch'egli getti qualche bottone, col qual io discopra il suo pens . ro.» Flei e la.- - - - - e 11 : -: la gran fatto . ll al ti: o ce le cincischi.» Da Van. e le per esse -il), A di I'll imo, non sarà forse gran fatto li a l loba l l ulmanità.» Segn. . .. . pe. indos I di -s non è gran fatto, che per livore o innato vi doig: vedere in alti io, li noli e conceduto acquistare a voi. Segn.« Pare a voi di tre gran fatie , l: i Cielo a voi debba costare qualche  leggie di s. l ' It , i lil II l S . In  cli I), o vi debba º si º gran fatto oll i- ato, per un ossequio che piu proi, il merile poi il re - l ni:il lil:i. Se n.e 11 il bis – il l gran ta! to : Vi l e a, per lº....» Bart. « Nè avi il gran fatto : ' ' , p s a h si rai slm litato dal pic a col le li , , l ' : l /Ed il la 1/ gran fatto in là, ella arrivò ad una  a certa ri; l:1. o lº .  I fior enti i : il : i a fiorini d'oro, senza a quelli li vi ii fit is ºn grati fa 11 o.» (i. V ill.( gras, a to - I l ini l e.» I3o . E I. e illliamolata di me cli, ti pal ei gran tetto, lº il l: i 1.1. I vig , l .( )il - , vi i : 1 - . . . sse, e cado: le gran  tolli, i loro i no , mºltº gra.: 1a!! 3. ( A , i tl ad. grandi e sanliº.  Note alla voce Fatto  !)(,() si ,s , li oi i pi si nºi il cli: li presente, sui biſamente, in mantinente si rii di 1, il calde nori o nella piana el' i l.  l'Iron , pi si..... e di fatto, e senza alcun soggiorno tutti fu  I no il pic i fi . Mi Vili. -  (i \nche allo per cosa falla. I rili, in pposizione a dello, è s illli bocc. di I lilli. - Che mille volte al ſal'o il lir vien meno . Dalle. « I fatti son maschi e le li role so' felimininº o ProV. ital.N/l a n co  E' Voce Ilsalissimi, si, i 11 . I pelle molle Il lamiere, gran parte volgi il s - che ad al lI'e lillgue 961 , si go, il 1 - I l guidi, quelle tavia sulla lingua del p ' . ( il 1. leggiadria od eccellenza di senſi nellº si i ... a no, la tale solo per certa analogia ila mano, avuto cioè riguardo ai vari lilli i ti che iene la mano, a quello che li, al per: per a signi  cioè che Ilon V elig l srli. I -, - i . . l'l'ono ll (  ficare potere, forza azione au il pri, tra i là di o l'uori lilli , soc corso, aiulo, banda, lutto ecc.  « Acciocche a mano di si', il ri . . . . . . . . . . . . . . non vertisse. I3o ('.  « Venendo a mano il it - - il II , le V elite e l'i « Stiano.» Vit. SS. I': l.  « Molti dei quali lug - I l . . . . . . . . . . . . . a mano de' nemici « uſ. Inini II lontani pervennero.  «I terno forte di II lilli i r . . . i t. 1, i ir: imam l lilllico. » l?et l'.  « La republic tilt i, in mano. Dav.  « La saliti del V sl l fi I l l i nº lla ntitº i l l3 ( '.  « E quale le an a -, i la mano a prestalica, io l'auto « rità dei prelati della sim mila ( li a. il 1 l: Ali - oli?» PasSV.  « Fare i voti in mano di.... , l 3:1 i t. Cºs  « Manda il la lizi una marmo l . .  « I entulli, Vlt telli, l .li ra: no ci º randi. I : l ..  « far guardare a mano di soldati. I  « rifiorir la calunnia coi li la mano ri: di doppiezza. » Giub.  « Carlo con potente mano v V on gi al quantità di gente a rinata .  « nè Inolo poi con piccola mano di armati V, il 1 , a S. Iplone.... a lºoce. (Lett.)  « Sopra i detti fili si da lol : ill. it e s'ilm  « ponga grossa i lile l'a lt 1 : : e io i Irella mano  « di terra, che s'è la [a di sotto. 13 Inv. ( e'!. () i « Andando egli per di la, molta mano l'Il III liri de la ri; in Iglia l'incon  « trarono.» Benibo. « ma.... fu loro adosso subitnmento una mano di ribaldi....» l?art.di lini .... l) o lo veggia, e porgami la sua rºmano, - 1, li, i - ca. » V il SS. IPad.  I is: i o, che tenevano mano al fatto, t e del mondo.» Bocc. 965) \ qi te li- , e tenienc mano molti baroni del Regno.» G. Vill.  ! . (ii i e Isolmi e le Gesù mise mano & i serrano ine li piu se e , più per ſette che mai avesse  I t . l . ti l a, fere cenno ch'esse (le pie i ! ! , l i º S rimise mano e disse que le parole che - il pi su ro, e colli e gli entrò l. Ili, soggiunse e di Sese).  VI: messo matto in Alberto da Siena seguirò di dire di lui ll o lº  I l ott . .. m Se ntano in altre novelle. , Bocc. 966). i :ili º di .oli perdere lo stato suo, mise  mano , l s ... Il miº l 'ils li a l e E da', e , Vit. S. Giov. Batta. I ss; Il li i lill I, il I . . ll mi venne a mano, l'infrascritta cosa.» Vit. SS I .(olis derare oltre. ll he primi i gli venisse a mano.» Bocc. (967) li li avendo il pri' il o la ello a mano lavorava con guinzagli di I l ( -: i ri.() la d [.li mi viene ai le mani al lli i giovanetta, che mi piaccia...» Bocc. I li pervenuta gli fosse. I 3 , > cade per mano, la gio ma no di cambi.» I3occ. lt 'e llla l' e il I dil e che li cation [ra mano.» Ces.  rss e il dover lol dire, con lo costoſi alle mani  Era il pi vo! Il no del mondo, e le più nuove novelle avea per le mani, o lº e'.l'o-se va le e lo ill, e pretºre dei sogni i qua l abbiamo fra le mani.» l', - li ttiallo). Se \ ( i, e li gli ha fra mano ». l) il tam. \ Inzi mi prego il cast lo l l se io m'avessi a cuno alle mani, e i la S . » l'8 eNoi abbiamo die ia | i sit i | -sino l'irtito alle mani.» Bocc. ( : e quelli, che lo li pi Ili, d minare hanno alle mani.» Galat.  S. ll p il sier in o o d'i: lur e o amichevolmente o levargli la mano, a e li, lo ſi l e , i sºli, Ina grado. » Nell. I. A. Com. (968)C 'i ll nini innamorati bisogna lar come coi polledri: con essi ci v((  la briglia, frusta e fil d'erba; o: i rile, i li, o a casfig  rli, a lusingarli;  « altrimenti, se ci piglian la rinano la si o ti noi quel che ben ioro torna.» Nelli. I. A. COnl.  ((  ((  ((  (t  « Non so...., nè a quale di i i il 1 l si ri le! V il gelo I.lligi dovesse  ceder la mano. » ( es.  « Boezio pruova, che l'll in pole, il II ci ha peggio, che l'uomo di bassa mano. » ( il V: il l.« Se tll II letti ll ! !: i lil :) il il l il bassa mano l . I (', o lì (vl) è mai per roba, che ella vi p . i, t : a Ilio. , (io l. Spor. « Anzi prova il va il V 'o sſ 1: laici e colle persone di bassa mano. Ci s.« Non sieno di vite i ro? ( d  alta, Ina - Ierio di vi . . . i mezza rilano. l'  « Ull chiassº lillo assai fuor di mano. l t. « Torrestela voi fuor di mano i ve lo i si V elido; lo più vili. » Pandorlf. « Luogo molto solingo e fuor di mano. I3) c.  « E quello con lui fa la ciurma ebbero a man salva. 13o c. sicuramente,  impuneInel1te).  ((  (t  (I  « Senza che al lillo , Iri: i i , ga e 1 di Col - sari sopravvenne, la Ilta e tu ti a man salva - I pl - e el andò via.» l?oce.  « E perchè tante diligenze? 11 i poteri e gli averlo a man salva ovunque volesse?.» Segn. parla del fratricidio di Cal no .  « Vedendo il caso Ill ! I limiti e li - . V - il era vinta della mano Nerone era spacciat . » I)av.« Tutti studiava lisi di Ig Il: i rl I se non vincerli della mano. » Cesari.  « e il buon Gesù Maestro utili per il pa le, e ilppelo, e così bene disse tulle le tavole, e lo ile dall'una mano e dall'altra a coloro che gli erano più presso. » (. . V: il 1. 9ti!)  « Va', gli disse dalla mano dritta d ' s dica, ed egii andò dalla mano sinistra. Iº, re  « Così tornava per 'o cerchio t. 4 r . Da ogni mano, all'apposito punto.»  Dante Inf. 7, 32 970)  « Così duo spirti, l'uno all'allro chili,  « Ragionava ll di Intº ivi a man dritta  « Poi fer li visi, per dirmi, supini.» Dante. l'urg. 14.'(o)upds popuSIs Inb) ooogI v'o.IlIO Qpunu II “lumi ollop paol pp “u Au ICICIe II º oul o uutlop tº | I nuovi ed estro el l - Il  -IV » - 'lue AoN « ossip o :ppp) Non ſi pl), li our il pl), l' op.elp outdooo!!) Iosso l\ » sslo I sl. Il l is o ollo llo, li eICI o zUIo, Iolel « OI.).otº. I | ottili Il 1 ls 5  -opupuotu o “ollo)lo. o) n. il film l u n t al I ti Ip (in on ott oss, il o » : IIus o otodlam oliil Ip le oumi in l 'oupu Inl. -0p3 uol.IIUISIS plssol.o.ool. III our li lp i pp o II. In po 'pso.o) on li  tod o p oumul lo), ti : opoit | o olistino ti il litis oi ri: - red o o Tupou Ituo) e olltils o u? o una o lo)). Il 2n ils . . . . N  (pupoIV) optio. Il sip I n. p oso.Iotti: o s -oI) Ip Isopu ellu.Il 'tele i cd in 51 | tell, il lil III o II l ' op opulooos II oz.Io un Ip Ipniri, il ti mid o Iod : II o II: il onpoque ouuoi luis oumu lp tou, l oum il trito.I  lollflot ſpum il : uoſol) l) lt 1) II l lº fu i pup II t, l. 1 , l ' ul, N li pill) I -.0 l 'll 30 l) il pul) lt.)() () 'l l : il 2 l. N S I. W N il p pli) II cºl l ’s  ..o): I.).o: ls o “al IpUIoA Ip o Ille.it | | | | | | te, Ip o netto e l our, il tool , pi). IOI QuoopUIo,oos Isso od li elil I un ul . l I, pp .I : ) « oupul pl oood un lap. tifi oil o sotto ll op.  pddos uoi o! Io e,op is , l lo -ſim :(usu ) « oum il plm lui o il  ulson lì Ip o] Iod o [op e ti º lo utI UIou ott.Ia:S Ip oso - It?, Ilo) dolo) olim il mo) molti i pl . ) : l o il lo ſi un lp : i -lad pl app :(Utlopl) oum lti li lui il 'lo. I pps : s i lo) -ulo plm luput ollo. Il N :ol n. ll o in lui lo pu Inl si .lol : :: - -souloootlo otIIIss.Io.A .Iod o letti i l o, on i lou , il miti il : msoo mun oumu to. I p.), o) , mi : ps spel up it I pi : oss. I lupu ol o toam :o)pſi.o) ll put , l . . ) :p) spel il lunni , l -IIu.IoqII o Insn pſ up) o umi p) , p : s e -ed IuI I] Iolod lp output pluti il 1 ol ss (I -od) oumtl ul .lo, m : In Ir) our li mi i nomi o l oil..I l 5, so uotp o[.Inq UIoN ) Tn1) o un mit ti , i no 1 o s - Ied II5o au » – ollu. I Il o v . Id e il pil un omone: i -oq IIosnI.I n el IIIquº plssolo. ,ol.) un omi piu pitono i p i ns o ai -nole uzUIos) olon lupul p : olio: rºns e o os “Il p . I ºIIe aolo) oum.olm,p ou put il o al piu . l) o is i  a i  ) I ll , , 1 ) N N, i : ls,  - TeInzza) ' uo) lupu opm o.lu, , , losso : ss s IlTOUI e ouput ul oumu lp o Ioi o is I, opIV -- o, epi in pu Intro3 o otto Inpulition i volti, oros Ip II o un p on pu p . “mIIadno nun III olio novo Iorio ſi o IIIod s our in un ou put np “oumtl p on pnti p : Io I Il tº - il vi:.) e p), il -issmu.out o Issoptions o I , Ill.) o 5 - -1)ll,9lll :(o)uo III el.oIII).In n our li in e ss « ouml5 ml o unl ſi u mu . . . . . . . . . . l IV fi , l ' li' in  :(IoI, I « IoIIIn IIfop oi 15 º oliº olpoul “olzIpn15 solo emb lp e los I, -on T ) : opcIt II e a 1. o un triplº : It: [.Ied ſoup oi lotte o lesn po o li li so I I I s | | | |  Oue IAI  eooA e le emoN  !): ſi  - (i  I :)(i967 – Questo venire a mano o alle mani significa capitare, occor rerº, scontrarsi, non renire in potere come negli esempi del primo gruppo.  968 – Lerare la mano ad alcuno significa sottrarsi all'obbedienza, usurparne l'autorità, comandare in sua vece. (Gherardini). In senso analogo dicesi pigliar la mano, cioè non curar più il fl'eno, ed anche guadagna la mano.  969 – Nola singolare costruzione, l 970 - Ci è tanto da destra che da sinistra. Dicesi anche (v. ap  l'ºssº e con egual sigili caſo, ad ogni mano, a mano de Sl r(t, a mano sinistra.  N etto  E' un agge livº e significa pulito, se ilza macchia o lordura ed anche buono, senza risio o magagna, leale, schietto. E però dicesi: coscenza nella. « () dignitosa coscienza, e nella Colle l'è picciol fallo amaro Inol'so! » I alle º I l'allava con nella coscienza ogni negoziuccio ». Fr. Giord. ; di mºlta rila a liv. M.: animo nello, ed intero ». M. V. ecc. Ma si usa altresì a modo di avverbio, e talora anche sostantivamente. Si notino tra l'altro, le forme seguenti:  Averla netta, andarne netto, passarla metta. « Non ebbono netta del tutto l'avventurosa vi torla.» M. Vil. « Niuno ne andò così netto che non piangesse qualcuno.» Dav.  Uscirne netto opp. uscirne al pullo, in do toscano – Farla netta 980) « Io mi credeva d'averla fatta netta di que la vesſa, e aveva la se... » Fiel'enz.  Coglierla netta. « Io non vo' che la colghino così netta », Ambr. Giuocar netto (cioè con lealta, senza frode, ed anche andar call'o, e simili) – Mettere in netto 981, --- Tagliar di netto, portar, gittar, saltar, far chec chessia di netto i cioè con precisi rie, interamente affatto, in un tratto), « E con -sa sospintolsi d'addosso, di netto col capo innanzi il gettò ». Bocc.« E rimessa la briglia al suo giannetto, Come un pardo, saltovvi su di « netto ». Malm.« Senza certa violenza pare non si possano recidere di netto certe grandi | « quistioni ». Tomm.  Il netto di una cosa il chiaro, il fatto preciso).  Note alla voce Netto  980 – Significa in generale fare un male con garbo senza farsi scor gere. l)icesi anche larla pulita, farle pulite.  981 – Meglio il modo lo scano: mettere al pulito.  Fetto  L'uso della voce petto nel traslato non è oggidì sì noto e comune che non sia profittevole proporne lo studio con alcuni esempi. E' dizione eletta e si adopera a denotare l'interno dell'animo, la regione del cuore, la stanza degli affetti e dei l ensieri, ed anche l'intero uomo, la sua persona, la sua corporatura quasi fortezza e baluardo del suo essere.  « Camminando adunque l'abate al quale nulove cose si volgean per lo « petto del veduto Alessandro ». I3o .« Non altrimenti che un giovanetto, quelle nel maturo petto ricevo te ». 20 cc.« ()nde dì e notte si rinversa Il gran desio, per isfogare l petto, Che for a Ina tien del variato aspetto ». lPetr.« Era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli « uomini, e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava ». Bocc. « ....benchè tu non se' savio nè fosti da quell'ora in quà, che tu ti la « Sciasti nel petto entrare il maligno spirito della gelosia ». Bocc. « Ogni indugio, ogni vità disgombri il vostro petto ». Fier. « E troppo mi dispiacciono alcuni mari'i, che si consigliano colle mo « gli, nè sanno serbarsi nel petto alcun secreto ». Pandolf.« Ma pria vorrei, che mettessi ad effetto Quella impresa per me, che, « come sai, Per comandarti In'ho serbata in petto ». Bern. Orl . (985)  « Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avean contristati, questa « ultima di Dioneo le fece le tarili o ridere.... che » Boce,  « Le miserie degli infelici anni) l'i raccontate non che a Voi, donne, Ina « a me hanno già contristati gli occhi e 'i petto ». Bocc.  « Agli occhi miei ricominciò diletlo Tosto ch'i uscii fuor dell'aura morta  Che In'avea contristati gli occhi e 'l petto ». I)ante (986).  º . . . . . ma i loro petti empire di far là da poter disputare del bene... ». Da V. « Come innesterebbe principi di legge in petti che.....? » Bart.  « ... e luogo prestarvi da potere la sapienza dei vostri petti, e la dottrina « e l'eloquenza diffondere ». D: V. « Arnol di I) io, che avvampagli dentro al petto ». Seg Il. Avvampare il petto d'indignazi (rnº ». Seg Il. « Ammollire gl'iniqui petti ». Barl. « E voi Cristian I ll , Il avete petto (la la re un'egual protesta in 'Ocſe all « cora più scellerate, piu sozze, piu abbori inevoli? » Segn.  º ...... allora sì che Dio non potè contenere l'ira nel petto.... ». Ces.  « Ma son del cerchio, ove son gli occhi casti Di Marzia tua, che n Vista ancor ti prega, O santo petto, che per tua la tegni ». I)ante.  Si notino da ultimo lo seguenti li laniere , Stare a petto. « Stettono arringati l'una schiera a petto all'altra buona pezza ». G. Vill. « facilissimo a risentirsi di ogni emulo, che pretenda di stargli a petto ». Segn.« scusandosi col dire che non aveva gente di stargli a petto ». GiaInb.  Pigliare a petto checchessia (cioè impegnarsi in checchessia con prelnura) – Mettere a petto confron a re A petto dirimpetto, a paragone, a com parazione di). « ed avevanvi fatto a petto il Castello del Montale ». G. Vill. « Egli non ha in questa terra medico che s'intenda d'orina d'asino, a « petto a costui o. Boec. « Nè..... ma Volse a petto a lui se Inlorare un oro ». l)a V. « Ma tutte l'allegrezze furono nulla a petto a quando vide la fanciulla » Bocc.« Tutte le pene di questo mondo sono niente a petto che loro (i demoni) a vedere ». Vit. S. Girol. trad. a petto a questa cosa: vedere i demoni).Note alla voce Petto  985 – Il tedesco nel parlar famigliare adopera anch'esso la nostra voce petto e dice: Ich habe in petto ect. per esprimere anch'e gli che si serve in pello o in animo di far checchessia. 986 – Nola eglalissima dizione di I)anle e I3occaccio : Contristare gli occhi e 'l petto.  Fartito (sost)  Il significato dell'uso, secondo il quale cioè ques'a voce è sulla boc ca di tutti, è quello di palle, frazione ed anche di occasione parlandosi di matrimonio o cosa simile. Ma è il sala da buoni scrittori anche diver samente, a conserlo ci è di altre voci e ad esprimere molte altre idee, e piacemi di allegarne alcuni esempi non avendole queste forme, secondo pare a ine, il volgare linguaggio, e al che chi sa di lettere, non essendone per avventura ben sicuro, leggi e vedrai come alcune volte questa voce partito ha senso di modo, guisa, el al re di patto condizione, conven sione, accordo, stato, disposizione d'animo, e lalora denota risoluzione, determinazione, tal altra termine, pericolo, cimento ecc. ecc.  e biasimarongii forte ciò, che egli voleva fare; e d'altra parte fecero a dire a Giglinozzo Saullo, che a niun partito attendesse alle parole di Pie o tro, perciocchè sel facesse, ma per amico, nè per paren e l'avrebbe ». Boce.  a Parendogli in ogni altra cosa si del tutto esser divisato, che esser da « lei riconosciuta a niun partito credeva . Doce.  « Ma il mulo ora da questa parte della via, ed 'a da quella attraver « sandosi, e lalvolta indietro tornando, per niun partito passar volea.» Bocc.  “ . . . . . . . . . . ma egli a niun partito s'indusse a compiacerne io ». Bart. (990)  « In verita, madol, na, di vol in'incresce, che io vi veggio a questo partito a perder l'anima ». Boce. 991;  a Noi abbiamo da fatti suoi pessimo partito alle mani ». Bocc.  a....chè in verità vi dico che se ll dio mi mettesse al partito, piuttosto « elegger l la povera Ionica di Paolo e ' Ineriti suoi, che le porpore del re co' « redini suoi ». Cavalca (cioè mi desse la facolta di eleggere tra due cose l'uma). « Di S.Gregorio si legge, che posto al partito per un piccolo suo pec « cato, quale voleva innanzi, o essere sempre infermo o in avversità, o « stare tre dì in purgatorio, elesse piuttosto d'ossere sempre infermo ». Ca Valca.  « E così tra l sì, e 'l no vinse il partito, che non gliel darebbe ». Nov. anl. « Ma a cagi n che di questo li stro partito n li l'Inter venisse scandalo e alcuno, egli sarebbe liere - il 1 he tu ti guardassi da una cosa, che...» Fie renZ.« Laonde egli si delllier , il tutto e pi UI | o di pigliarvi su qualche « partito; ed ebbe : p ir, e con lIn – Imbe, o h el a dottore in legge.» Fierenz. « Ma dei piu cattivi parti bisogna pigliare il migliore ». Fierenz. « S'avvisò di voler prima vedere e li tosse, e p i prender partito ». Borr. « E pc:nsando seco lei in lo, prese per partito di volere quesì a morte ». Bocc.« Prese per partito di voler e in tempo e -se e appresso ad Alfonso Re « d'Ispagna ». Bocc. 99?« E sentivasi si forte il lo! ..e, l'e..a sl Imav i pure lnorile, e non sa peva la Maddalena che partito pigliarsi ». (..aval a.  a Adunque a cosi fatto partito il folle amore di Rest Ignolie e l'ira della Nilletta, se collº llls - el'o e il 1 ll 1 ll l n. 13 -.  ((  « Ora approssima in dosi Impo cle (i e su lov, a noi in e per la salute Il Ost l'ºl, e....... gli Srl ii) e F vedeva l'1-1 : mal partito, per blè 'll tta la « gente credeva a llli.... . ( il 1 l.  ſt  a .... dell'anno li . ll irl I e I e - il li fili l'a ll III lo. . lle al partito a m'ha recata che | Il lill V li ». l 3 993  º . . . . . ed essi tutti e tre a Firenze, il veli lo dirilenti, il to a qual partito gli a avesse lo sconcio spendere altra vi lta recati, non ostante che in famiglia a tutti venuti fossero piu le mai tralocchevolmente spendevano. » Bocc.  « Per io chè se io veli di al II li volessi, riglli ridando a che partito tll po a nesti l'anima Inia, la tua loli lili basterebbe ». Bo .  Si irolillo da Illino lº ſi rime: Mettere il partito (904) « Pilato termè, ma pur, vola i dol liberare, lo ritenne, e fece mettere il par e tito cui eglino volessero liberare in quella l'asqua, o (i sti o 13:ll'abba ch'era « ladro ». Cavalca.  Andare a partito Mandare a partito Mettere il cervello a partito. « E poi quel, che per i consiglio si vince - e, andava a partito ai consiglio « delle capitudini dell'alli maggiori ». G. Vill.« Con codesto tuo discorso tu II li hai messo il cervello a partito ». Fièrenz. « Coss oro han messomi il cervello a partito ». Amh. - - -Note alla voce Partito  990 – A miun partito, per nium pa tito è modo avverbiale di frequen tissimo uso, e vale in niun modo, per niun verso, a niun pat lo, keinesu egs, un keinem Preis.  991 – cioè: con questa maniera di agire, su questa ria, a tal termine, Slºtto, disposizione d'animo, e simili. Parla di una che si con fessa e non è punto disposta a cessare i peccati.  º2 - Nolale queste maniere: prendere partito, pigliarvi su qualche partito, prendere per partito. Coif. Verbo Prendere par. 1. Capitolo precedente. Simile quello del proverbio: «Preso il par tito cessato l'aſalino, Palafſ – a partito preso è forma av Verbiale e vale analogamello, le maniere sudelte, pensata mente, dele, minalamente. « Per cogliere i nostri a partito pre No, e a V alllaggio loro o, M. V ill.  993 - Era inferna.  994 – Non mi pare al lutto sino in dell'altro: mettere, mandare a partito, cioè porre in deliberazione,  Fºarte  Voglionsi notare di questa voce i nodi seguenti:  Salutare, dire, fare da parte di..., per parte di.... (995)  « Con lieto Vir-o salutatigli, lo ro a loro disposizione fe” malli Testa, e pre « gogli per parte di tutti che.... » Bocc.  « Signore, io mando a V. M. il signor Amalrile Rucella, perchè le faccia a reverenza da parte mia ». C sn.  « V. S. gli dica da parte mia, che se non si fa forza, diventerà ipondria e co ». Red. lett.  Dalla parte di.... - - Dalla parte mia, sua... v:ale dal conto mio, dal inio lato. Sono frasi quasi di modestia, o almeno di riserva. Tom.).  a Egli era dalla sua parte presſo i d V i), ch'ella irli comandasse ». I3', cº.« Perchè noi dalla parte nostra saremo sempre e pronti e presti». Cas. lett.  Lasciar da parte – Porre da parte « Si pone o si mette da parte per ripor itare, per serbare, per discernere , Tomm., ed anche per non farne conto, non farne cap ale . « Ma lasciando questo da parte se io ci elº -si...... » H (-Illb. 996 « Lasciando l' altre ragioni da parte una - la basti per tutte . Borgh. Tosr. A questo do . . I nn l r noi, posti da parte tu! l i t . In di 1, st i . Va: lli.  Trar da parte a pmi te – Ghia mar da parte – Star da parte in disp :te  – Tener, fare a parte,  Star da parte vale non confondersi con altri.  Tirar a parte è alline a lirar in disparte.  Si dirà : tener conto a parte, far cucina a parte ecc. e non altrimenti.  a Tratto Pirro da parte, quinto seppe il mie li , l' . IIIb:is glata gli fece di l a Slla donna ». Bo ,  « Chiamate i altre (lo! llle da una par c... »l 3o .  « Quello che già è passato si sta da parte tra le cose sicure ». Varchi.  a Tris - stando i in dispart ..... o I Piety'.  a Cl teneva il flz , li i parte , I3 r. ll ! Il.  Prendere pigliare, terra re in buona, in mala parte ecc. I) e lui lo :li e 1 : lt i tºv - '' i , ve: t 'i nt i presi in mala parte, e non in buon grado, dl-so un inti , li' gli gli porgeva colla le stri, l'a.tro colla  a sinistra prendeva gli o. Salv.  Note alla voce  Parte 995 – «Diremo: fategli una visita da parte mia, meglio che a nome mio .» Tommaseo.906 – E' inaliera simile all'altra : lasciar sta i c. V. Verloo Lasciare  « Lasciar da parte è più scelto di lasciar da banda . Tolim.Storna c co  E' voce usatissima anche nel famigliare linguaggio, e tanto nel pro prio che nel traslato, cioè per indignazione, commozione e simili.  Ricordo alcuni modi e l'asterà :  Dare di stomaco il cibo recello, i militarlo Fare, dire.... con istomaco. « Onde i veri padri con grande stormaco ricorrono al senato ». I)av. « (..he da Ine si noill Illi, noi con istomaco o. Call.  Fare stomaco, venire a stomaco, avere a stomaco. « I no stile da fare si omaco a tutti gli animi i livn contornati ». Giuber, 1. « Non si lesse il testamento, per le al popolo non facesse stonaco l'in a giuria e l'odio dell'aver i là ( p - o al ligliuolo il figliastro ». I) a V. « La sofisteria, e l'incivili a li quest'uomo è venuta a stomaco alla gente ». Caro.Fare sopra stomaco a male in cor) – Esser contra stomaco (contra voglia).« Io vi dò questa commissione in al volentieri perchè so che v'è contra « stomaco, come a me » (in o. n il vi v 1 a Versl .a Tengan per me e do i miuse, conte di Virgilio, tra quelle sagre om « bre e fontane, fuori di solle il l cul e e mi sta di far cose tutto di contra sto « maco, libero da ci rte lla e va ill: e Irla ». I), i Vanz.« Mi lascio trasporta a questa a Iv: us inza, ancora che gli voglia « Inale e lo faccia sopra stomaco ». ( il  NA erso  Tutti sanno che ci sa è il re so in poesia, il verso sciolto ecc., il verso degli uccelli Gli uccelli, su per gli verdi rami cantandº piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza , l'occ. « E gli augelli incominciar lor rersi .» Pelr. : ed è altresi comune ad ogni penna l'uso vario sia del la preposizione verso, verso di..... l' 'No ! ) ..... che del sostant. verso per banda o palle.  « Questa è la cagione che ſa che gli scrittori d'agricoltura concedono che per un verso le piante si pongono più presso che per altro .» Vatt, Colt). E così va intesa la forma pure dell'uso: pigliare una cosa per suo trerso.Verso per riga, linea, l'ha tra l'altri il Caro. « Scrivetemi solo un rerso clie le V, slle cose valli lelle .  Ma ciò non è tullo. La v e rcrso, ed è quella delle forme qui appres so, si adopera alcol a a sigllil: l'e : manici di modo, ria modus, ratio).  Per Cgni verso –- Per mium verso - andare per un medesimo, per un altro verso. \ niIn: ' di e tre i ri . 11,1 per cgn, mai verso . Iº lº I. (.: s. Ne pilò per verso alcun l era -i a el re li oi i to; a sfa l I mali . Varell. El'col.Andando la cosa Itta via per un medesimo verso gli Is g : va pe: lo; za li: rtir di lllel il 1 g . . . FI el'eliz. - e ( II), si vi: il 1 l'  II it : i 1, se vanno verso . (ia!. Si-t. l'er 1:1 r.- 'i . . v . . . . . . . . . . . . . . - verso i cui il non vi fu mai ». I 3 l': 1. () rl.  Trovar verso, ( ) ribe, II; s -. 1 ( orv . . . - se i trovai 9 verSc 1Z. I 11:) . mi ri . ll It - ir: - si rl: . Mutar verso. « I l in un li versa i Z.  Andare a verei andargli al versc.  Q). l io. ... ci segui i aridare ai versi, - l'ill Il '11 l . . . . . ll :: V . . . . .i i-silli i tii : il il 1 che lor non vannº a ver, i il lo  « S: si orz: v. li :: Isili andarle ai versa, e ! : I)1s, il l. - ir.A l?IPENI) ICE AI, CAPIT() ILO SECONDO  Di alcune parole ad uso e valore di voci e parti del periodo collegative e talora anche integrative.  E e n e – NA1 a 1 e  al 13 EN E. lasci º si va il riavvi i bio: giustamente, acconcia nºn le , con la mente, l'ulo non le , sicuramente e ecc., ed anche le no le Irasi: ben bene, il no per bene di garbo , la coro fallo per bene, or bene, bene sta, condurre a bene a lilot line ecc..., e mi piace di offrir li al II li esempi in cui bene e la cosa piu o meno riempiliva che l'ene il s. la sicci esce lo si e o , e tiene alcuni poco del tedesco  li li l. (5(i  Ma egli Iul bene, qui intlin [ue s elevatissili , proporzionato alla lama e Vita di Ill il s'e ll 11 l' e st . l l ): l 11/.Nel l bene i l . . a l In, io che | o-s, ! ». ! 3:1 t.MI,a con i ti I t'l spes- , a lirato? o, disse S 1 (i appelletto, contesto e vi dico io bene, che io lo tiroll o spesso la II l3 , r.a Egli e qua un trialv lo uomo, le trili i l: - l alo a l sa º il ben cento lior ºli d'olo a. lº . Ma se vi pi e, io o le insegnero bene tutta n. Boc . Voi - i pete bene il legnaiuolo, dirimpelto, al quale era l'area.» Bocr'. \ te sta ora dal ni ben da 11 g 1:1 re, ed io a te ben da bere». I 3 r. º lll gli da ra . Il mito lei e la la l la.Si le, e visti di tratta e lui - tra i 1. I l incn ill - I l n; l)av: 'lz. Bene i ll vel , che .... l o .Bene e vero, di vo tra Irle, se lº tibel i lido li nº i lorº liti o, ben è vero a che quella grandine di coli e lini e di li tir e il 1 o nlinua cosi alla distesa I r lil, a l'opie 1. ManzBene e il vel . . . he il l e le : :i riti - nte d'Illi: lo za sull e iol e, e la a ! :ilta, il ri il 1 e 1 il 1 l. I lirt 'nzi e, il vetl, i ver li ille, di lora a ple a rlo. , ( art.e e appresso gli dimorava una serpa, la quale bene spesso gli divorava i figliuoli poichè erano grandicelli ». Fi. I ciz.a vomita lo slla - Il perba lº stermini: i i ben il V e V el - i :n corso  a lanciato senza un l I l tar di II lezzo ». ( es.b. M.Al.E. – Tulli sanno che male è predi alo di tutto ciò che è coll trari, il bilono e al bene: in ſei mili, pena, Iorli, il , inisſallo, danno di sgrazia, lenſazi ne dolorosa e c... Si li e al ra e volgarissime le frasi : a rer a male, a malati e di male, a re e il malanno e l'uscio adosso (lina di sgrazia dopo l'all ecc. ecc. Via li li so . I rile dei moderni o volgari scril lo i c li si a la vo male, Isi Ina in ſilella forma, vuoi di aggettivo, vuoi di avverbio, che nei seguirli i esempi. Leggili, rileggili e fa di sentir - lie la forza e il l non so clie di vago e per gl II , che è il lilà di così d'arti l'isl ic . (li el II zi, le elegi Ssic li .  a .. . st V : l III mal conceito fuoco. I 3 . «.... :) . Il coll mal viso - Il l I am li ri- -e . l . « .... il rinai .. Se; (iappa letto i lic - i pm rai 1 , si , l ma le agiato el' 1 ( -a del II lo; lidº , o. I 3 ) .maie agiato l' –, li la a gil: i il .. 11 , l Inl , o male agiato esse, e male ,  pe . lli , a - io , e - : : : a male i:n bocca si ,  vitili era, o e , l 3:1 . I 1 A.  « c' 11 se l' ' , male : l e \ Il ..li , lili i lo nia? .... ( , l . Il n. volt': li la III , i mal piglio , l .ll è lie: \ e le colli e iº sº io - , il V rºtale lili, i . . » I el'eºlz.Il ragi la I ( l ai : le maie a lo)ia si convenesse . l . . .chi v e iilipov rito: chi vi : ini: i il a , l . . i: ti : ti l i male arrivati )). I .a do III', nd Indo pier lorº i val, l l' , l ' I mal degno n. 1 ss , loſ nig ill: I li .Voi sie ( o grilli vecchio ( pole le male durar fatica , l ' , di liri a III nte, l'8 ('.  e I, il III lo zi le : i riz liz li mai -; l I e  a :I III lil (i: /:1 e n. la t al I ): v. lll. “ . . . . . rip, ta io a lor lui gli le male accozzate i - V a essere male in essere di d . Il l ri, li -: li i l ' : . . l 3. l l'I. .... poi ho li ſu Io!Io avanti pre o di mal talento i lo! « parole molto lis o eo. 13ar [.. e .... tutto pe o, se male a me non ne pare .. l 3 l. e Onde pa , che male si a latino al vstro lº so , si fa i lma iº e d'ill « si fa ». Si li.a e finalmente la gatta gli pose la io a lica a iº -- , e non lo 's io i ri vare alla male abbandonata e sta ». ( i 22. Vi esort era il 10 al 1- e' di vi con più 1 ri') o quando ancor vi conosca a l male in gambe ». Si . n. 8s.  ( S : - I :ile i siti: il ma! - be il s . . i: e i nº, lo re  I ma le :nctiuisi o V i S:s lº i l: i  Note alle voci  Bene - Male  (iſ , 1 , di bello - con i | II e, e lipiello di forza, è noto e volgi si li esel i pi e me ne passo: l' ' belle sei il le li i l l'illmo all'allro ». 13 cc ( li l: ss e le liti in tv l' e la lle legare in anella e... I V l'elol) cli, l V ! ss . 13 o .Noi la frase: esse i lr me (ni le li alcuno: le pallel'elmo al i pi lo lingua  (i, II, i posſo in li si ma le ali a 1, del 13a l' oli, del Gozzi, e di tali li : ll is, del 13occaccio, e come i g, e l' ai c . Il riso le li ell'avili, la V eliti el'Iluissero sponta e dalla lingia e dalla per le lo; e inalier e del glorioso tre  i º  ( S Sla i bene, male in gambe è I l is li fissili ira, ma l'ho volli a poi le pol chè si vegga quali male si ali ngano certi autori di gi il nome, i rial: ci si ali i lalora certe frasi, l li trial lo scadille, snoss , alli e, siccome appunto il male il disco so, e il li s'avv goli che pur vivono nella lin gli col nulle.  N/I a i  l 'avverini , ma , el: vale più che il latino unque n. e li il cli, sia con il il S. liv e il l li, lui li i maestri di lin gli IPI Il v'ha del con la I - i : il 13 irl li, esempi, e non | . lli al clic so, ci li e la leg ai la lil loro e la non si sia rolla o.  lº si rip; il lilli. I il silio il I ti: le e, già gran lenipo, stral ci gidi (lelilli- e mai a V cl sels , l'in alcun len o, e d'in nessun empo; e lei l'uno o dell'all ' , cliave e indizio non solo I! I lil si le lilla legil'i; il cos! i le  Alti i basta ad ill riderlo il si mai e cºsì dicasi delle molle \ lo io e con i renda e allo studioso  l .  il li igil: clic ci velisso Inai si lill egli allori fonti e mae l | |  –– 281 –  stri di lingili ilaiii . Il II ci del e di averne senza più conseguito il 1 ello scultri, i si p . . si , Direttorio, al quale più  che le definizio i l sl 1: i il [.. assioli , lei relalvi e semi pi Ne li Ilo (ſi alcºli - anche di qlles la mi ai -, i lili li diranno in Irla: 'e vi gie li ti li l . . i li' ci li - Illia di II li ignaro delle classiche venisſà, lo si pel lo i c' rss , i indi, sia cli e Villga in al  cºn l 'mi pi . . . . ll il 'Nsui le nip . S . . . . . . . . . . . roll e li ll () . o per arren lui ci. i ! iº i l i cli, si mi, ti se il l i .  intellsivo della s . ssi ma mi tiro i si,  a Pe! l III list, 1 l g io, i tic, l l .  si mai nascesse. . I 3 , i . C. ll pill IIIa li e p. mai drappi ! -- dialli , IB, .  m  Coln in 1 il i i il mai ! : esse  MI, sl l'a ll  il Ver mai . I 3 , . .  “ . . . . . i isl - se mai i piaccia , ti con i le itto i pal.11 st: Il lit - . . . . più che mai i - a che VoIIIeri le spalle, a II . 13o . .E se egli avvi e che ti mai vi Il « che..... » I30 . e I)isse Fer Ildo: () li mai . ll Ill 2 a I)i - se il III lil SI, li Idilio V il . () Il l - - I l S I a mai, io sarò il III: gli 'Iri It , il l in I l . . 13 , .... l'av: elie | r in 1 e 3 - 1 r. ll più - che mai lº . E venivasi li rila lirlo ! ! oppo, i ve lº ſi tº e ! - ll gian: mai : , a connesse, e piang nel loi i riti , sop . . . . . . . . . . e sop a che n 1 - i poli ebbe dire . Cavill .  a... ma per certo i test i lia la sez/ i l che tu ci farai mai». . a Questo e i pili allo Stato li Itc 'igi ssi mai e lº I l . le quali fili o no e primi clie - , e le sei mai : l ill). Fl: assalti i al IIIa la... , l mai, i [.ra ti :lel cliore ». (iiil III l . e.... ed oli voi fel ci, il litori - e il -1 V , il lill a fa rii mai santi! . Sºgli. a Ed è possibil . che mai gli 11-: .  « . . quali lo In'a ci r. , ma andr: il 1 : : i pi che mai. - 1. « Mla l: Ve: i ti ti , i lil il gºl ! I mai e Cmpre.  « Se i II a i º  I)isse Nicostra [o: Maisi, i pizi - li lo i vi " lº i l II 30 U. a credeva, º ile - egli dieci anni Sempre mai ! ll - , a che ella mai :i cosi fatti novello : l il .  a Corne, disse Terondo, dunque so io, io in l ? Diss il 1 Mai31.  I 3 pt i'.  derili ti far sempre mai il i. I lil -Note alla voce IM ai  70 - Vive nei diale l'i: Come mai? ; è afflillo come mai, ecc.  ( li si voglia di si ill di gr. ss , ognun sel sa, ma gli esempi più che  le parole i cli, tris li rello so e vero significato della voce lia, a |iliale og  i è sl Irola o la le adolierala, che pur talvolta non sè ne abºsi o ti liori si lasci li il 1 orla non disdirebbe.  \li i e, : i fia l' - . / lia la tll ci ! ll li Ill'ai». l 3oni e . . I voi, il te: i ia questo ). l 'lei'.- - - - - | li i - li i si ve l fia il presente  º il tilli: i I  ! : )st l': l 'li l'tl  S. .. - 1:11 - I ll v;t , fin l v . . l 3o . .  le fia , 13 . Qui i fia ir: le l Sel lembre . Caro. l fia .... . I v .I! ! - , l ia suggel che ogni uomo sganni ». Ces. Dante) \ i li - lo ill go fia llº:i li fesl:i. , (iianl). ll ( : | | | l fia l e l'1 a 1 a:  perchè - º la piovana - . . n Il re deila t rra ». l)av. ! , lil: il - . . . . . . p le i, illi, e alle fia di loro, se  l' - I no ll v i l il 1 li i :''i . I l ' l  : i  .... le  St i t , i s .  i mi vo'il a sito dispe to lanni di chi fia la colpa? »  Se ll. V et cine e gli oli Illi i : l i tº  vi N ſia mai vero, il l .  Si i pil I: I: 1' i rp -  a io i vi prosperare? a non ºn l fia mai vero. » Segl). sul gio: li  l' osti i Ira d rupi scoscesi, che fia  iera ſºnº la nºn la l e in cima a titlei precipizii, a tracciare  sì belle prede . Segni.  non oltri , he pli il ... ma hi l - ve..a sino alla fine, quegli fia salvo ». Salviºli.N/1 e rc e  Non in senso di mercede, che se l'ha pur questo, ma in quello più co Illume e assai in list, il pp i classi, d'aiuto, di soccorsº, di grazia, di cor lesia, di merito, di pietà, misericordia, compassione ecc. vuolsi qui si diata la voce nei cº. I il quale non solo forma alla francese merci, o all'in glese mºrcy, 111 i clide e ci III , Illasi ad III in do si governa che nell'una e nell'all la lingua I e Iris a ragion d'esempio; merci, a la merci de.... se ne tre il la III er i cie.. : grand mri ci 1)ieu merci; o quest'altro: for mercy salvº': al lli e nºi ci o , e si o le medesime, cl e le Isale comune menſe dei nostri classici. Eccone alcuni esempi. 4.  a Marfe, lºro gridava mercè per Dio; e quanto poteva sa - il1stava: ma... ». HOC ('.“ . . . . . II e io ll li ll 'oi, i vostra mercè. lI loro de ll ' 'e volevate ». I30 ('. .... di e il Si r. le gran mercè, e che... ». Bocr'. ()r ecco clle veli le ( esil, e Lazzaro, gli andò incontro, e lil - sl tutto in to i ra, e ba io i sºli i pit li, dicendo e grida i lo: gli Into e, mercede a te ril: e º si ro, cli( ti - e' leg lì: i di V ( I lil alla casa dei servi Illo I. , ( a Valca 6; a Voi la vostra mercè a vel e il ' Il lili Vito ed io voglio oliora i vori. o I3 r. I Io pe ril o, il torn all i vostra mercè. , Borr. I 1 Dic mercè, e la vostra, io li io, che io il - i lel', i vi .... : la II o II a dosi a el l te, noi li per iniet e si i l i mercè di Dio, Irla consapevole della slia i degnita. » lº i rt.a .... io lli soli, condotto per tl, to il viaggio senza slo e felice le te. mercè del passo, dei sussidii, ecc. e , Caro.a E be: hi, quelle bastonato i fili o non Ini avessero fallo liscir di a passo, con quegli che oramai, la mercè di quel fanciullo, vi aveva fatto il callo. o Fierenz.« Non vi par che sarebbero stati auda i, presi Intuosi, protervi, e in dºg li a di quel perdono, che ri verono mercè la loro prontezza? Segiº.Questo e imbiò la in Egit o II il Vlosè di I l e --as-In, il divoto Illo « ma o, mercè di una sola predica dell'Ill lerno da lui - :llitti, Il lillitllll Ille « per accidente.» Sogli. a e gran mercè vostra che peggio non abbia fa ſto. » Bo . Chiede il 1o mercè a l)io per lo merito del pr omesso liberatore. Ces.Note alla voce  Mercè sserverai bella elissi, quand della preposizione per e quando del verbo essere – virtù del resto e proprietà non esclusiva  della V e nel cº, li la collllllle all ora ad altre, v. gl'. grazia, ne il o, col 1, sia e c. buona grazia costra : e tru vo, grazia d'Id duo, che io mi sono conserva lo ſtian lo più posso... » Pandolf.: merito l'assicIllita dei vostri stildi, ecc. ecc. – Conf. Elissi – IP: I l e l.N erai lili ancora come la c ligi inzione, notissima, merce chè, non è che un composto di mercè e di che. « Non pote lono essere preferiti, me cechº I ddio non si lascia adescar da doni . Seg.iti – Mercè a, ed anche nei cede a, è modo di ringraziare proprio del la litiglia italia, la.) - I fissi del segna as del non le I)i , dipendente da mercè ( tut I simile al francese I)i i merci . La qual omissione però i li ha pºi il luogo quando il no di l)io si posponga a mercè : Itri lire le velini dore ne è l'Iddio e di questa gentil don li scali Io sono . I3, c. I li li ho bisogno di sue cose, rei li la mercè di Ilio, e il l marito mio, io ho tante borse, e alle cillole, ch'io V e l'alloghel ei elillo ». l?occ.  Fºurnto  E sl il . e lui le avverlio viene la voce punto assai volte º : ri: i vi il ci ills e.  I e - n 11 lissili , lira gli eserº i pi li animi niscano quando e come me gli Ils: il tre, si ch il per i clo, lerivi grazia e buon sapore di eleganza. I pil con i col sos intivo soli : essere in punto in assello, in accon io il precipilo, in istalo. grado e nelle re in punto (cioè all'ordine: nellere al punto aizzare, cimentare con il lesia, l'uomro perchè fac cia.... in buon punto opportunali e le at buon punto: al mal punto; dare nel punto: di punto in bianco all'improvviso : di lui lo punto ecc. ecc.  I vverbio ci fornisce: a ln di che legano con maggior intelnsilà, li r es.: punto, punto; nè punlo nè poco; punto nulla e qui tiene alquan Io del point dei francesi); b) un certo grazioso riempitivo che torna ad a lui un lo; un nonnulla ecc. ecc. . . .  Le previsioni siano in punto a lor tempo.» Ci sa, Piuttosto tre cavalli buoni, grassi e in punto, che qui il tro affannati e a Inale forniti.» IPandolf.« Navi lornite di tutto punto, o Si Lerdonali.  « In mal punto si ori emino il mare ondoso.» Menzini.  “ Dunque, ripiglio I rail all' inte (i riso, messo cosi al punto.» Mla zoni,  « Cosi già in punto d'ogni cosa bisognevol a qil passaggio, prima di « Inettersi in mare, il dl IIIessa.» Bal'..  « Alcuni di essi, parte torchi di mia e, pari opp. e-si da, e ritiche, ſu « l'oil in punto di lasciarvi la vita. 13a I.  .... coli 11el (i imporre si sl:  e- si va in te sul punto da i convenevole.  ... e stalli , il ciò tintº sul punto della Cavaileria che.... , 9 , i 3 art. .... affinche', dove gli ne venisse Euan putil o al n o in strasse. o Bºri. º volea dire, secondo - i no 11 i 1 , , , li : soli iti e litta a ce ngiura « era in punto. l)av.« Cento e piu loliiiiii li quel lite, li i luro , i ti o al lav.o, e , Inque  « di le filsle e il Cat Ir furc no in punio di navigare i IlilitIero, o l a v. e Miille navi, lurono las, i voli lº stalli 1 e ! il. . . . in punto.» I)ava inz.  le Illali e se li ril s gloiro, altri li a gr . - era punto di rievolezza. Boce. « Punto Inoll I Il l: II le gital (ial s. i  «Qllegii che hº illio con il prat: 11 le li: Il to punto nè fiore. SI). Se n. l'ist. « Punto del mcndo il 11 poi ea posare il ll. Il li otto. o I i  I ti. « All re ragioni di non punto men grave il il 1 , lizi.» l?art.  a e lei si riglia e li rvirill d . I 1111, si lire, i 1. I tigli: il re - se le punto  « nulla sentisse del bar -o il 1 e il 1 olii Illesi , l 'empio. , 13 art.  a che punto ch'un tral, li. I o v sta a igi si trova in l.1 o ſu il lie la lite « in boc.  a. » Cal')  « Moltº è la plance. . .. . ll 1 11:1 punto di ieri interni o... l ' i -. « S Voi mi volete punto di bene, il 1 e il v; 1 . . . . . B . . . Sc Il legna illolo e punto abile. I ... Il D ... - il l .« Con l'e rabbuia punto, lo sl 1 l o il il i li. « Ma no: percio che ino:o -aio i lil i : li , sa p.ti, i 3 malteschi, le  « pronti il d urlneggia 1 e l - la li: i « a finire lº ll'Illia delle illa', o li co . . e. , li; . . . . . si l .l.i.« loli sara forse gl .lli la o, ll il Il l il 'cloro. Cili punta 1 I li le « d'umanità.» Seg ll.a El io 1 orno a dirvi co; i pl º tes, e del Si io che li punto confida « ll (ille Sile forza dov l'à ( il dere. » Stg , ()gni donna che punto bella 1 -se vol 1. l) I V. E nn la di ea. ch'e g: ai le pericolo a.i II, II, scprasſare punto nella « immaginazione, qua l.do gli vi .. li . a Ine: te l zza d'ill felillila, a pe: occhiº soprastandovi punte ri le volle a l livi rie, ch'ezi , i lio un'anima « molto in onda in castità, le ril ma ne per os - l II l i lilla.» ( 1 Valia. a (iò sarebbe, da re a discutere la Legge di crisi la ni a Sriali lasci dolo a e a Cicondono a quaii, ve ella pa in punti necevole al lo le pillol!: o a degi strati, agevolmen e riuscirà d'indurre il (.ali - a Irla a disdire al Vil a lela la grazia e col finarlo fuor del Giappone, a Bart.Note alla voce  Punto  i – Punlo, nullat, un non nulla, niente, sono talvolta perfetti si li lilli, e di till inedesillo, IIS , e ci si rilai ille. Conſ. Parle I. Cap. 3.7S Sinile: vesti di punto. I rili o di lui lo punto; armato (º ('tº.79 -– Nola il modo : stare sul pil n lo le l con rene role, dell'onorevole, della cui l'alleria ecc.St – ci è punto punto, li ill. ; II l Il significato di punto, niente, un non nulla ecc. Il 1 si il 1 , il ppo gli antichi, e ha sli la nota frase di Danie: Peli a orinai per le s'hai jior d'in gegno, Qual lo divenni! SIII le litel del Manzoni: Ma di che i julo gli p lesse esser il Ila o al l: che già brillo ricorre Va al fiasco per l'Irnell e i il cerv ello, il tale circostanza, chi la lio di se uno lo dica . E i lichi il sito quale intensivo di non : « I giovani e maggiori e le I compagni di Celso, non si s not guti o no ! io e, anzi li i più i dirali contro la plebe....» l.iv. M. \nche il mica dei Lombardi vuol essere qui menzio Ita' che li li è poi la lil I lilli: rido che li in fosse già sulle I rili e al recello. . V | lale l'ill , rispose: Signor mio non so gli nè mica, li è voi a che li li : ogni le, alzi vi dimenale ben si, che ... ... l occ. e Vale le ali le illla nica, un miccino, Il lanlio, l'idea, nè pun lo nè poco - a I greci panegirici ti l'ora li li el'alio mica una pill', i vi -a lode ed inutile!....... Sal Villi.SI – Tra di lei quel rialleschi: pl o lili il menar le mani. (schlagfertig,  Tutto  l'referisco qui le lole Iorme avverbiali: lull'uno, lullo da vero, al lullo, innanzi tullo, lui lo di, dai, per lullo, tu ll'ora ecc. ecc. il tui tut lo, aggettivo o sostantivo che si voglia, è il variabile e sempre di un ge nere e numero, e piaceni allegare esempi di un lullo avvel bio e pur de cliliabile o si scel libile di genere e lllllllel' .  Aggiunge energia, e vale interamente, oli minaliente ecc. ma non sì identici, che sostille dosi questo a quelli non ne soffra lalora il tornio e sconcio ne venga non meno alla Irase che al periodo. Tiene alquanto del toul dei Francesi, come che troppo diverso, che non è il francese, sia il governo ed uso del nostro lullo, e ben più vago. Polmi mente sopra lill t virlù sintetica dei modi: tull'orecchi: l’ullo gambe; tutto leggi: lullostoria; tutto musica ecc. e par che si dica: a tutta forza e vigore, non alllo illeso che... immerso in..., non d'altro occupato che..., anima e colpo abbandonato a... ecc. ecc. (85)  « Io conosco assai apertamente niun altra cosa che tutta buona dir po e t. 1 -i (li Illirlti li(Il 1 s'è l'Illi di costoro.» I3oce.a Qllel. e gge le fila li il carro di tl’amon[ana gla l'olava, e l'allo tutto e loost let Ii di Illo: Illoli, di frascilli....» I 30 cc.a delibera o li tollla! si ill It llia, tutto solotto si mise ll call Illillo. » l 3o '. « Il fallig', io trovò la gent. l giovane tutta [imida star las Stil. » I3(º . « Senza - I tal l' - , e sollecitata da suo , cosi tutta vaga cominciò a a parla ! e. . I3) .I)imo a lido il giov: in tutto solº nella . orle del suo palagio, una ſe II lillell'i . . i l lo lill sill: l. , IB ) . Tuito a piè fa - i loro il colli l o ! il 1 do disse.... » l 3 . o i lut . In te la II : sua la Ilte ne ſei a spiare. ( trovo che Verºl Incli e I giova e il 11 l'a trii n, dormiva tutto solo. , 86 Bocc. il qua e es-endo tutto leggi e tutto antichita... » Bari. ....i-1 l'1 lis, ( llella e la i i, il ll 1tl i) la l la ll illli, s v l'Ve i gli ill  le liri, tutto e il o li in soli ordia. Dal t. Chiamò Mosè, e qui si tutto dolente del suo fallire: Su diss'egli ch'io Il il 'l' Illi). , Se . ll.Io dovrei di file stamane esor farvi con grand'ardore ad essere tutti zelo; l sl? SC : : 1.\l di Iliori tuttº animo, tutti ardire, tutti baldanza, ma nel di dentro roll ovall-i o l'abb 1::. » Sºgli.a MI , oli qua e . l e Iron al ro sonº parimer: e. ch'a ffelli di un animo a tutt'orrore il quale per la 'pa già stimasi dato in preda a tutte le più  ſiel e ! Il re.» Sºgli.  Note alla voce Tutto  S, I ), ſu Io ci ligi Illzioli e il vv e glachi, ben cºlli, solo o elemento di all i spressione col lutto che, con tutto, tutto che, indeclinabi io o il rialliera di agge livo con lullo che mi sia le amico; con I tilt a lui costi (t a mi ci si darà ragione di parlarne più a V : Illi.Anche del modo elettico: tutto quanto, tutti quanti, e dell'altro con il missili o : lutti e due, lu lli e l re avremo occasione di ragio irare ad altro proposito.  86 -- Agiungi a questi esempi del Boccaccio, le frasi anche oggi in Irs lop late al rilie volte dai 'le si esso I;occaccio: esser tullo i , in Il lavoro: vino da bersi a lui lo pasto: essere i ullo della pr i soli i perdillo e rall rallo, e simili.U n tratto – Urna volta  Non credo alla liri erra' o asserendo esser oggi smessi, scordati e per | oro discº li si illi i lodi: un trillo, una volta in quella forma e valore cli negli esempi il si a i cii noi 'Iali a volersi prendere un tratto nel sigliific l una sola, e una colla spacciarlo per quel che su na sareb be sl la hit si e da il crescerne buona mente di chi sell liss si p vi 1, il i l di liligº la, e non ne vedesse più là. I modi  una colla, un l al lo le , i cser I i l n al di l l sch si : si h mail al n. Non mi 'mal her, guck 'mal hin, n un link in all ' . ( r .I e II si li primi o li allo; anzi ! : allo, d'un tratto, dare il tratto; dare i tratti di olz en Zi pensare un irrillo ecc. ecc. Si , non spettan quì,  - , li o lo così in di grosso l'ein  Ilù ſiti il presº il nosli a cui la li li igl lill ('.  N la non l gni un tratto.» Sacch. i u;3a volta li . ri che tu n'a Vesti. » l80cc. : i i Vo: 'rei una volta con esso i lì: lº; o li. » E ('. N un tratto a voi.... . I 3 , c.I un iratº o . Vol. sse il Vesl il il re. » Fiere Z. il lb t i d si facesse un tratto l'l V v tl le l V , e , le in: Va l'allino un tratto « non ci si va a il t.a E 11 i mill ! - ! i l l anno grazia e mer º o un tratto dal funesto letargo, il chav si g la lolla , i vv i, illuminato gli o chi ? lla loro mente....» Barbieri.  a cede per or . Fa1, del late che si sveg  Note alla voce  Un tratto - Una volta  S; - - e pensò un suo nuovo l rallo da lei il re la sua costanza» (I30cc. 3art. (es. cioè cercò un altro tell alivo, astuzia ecc. (Conſ. (.., p. 1. verbo Dare.Forte  Forte è sos la livo, agg IIIA ed avverbio. Oltre all'appellarsi forte un luogo qualunque for Il calo, di esi, e bene: il forte di una persona la capaci i maggiore della si essi , il Joi Ie di In'opera, di un componi niente, di un impresa, di II live in Illo, di checchessia, cioè il fiore, il lierlo, il III rl , ecc. . Il l io le lel (li 'al si e del lill loversi dei soldati ». ( esilli , ecc. Foi (e, e chi liol - , è predica al l esi di persona o cosa che ha lº rlezzal, gaglia. I clia, si l // , illle Isili, ecc.E fin III al I cºlli e Iri del I i l ero e se il III lilo. Ma non si gra dilo e si cornuti oggi li è il forte avverbio, assai li ute le sulla penna dei classici, in sºlis cioè di assai, lici a menſe, gaglia, la mente, profonda nel te'. role'n la mente, ln tºni sui mi cºn te, tal alla rocr', e clillo alle alicola ve . inenza d'animo, che lalillo anzi non lo disgrazi, 1: Il che sa per gli buono, e gridi all'anticaglia, se ad altri anche oggi piacesse mai di usarle. Per chè non ſi sia grave assaporarlo lic pochi esempi, fra i moltissimi, che IIIi a º plesso, r le id , lilei e il III al II a Telli, ci se, ed azioni il lamelle si convenga.a essendo assa i giova rie, e lelli, e lo I. I lei s'innamorò si forte e il Podesta del paese, che pill ſita le piu la non vedev . , 88 Bocr'. e Avell (lo V ( lll v . " ( il V ( , l: i re, is l'all: lui (º littº  « piacendogli, forte desiderava di aver , ma pur non s'att | I vi li do e Irl:ì ll l: l ' ( ). » I3 ) . a e saputosi il fat o forte fu biasimato.» Bocc. E biasimarongli ferte o li' gli voleva fare. » I3 Cornº che ci si liri o altro dormisse forte, ci illli cli . l 'i lei la stato era, a 11 mln (lo l'1Iliv:ì a 11 ol': 1. o lºa I ca li presa forte la giov i tre li ſi ill: lli. Bo . e ....o vede; dol dormir ſorte, di li rsa gli rasse (Illa: li egli avea. » I3o r. a \ ndl e il rio, go!) risponde dogli il la illl'o, cominciò più forte a chia a mare. » I3C) .commendolia forte, tanto nel suo desio a cellulºil (lo-i, (Illanto da più a i rovava essere la reilla che la sti i passatº - il la.... o I30 .  a I)i Alessand o si meravigliò forte, e illibitò noi foss ....» Bocc. E avendo la barba grande, o , ieri, e il vita, gli par si forte esser bello e piacevole ch'egli s': 1 . Vis:I.... » I30 .e.... e quando ella a ridiva per via si forte le veniva del cencio che allro llo t r ore il III Ilso l1 Il ſºl , Va.... » I3 . .a .... i quali dubitavan forte non S (ii i ppel º lo gº ingannasse.» I3 c. « Questa parola parve forte contraria alla donna, a quello a clie di ve  a lil e intende va. » Pocº. a .... e perchè mio marito non ci sia di che forſe mi grava, io ti saprò a b(an.... » I20 ('.  a .... per le quali - oso, messer o prete ne 'nvaghi si forte... l'occ a Forte nel cuor noi la pietà compunsi.» Dittani.a .... ma poichè si vide ferito invili si forte.» Bart. « ... Allora come a cose di sapore che pare a loro aver forte dell'agro....» Bart,  Note alla voce Forte  NN Il Cavalca idoi era anche l'avverbio fortemente e significa il gra su per la livº di illi: azione. « E in questo tempo slalido ci si, e I Zzaro, in je' m ) ſorte nºn le; [ueste due suore MI; il l: e Mlal a jo) le men le l'ut, al ramo, perch'egli era così buono e perchè sapevano che Gesù mollo l'amava».  Troppo  () lesta voce li rila alla memoria la pacifica contesa ch'io ebbi, or è già l'anno, e l'ol Si fra ello intollio al cone letteral li e si, e l el'e pi le del sacro leso : Mei ces tua magna gli is. Noli è il l al nimis che del basi qui li adurre, sentenziava egli. ( º lesto mi mis è Il lal V e// li Ill 'e lle lol la ad un massimo grado slip I lal V , che la llli gli i alla lia li li ha. A li io, che quali (lo si ll alla di vedere il V el a pillºla di Iagione, la voglio sempre spuntare nè nulla a Ilorilà si li li porti li al ere. Ials , falsissimo replicai. La lingua ila lialia l'ha sì bello e ſol le clic li il so se all ra lingua possa mai fornircene il III colale. Ed è appli l'e lliv le le italiano dello stesso minis, trop po onde forma si Vil: il cli Illi: i l: il V ( e un così fatto superlativo.  ln pero lì è la voce li oppo sulla pena al classici non significa soltanto  il lellera' e minimis Ilia il minis all resì lollo, assai – del citato luogo S9, a ch'io perciò li l'avviso non potersi meglio tradurre che colla Iorma troppo più grande, che ecc. Al Boccaccio e ai suoi valenti inni la Iori, andava all'animo assai la fºrma comparativa, la quale poi tor la mercè della V e troppo ad un massimo grado di comparazione, dirò così. superlativa.  Leggi e dilnini s'io mal in'a ppoliga  a \-l-ai volte già ne potete aver veduli i dico de li re di scacchi troppo « più cari che io non sono » Boce.« più assi li ve n'erano e troppo più belle che queste non sono.» Boce,"IIa colui è troppo più malvaggio che non t'avvisi.» Bocc.  « Non pensaldo che, los- e chi addosso o indo-c o glieli e polie-se, ull a: illo  ne porterebbe troppo più che alculla di lei. , 90, Bo e.  « IlliSe lIlano ad una Vlt. troppo più dura e rigida della menata pre  Sente.» E0cc.  « E se Inoll ('lle di tult i ll li lo o viene citi l aprillo, iroppo sarebbe più  piacevole il pianto loro. Bocc.  e Vi tl o V () la II , e tali ltto , le V a - troppo più cle tll la  la spesa. » Borg. Egli e' troppo più malvaggio e h - li ll s'a vvisa. » I 30 cc. E Annibale l il troppo più accei io a l .Allti e, lle a suoi Cartaginesi Stato il n era. E assai lostri con il i adill I si lio gla di troppo più splendida fama stati al presso le nazio; li esl 1 in nee e le app lºsso ioi. » I3, c. « .... a Badagi, che da troppo più erano in forze, numero e ardimento; Ina il Saverio la cesso ogni per i lio. » I 3. l'i.  « .... ed era la piu bella lei mi a, le si rov a -- I l II onl , silvo la  Vergine Maria, la quale era troppo più bella di lei senza niuna compara  zione, pill e cori raimlt ita'. » Cav al 1. e .... il giova il tilt o il 'li i lil III e col il III ( -s Si l' 11 le alle sºle Iila li; e lo II , li e il V e --, pill lo i soglio d'es s-it rs', mila anzi eg i pl egava lui a lioli a biorrirlo nè rifiut l 'lo, per occhè era troppo maggior pecca (cre che forse egli mcn credeva. I3: i rt. 91 , e Ma to li 1:1 tii, Signori, I il III , che troppo ancor più alto con via li le Val SI. o Segli.  III' troppo altro gi ill ols e le :lo I, a . . . . livi- i lo. , ( - a li.  a dimosti o che troppo più che alle pratiche e negoziati.... era da repliare  alle orazioni lºr Ille-to elietto da il latte a l)io. » ( s. a N in sol: III e il I e tornò i llo II lo nel primo lato, lil:i, a V Valit: - º in Indolo di troppo più doni, lo sll blin lo ... ( e il li.  Note alla voce  Troppo 8) –. Troppo, il re al significato di soverchiamente, vale anche mol lo, e questo significato s'incontra spessissimo ne buoni autori. ( orlicelli.90 – Parla dei soverchi ol'nalienti delle felillirile del suo tempo, 91 – L'ho preso questo esempio un po' più da lontano che non biso  gliasso al fallo nostro, come ho alſo gia più oltre volle assai, e ſarò sempre che ti potrà tornare non solo in utile ma ed in piace re. Qui, a cagion d'esempio, oltre a quello onde questo luogo vuol essere esempio, hassi al resì a gustare e quel non che...., ma anzi, e quel non –- non credera (di cui al Cap. 2 Part. I.).Là  ºggi si griderebbe l'affellazione, oh! oh! egli è il purista dàgli la bili e colali all'e ciance, chi alla Boccaccio e alla l)ante insegnasse mai rile all'oro, il cloro e all'onde sia lic volmente da premettere il correla livº li Illillo si voglia far emergere l'idea di colà, appunto colà, pro prio lino a quel luogo ecc.  l'icinsi clicccè si vogliano a me non dà l'animo di partirmi da una sºlola iroppo più aulorevole e veneranda che la moderna a pezza non è li potrai li li essere.  l Irisi: più là che bello: più la v. g. che l bruzzi ecc. ti mostrano corti e si governi, secondo sellire e sapore classico, il comparativo del l'avverbi di luogo, di slalo e di invio: là e quà. Non gia: più in là, più in quà. I ro: piu in là di ecc. Irra : pii là che ecc.  e in brieve grida lidosi a luogo, la logo, là pervennero ove il corp , di S. Ai 1 Igo el:a i -1o. 13 , .  (º A t'll il li ai lo cli, avanti ora di Inangiare pervenne là dove  l il bio: e el in. a i là onde r , il o se al povero non ritornasse.» l'80cc. E Il lesto letto, in Il l to a l . . . . . . - 11/a lista le colà pervenne ove Sep a leilltil a la la loli tra lº '.e coli lei il sieri e niti 11 o il 1 : vi o, e presero il rallini in verso Alagna, là e dove l'ietl o aveva certi anni , dei quali es - o mi l o si confidava.» Bocc. Vli rispingeva là dove il sol ti º lì l'ite.Chi (Illin l e gli scelse la ll mi e pianti, cotal si rilla ue subitamenſ e là onde l:i svolso. » I ): ll I e.lº fa l l'ill lento ordina ono ins II, con le elle dovessero uscire fuori anzi di, e a: la l e a Irio: il Calvario, là dov'era il mio lillimento. » Cavalca. vuolsi cosi colà dove si pllo: e ( io e le si vllo, e... » l)ante.a li de ella de sl 1 i lo, l III ell lo l'esser fedita; ma e ricordandº - i là dove era, tutti i lis . ss 1-1, tel o del luogo, di quel tal Illuogo). 13 ,  Di lei sil, la norò sì Iorſe che più quà nè più là non ve! va.» Boce, e l' (Ill: ll e II lig.i: ci li h? Maso is º I la elle pill dl millanta, che tutta e lotte tali a. l) is - e Cai: noi il 1 : I)lln Ills dee e ssel e più là che Abruzzi. Si  - lo, ine, rispose M - , si e avei ('. » lº . « avea preso -i alto grado di perfezion , he non si potea più là. o Cesari. e V vº: lo pl o ede: p in là, ci sia i cose , i veri :a il vedute che...» (.esi. .... . ll 1 più là li oli lo i possibile a ridare. » (. . .Quello  Il Boccaccio, il Passavi, il . il Pil dl Iſi, il ( il Vilca, ed il valentissimo Dal loli, il mila i d. l II mila serie di ira ori e discepoli della scuola  tallica, Ilsa l'olio assai , e i le stra, il guidi e poco grato al viziato nostro ore o il prosione dimostrativo quello posto a  glisi di 11 Il ro, ci si d . it -igi, i lic la lino Illul lI d  l Di esempi ve li ha a bizelle. Ne a I ero al ini e piaceri di aggiunge e  d in quello, in quella, pari alle lorni e avverl : i : in quel menti o, nel menti e, in quel momento ecc.  e si dis: quello li n. - - id . v . . . . . vi i e quello li vi - e' ii 1 e l'Il l il e io vi - ll 1 , v. . . . I3 .- : Itt - il 1 se. l ' a 1 il 1. l it ; l quello tl a Valli I e (lo V ess, lil ('. : l o .lutti ; - i fri lis . quello li da N i e:: si iro l'1 - , -1 . . » 3 ) .l'In/ li lis- I - - I, quel ch'io? » I3 . I - , quello le 1 , III -- il l sa io vi li essi. o lº ' . i 1:1 ! I, ve l i. -i potrei lo Viºla e quello che noi a id:assino ſ: o ll il . » I 30 t .  ... e io! I si, a quell cche io mi tengo l i le sc ( l ' e 'li.» I3 . 92. o Seguiti rolio, il sil, no, i ti l'e. sse) l da l . (III l 'o più a ll'Iva n ,  piu lui iro il lit . 2' l'1 e va e le , i di 1 e ven re a quello, al  quale dopo lo I - ra l III antila li -si, er . , FIl colo. Itispos, il III ), gua a lile. ll III i lII il 1 o quello clic pil III e il bis: - rizi - - I ..A questo II e les, il II, II - Il to si It , l e il q"1ello che è det o a lI - l ... l'a - sav 1:1ti.I, -era ril II- I 1 -i di quello che : ' ' Vt a la l .... » Fioretti.  E p. lito, ve li quello che i li' Inita col suo compagno »  'i e il v.  I :: v. i : quello che i lr che , è.... » ( ,s  In quella cli ... , l . E le IRillall stro, col il l e, c in quella. I 3 . .  QII, il q: le! Io o clic si s la fa in quella a Che il 1 l vi le  Cllº gir 1 m -:1, III: qlla - là saltelli, a Vil'i, lo Mill it: il ri . f: l' . . it: l'. . l): "ll . « In quel che si appiattò IIIi-ºr li denti« E quel di ace, il 1 o a b) allo a ll'ano  e Pol sen portar quelle membra dolenti. I pante. 93)  e con [aii ingegni...., che il ponte sarebbe mancato a lui sotto i piedi « In quello clie e gli pas . . a. . Ces.  Note alla voce Quello  !)2 () i la fa da relativo e ville: qual cosa: non so a quale cosa io mi le fa, o che è lo stesso, non sò qual cosa mai ini | l'attenga | lo li li lo se gli I e rolli ( ' Ill. V el'b , le nuºre .  93 – lº è) ssere che colesto in quel vaglia non in quel momento, ma nell'uno di quei due che col revano, il quale per istracco s'ap  cli i non le segli le relil ( Inl verbo le nei cº.  U Corn Co  (li li li si l - valol e del sostali livo il rio? Che ha a far lui l eleganza? I tagione e Il li se no e loli più là.  Eppure alche uomo è al V re sulla penna a classici che alcune volte, più che il l a essa pul e al grato velluto, al tornio e saper della II se. (lsserva quanto è vago quell'uomo in senso di un e ualunque uomo, di chicchessia, e in luogo della particella a verbo su. VIa avverli a ricola sul gills o governo, costruzione.  lº . . . . . ll III li ucnnc lo i ri: i V li  l: e cl’egli non voglia  “ . . . . . pl il l n t il to in ebbe con gli all i pm role irollo (lis once, e il l d'uomo . l 3 l i.e si e il II ll e uomo in:li in quel e cose che a lui l 7( t , lo uamo il l im . it - l'alcuna persona clie ne fa  cesse e sei a -- quello le Luigi per il mio e di I)io . Cesa l'i.  « E nel vero l' 1 , a: per lo I e uom dice he io lº blo essere a Imo:tº  giudiruto. io no! oli in Is I niti i r. 13 .“ Fra sè Inedesimo disse: ve mente è (Iliºli così magnifico comio uom  « dice ». Bocc. “ Non è rosa piu naturali ai li! I v.le e giusti e li Illel piacere e le  « uomo sente dall'esse; ama o la si oi ratelli . 94; Cesari.  Note alla voce  Uomo  94 – Che cosa è l'ou dei fr: il cesi - e li li Il collll al ci di home? ( il man dei [ d sch è altra cosa li ler Alain n il trio ? (ili inglesi poi dicon , they, I he people say ( [ . he loria al nostro : la gelle dice ecc.  Fers o n a  L' Iso odier 1 esſi voce è il rilalissili , e non si ado pera in milli a 'I ro -iglili clie di II lil il genere, o, a dirla coi fi losofi, d'essere si issisi e e rigi nev, le, ma si l rispello alla sua sussi s ente individi la fila, e lo scili del l s e ido, di s la essenza o la lira. Il male di elog: I: / Is e virili si che a ra vale colpo , e poi il ras e li li | Il l: il no irla eziandi tii animale, l o al significa I " Il li h Ss 1, c. ed il li inalmente ha senso di ver: i , n. ss II , il li do le app i ll'all cesi l'aurun, per Non ti c'.  )sservill e gli sla i li a presto.  I )elle frasi cl in 1: la III | I molte re persona crescere di corpora Ira : fare di e in persona di... () le lil del a | Iel primo superbo in persona di lulli gli allri, Isti: prolcl: : 1)i , isli in corde lilo e Passav. : far la persona di.... li l: lle spielen, sostenere la parte. «I di quie Por ogi si che ſce, a chi l il suo personaggio nella gloriosa e parsa la valli al I e I r!. 9, la la persona adosso ad alcuno, soperchiarlo 96 : mettere in persona di alcuno qualche cosa v. g. una r lidi :i, costi i lirl li di essi, 97 e .. ci sarà poi la cril  sio: e li i la rli id al l silo.  Iº, i cºl logli -s e II l bel fante della persona . l a IP o cle ella era lei a del c 'po, i giovane : 11 ol, issai, e destra a e atante della persona ». 13 , . . . . te, i bil 1 E le iclè ella fosse contraffatta della persona.» B ita', e .... essere tutto della persona perduto e rattratto.» loce, l'1 va: la lo- i mal disposto della persona, e le, la inelite lion molto sallo.» ( 11:llillo,\bbiati i cavalli i ve li lilli- al grande colpo, cioè persona.» V ol-: i rizzº / l':lli li .il se - ll o chi a losso, e con grandissima af lº ziº e la persona di lui, e i silo i siti mi onsiderand d'o culto alliore t . vt', ll tell it | º li li : ss e. . l 31 , ,la li e ti e i , till ia persona piglia e va i, senza lasciarle in capo - , i periti, o oss - so , li i n e -se. I 3 , . .ed i a º s', 1 e la piu role belle e ri che al dosso a l'una e ine, i viri della persona - i pareva che la giovanetta, la qll ' , a pl p - o li -: i B ,  l  stat 'i: si val.etta....)  S -- ti: . ss e i stesse persona, il 1 - si  l qll il il 1 1 1 o cava tv:ai. i cºllo persona se n'av v ( lº - e lº t.  Io li n .. .. . I , l l la ventura lestè, che non è pcrscina. 13  \ i i vi li Ilia i persona.» l'8oce.  Io e li ( s'o, che tu non facci liliale  le a lui ne a persona.» e al ll un altro Fio: etli. I la ll l'a cos l: e questo si è,  - - al lil. I - - - che se nessuno ti doni i -- 'I gira li cost, che lui per niente non ri  spondes ; a pcrscita, tra seri li essi vista di n. 1 l ele: è e noi li udire.»  l3 .  I | p. g v , se i persona come fosse ivi, edl li non v il giov, il sillo º l'io etli. Ed ho da mio at oli ed za, lº io lºn la possa dare a perscrma.» l'1 r, Ili.li i per ſuo - o il 1 : ini: 1. ll il a persona del In illo. , Bocc. « E ' il l - tira perso ia mi li, e ! i Zzo perdonato. » l 3o . I; rulli, a non salirà persona se : it 11  Note alla voce  Persona  ) , simili ma in tal caso spogliandosi il principiº la lºrsonº di principe, e mescolandosi egualmente coi titºli di sè, gºl l-l il tilar la gi al lezza, piglia un'altra grandezza, Castigl. Corle- giallo. «Mi pareva appunto di scherzare ſuttavia fra le conver sazioni soli e di Brusseles, e l'avia di far la persona di cor legiano il luogo di quella che mi conviene fare ora di viaggia lo l'eo. I3C Ill.  96 - Lo stesso che la re l'uomo adulosso al altrui, cioè cercar d'aſfe l'irl , col le minacce. E volendosene al non so che esecuzione il lido ſilio a S. Giovanni a Irovar mio fratello, e gli bastò l'animo di ſoli gli persona addosso, Illando egli meritava d'esserne casi i g: l ' . ( a l . .il Diil (iherardini. Voci e maniere . -  9' - l'orili, il francese sui la le te e il gosl o volgare in testa d'al  clino. (ili rilizio l'Abbadie per me lei le in persona d'un al ll o, Calo.  S e  lºro orie di terza persona d'arri lo i lilli neri e genitºri, che si riferisce  |  |  sempre al soggello del verbo, adoperandi si lui e lei negli altri casi. II o Irascritto di peso la definizione che ne da la Crusca, e basterà.  Come piacesse p i al Boccacci re di all i trolli. In colal sè in  In lo assolti, o e coll'i: definii , l gicli e Illasi si ºss , V edilo, di  con Io e mille che ve li ha, in ſilesti p. chi esempi.  a Per un cali o ambasciatori gli signifi ) sè i ssº; il l ogni sll ' Illall « dal Il (). » I30 .“ 'ostili... dir. se, sè con gli li ri ins me essere in questa opinione.» Iyoce. s “ Gli altri llitti, che alle tavole e rallo, illli I sienne dissero, sè elier a quello che da Nico, uccio era sta lo risp sto). Bo .Aiess. Il dr ) gli 'e il dè grazie del cori l to, i sè a l og: li sll , collandin - In li o di -se esser presto. Boce.e loro, che di queste co-a lui il rili, or -: van , , strillse a confes º - ll sè i sien: con Folco esser il la mo: del a Maddale, la colpevoli. » I3o . “ . . . . - e pel I i ll e le slla pit l il lill e liceva Ilo, sè aver a Vli, o e da lei, non essere incor, di tanto tempi gri , il 1, che | i leta potesse es  e Stºre la crea llra. o loce.  Questi e Quegli  Si che lo scrittore il derll , lo usa, e l'uno e l'all ' , posto assoluta nell le in senso di costui e colui. Ma non la iſo a colifortarli all'uso quanto a mostrarlene sil vero uso e legittimo piacermi riferirne qui alcuni esempi.oru I ond II o luotiIoluogtro vito ottimisti es lllo ollo ofunifiiu o pil minl -la.os mlnuto un olo luou l. In ott Insi non lº oALI sold o! Il lo Ieoo.A II I tuºi-Io v o ottussIssotti Ip ons e 1.Il 'lo s : l'impolli o lo I II Is v.ll st ..ol. Il “odſuo ul lui opeo li o outpur, ep li out optio o lo vº oppull o! Iº lº up.uºni; ios uº.In ln. ezzotti Ip e I potti o.I | Il los . I volo “ol I pm Ilio. I l'i: i) a luito o illu po olso outlolzilotti o esonl lo v Iloil Ip los il  I _ e ne»  \ :sºlº. I « opinpu u Aupututuop ou. 115amb Ip ) : IR il p to eve) op e idos il ci lop o oulo “ollomb o. : ), ond is oli otti. I l III II e III Is l'otti o solll V Aussu. I « usolt [..) Eleti o o si ) Il “1159mio l 'esoi II) l'Ilop º oluto tuupu euro. oI tod el IIes tddl - riti ei lod otto Iss o IIIo lº I so.I ) e il V Il 5 UI ,i. S ) : IIoII. 113enb Ip o Io , lui il di lui se li ti os o II. o Il s o II is º III o II , 1132mb VIII A 1) « ott zu.Il 113 onb I 'll A ) . l is tº lo 118omb e p . Io ſº i Is I V | o v N.« o in IRII ol o) toni tu III o l on tº il 118anº il - IV  l. 1: I 'l: i  sanò “I I V r) « e ſu di ni: I.I I I I Il 11;anb N N I I V l t, vi | l  'ItI A o « Us II . t: l ' I l. ) A l: II. 18anb º il l il l: li I “I: I l l i n . I I I . .I ) \ I ? i.) I  vi: - st , l III! - - I II -Issluti Inl o II oul o 1139mb p I ogI sl II-nd in euro a Ion A ott fops i samb 13 anò lIl ll o III ), i . I | III F III l st ) ) somb o-s II s l . I olti (I e ssa: Il sanò olII trOI s sono o sanò uºi In I tºl In A III o Noll - sanò  o il III : -nIossº o ollo.I costi. Il cºlson l olloni (i i l Is soulotte etti ln)soo “lm)o. Ind Itoli o in º.oo.A o allo l o oum. Il I I I I I I I I | 11: Il  i li osso il s II II l s  ri: o II. ii l' oil. ss I.) o VI i .I o III II . I |  anbuntuoo ºpttodsI.I 15 o infossils o Iod opilenlo “Il q o se ti o in  ouaq els ſolluſosutti - o Ielofuſs illionh outoo soo o illel e il pr i ] N sempre e come gli talenta, mercè che il saperne usare a dovere è già in dizio di buon gusto, e mostra altitudine al concepire classico, e indi lo scrivere che altri fa vago ed ornato.Ma usarne debitamente, e voglio di e il m a casaccio, storpiandone il senso, o il maniere e concelli orestieri che ne l comportano. Perchè  dirò della voce guari – che vale molto, assai ! III o l'opposto del francese ſuºre o fuºri's e il di il colllllllissimi i : non ha guarì, a significare non º gran tempo, ed è sempre precedIIIa da particella negativa - quello  che di ogni altra onde presi a rallare, che cioè il verº mezzo, il più efficace, il piu' sicuro, di rendersene veramente padroni, è quello di leggerne e rilegge le slli di saniell e i molli e sei ripi, e le belle maniere di uri si fa l guai . e cosi conseguirne un rello sentire, e riconoscervelo sì come palle del disco so non decol a lira soltanto ma ed in regrativa altresì.  a .... nè stette guari che addormi itato ill. » Bocc. 6 nè stette guari che si vider i frutti il rie- dei loro allorazzo. » Bari. inè vi stette guari ch'egli vi le as-: i la dis, sl , ' t ) l'11 l: Il Cil l' « piglia con assai a.legra fa e a.» I ierenz. .... non istette guari a tornare. » Fie: e ilz. e ...., il quale non istette guari che i rap issò mori ; o lo e .... ed essendosene entrati in cani ra, non istette guari che il Zeppa ornò, il (Illale con le a loli n. 1 - ell: l.... » I30 .ti e credendola acqua da bere, a li ce:i postal:usi, tutta la bevve: nè  a stette guari, che il lì gl al S. ll :lo il prese e Ills- I l ltdori nell' ato.» I30' ('. a ... ll è il ro i ti elideva, che da llli ( ssere richiesta: il che non guari « stette che avvenire; ed irisieli le fil rollo ed il ti: i Volta e l all 'a.» I30 ('.  « .... di paese non guari al suo lo litri :) . » I3:1 l'I.  a Ella non fu guari con Gualtieri di mcrata, che la ingr i vidò, ed al tempo « I rarº ori. » Bocc.  « Il quale non durò guari che, lavorando la povere, a costili venne un « sollllo sllbito e fiero llella testa. » I 3, c.  e Si mi isero in via nè guari più d'un miglio ſull'olio al 1 la i clie....» Bart.  e .... novella non guari meno di pericoli in se . . ll I e nel II e che la narrata e di I .allretti. » I30 .  « Dopo non guari di spazio,.... » Fier.  « .... nè guari tempo passò.... » I3 . a Fermila lire e, se tul il terrai guari in bocca, e gli ti gli asterà quelli che  : oli dallalo. o 6 , Bocc. « Essendo essi non guari sopra Majolica, seni l'ono, la nave sdrucire. » lo c.Note alla voce  Guari  ( - Nola II sto In lo leggiadro del I occaccio e suoi valenti imi il li: non isl le quali i clie.... per dire: non andò a lungo; non l' Iss po; e indi a I l in iſo, ecc.  iti - l' illo dei litri casi nei quali la voce guari non è a governo di ll ( ) ll t ) Il t '.  N/1 c r ) ci ci  li del non lo al mondo aggiunto ad altra voce qualsiasi, non le " "lilli ºli il III si p . I livi, è a nella livo e intensivo della stessa, " Sºlº sºlº sºpra all'allo, incomparabile, qual che si voglia minimo, ; il t N.Nll) l ('C'.  \li gli esempi soli si chiari ed i maestri di ogni età si autorevoli che rebbe superi il rallenervici a lungo, e discorrerne più che tanto. ºsserva l'ºl di II lire qualche cosa, a come l'occaccio, per esprimere il mirino, ed anche a singolarità e superiorità assoluta di oggetto o sa (ITalsiasi id per asse con più forza e più garbo che non farebbe un illi a V cc, la II lillici a : con persona.... del mondo, e come quel gran il lacsl lo i pera di lingua, che è l'eloquenlissimo 13artoli quasi lette l'alleli e lo imitasse: lo come a 13 ccaccio, a Fiorenzuola, per tacere di il ri molli, si possero i loro i nodi superalivi: punto del mondo, senza una la licet (tl mondo, alla maggior ottico del mondo, e va dicendo – il lilali alla lelleria dal Villellissillo ( esal I.  Senl e al lillo del l rall cese non le, in : le moins du monde, e simili. Ala non sarelli , sì vigliacchi di gridare per i lesi o al gallicismo: o lon dovremmo dire più lº slo cle toscanismi si illi, i nodi di I.inguadoca che i li oscilli si rass lirigliani ?  a .... e 1 litto in se ined sillo si rodea, lo l tell lo del barattiero cosa del mondo l'all ('. , l 3o t .a .... perchè Ferondo se stesso e la su i donna cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.... l 3 , c .E quantunque in contrario avesse della vita di lei il dito buccinare, per cosa del mondo lol Vole: i creilere. » l3 .benchè i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a palagio.» I3'll [ .« Cominciò ad avere di lui il più bel tempo del mondo con sue novelle.»  3 ('.« Costei è una bella giovane, ed è qui, che niuna persona del mondo il « Sa.» I30 ( ('.a Io gli ho ragionato di voi e vuolvi il meglio del mondo.» Dart.  a Alla maggior fatica del mondo, l'otta la calca là pervennero dove...» Dori'. a Punto del mondo non potea posare nè di, li è noli e.» Fior« .... perciocchè io ebbi già un Ilio virillo, che al maggior torto del mondo, non facea al ro che batter la moglie, sì che.....a presero il volo e le l: Inen:I rollo senza una fatica al mondo.» Fier. a se li Inangio senza una discrezione al limondo, o Fier,  » I30 ('.  a gente che vuol conseguir la salute senza pigliarsi però un incomodo ill Inoli dC). » Seg Il.  « Alla maggior fatica del mondo gliel trassero di mano, si rabbuffato e lnal con o com'era. » Fier.  « Lo spirito di l)io il Irava si fortemente in quei pii affetti, e con ſale unzione il saziava di sè, che alla maggior fatica del mondo egli potea scol pir le parole e venirne al filo. , Cesari.  ſr  L'Opinione giornale , con la stessa serenita olimpica con cui sentenzia che il quart'alto della Cecilia è il pitt bel quar alto del teatro moderno, senza un riguardo al mondo a Cluel poveri drali li i clia il: i no I re a 1 | i soli, SIIIeltisce a Ilo izia. » Il Fanfulla del 1875 . !)!)  Note alla voce Mondo  99 – Leggeva allora il Fanfulla, solo per amor della lingua di quel giornale, che è buona, non bastarda come quella di molli al ri. | N T E R M E Z Z O  l)ETTI Sl:NTENZIE - - Bene è vero che così lo studio di cer ti detti e sentenze come anche la Retorica sono ben altra cosa delle intrinseche dovizie, degli scandagli linguistici di questa nuova palestra, ma avuto riguardo all'assetto singolarissimo di alcuni effati che, stu diando negli autori classici, più mi ferirono, e che non sono così ge nerici e acconci ad ogni linguaggio, come sono ad esempio le così dette figure retoriche, che non siano anche particolarità italiana e inerenti al carattere e alla natura della lingua italiana, non mi pare iuor di luogo di compiere l'opera e mettere qui alcuni di questi modi che, se con metafora, hanno anche nome di gerghi e proverbi.  l t . N. 1 l il miº cl. ii e il ct mi al buio.  l ' e' l lo sa il n 1 uct I tuolo li l'.  I l ' il mio cºnci li elolco'. Iº - appropria lo a uno che iene del semi I lice.  l'ut I lo i colle si sle la Nesla, allico sll lllllelo la misura.  Slc re e il m li se li diglllllare,  Vlcºl l'1 si in capo l'alcolaio gli ribizzare, fantasticare.  l'atl e il III milita in all 'cati si im sul qual mquam – darsi aria d'im li .  l . I cºllo l'e' in sul quat mi qua mi - col ridicola gl avità.  Spacciati e il quinque mi voler farsi lenere il gran fallo,  \ 'il tr le cellula ne alla les la Scilli si allera o da qualche impressio il 1, di dispei lo d'ali re ecc.  li mpri e la scopa l si a Vila disonesla.  lo son litigliato a questa misura Ambra - esser fatto così, di que s Iella la luna.  lisse'r la Ilio lo bene o male,  l'irla pºi punta di lo) chella con grande affelazione,  l'aitre e gracchiare come i cani e ranocchi alla luna. Giub. – gri  di I e il Vallo.  Trorarsi nelle secche a gola. Caro - esser povero. Mºller l'ali - a Tre Iarsi.Alzar le corna – il super bile. Restare sull'a mm allona lo – l'Illia nel poveri. - Stare in Apolline – Irlangiare lautamente inodo di lire del valo  da una stanza dedicata ad Apolline in cirl Lllo lillº laceva la illissili le celle.  Mangiare a ballisca i put - maligiare i piedi, il II elli. Esser al coniile mini – il punto d . Il 1 l le. l scire il jislolo da dosso tl i no 13 i . logiici si da il lalso sci  spetto, cessare di ang. Isi il gli ill li li il l i gilli il I, si spelli gri si ecc. E nodo basso.  (i li fanno afa i beccalichi e gli pizzo no i li, i i lati in to fai il l ll - calo, il fastidioso delle cose pit s ti Isile.  \ on Nat per cli Nº – Il ciglio del volgari esser li li (li si .  Esser nell'ol o di gola –- riccone, ricco di rili .  Esser innanzi con uno -- essergli il gri 7 , i vi Vlesser Al dighieri fu gi al ci ladino e molto innanzi con il tessel (i: Viscolli Saccl. e Fui figlill il di illi: i giallole e gelilli. I l lale e' il molto in mani si coll’ili per il I e . ( a V.  Torsi giù dal pensiero di fare . . .  ( o mi mettersi a... lasciò il cilli ri ma mi 'lendosi di I Dio e alla sua provvi le 12:1..... Civ.  ('ori e re boll len clo e II lilo cli, le legi , i l . ri ci , i Nº but I lemulo . I)av. Sillili: ballo e il gri sil. lo, il lersela.  Esser in pie' e plando ( alba era in piè lenne la col ſole . l)av.  1 rer l'alli più grandi clel nido illa / I s; l' Iss: li si illa col Cli/i 'le il cili si riac | Ie.  l'ut I e il loro o di ll (mc (l ci lidi ri . il II e il I l: cos: 1.  (iel I al I e il m (t mica , clic'I l o lut No il re i v . l il li Is I l iss . aggi. Il gel (lalli al clarin .  Mellere il pel bianco –- e il III la mia vi: il l' ii a V messo il pel bianco . 13arl.  Pagare di moneta senza comio spacciar Iole.  I , Ils, I)alle e il 1 l e I3 ccaccio rili lo II e la loro e i lli li li Il selli Vallo  si illl'allino che spesso ne fa les r , il III: Iggio elica li col l mali e il del sl1 , clile.  Tener a piuolo ( inf. tenere .  l otre all rili il lettino ſalgli il lates l' 1 all ss .  Promelter Itoma e Toma – più di ciò che si può ottenei e la mit le tel'. è luogo almeno.  1 mln usdtrº uno indovinarlo, conoscerlo per quel che è.  Fotr uno scilo m (l parlare a lungo per indurre alcun a la c o non ſi l'e.  Scoprir paese. Ma il 1/. veli al chiaro di talche cosa.  ('a calcare la capra in rerso il climo. I3 cc. Irovarsi in pericolo di  i l'l': l ' , l ' ('.  I malati sºnº col cºlei ci ſoio. I3 cc, palli fischiandosele.– fog --  'l): - ol,l DS . l.los 1)llop ).Im. I  “ollllooo oscio o il telos Oosol limp o idol pl Ivan, 'oooº I 'º elodlid oolIdillos Ip : l'ol e ope, too util plo) lo m olmpoli low up Au - In) on upl ls not o lo l cofi, li o plo) ul. D o plot lo. ol soli. ll u n t pel  lº lodo ! Il.I |llº, letto.Ils lod o luo5t. Il to All I lod ollo Ato. ll still s'o.Il... [Illel ore  -II All.) Iloio; il 2.It I.) II .Il lod o letto iu'. Ooli llli lo l opoli ll o, p. 1 , :los.lop 5 º ) - ol. I ti ll) 1)(l. p) ll . 1) / S ( p lo ) Spp uo.Iopul) olp lo) lo! I top oſ) p I loI – l.ool o l. Il ll o l.oo, o o l o I : 0.I |llº, olt IIS - olto, o l. Ill) ll ſi o p. ll l l ll olios o I Il d lºs o I o II ) : ossopu o il n. 1: s ).Ill) .Iod o O)tºllo..)Il 0 [.lli | Il so,oll) ol, o ol . l p ou puo ul l tool pd l olltilt il .lol - D) ll plcl . ) ol I. . . . ll N o Illy) li ll lo) lo IV  lUI.).llº A ( OIis Ol.top Is p Il l: sl) Ios il l o Il 7,top II (ls -l.I O ).IopUIodsl. I lli Iloit . . . . . . Ip ( o.lios III. Il l .Il vi:.) . I.).I.).) olt: Il II “olon.A ottenb Oulla pu o.llp o Il sºl l: Il 15 IS ) pl I.), m il plli) opos I DIS  o]llottle Illllio II o III o III: VI .Il Dl I.), p il 1. ll I – Dll.).))) ll plli) ledttii: s .l Il pl . . p il plp pso.o ol.) i pm b l l), I  l'Iss) I |.).)ol|.) In I e o luouletin).Iodi III oli ell. Ilos ll mi pm ossopp o Ispº) ll o p.l.loS pNN Il l)llo li lop il pil ll I Dsl (). I plo l pm N ))) I m, 0. I opomp l.) o, op o un ddl n. 1 p.).)o l “od.Ion Il solº tu e otto Issolo. Il le i ti ).Il 1. l is lº) io. I p. 1) I p.ll.I. elu.II) .I e o Ioli: mlpo il pil 1) l .I lo.tpllo3m ) ) ). ell.In letti e sulle op ten . lº ziios l: 1: lsi I l:, I 5 o II. I | | | | | | Isenb oso.) ol lº)lo.I e rozzo.Id | V : o il II o I pil V ol I., p. 1) 1) ll il d.ll' I pl uopo, il plss. . . . . ) I pu to.I o | Ioli -o AIIo,oul IIIfo e opotuli o luo.Id lo ve lo io l I l spl I lil Los ei leitilissi: prºo Impoutuo o senb epito o on I e II li .tel li olo il 1 l . . . . ll o.lo) lo IV popd ns addez ellop step (lo) . )))) il dl Nill o 1 pllo.). l e \ vi s o I e II º I - ºlns Il pl ſild ou. m. p I Isti, d (Ioli .I l o Io te stili npd a IA QIo III “o.I lº IIaq lp Isl: le ... ! I pun'I plio il pls ns il loI 'Ioi l occod ll o no) in olon. I loro l out o n pm olto toll I pm.op..) un supp loſioli os– uodlo)s upſilo N uomo io) ) – pnbon, p . ll lº un il dl pliol - - u, li updsfiniid uop lo) un molosſ) olci - lon) li supi il oi p. ll ' ºllº IV op) o il lou pm b.o) l i plso. I p.olpo i pl o od uto) ll oi pl). ſuo tolto a sp IV pun uoldo II - orodns ll Po o in l ' loI lod oliſmo lo pnh.o o lo) lo IVmlnpoolpo Intti epp An – mumpm10 in p.l lod ()) lo Il ll ).I.) p.l.' I oITuttI III ottonlaAu ozuos o InluoAAu In II.Iossº a Ip – mlmſ illolo, il sºlº ! "l.l (uoſ Dil pup)s.to.A up loſium IV) - m) lolloq Dl pudos ollo,lto. ll to, l' (uobollſ lnplV sul u Il uoqnm.L  uo uo) p.t lo 0 olp csmp 10 nml 0 1GI) – Dl-lod D p.). oil o oufi pspl ol implodsy tuorlos dou).top!) tunc MoogI uo(I) – 0dnl ll plp.tmnſ ul paoood pl oam (I o.It: Iso – onbop onp m. i tm)S  vo) lo I l Iolu .lnu 'ltoſi lotti lob.to IV) – o.pso.to pºllo,l o I.) olli), D.) Dlfium IV oiltiºp o eso(Is Uztlos o.IO.I.Io o oli; io  -tu! oil.olenb tºp Islu.loqll – mſn.o pllop ollo. ll tod ouapssmd o outlos. l mld (lm):) A o Iedd e osi lo I o lui ottio 5.It: III los IIIl regolº (Ideos e un  “o5 old I un o.In.Ao.I | – plo) o ſi o l.olmnb tod ll sn plo/v. ſi pl tm no. L i lums millim. ſi otto op Is tr.lo.) Iº puoti in ſqu;Il pells optIo :o.Io s.It:puntuonº.oe.I o II.) o sol) I d o III. I tessed Iod o . Il -opze.Ilslp lod Isoo Ilopulº)) eai luus lop o Id e out s Iseill) : 1.I.ood I.If I  “esInI ?lo Id utin lp e.I srl III o II: I – .ooo I o in l uld lp olio lpold l I m/) p.1:) .ooo! I ouolfim. plums lp o un atollm:I'ouoizu: un lp Is.Il luod – ottenso) osta Iop – oli luod und ll amfium IV  ro5.Ioi ole; o Inº Ilop osuos ll lpitI i lo! lo Io lop olzl.it: A1: os Izi Il sod o Iop e Iru.lo Iui ol . -It! - l oro,oo! I II e il III | Io e Aol 5 o [ tt . Ieri lo tel o - o.topro. of I lu um, -ol!) S ll plc) ſi mºllop plumnl muon pun uo. luput al lm Il m lou ſi )lo I l soIAtop lollipº I o il lossl.AA) - Iſſ.Il lº oil.oul e In.).ooo,oº o].Io.. n ...Iosso titill l'Ilodes - ppo. pl uali olo,amp ll o, op todps – outp) todms 'oliloti in lito – o.Il D opup.oul.Ilm mosul pl oulo. o impul loInbul “os III e IIIs a 5II o Im)um. pl/m opII , sotto lo v o 5 e I º plo) tnam.L - I topi.oon o o oddº. Io ottes.I:II .Ipaduti .Iopulo. In “of.In loIII: Ip o Ill.ols Ozzotti II (IIII!) “o.It:) ( p lo) um. m / mons ml opuo.oos ouons ll lao.Il II5 (lo olim on.ipenlis e III.Id nei rioti o Iſo.).on Ip e li s III3o Iod . I -Io(ſti IIA o noso etI - plo) una pl ons pl opuo.o, is ouons ll o un pm im o il (InIr) e ions IoIIII.oti Iq.lodins l oil.i ſi lod pu nu aºasi il Iollos ICI Iso:) o o Io od oris III olio.Ar - o unopm ofli ſi lod i puo IV i trie.Io Ifr I 5o. elos-.InI e o.non ſi ton eso.Il l'Iionſ la vi: - l I.),ol.) o, 1 m.)lum il tonº to, l' I.).Il V e lipo.oo ll ſi opt odm ou up il lun.olui ! :..Ip Ions Is II-latile.Il l I op e III ed otti).I ve IIoII o II o o olni sotto, oi i s .I. I o I.Ialoni ti:III a oIodde.Il l oilo o Ie.Il sotit .Iod » – i loro lºſ oliodm ouum lui.nu. I ouolfin.I n.Il .Iod o orifi-osICI o II love II li Io I o o lo IosnoLI a Io ns i 5o II.) eso.o Ip ol.I.) Io RI... ] I  III o Ip Iso. Il n o In.oso) opo III I – oliſm) l p los lop . () il 0.1 O) ſpi o N . I .IRSI Ind e J a o o-neidsip o II lºso. lei in oso III IoAn – onl.).oo tollou o ond pum o. p. lug  oosn IIIIIIo I. - a.Teit v -o oltratuo.IoluI e III o IIIIp mld a IIIqm IositiI nid IzIA Iop o In mezIo opleIII  “Iuotze.IouI.Iotti IlunoIptII Ipo IV » – ddl I on.o o mlfm) o lo pnfull pun a.taa V – III.Io:I – RIssoII o oli I.) e ossopp ouogo mi fi li “ou upd ll tml ſip.I  Izzotti In olnsuod Io Am mzttas nsa.IdIIII In e Is.Inpſ IIn – noo! I rollo osul ruos polmſ ul tolla IV  IIIo o Iop o Iaisund IsInp nziros editrua o estInIII Iulo Ip -– o opms lou odm o lo o imbum IVIpa e ansa – poi gere occasione – ansa lett. è maniglia, nel figurato  appicco, pretesto.  Arei mantello a ogni acqua – esser pronto al bene e al male, accu In dal si a togli 'osta. Arriluppar l rasche e riole – inventa e se lalse. Mentre il rasli ello - predare, saccheggiare. Gianl). Super di barcamenare – essere ac orto e destro nel condurre i negozi. Mangiare a bertolotto - senza darsi briga o pensiero di dover poi pagare. Il langiare a lla ecc.I?accoglie e i biocc . - ascoltare gli all rili discorsi per poi rappol largli - da bloccolo, particella di lana spiccata dal vello. iellar la broda adosso ad uno – Il colpa l'e. lºom per la cuccu ma li portuliare, alloial e. l?idere agli angeli - l idel e per chè i dolo gii all'1. l?idere sol lo rºm li o le ba)) sori dere di nascosº o con gioia li ali  ziosa di cosa che ad all ' , oli sia pia ere nè oliole e che palesa la tollell (le l'el)))e.  l'issi pissi ciò al lavato i pissi pissi d' A Iglisla . l)av. v Vo I rinata dallo sl repllo che l'anno e labbra di chi lavella piano perchè : il l 'i ll ll sell la . l)a V.  ('olo il c un disegno ed egli lon dal lido si sta al lina o indugio ai colorire il disegno suo . (ilan, b. : effel! lla e ſulello che si era progettato.  (''rcati e ai ſalula di ſalula V g. della verilà lorse da Fallen, piega – scandagliare, investigail e, indagare.  (''rc at ) e della Notn il dl rivolse ogni diligenza sua e dei medici suoi di cercati e della sanità ». l al .  l'utre un laccio ſolise di 'as dei l si compulo all'ingrosso,  slagliare il ci lil , al tribuire al lavoreccio, un valore così in massa senza calcolare per la inintità a ragion di elipo e ti tanti è, fai tutto un moni .lasciar alcuno sul latº metico v. g. di andar cercando... I3oce. I)ire a sor do .... ma se li la cavi di dosso io non li con i radico. Non disse a sordo, che di subito codesto povero gli cavò la tunica di «dosso ». Fiorelll.  Prendere, pigliare, cercar lingua di...... Qllesli andò e cercando lins gua di lui nella cillà....... » Bari. « Poscia mandalo da ogni parte a prender lingua del vero ». I3arl.Fare del buon compagno - fare bus na compagnia. IIo l'alto tanto del buon compagno, che ini gli ho guadagna i fulli o. CaroFa alti ui tornar sulla testa la loro la mei e le Isar I. - farla paga ('il l'il.Guardare, ridere sollecchi – di soppiatſo, alla sfuggita ecc. (V on der Stºile (tm) schielem Valo sbirciaro ).Scaponire - vincere l'altrui ostinazione. Dal pronominale incaponir si, osſimarsi in mºdo duro e goffo.Sgarare – le I. vincer la gara è affine a scaponire, nella frase  sgarare un ragazzo, vincere cioè a forza un suo capriccio. Non lo scam biare con sgarrare. (V. Errare - Pronſ). Sentire del guercio, sentir di scomo –- V . Sentire.'A1'CI 't Old nu duu! OIoolpI.1 'BI (los!p [u optioutod) w' los to Ossip o  'ozzl?IOdoºl H » - UZZou Ip u!A Q. o 110u 'ou JIt', o outu, o – los o ossm () ' 'I.).»r's P.) 12“IU10! (l)ou?uu0s O! (Iool2CI It: 'U.111]utoA tº II u – 1)oot.) m.)so nu m d.tv.).0n1; ) 'o IOIl.A IS JAOI) vr] [toUUlt'.lo(III uu?put! - 1) tilll!), m.) 1)/ .).t.) 1.to.)S 'ou01Zu? Iop1st 10.) t'ZUIJS - 0.o0.1.) .) op iſ.).Jo V '. D.)« » v, IBloJJIds 'd III) tºp tºt! Is to t's Is oilo o] |n) up - opont) tot 1 m/oy.).yoſis '001 un) nu 1 op 11.)sm -- Izzo.I III III Isr).»! 0.10||otils!D - - loud, op - Ool/l), los o//mſ lp orum.omputorit ºp ty.)s )  'old UU10 |su (I - Oulu pm ! tto.1 dl 11) 1.).), do. t/S  : 9IUA 'old U]SI115513.1 al.IU! 15u11:55 U.u oIJ U uit: Ids -- O.tn)so.) ./l 1 v.10.1/12/ 'o1.IU UIoo tº los.IUUI5 Upt?Inn - DSO.) Dun gs.tv.)./of/ '.I)! I 'Or]UJUI - putd] !! ) () [qtis 'out I tºp ! 11.1 | 11: o.11: oo. I - Out of tºub 12 1//s,ºf mun t mel 'OssOpt: " ) 1 ]sorbt u| | | |5.11:J 'ou!]1: | | | |11. | |lt: o.11:D - OUIL1. »It! |'t! ONN op D ! uit 1)(l ! ) to/ju1.1/S  0.1 n itt l! , 01.)sn,l D.1/ ).to/jult/N 'ZL11? IV 't PZ -11,0.1.11 .). O ! | 150 l 1! ) | | | | | | | | | | | | |ollo Z) |O 14 l 12t II 1.1) | 115. | | | | | | | | | |s. Lopo V | 911 01.10.11: | |Ilso 'Oum lll lll Cºlo/s.) 'tt |! o III) lous Is , 111 .) 'out? Ao A1 o II.) o.lolpIto.)  - 1:] oII. 12u011 | 0.11.11: o III 1.) [1: " 1:ssop:( te ) 0111) til lll (7/0)N.) til ll 1.)," ) Boſn.I 1: ).to | | III II) ( silos II! 0.)  -)))N ll o.1 l/1) 1:|ON |l 12% | | |1.1 ||1: o.IJ.Al? | | |) - O.).0ns ll l 1)/ '0.).) DN /l d 11)(I 'lol, | | | o IO It?.)sod III tº trul) lll lp u 1) 1.).nl).) t ss .In Ill lod I]11 |0 |  ol | | | | |rt | 1! » " - IIIIIIls ,, ! 11.01un.ºop 'L11:11 tºp 5 : \ ou nu ºp 1 m.).jp. »  'ſ al l ' ().II.'s 11.11 » II tºt 11op (9.11p 1112111 ºp tot 12 (11: 111 ºp : 1: Ao. Ip 1 o/m.to it, fi /.nl ). 1) 1.).)nds II,7 o | » -10 A ollllll tern Ill Vios tº \"An IIFo, t] too.” Ip 0115os! | 1 o Amº o.112.1 solid 1: Aolo.A » UIou oq.todns o]tiotulp.In 112u trio otl) 115 pal n i1.10 | '' ,,IL1 | 1: is 110II 1: Is -sor op Kotlon III o In Lied rºtti III?looſ) 11:d 11: Oslo.'s!) | . o IoTIII | |sol Istolov  rºzilos Is Irºn LICIs op: \ » - t/m 1.) nofi ol)ns in/s o In tomtof jod o I nl.) mods ', ' II, rs.It?,II). » 12ZI I. »s 't II II !! A  visso , 1110.) ost).) , 'I l ºp 11 f: [1: I. st: 1) u! iſ.) p/lp non I.nl ) , 11 pun inlosm'I  fjm/nl)S nu out. Inm noſ.nl / lo,n Z – 0,7 ml min 1) 10 l/10/0) dºn)' dat dpild tal  'nfin. 1.)s omp o omſifi.nl, un 1m / 'l.In: 4 | 't OLIII » -oji I n Ilsnq oilo oIodus onnºl oil tot 1 ol ozilot lop oIsº IIImºl orn: \ oIlonb Ip » nºu, IJ.).on III u?I nl)n1 m.tto) m osso1)oni o IptºcI ('lul'S II rtloulon.In IIIIIssIntlood » Ip 1: 1.) tºol IJ0 te]II nrub II (),) . ) IIIoI5n.I opIes lp '127 IOJ lenb IIO.) I( ) » 'I InfoS 't Olso] -ord ooit Is pito) m 1a io)jou oIdus oI - o - o Ioll nſ|(In: - 10.1 lol in dit ollo IV ooo optim: IIIA  olte illustr! 15u eIssoipolulo allodsa oInnoptieſ ºm - Onl In dtplosDT 'opond m tav ) I I I I Il.I. t: o Illaptto.) olttotill litio. I tºp - lo sl m puo.).opſ o un m oldm.o.).l ma l (IIII!)o.Ioppi lp elli. A olo.A : o od il plli ll o).olo, lo o ollo. Il rolli Ip oieA Iosso - tel.In I : o lui o li tºp - O.It:) o un.olm p o lui olfi ll o.tolo V so ) ( put.to, ll p .ll.osn ottetto) otI. Il tal. Il tº I otto. Isl: Ill o . I Is - bol oIloo tepul: Il 0.1 [ulos lui , o tu As o le volp lº lll.lo.llol) .ll.)N ) quel!) . .I RUIos Ilºp ou lost. prº.soood o oloA | otteAopuol o le los ti otitº.All. Iuºl , vi: II.os I e zz -UIG.Ii eulº tuo.I tº I o II.it I col eztloloIA :l 55o o II. I ll pp l Il pm.os . I tolti “ouolzuºu e un ostello e Aoi.Iod otto sou.lº 1: tos Il 15o lo os oil. I l -Uuoso Iliou ol! UIoS oleo, ill. Il II si ulltiltos o il tri .I potti il 15 III e III. ll: as op.Iool.I tioN o Ido. Ito. Ip oi lotti :p o .I I I I II, I l o I, lun. 'N Al ( I It:p los Iop 751.I . ile lugds up o A.Ied il 5 pp.to, plus p.).oo. pl o ibIII p opup Is e III Is o o..ot: -) e,l o.IeIddo,os Iod II ll losso - foltº.I s o II il 1 olt: \ l: p.lo. Iº | 12.I | | | | Il trooo.I] e [op o A n.) Il teo.oul º u.).ooo , pp.to, ºlns ul p.). o, pl o il S “.),oo! | Iliº AI.Iolo. I Is tº I. , l:. . . . . . . . .“olons n olons o I veti olioti opzitelli. Io li oi oil I II Is oillo. Io vi: pt. Il'eAlls (ossoI) ollo il Il po o l?.I s S olo ns m , lo s . l'Aopo.I.) Is o [.) o[[onl) Ip ( I. 1.I luo. Iº o II la V A : l I. A 1:( l .) lp Qss pd o ICI : onb.me l o lo us . Il No SN1). I -.). Il re I Il lp 1, 1, do il I so ) . l. (l -oud ul o e lied n.Io Illn e o intito. Il viso | | | | ol i do tal ul A l:( :s-oo e o.Iluo.o tutti i lopuloid lp muli, uo. Il pi is ulloII I llllº solo.Id I o Is.Imp.Io.. e o III o VII . il 1) il fi . ll o il l eso.o e o Ao.ol. oil. I l o A Il 5 o il - vi III i  -tito) Ip o Iniel Ip miss, loolII. Il . Is.I tºp IO.), lº ol n.), uo, pl) lim) I l /  es .) Il fo : III | o elle ol; poi li osto. Noi i pl in I  o.lui iuta il tºp .Io vu: toll o l..) .l. o loo.l.) I l I  o II lotti o I e II li. mld II l .lo I i v. ri II: I pn: I I I I I Il il tul.). Il vl'Ifo II:  ool.IntIo5 outot a o,opo – olº.Iotti: lui o Iosso pri uop uo, o, pil ll . . l oliºfolli: lo ol o elusi o II (1 ptt pil  “eIollo.II on.A mlnq – oſinod III e II o riſpºl u ntlmi il miº ll, i NN, i ll l  all I toulos popu o top li V – pu u m. pl tolo. Il ml) , l ' Ill) Il ll I m sl IV  (uopolosa oa si ſomus.o!) I. (I pillso i tm l lo o psso l'on. 'I l I.) ſuoqmaſoo run II tap ) foll pdl – ma lo u VI top / SI. IN DCI -  -und ll mys unb : osodsII el'uoloA elis e o Infioso e vo vop Is otto. Il 5 l.lo il  po “Ipnos Ip op IISIui Iod olose oilo elodi:) .II In lui: oddo l II ale.II Ionb e olinqII 'u ottIssluſo un ollo II ) , - o lund ll o Ippo) ln () arou alloo olmuuaſi l' opumnh (n.IlIn Iin Io o olibri.nlm.nl) nso.) oa pl pp m II ro.Ino o non limp out il l pts No I.).ool. o.tplli o  .IoI I II.).I l? \ .I - «I – pose II III opud Ip – otInoso) opoIV – ouol)fillo.mſ ul ott 1 V p impos 'vllob.ll, il ll Dul Ssn il lolill L uo(I) o lo pſipd D.lluo o.topm,tollmut pulu. ll.) looo.) o lito.t.too losso noti i plimd lp opuol losso lou I milſild l)  il dſ II o Il pl) il 5 il ril oi lotti lop plAtº t.I sotu ! ! Io l: - olso.it) o toplſ llli uou opolds llo.ool o lo opm ſi pull Dl Ippll llſ lou o tolto. llo.ool o lo upo )  Izzo!) o tool -ms ll o oli uos lp di qll ollllll lp od too ul pllio, ll plotto, un uld lp  l loll (I lo Spºl uo il lun. I tu n = bupl os I loli fini M to(I, 'odulo. ls oillſ plm o lo pnbop,l lod o lo tol ma o um,l lo! I lons ,oo Ilſi o llllllls ,o. lllullS  lo! I Dl.ol)lli p.t.to) m opp.lli ons ll li o l.) e olsn ſi pl, m. l opm. I m/s opuolod l 1 ) Iollfill, l .lo. I l II), noſ) | I l N.1 o V, D.ln / uo, plm tl pl.).om.) m. n.) Duom:I o l.los D. l Il p.) od tuoi olto i ton.) A eCI ) un lato i po.t o, ul, olpm Is u . I  (- Il n.ll l uo il lo)) SNI)| Dp Isl 1 I.)lli S I lil souloI Nm \\ - l 10 pl pluſ ml luo).om.I.L) - di pls lospl oa mi ps lou l I,) lo Iel lli),l o l.lo.) o I molfin. pl Dz.iol pl o il to,  Atº (l o utild lo, “ollo) Il D.l ol li Out o l)ssol l)lloli o topi). l) o. pplli) 0.ool.) ll opo, l I, A 'CI olfils to.) o I.) olod il l lulti ou up I l) li p.to il filºl!)o lotto) oil. Il 1 | Iloil polo lui) li o) p.) Il to il l.s lou lons ll pot l oi l I, ) ufos ll put o lon. ll piu ! I, 'oli.I e le lotti e liti tetti o I. pl ſi fiou.tp.) mlfi fio) sof l I, oliuls l.ol pol I ssop osso lo po. I u.osso M oum. ll u lp o o upd lllllll pol  lt lo l mm.it/ ol). 1. ll l / D I SI onl:) Nm p ... W i tons ) un I.iol 1 m. pl/mq uoq loss  o o d Il 5 o II o II.oni, ons lop Ile ond o Intini - l I. .)oufi mi spºt pms pl).op i pl Qnd un ufi ()  epº.I s I.).ol. II. o II. olio Alio. es . otI.), tºnfi le id o Ie Ip e lo IIIIIII.I Iloil III o o lu mſ plº (lm ollo, lo pſ lou l I, puo il m ollo il pilo.) p.). Dallon, o l.) Ollon h o, o la toil o lom p ll ſi o I.) ollonh lp pp roll l I.) m.).oo) ll ſi o lo onl) ps ls uoi p.).) o il o l uop pl pil in o I. ll I  “) lugl o I][..losO Ip III) -nlillotti e Iluotti lep mln out e tio.Ipel otrosso Joid lp o .I 'elopſ o 5o lp “m.i.a) oa l uop l.luc[.Ieq i lutti lop e tituli lod o .Iugl - p.t.to) O.I luop mld oluti.Ioli onp sulllo alle ol) optio.) ng » - o Imu o. I top m.llo) 0.I luo(I rooogI « allo Iod olionl uonq un lui li ott o) ups m oampum ossOd lo IIOII otlo olopo.A o II.) » – oln.) O.Iones li oli ed i pilo.Id – Olups o o ampu V roo nelll.) lens e lº slº.), i ti so I ep III lº Ions I l I sè.A o II o I z-utellIA In p oil.oun po 'oion lode. In lons illie od o Iupire ole.A o n.oI) Il n.roluntII I II..ms o epilo.o! A nſiti nunoIl lod p) Il p o V » .).oogI pl/lo . m l), m)pum OUI.) oll) Ollion | In AO.I] () otI.).oo!.).Iod » – p) ll. m o impuyChi ha terra ha guerra. Giamb. Volpe recchia non teme laccio. Fier. A buon intenditor poche parole – dal latino intelligenti pauca. Così le intelligenze equilibrate e l'ele. Ma il tedesco pedante: Gelehrten ist gul predigen. L'inglese fa lo spiritoso: rith a clerer one word. Al fran cese è troppo una parola: è un home d'esprit un lemi mot. Indi l'indole (ielle nazioni.Inran si pesca se l'ago non ha esca – , W e nicht gut schmierl, faehrt nich l ſul\ on è il più bel messo che se stesso. Selbst isl del Mann. \ iun bene senza pene. A cine Freud oline Leid).l'aga ben chi paga lo slo - VV e rasch giebl, giebl doppellº. \ on scherzare collo so se non ruoi essere morso. 'Mil grossen 11erren isl nich l ſul lv il Ncl en essen .() gni santo ruol la sua candela. Ehi e le m Eh re gebili rl). l dl ct sino al tiro but N lom tl i ro au) cinem gl o ben I lotz gehört e in I rober A e ill)i quel che non li cale non di nè ben nè male. W as ist nicht ucciss, match t mich nich I heiss . Il ledesco è limigliore dell'iltiliano.Più ricino è il mio dente che nessun parente, leder ist sich sclbst der \ aechsle Nell'italiano, senti l'uomo coscienle della individualità del Sll 'S.Stº l' .Dopo il bere ognun lice il suo parere. Del V e in lisl die Zunge). Pal ere e non essere si è come lila) e e non tessere.Chi di galla nasce, so ci piglia. Dic Ralze latess das Mausen nicht'. (cqua che la cerni mºna. (com). Menare Stille VV asser sind tie'ſ. () / mi legno ha il suo latº lo ogni ctgio ha il suo disagio. ('hi dell'altrui prende le sue liber là rende, ('hi ha dentro fiele non può spillar miele. Dopo il con len lo riene il lor men lo. ('hi parla semina, chi lace , accoglie vergogna! snellere questa sen lenza che è losſ 'a e ricullissima, e si sliluirvi la ledesca, malerialissima : Redeli isl Silber, Schweigheli isl (i old .l grande molle gi andi lan le ne (i rosse i bel erſo dern grosse Mittel). ('ol mollo non sta bene, col poco si sostiene. Mi riclem hatell man (tl N, mi il trºnig kon mi l man (tus).Morla la bestia, morto il veleno. Todle II und beiszt nicht mehr). E' meglio esser capo di gallo che coda di leone.Non si può cantare e portar la croce Gule Mirne zum bisen Spiel mi (tch e nº.Shºm (tco digiuno non spregia cibo alcuno. Il un ger ist der beste Koch . Giuoco che li oppo dura, di ren la seccatura.('hi li oppo l'assottiglia, la scarezza. Ill: uscha, i machl schartig). Chi è bella in rista spesso dentro è Irisla. Fier (Der schinste (piel li atl oil einem VV trim .La donna è come una castagna ch'è bella di fuori e ha dentro la ma il magnat. l oce. I quali ino a quattrino si fa il fiorino.Le fave nel nolaccio , il gran nel polveraccio. Dav. Chi è reo e buono è lenulo può fare il male e non è credulo. Bocc. ('hi ha allar con Tosco non ruol esser losco. Bocc.Alle giovani i buoni bocconi e alle vecchie gli strangulioni. Docc. strangulione lett. è angina, infiammazione delle tonsili. Chi lava la testa all'asino perde il ranno ed il sapone. Ciaballin rimanli al cuoio Schuster bleil bei deinen Leislen). Mal fan coloro che voglion far l'altrui mestiere. Fier. Qual guaina, tal coltello. Qual asino dà in parete, al licere – a chi ſe la fa, fagliele, o se ſu non puoi, tienloli a mente linchè lui possa, acciocchè qual asino dà in a parete la ricerca n. 13oce. Secondo la misura che lati, misura lo sarai. Paga e di tal nome la quali furono le derra le vendulº. Q ual proposta tal risposta. l?ender pan per focaccia - (i leiches mit (, leichem rergellºn . Chi la la, l'aspetti. Chi altri tribola, sè non posa. Chi offende s'offende. 1?l'overbi bellissimi, il [ichi e dell'Ilsci, « che, dice il Meini, giovel'ob be rallimentar sempre, e più a chi l'igne ha più lunghe ».A confortator non duole il capo – e dal confortare all'operare è gran (le diffel'eliza e distanza, e dove l'uno è molto agevole, l'allro è somma Inoli o malagevolo ). Bocc.Luigi Cerebotani. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerebotani” – The Swimming-Pool Library.

 

Ceretti (Intra). Filosofo. Grice: “I love Ceretti; and I wish Strawson would, too! Ceretti distinguishes three stages in the development of a communication system. The first is very primitive, obviously, and avoids the reference to ‘io’ and ‘tu’ as metaphysical – ‘hic’ and ‘nunc’ will do. The second stage he says may be all that some societies need – ‘green’ for this plant – The third stage involves the general concept of ‘plant’ and this is where a soul-endowed entity (animal) can refer to a plant or to an animal like himself or his companion – at this last stage, Ceretti speaks of ‘soul’ (anima), and the affectations of the mind being what is communicated – if that’s not Griceian, I do not know what is!” -- I suoi genitori, Pietro e da Caterina Rabbaglietti, di condizioni agiate, lo affidarono all'insegnamento privato di ecclesiastici e successivamente ai docenti del seminario di Arona dove si distinse per il suo carattere refrattario ai vecchi metodi didattici e ribelle alle rigide regole di disciplina. Quasi al termine degli studi si appassiona all'approfondimento della lingua latina e alla composizione di poesie che lo fecero conoscere come poeta a braccio. Frequenta come alunno esterno un collegio di gesuiti a Novara dove risulta primo in retorica tanto che il suo maestro lo spinse a comporre la tragedia “Il duca di Guisa” sulla base della Storia delle guerre civili di Francia di Davila. Soggiorna successivamente a Firenze dove ebbe modo di frequentare i membri del gabinetto Vieusseux.  Dedicatosi agli studi scientifici e storico-filologici e soprattutto a quelli filosofici, scrisse il poemetto incompiuto Eleonora da Toledo dove dà prova di penetrazione psicologica dei personaggi e di abile descrizione ambientale. Nello stesso periodo compose poesia a contenuto filosofico, il romanzo “Ultime lettere di un profugo” sul modello foscoliano, e infine le riflessioni “Pellegrinaggio in Italia”, nate a seguito di numerosi viaggi avventurosi per l'Europa in compagnia di zingari e vagabondi, che gli permisero di apprendere diverse lingue. Opere queste che mostrano la singolarità del suo mondo spirituale profondamente diverso e in contrasto con quello degli altri.  Soggiorna nella villetta "La Chaumière", presso Chambéry, dove lavora alla “Pellegrinaggio in Italia” dato alla stampe a Intra con lo pseudonimo di Alessandro Goreni. Trasferitosi alle Cascine a Firenze, pubblica “La idea circa la genesi e la natura della Forza”. Adere all'hegelismo, di cui tenta una revisione in senso soggettivistico in una grande opera in latino, “Pasaelogices Specimen”, che non riscosse alcun successo di pubblico. Decide quindi non pubblicare più nulla. Tuttavia continua a comporre una grande varietà di saggi filosofici. Si dedica esclusivamente alle meditazioni filosofiche espresse in numerose opere tra le quali i “Sogni e favole” (Torino), le Grullerie poetiche (Torino) e le Massime e dialoghi (Torino).  La sua opera è stata pressoché sconosciuta. Solo Gentile gli ha assegnato un ruolo di rilievo in “Le origini della filosofia contemporanea in Italia” (‘Ceretti e la corruzione dell'hegelismo’). A lui oggi viene riconosciuta una certa influenza sul pensiero filosofico della scuola torinese. e sulla formazione della filosofia di Martinetti. A lui è dedicata la Biblioteca di Verbania. Dizionario Biografico degli Italianim Piero Martinetti Pietro Ceretti. “La natura logica di tutte le cose” e pubblicata presso la UTET di Torino. Gentile. Cfr. G. Colombo, La filosofia come soteriologia, Milano, Vigorelli.  Dizionario biografico degli italiani,  Opera Omnia D'Ercole, 15 voll., Torino, Vittore Alemanni, Ceretti. L'uomo, il poeta, il filosofo, Hoepli, Pasquale D'Ercole, La filosofia della natura di Pietro Ceretti, UTET, Giuseppe Colombo, La filosofia come soteriologia, Vita e Pensiero, Fiorenzo Ferrari, Il filosofo di Intra. L'idealismo di Ceretti, in Verbanus, Vigorelli, Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori. L'uomo vuol essere consideralo come l’ultimo frutto, ossia il massimo sviluppo psichico dell'animalità. Questo massimo sviluppo presuppone necessariamente i prossimi animali dello sviluppo minore, e cosi via discorrendo. L'uomo vuol essere, inoltre, considerato come il frutto più recente dell'albero zoologico. E qui nasce oggidi rispetto all’uomo una contestazione circa la sua produzione immediata o derivata da’ più prossimi animali inferiori. Questa contestazione non può ammettersi dalla speculazione, e neppure dalle discipline naturali empirico-induttive; ma la si agita sopra un terreno affatto estraneo a quello della speculazione, e della scibilità empirico-induttiva, fomentata da ogni sorta di passioni, partigiana di religiosità, di moralità, e così via. È assurdo supporre che una specie si tramuti in una nuova specie come tale; perocchè le specie sono mere distinzioni teoriche del nostro intelletto. La natura, come disse un sommo naturalista, non facit saltum; e conseguentemente la distinzione caratteristica che costituisce le specie “Homo sapiens” non risulta se non in quanto si prendono in considerazione termini sufficientemente lontani e si trascurano i termini intermedii. Infatti, se noi consideriamo gli animali superiori dell'albero zoologico, nei quali le differenze ci sono più sensibilmente manifeste, troveremo che le specie si suddividono in razze differenti fra loro sotto varii rapporti, e che le razze si suddividono in varietà differenti, e che dette varietà si suddividono in varii individui pur differenti fra loro. Inoltre, troveremo che queste differenze sono a noi tanto più evidentemente manifeste quanto più si salga alto nell'albero zoologico, ed a noi più vicina sia la specie che si prende a considerare. La vera trasformazione della specie perciò non si deve investigare nelle specie come tali, ma piuttosto nei minimi termini della specie, ossia nella variazione individuale del specimen. Questa variazione, tuttochè lentissima, modifica col volgere dei secoli le specie, così come la conchiglia microscopica, variando la propria natura, varia il terreno che ne risulta. Gli agenti che effettuano la suddetta progressiva variazione sono di tre ordini, vale a dire: planetarii, psichici, e spirituali. Questi agenti sono progressivamente tanto più efficaci quanto più si concretano nella efficacia spirituale. L’agenti del primo ordine planetario modifica semplicemente il corpo e l’organismo, e indirettamente, ma assai lentamente, la facoltà istintuale. E un agente puramente planetarii, p . es ., la natura del suolo e dell'aria, ossia generalmente il clima, la condizione geografica e topografica, e cosi via. L’agente planetario si possono chiamare elementare, perocchè opera su tutta l'animalità senza distinzione veruna, e sono presupposti dagli altri agenti succennati. Si può dire in tesi generale che gli animali inferiori non subiscono modificazione se non lentissima, e molte specie degli animali inferiori si sono spente, appunto perchè non hanno potuto subire le modificazioni necessitate dalle progressive variazioni dell'aria e del suolo. L’istinto delle specie animali inferiori e rigido e difficilmente modificabile, appunto perchè e un istinti poco variato, che non puo neutralizzarsi fra se in una ricca varietà di modificazione. L’agente del secondo ordine e psichico (e no ‘psicologico’ ma veramente psichico), epperciò più intimo nell’organismo, ossia più essenziale. Un agente psichico modifica l'animale nella sua intima facoltà, ossia una attitudine, assai più facilmente e più profondamente che non gli agenti naturali succennali. Questo secondo agente e nella sua essenzialità un maggiore sviluppo del primo agente naturale plantario, epperciò si manifesta nella generazione susseguente come una profonda modificazione dell’organismo e dell’sstintualità. Questa modificazione non e più mera variazione giusta una astratta affinità, per le quale, p. es ., una facoltà diventa minore di altra facoltà, vale a dire, si manifesta come una pura variazione quantitativa dell’istintualità. E una modificazione profonda che diventa la proprietà caratteristica dell'animale (un tigre che tigrizza) e qualche volta e affatto estranea e contra-dittoria o opposta, o contraria, alla facoltà della generazione pre-esistente. Allora si dice che una nuove specie (Homo sapiens) e venuta all'esistenza, e la vecchia si e spenta. La facoltà psichica si modifica sulla base di un istinto più svariato, il quale si neutralizza appunto fra loro tanto più facilmente quanto più svariati. L’istinto dell’animali inferiore e tanto più fermo e rigido  quanto meno molteplice e svariato. Questa modificazione causata da un fattore psichico modifica il sistema anatomico e fisiologico, perocchè non e possibile una modificazione psichica sulla base d'una invariabilità anatomico-fisiologica. E una modificazione profonde, la quale, se qualche volta poco modifica l'ordine anatomico-fisiologico sensibilmente manifesto, e però effettuata piuttosto nell’elementi anatomico, nel così detto ordine istologico. La modificazione psichica non spetta, come quelle generali, ad una specie o ad una razza, ma sono più profonde modificazioni dell’organismo e della corrispettiva istintualità. Essa rifletta piuttosto la mera individualità animale, epperciò e variabile indefinitamente. La condizione causale di questa modificazione e data dalla ciscostanza nella quale versa un certo individuo animale. Cosi non è solo la varia natura geografica e topografica del suolo e dell'aria in che vive, ma anche i varii vegetabili e animali con che vive; perocchè dette varia condizione e sufficiente a modificare l'anima (la psiche) dell'animale. Le delle varia circostanza costringe un certo individuo a esercitare preferibilmente una certa facoltà psichica, e per conseguenza a svilupparle preferibilmente. Data la ricca molteplicità e varietà della facoltà istintuale proprie della specie di “Homo sapiens”, questa facoltà variamente si combina e si neutralizza. L’istinto cosi neutralizzato, ossia radicalmente variato, si trasmette alla generazione veniente; e cosi le condizioni succennate, variando l’atttudini dell’anima individuale, preparano il terreno alla più ricca e più profonda azione del fattore veramente spirituale. Il fattore spirituale modifica quell’attitudine che appartene non alla specie, ma all'individuo animale, ed e un fattore che non più modifica l'anima senziente, ma lo spirito (animus, psiche, sofflo) ideante dell’animale. Tuttochè questo fattore, nel su concreto sviluppo, appartene allo spirito umano, pure gli animali superiori (p. es., una scimia antropomorfa) possegge un certo quale esercizio equivoco e parziale del suddetto fattore. Cosi la scimia impara dalla propria osservazione, epperciò gl’individui più vecchi sono assai più scaltri e periti dei più giovani. È questa la ragione per la quale l’animale non solamente si aggrega ma si organizza gerarchicamente giusta un certi statuto di un sentimento comune. È importante che un individuo animale possa profittare della proprie osservazione; perocchè dello profitto provoca una maggiore perizia pratica, la quale dal più vecchio è partecipata al più giovane e trasmessa alla generazione vegnente come una dialettica della categoria istintuale che più tardi si sviluppe in una vera mentalità. La categoria spirituale (spiritus, animus) funziona qui come sviluppata categoria psichica (psiche), epperciò la lingua, il linguaggio e la communicazione, nel suo amplo uso, vera sintesi e genesi manifesta della categoria spirituale, arriva all’esistenza come linguaggio no planetario o naturale, ma puramente psichico; o come linguaggio equivoco o misto, ossia psichico-spirituale; o come linguaggio assolutamente o puramente spirituale o oggettivato (communicazione proposizionale – la logica di tutte e cose). Qui non occorre accennare al terzo ed ultimo stadio, ossia al linguaggio puramente o assolutamente spirituale, proprietà *esclusiva* (alla Grice) dell'uomo o Homo sapiens sapiens, ma solamente al primo stadio (psichico) e al secondo stadio (misto) del linguaggio che nasce e si sviluppa nell’animalità sub-umana, pre-razionale. Il fattore caratteristico di questa crisi, ossia lo sviluppo dell’anima senziente inter-soggetiva nella spiritualità pensante proposizionale, è manifesto piuttosto dal linguaggio ‘muto’ o il gesto di una emozione del corpo e principalmente di quell’emozione della fisio-nomia. Quest’emozione formula un sistema comunicativo, in quantochè manifesta una definita emozione intima con una certa categoria, che, non essendo destinate alla mera soprevivenza o conservazione dello specimen o della specie, non si puo chiamare semplicemente psichica, ovverosia istintuale. L’animale sub-umano, p. es. , lussureggia per una mera sensualità erotica – omo-erotica, come Socrate ed Alcibiade --, la quale non può essere destinata in verun modo alla propagazione della specie dei Grecci! Così pure due specimen giovani di animale giocano (la lotta greco-romana) colla vivacità propria dell’età loro, la qualcosa può giovare, ma indirettamente, all’educazione e destrezza corporale dell’individualità . Così il padre non solo alimenta il suo figlio, ma l’educa e disciplina ad una pratica operazione requisita dalla propria specie, locchè dimostra che l’ingenita istintualità non puo bastare, ed abbisogna dell’ammaestramento dell’osservazione data a lui che ha già vissuto praticamente nella vita. Il linguaggio misto, o equivoco, ossia psichico-spirituale, è quel tale sistema di comunicazione che non consta semplicemente di questo o quello gesto, il quale segna non solo una definita emozione dell’animo, ma una certa anfi-bologica determinazione della ‘mente’ (mentatio, mentare, mentire). Così, per es., il cane, alla presentazione d'una cosa che altre volte fu nocivo, puo involuntariamente fuggire guaiolando. Il gesto segna naturalmente la paura. Qui certo v’ha una psichica emozione provocata da una simile cosa, ma quest’emozione del cane dev'essere legata alla *memoria* della *sensazione* originaria, la quale memoria appunto costituisce una determinazione *equivoca*, mista, psichica o mentale-spirituale. L’animale superiore possesse una facoltà che incluse un svariatissimo repertorio di questo o quello segno o gesto, mediante una modulazione combinatorial di questa equivoca determinazione. Quando l’animale arriva definitivamente alla soggettivazione della propria coscienza, ossia al suo “lo” distinto categoricamente dal “non-lo” (cfr. Grice, “Privazione e negazione), entra categoricamente nella coscienza spirituale – del spirito oggetivo. Questo passaggio costituisce la creazione o mutazione o trasmutazione o trassustanzazione (metaeousia) dell’uomo, Homo sapiens sapiens, e solamente questo passaggio colla propria manifestazione può segnare un soggetto umano che puo attuare in inter-soggetivita con un altro soggeto umano. Qui l’”umanismo” si manifesta categoricamente nel proprio caratteristico (la definita soggettivazione del ‘ego’ come ‘ego’ e del ‘tu’ come ‘tu’), e si manifesta colla parola (parabola) non certo col documento anatomico-fisiologico, che non puo bastare se non a certa ampla generalità della distinzione o del genus animale. Prima di entrare a caratterizzare questa crisi importantissima, ossia lo sviluppo dell’anima nello spirito, dobbiamo assumere la speculazione retro-spettiva della coscienza da un ordine uranico nel ordine planetario e nel ordine vegeto-animale. In un ordine uranico, la coscienza procede verso un’individuazione dalla nebulosa al cometa, al sole ed al pianeta. Il solo caratteristico essenziale dell'umanismo, assai più caratteristico di quell’antichissima vaga definizione dell'uomo ragionevole, animale rationale homo est, è senza dubbio la soggettivazione, e la manifestazione di questa soggettivazione è fatta con l’inezzo spiritualmente formolato. Conformemente a ciò, più innanzi, l’uomo (Homo sapiens sapiens) è designato anzi definito come coscienza inter-soggettivata. Quest’individuazione, qualunque la si voglia supporre, non può essere una soggettivazione; perocchè l'individuo (Erberto) non si distingue dalla specie (Homo sapiens sapiens), e le varie specie dei corpi celesti si confondono colle varie età di un solo individuo. Cosi pure, speculando in un ordine generalissimo, una specie animale e una età dell’animalità. Nella specie animale piu infima, l'individuo si distingue dalla specie (una rosa piu bella dall’altra). Nella specie animale superiore,  non solo lo specimen si distingue dalla specie, ma anche il soggetto dallo specimen ė progressivamente distinto. Cosi, p. es., il corpo di un animale consta d'innumerevoli individualità viventi aggregate ed organizzate fra loro, le quali, svolgendosi dall’una in altra fase, costituiscono l’organo (dell’organismo), l’apparecchio, e la funzione vitale dell’animale. Ma la coscienza resuntiva di questo individuo vivente è nell’organismo dell’animale concreto, e non negli animalcoli gregarii che lo costituiscono. L'animale resuntivo della propria soggettività costituisce lo svolgimento del senso del pensiero. Qui dobbiamo definire la distinzione del senso e del pensiero. Il senso non può supporsi astratto dalla coscienza; perocchè in questo caso sarebbe un senso che non sente (il senso non sente, l’animale sente), ma può supporsi astratto dalla *co-scienza* del senso; perocchè la co-scienza e il senso funzionano indistintamente. Finchè la co-scienza non si distingue categoricamente dal proprio oggetto. E una co-scienza identica alla sua forma esteriore, la quale è una sensibile esistenza. Quando però la co-scienza si distingue categoricamente dal proprio oggetto, allora dice: “Io sono e l'oggetto è” – “Io sono quello che sono, e l’oggetto quello che è, cioè l’ “lo” e il “non-lo” (p. es., il tu) *siamo* due termini distinti in relazione d’intersoggetivita. Quest’idea fondamentale che si percepisce un “lo” (pirothood) è la soggettività; ossia, la nascita dello spirito. Nascita dello spirito e nascita del pensiero, facendo consistere la spiritualità specialmente in questo. A conferma di ciò, si noti, primamente, che in questo paragrafo ei vuole fare appunto la distinzione di senso e pensiero; secondamente, che nel susseguente paragrafo, parlando dei momenti dello spirito, vi accoglie il principio sensitivo non come pura e semplice *sensazione*, ma come *sentimento*. Sulla predetta distinzione, del resto, ritorno nei paragrafi susseguenti. Lo spirito consta di tre fasi: il sentimento (aisthetikon), l’intelletto (noetikon) ed il concetto – il A e B – concetto soggetto, concetto predicato). Lo spirito nel sentimento è uno spirito immediato che poco si distingue dall’anima senziente. Ma quest’anima senziente appartiene allo spirito, perocchè si *percepisce* soggetto (un ‘lo’). Il sentimento consta di tre termini: l’attenzione (la risposta ad un stimolo), la memoria (il riflesso condizionato), e l’imaginazione (la risposta ipotetica o condizionale). La funzione più o meno complessa di questi tre termini crea la *soggettività*, che lentamente si svolge dal sensibile nel cogitabile (co-gitatum, cogito; ergo sum). L’attenzione deve funzionare nello spirito esordiente, e cosi lo spirito deve *sentire* *che* il senso della natura – ossia, l’istinto -- più non gli basta. Questo sentimento dell’insufficienza del proprio istinto l’avverte *che* necessita osservare ed imparare la pratica della vita. E la prima funzione della mentalità. Epperciò la lingua ariana conserva più la traccia della parentela del concetto di “manere” e “mens” -- quasichè pensare e fermarsi, ossia il soggeto ferma l’attenzione sopra un oggetto – che puo essere un altro soggetto --, siano due operazioni molto affini. Veramente, tuttochè sommamente dissomiglino queste operazioni, nella loro sensibile inanifestazione esteriore s’identificano in un fatto comune, quello dell’arrestarsi – la risposta ad un stimolo. La co-scienza che fissa l’attenzione sopra un oggetto (che puo essere un altro soggetto), cerca nell’oggetto qualcosa *oltre* il sensibile immediato, quando esso oggetto non sia la funzione di una mera sensazione immanente, ma la funzione di una sensazione trascendente. Una seconda funzione del sentimento è la memoria. Mediante la memoria, una sensazione o attenzione presente si può risuscitare quando non sia più presente. La co-scienza attentiva all'oggetto studia un oggetto esteriore ed abbisogna della presenza di esso oggetto per osservarlo. Ma la memoria contiene e conserva in sè stessa l’oggetto osservato (che puo essere il ‘lo’ – l’identita personale come memoria), epperciò si costituisce in-dipendente dalla presenza del medesimo oggetto. Una terza funzione del sentimento è la imaginazione. L'imaginazione non solo conserva l’oggetto osservato, ma *crea* l'oggetto possibile che non ha osservato. Questa funzione emancipa o libera la co-scienza, non solo, come la memoria, dalla presenza dell’oggetto (s’ricorda o imagina un oggetto assente), ma anche dalla sensibile esteriore realtà del medesimo oggetto, epperciò l’imaginazione può liberamente crearsi una propria oggettività, alla Meinong. Questa facoltà crea non solo l’oggetto composto (compesso combinato) di due oggetti (obble 1 e obble 2) osservati, ossia non crea solo la mera composizione, addizione o combinazione, ma puo creare un oggetto che non consta di questo o quello elemento osservato, ma un oggetto radicalmente imaginario (un circolo quadrato, un numero imaginario) , tuttochè le semplici categorie dello spirito e della natura debbano necessariamente fornire all’imaginazione se stesse per possibilitare questa creazione imaginativa o predittiva. Il passaggio dalla coscienza senziente alla cogitante, ossia dalla bestia all’uomo, è pure una progressiva distinzione della co-scienza in soggettiva ed intersoggetiva. Qui la distinzione de soggetivita e intersoggetivita è una mera distinzione generale dell'”io” dal “non-io” (il ‘tu’). L’ “io” si suppone vivente e pensante *altro* dal non-io (il tu, in combinazione, il noi), in sè stesso parimenti vivente e pensante. La natura si rivela come un *popolo*, popolazione, aggreggato, organismo sociale, di piroti viventi e di pensanti , non si suppone ancora l'altro dal vivente-pensante, ossia il non-vivente e il non-pensante. Si suppone semplicemente l’altro dal moio lo vivente e pensante. Perciò la natura uranica, la terrestre, stochiologica e minerale, la vegetabile o l’animale si suppone distinta dal mio io, non però distinta dall’io generalmente parlando, ossia si suppone possedere un loro io analogo a quello della mia co-scienza. Esaminate la radice, ossia gli antichissimi elementi della comunicazione e troverete ogni dove segnata l'universa natura (physis) come vivente e pensante analogicamente alla mia co-scienza. Non vi troverete mai la natura morta colla sua forza cieca, governata da necessità parimenti cieca, vale a dire, la natura della riflessione. Il sentimento esplicito dalla mia co-scienza soggettiva può essere comunicato dall'uno all'altro individuo. È questa comunicazione (o conversazione, nel senso biblico) la prima proprietà per cui una idea cogitabile è distinta da una mera sensazione per definizione non-condivisibile. Nessun sistema di comunicazione puo fornire una sensazione, se questa non sia stata data dal senso (il ‘dato del senso) come tale – nihil est in communicatione quo prius non fuerit in sensu). Potrò, p. es., parlare in qualsivoglia modo di un oggetti visibile. Ma un cieco nato non puo mai ne sentire ne comprendere che sia la visibilità. Se un soggetto abbia un tempo posseduta la facoltà visiva puo, parlando di un oggetto veduto, richiamarli alla memoria quasi visibilmente presente, ma non puo mai fare che tale visione sostituisca la concreta visibile realtà colla semplice imaginazione. La prima conseguenza della co-scienza senziente che si sviluppa nella cogitante è che, siccome l’idea o concetto come tale, ossia nella forma della co-scienza cogitante, può essere *trasmessa* (il trasmesso) dal l'uno soggeto all'altro soggetto, non può essere trasmesso il senso come tale, ossia nella forma della co-scienza senziente . Cosi un soggetto è abilitato a sapere quello che non egli, ma l’altro soggetto ha percepito col senso (“Una serpe!”), oppure quello che egli in altro tempo ha percepito col senso, oppure indurre un’idea da quello che presentemente percepisce col senso. Cosi, p. es., la pecora condotta al macello *vede* macellare la sua simile e fortunatamente non solo *non* induce che sarà ella stessa macellala, ma anche non percepisce che questa presente operazione segna un'uccisione; perocchè non possiede l'idea o il concetto della morte. Cosi il soggetto pensante o intellettivo può sapere quello che il senziente non può sapere, e questo sapere nasce dalla facoltà cogitativa o concettuale, per la quale da una sensazione si astrae un’idea generale o un concetto. Cosi, per es., il soggetto pensante vive nel passato colla memoria, e nell'avvenire (possibile o reale) coll'imaginazione; il soggetto senziente, o bestia, vive astrattamente nella sua sensazione presente. In virtù della sensazione che non può essere indotta in un’idea, egli non possiede, come il pensante, la distinzione di una natura predominante ed insubordinabile al soggetto e di una natura subordinabile e passibile del soggetto. Quest’idea prototipa della forza è un’idea cardinale dello spirito, è stata il primo germe del sacro. Osservate il sacro e lo troverete Dio, non perchè sommamente ragionevole, ma perchè onnipotente. Nella religione spiritualmente più adulta rimane tultavia l'idea dell'onnipotenza, piuttosto che quella della ragionevolezza, l’attributo eminentissimo del sacro. Mediante questa passibilità il soggetto può sapere la prima volta di essere nato, di essere stato lattante, di essere stato partorito, e cosi pure può sapere che OGNI soggetto, nessuno eccettuato, non vissi oltre una certa mnassima età, ma morirono in quella o prima di quella. Conseguentemente egli sa *che* il soggetto non solo nasce (si genera) e muore (corruption), ma può nascere in varie condizioni e morire in qualsivoglia momento della sua vita. La nozione della nascita e della morte del soggetto è un fenomeno della co-scienza realizzato la prima volta che la co-scienza senzienle si svolge nella pensante; perciò sapientemente nella “Genesi” è detto che l’uomo (Adamo) prima di peccare, ossia di gustare il frutto del bene e del male, non moriva, ed avendolo gustato dovrà morire. Veramente la co-scienza senziente non può sapere di nascere e di morire; perocchè questo sapere non si sa se non sia una nozione *trasmessa* (il trasmesso) da un soggeto ad altro soggetto, ovvero un'idea indotta dal fatto costante della morte. Questa crisi della co-scienza, ci manifesta che la co-scienza, dalla sensazione svolgendosi nella mentalità , procede in un sistema di distinzioni ideali o possibile o concettuali e astratte che non sono possibili nella mera sensazione. La mentalità, che nasce dalla sensazione, è prototipicamente *imitatrice* o inconica della sensazione, e porta seco nel suo sviluppo la *forma logica* della sensazione stessa , che progressivamente si trasforma in quella del pensiero. La mentalità è prototipicamente sentiment e funziona in tre caratteristiche funzioni -- attenzione, memoria, ed imaginazione . Da queste tre prototipiche funzioni del sentimento nascono tre forme rudimentali della mentalità. La mentalità non più vive nell’immediata sensazione ma crea il conflato temporaneo, e vive nella retrospettiva del passato, e nella prospettiva dell'avvenire. Questo conflato temporaneo possibilita un'esistenza ideale oltre l’immediato sensibile presente, e conseguentemente un'idealità inducibile dall'osservazione. Da quest’osservazione nasce una seconda idea elementare della mentalità, cioè d'una forza naturale che domina la nostra, e d'una forza subordinabile alla nostra. Di qui la mentalità si esercita per subordinare le forze predominanti, e da questa generale osservazione si percepisce come un fatto costante che l’uomo nasce e muore, e finalmente che *io*, come uomo, ma no come persona, sono nato e devo morire. L'idea della morte come necessità, tuttochè sembri un’idea comunissima, è lungi dall'essere tale. La co-scienza primitiva, come quella di certi selvaggi oggidi viventi, percepisce la morte come un fatto costante. Ma, come la riſlessione, non arguisce punto che questo fatto, tuttochè costante, sia necessario. Suppongono questi selvaggi che la natura umana o sovrumana abbia sempre ucciso l’uomo. Ma suppongono parimenti che quest'uccisione non sia una necessità, ma una sfortunata accidentalità. La co-scienza che dalla sensazione si svolge nella mentalità si sistematizza in un sentimento pressochè comune alla umanità. Il soggetto possiede la sua propria determinazione individuale. Ma proprie determinazioni non affettano un sistema generale della co-scienza umana, che perciò ſu chiamato senso comune. Mentre questo sistema generale della co-scienza è pienamente uniforme al senso comune, il soggetto è un soggetto comune e spiritualmente normale. Ma quando questo sistema si aliena dal senso comune in on sistema d'idealità più misteriosa, e trascende con un giudizio prestigioso i giudizi comuni degli uomini, allora si dice, che questo soggetto è inspirato, ossia profetico, taumaturgico, e così via. Generalmente parlando, questa co-scienza trascendente subordina la comune, come provano i varii sacerdoti della primitiva religiosità  romana ed etrusca. Quando il soggetto si aliena dal senso comune senza trascendere in un'idealità prestigiosa, ed esercita una pratica contradittoria o contraria o opposta a sè stessa, ovvero incompatibile colle esigenze generali della pratica oggettività, allora si dice che il soggetto è spiritualmente ammalato, ovverosia demente. L'alienazione vuol essere accuratamente distinta, se cioè sia alienazione dal mero senso comune ( in questo senso si può dire, che tutti gli uomini grandi furono alienati), ovvero se sia una alienazione dalle generali esigenze pratiche dell'oggettività naturale e spirituale (in questo senso gli alienati sono coloro che comunemente si chiamano pazzi). La co-scienza trascendentale, ossia la co-scienza dominata dall'idealismo, co-scienza essenzialmente poetica, è il polo opposto della co-scienza dominata dalla sensazione, co-scienza essenzialmente prosaica. A quella si devono tutte le organizza zioni primitive dell'umanità , a questa si deve preferibilmente la tecnica industrialità e la mercatura primitiva. Vedremo più oltre, che la Coscienza umana progredisce sulla base di quest'opposizione archetipica della sua storia. La funzione più essenziale e più generale della mentalità è la comunicazione (il trasmesso). Il primo stadio del trasmesso è l'uso di una radice designativa – de-segna – segna. Qui io non segno che una presentazione o un modo di una presentazione, e sempre si riduce alle semplici categorie dello spazio e del tempo. Il pronome personali non fu primitivamente io e tu, e così via, categorie troppo metafisiche, per servire a questo primo stadio della lingua , ma, “qui”, “là” (Bradley, this, that, and th’other, thatness, thisness), ecc. , categorie dello spazio. Un sistema di comunicazione che consta di radici semplicemente per la che io de-segno non può soddisfare alle esigenze più generali della mentalità , epperciò da questo primo stadio si sviluppa, per l'implicita esigenza della mentalità, il secondo stadio. Il secondo stadio consta della combinazione di una radice con la che de-segno con una radice pre-dicativa, ma tuttavia legate a una sensibile determinazione; cosi, p. es., per designare un oggetto , si sceglie l'attributo sensibile più esplicito in quel l'oggetto, p.es., il verde per designar la pianta, il bianco per designer la neve. Quest’attributo sensibile, sendo necessariamente variabile o contingente nell'oggetto, non può costituire una specie. In questo secondo stadio si trovano molte lingue dei selvaggi o barbari, i quali scelgono un attributo sensibile dell'oggetto per designarlo, e conseguentemente non possono arrivare a formolare le specie o il genus o l’universale, ma semplicemente oggetti in certe sensibili condizioni . Il terzo stadio usa la categoria propria della mentalità esplicita, la categoria metafisica, per designare l'oggelto; come, p . es . , define la pianta non l'individuo verde, ma l’individuo polare, i cui poli cospirano alla luce ed all'acqua. Questa proprietà generica comprende ogni pianta; perocchè la detta polarità è l'attributo cogitabile generale della pianta. Il gesto è posseduto da ogni animale come inezzo psichico di movimenti o di formalità; ma il gesto che caratterizza la soggettività è appunto il trasmesso psichico che si svolse nella spirituale. La prima radice segna una mera affezioni dell'anima e più tardi si svolse in un segnato meta-forico, per rispondere all'esigenze della progressiva mentalità. Il rapporto fra il canale fisico *espresso* dall'anima e l'anima esprimente (segnante) è quello stesso rapporto, ma più complesso, per il quale un animale segna con un certo definite gesto certa definite affezione della sua anima. L'uomo, sviluppando in sè stesso la propria mentalità e l’inezzo per segnarla, si conobbe come specie comune. Il primo sistema di comunicazione quasi naturale deve essere stato pressochè identico in ogni umano, come ogni pecora bela, ogni cani abbaia ed urla. Dovette essere un inezzo nato con lui e trasmesso senza il minimo bisogno di convenzionalismo e di pratica convivenza per essere capita. La communicazione è stata realmente uno degli argomenti più favoriti e più frequentemente trattati dal filosofo, il quale la conosceva, ed a fondo, in molte forme antiche ed in un numero ancora maggiore di forme moderne. Egli ne ha trattato, infatti , in molte sue opere. Ne ha accennato nel primo volume della sua grande opera, cioè  Saggio circa la ragione logica di tutte le cose “Prolegomeni,, Torino, pag. 43 e ss. ( confr. anche ibid ., pag. 291 e susseguenti). Ne ha accennato anche nelle seguenti opere già pubblicale in Torino, e cioè nella Proposta di riforma sociale, pag. 26 e seg.; nella Introduzione alla cultura generale (facente parte del predetto vol.) , pag. 120 e seguenti. Ne parla poi in parecchie altre opere ancora inedite. L'uomo che possedette questo sistema di communicazione visse nelle foreste in una aggregazione o società piuttosto fortuita, poco dissimili da quelle dei quadrumani, ma si armò per esercire la caccia e la pesca. La sua nudità lo facea più fragile degli altri animali, epperciò ha dovuto sopperire a questa nudità e debolezza colle armi artificiali, e sopratutto colla propria scaltrezza. Questo primo stato dell'uomo vuol essere qui accennato come quello dell'astratta soggettività abbandonata a sè stessa; perocchè l'uomo, cacciatore o vivente dei prodotti naturali della terra e del mare, può vivere solitario. Le aggregazioni o società di questi uomini sono mera accidentalità non necessità dello stato proprio. In questo primo stato la soggettività nascente è caratteristicamente manifestata dalla perversione di certi istinti essenzialissimi alla conservazione del soggetto e della specie. Così, p. es., nessuna specie animale s'alimenta del proprio simile, ma certi selvaggi mangiano indifferentemente i loro nemici, amici, consanguinei, figliuoli, ed alimentano le donne, affinchè ingrassino e siano buone a essere mangiate quando partoriscono più figliuoli da mangiare. Quest’enorme perversione d’un istinto cosi radicale (l’affezione alla progenitura) segna quanto sia profonda la crisi che svolge l'istintualità nella mentalità. Sono certo che la quasi totalità de’ filosofi non sarà d'accordo su questo puntoe riterrà l’associazione umana come una necessità e non già come un'accidentalità . Ma l'autore, per la vita solitaria e un po' misantropica da lui fatta, è stato come involontariamente tirato a generalizzare questo suo particolare carattere. E una mentalita che si manifesta come un'orribile perversione dell'istinto, ma è una mentalità volente, non un mero modo d'ingenita istintualità. Questo titolo è quello, che nonostante la massima perversione, può nobilitare l’uomo antropofago sopra la bestia istintualmente tutrice della prole. Cosi pure, relativamente al soggetto individuo, l'uomo selvaggio o barbaro in procinto di essere cattivato dai suoi nemici, può suicidarsi, la bestia non mai (penguino?). L'istinto della propria conservazione individuale è un istinto comune a tutti i viventi nella natura, come pure quello della conservazione della propria specie non offre eccezione veruna nel regno della natura. Le sole eccezioni a questo fenomeno generalissimo della vita si trovano fra gli animali pensanti come il penguino. Tuttochè qui dobbiamo parlare del soggetto della natura, astratto da qualsivoglia organizzazione necessitata dalla sua condizione, abbiamo parlato di tre stadii caratteristici della comunicazione, come quella che può essere comunicata da soggetto a soggett, senza convenzione, indipendentemente dall'organizzazione sociale fra soggetti o dalla nessuna organizzazione. La comunicazione appartiene cosi al soggetto solitario (il Deutero-Esperanto di Grice ch’inventa al bagno) come al soggetto socievole, e generalmente al soggetto solitario che profitta segnatamente delle occasioni dell’amore. L’uomo solitario pratica qualche volta questo rapporto colla femmina come un mero rapporto erotico occasionale. Abbandona la femmina alle conseguenze della fecondità, non conosce i suoi figliuoli che sono allattati, nudriti ed educati dalla madre. Ma la comunicazione, che persuase la copula dell'amore, è la medesima colla quale la madre educa i suoi figliuoli. Cosi la comunicazione può dirsi radicalmente una creazione della specie ed assume dignità ed ha il suo svolgimento nella storia universa della spiritualità. Si può dire in tesi generale che la comunicazione genera la storia nella sua più semplice elementarità; e dallo svolgimento della lingua si conosce lo svolgimento dell'umana mentalità e conseguentemente, delle gesta che ne sono conseguite.  Nel 1884 mi furono mandati a casa, in Torino, dal benemerito libraio Loescher tre grossissimi volumi intitolati Paselogices Spe cimen Theoo editum . Intri, etc. Un filosofo di nome Teofilo Eleutero era a tutti ignoto ; e non fu poca la mia mera viglia nel vedere come un'opera filosofica così voluminosa, scritta e stampata in latino, avesse potuto sfuggirmi; giacchè, come adesso ancora nella mia tarda età , specialmente allora ho sempre seguito con vivo interesse il movimento filosofico . La curiosità quindi di sapere chi egli fosse, e qual valore avesse, mi fe' tosto gittare gli occhi sul primo volume che portava la designazione di Prolegomena, e che, come subito vidi , era una Introduzione, o Propedeutica che voglia dirsi , a tutta l'opera. La mia meraviglia crebbe dopo la lettura delle prime pagine del volume, tanto più che ad essa si congiunse il sentimento del l'ammirazione: sentimento che col proseguimento della lettura di venne un vero entusiasmo. Io mi trovava dinanzi ad un hegeliano, e, per giunta, un hegeliano di alto ingegno e di larghi propo siti: i quali propositi erano nientemeno che quelli di una Riforma dell'hegelianismo mediante principii dell'hegelianismo stesso. Comunicai la mia impressione e il mio entusiasmo al signor Loescher, il quale m'informò che l'autore dell'opera era un intrese, di nome Pietro Ceretti , dalla cui figlia aveva ricevuto l'esemplare dell'opera che mandò a me per prenderne conoscenza. L'impres sione e l'entusiamo potettero ancora, per mezzo della figlia , essere comunicati al filosofo, che era già assai infermo e che poco di poi morì della malattia che da parecchi anni lo travagliava, la paralisi progressiva. Io continuai , naturalmente , a leggere e stu diare la preziosa opera , ed è di essa che accennerò maggiormente in questo ricordo del filosofo , essendo essa indubbiamente il maggior titolo del valore e della posizione filosofica del medesimo. Senonchè, a render meno incompiuto il ricordo, mi si conceda che rilevi alcuni altri particolari della sua complessa personalità . Per cio che concerne biografia e bibliografia mi limiterò alle poche notizie seguenti . Nato il 1823 , e assolti bene o male, anzi piuttosto male che bene, i primi elementi della sua istruzione, cominciò a trarre qualche profitto in un Collegio di Gesuiti a Novara , ove fu qualche tempo , uscendone il 1840. È una singo lare circostanza questa, che un uomo che ebbe sempre uno spirito non solo diverso, ma anche opposto a quello de' Gesuiti, avesse proprio da questi avuto il primo impulso e il primo profitto agli studi Ma un profitto maggiore e un vero inizio di studi serii IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 29 furon da lui fatti a Firenze, ove si recò subito dopo, mettendosi in relazione cogli uomini del famoso Gabinetto Viessieux e con sacrandosi tutto agli studî' di lingue, lettere e scienze. Quanto a lingue, tra il tempo che fu a Firenze e gli anni che immediatamente seguirono , ne apprese parecchie tra antiche e moderne, allo scopo non solo di legger libri negli idiomi ori ginali, ma anche di viaggiare, per prender diretta notizia di uo mini e cose. Infatti, cominciò subito a viaggiare percorrendo in lungo e in largo non solo l'Italia, ma anche la Svizzera, la Francia, la Germania , l'Olanda e l'Inghilterra. Gli studî che fece nella prima giovinezza si allargarono e di vennero più intensi , quando dopo i viaggi si ritirò nella nativa Intra, nella quale accanto agli studi cominciò anche a scrivere opere di vario genere, segnatamente filosofiche. Nella sua carriera di scrittore passò per varie fasi, che io ( nella mia opera intitolata Notizia degli scritti e del pensiero filo sofico di Pietro Ceretti) ho designate e descritte come fase poe tica , fase filosofica in genere ed hegeliana in ispecie, fase di tran sizione, fase utopistica e riformativa della società civile , e fase ultima del pensiero cerettiano, la quale è quella del così detto si stema contemplativo. Ad ognuna di queste fasi corrispondono opere, e non poche, che si muovono nell’orbita del pensiero cerettiano gradatamente svolgentesi ed esprimentesi in essa. Le quali opere, se si consi dera il complesso di esse tutte, costituiscono una massa addirittura ingente , che versa su tutte le parti dello scibile. Ceretti , infatti, fu un pensatore e scrittore veramente universale. Tanto per dare una idea della predetta massa di scritti , ricor derò innanzi tutto quelli che si riferiscono alla fase poetica, la quale gli scaldò tanto la mente ed il cuore, che gli fe ' dire : Cari poeti, voi dell'alma mia Foste il primo verissimo Messia . Ad essa appartengono le opere poetiche (di genere romantico ): Eleonora di Toledo ; il Prometeo ; il Pellegrinaggio in Italia ; le Poesie liriche : inoltre, queste altre (di genere giocoso, satirico e filosofico e scritte anche in tempo posteriore alla giovinezza) , le Avventure di Cecchino, e le Grullerie poetiche. A queste opere scritte in versi se ne potrebbe aggiungere un'altra scritta in prosa e pur facente parte di questa prima fase , cioè quella intitolata Ultime Lettere d'un profugo e costituente un romanzo sul genere del Werther di Goethe e del Jacopo Ortis di Foscolo. Questa prima fase nella quale la mente del Ceretti è ancora incomposta ed in via di formazione – è caratterizzata dall'aspira zione di lui ad incarnare in sè stesso i pensieri e i sentimenti de' grandi uomini del suo tempo e di quello che immediatamente 30 COENOBIUM 1 lo precede. Il che egli stesso riepiloga ed esprime dicendo : « In giovinezza io fui innamorato e delirante alla Werther, patriota furibondo alla Jacopo Ortis, stravagante alla Byron , dolorante alla Leopardi , misantropico alla Rousseau , satanico alla Voltaire, ateo materialista alla La Mettrie, e finalmente miserabile alla mia propria maniera » . Alla seconda fase, che contiene il pensiero filosofico più emi nente e più compiuto del Ceretti , appartiene -- oltre ad un primo abbozzo di opera intitolata Idea circa la genesi e la natura della Forza — la grande opera latina predetta Pasælogices Specimen . Il pensiero filosofico di tal fase ha il fondo hegeliano, ma però da lui riformato. Le ultime fasi del pensier cerettiano costituiscono poi una ulteriore deviazione tanto dal pensiero hegeliano in genere, quanto dall'istesso pensiero hegeliano da lui riformato ed esposto in que st'ultima. Come prima deviazione e ad un tempo come transi zione alle fasi susseguenti si possono considerare la Sinossi del l'Enciclopedia speculativa ; le Considerazioni sul sistema della Na tura e dello Spirito ; l'Insegnamento filosofico : le quali opere hanno ancora spiccatamente il carattere di filosofia teoretica ed enciclopedica. La nota principale della suddetta deviazione è che al Logo assoluto, il quale nella grande opera latina diviene il principio cerettiano riformativo dell'Idea hegeliana, viene più de terminatamente e accentuatamente sostituito il principio della Co scienza assoluta, Coscienza, che , a dir vero, era già apparsa nella stessa opera latina . Quale ulteriore deviazione , ma specificamente appartenenti alla fase utopistica riformativa della società civile , vanno ricordate le opere intitolate Sogni e favole e Proposta di una riforma civile . Oltre ad esse, vanno ricordate anche queste altre , le quali però sono scritte in forma di romanzi, cioè , i Viaggi utopistici ; l'Inconclu dente ; Don Simplicio ; Don Gregorio ; il Protagonista , e qualche altra . La deviazione massima è in quegli altri scritti , che rappre sentano più spiccatamente l'ultima fase , nella quale il Ceretti per viene ad una specie di subbiettivismo nullistico, da lui designato, come è detto , col nome di sistema contemplativo. I pensieri di quest'ultima fase appaiono in parecchi altri scritti dell'ultimo tempo di sua vita , come per esempio, per nominarne alcuni , nella Vita di Caramella e nelle Memorie postume. Ma gli scritti mentovati delle diverse fasi , benchè già nuinerosi, non costituiscono neppur gli scritti tutti del filosofo d'Intra, es sendovene una quantità ancora notevole , che possono esser nomi nati scritti varii ed ai quali appartengono: Biografie, Autobio grafie (tra queste , notevolissima, La mia Celebrità ), Commedie, Novelle morali, ecc. e persino un Trattato d'Astronomia e un Trattato di Medicina. Come vede il lettore , quella che io chiamava una ingente IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 31 massa di scritti , e versante sulla universalità dello scibile , non è una denominazione esagerata, ma interamente reale. E ciò basti a dare una idea sommaria degli scritti del filosofo intrese . Per cio che concerne il filosofo propriamente detto , egli va considerato rispetto al corso della filosofia in genere ed al periodo filosofico idealistico tedesco in ispecie , nel qual periodo si riat tacca alla maggiore manifestazione speculativa del medesimo, che è la hegeliana. Egli si apparecchiò a pigliare il suo posto in quest'ultima, con uno studio e conoscenza non comune, primamente delle varie discipline dello scibile, sopratutto di quelle concernenti la Storia universale e le Scienze positive e naturali d'ogni specie ; seconda mente, di quelle attinenti alla filosofia propriamente detta . Rispetto a quest'ultima, è veramente ammirabile l'opera del nostro filosofo, che – dopo i suoi profondi studi sui filosofi delle diverse età (non esclusa quella stessa della filosofia indiana ) e in genere ne' testi originali de ' medesimi ne ha dato un saggio no tevolissimo egli stesso nel primo volume della sua opera latina, cioè ne' mentovati Prolegomeni. Ma nella Storia della filosofia uno de' periodi che egli più ha studiato e conosciuto è il predetto periodo filosofico tedesco sì ne' filosofi massimi di essa, come Kant, Fichte, Schelling ed Hegel , si ne' secondarii e pur importanti del medesimo, come Herbart, Schopenhauer ed altri . In questo periodo era naturale che quello che massimamente attraesse e legasse il suo spirito fosse Giorgo Hegel , siccome quello che compendia in sè, primamente la Storia filosofica generale e, in secondo luogo, lo stesso speciale periodo tedesco. Hegel, in fatti, è da lui considerato come quello che ha raggiunta la più alta forma di speculazione nella scienza filosofica, sopratutto nella disciplina logica . Considerando il filosofo tedesco in tal modo, è naturale che egli nel complesso ne accogliesse le idee e si riattaccasse a lui . Senonchè, pur accogliendole, non le riteneva scevre di vizii o errori che voglian dirsi . In conseguenza di ciò egli si propose da una parte , di additare questi vizii , dall'altra, di correggerli . E la correzione, che costituiva per lui una riformazione dell'hegelianismo, non è poi altro che la filosofia cerettiana stessa , quale è conce pita ed esposta nella predetta grande opera latina. Ciò posto , seguiamo ora tal pensiero filosofico cerettiano ne suoi tratti fondamentali. Primamente, accogliendo l'hegelianismo come la predetta su prema manifestazione della coscienza filosofica, ei l'accoglie nel general fondo e pensiero del medesimo, fondo e pensiere, che ven gono da lui riassunti ne' seguenti principii generali : 1 ° L'assoluto è l'Idea ; 2 ° l'Idea concreta è lo spirito ; 3° l'essenza concreta ed asso luta dello Spirito è l'Idea logica. Inoltre, l'evoluzione dialettica del l'Idea , nella quale evoluzione consiste il processo metodico di 32 CENOBIUM quest'ultima , avviene e deve avvenire secondo la Nozione, ossia secondo il Concetto , come dice Hegel (dem Begriffe nach ). Rispetto a tali principii designati come hegeliani non che come veri e inoppugnabili, e quindi da lui stesso accolti, va però osservato, che di essi non può essere ritenuto come schiettamente e veramente hegeliano il terzo ; giacchè, secondo Hegel, l'essenza concreta ed assoluta dello Spirito non è l'Idea logica. Questa è per Hegel l’Idea pura e semplice soltanto, e però immediata ed astratta , non ancora dialetticamente esplicata e , mediante l'espli cazione, fatta concreta. L'essenza assoluta e concreta dello Spirito è per lui invece l’Idea che da puramente e semplicemente logica ( da Idea logica ) si è estrinsecata nella Natura (cioè si è fatta Idea naturale o Natura) , e, attraverso di questa , è giunta a coscienza di sè, ossia è divenuta spirituale , o, che vale lo stesso , è divenuta Spirito. In altri termini, l'essenza concreta assoluta dello Spirito è la Coscienza dell'Idea, ovvero è l'Idea conscia di sé, mentre l'Idea logica hegeliana è ancora inconscia. Per cio che concerne i mancamenti e vizii della dottrina he geliana, essi , secondo il Ceretti concernono l'evoluzione dialettica dell’Idea , o , che vale lo stesso, concernono l'Idea nel suo pro cesso ( esplicazione) dialettico. Un primo vizio generale in tale evoluzione è per lui quello che nella logica hegeliana concerne il Prius e il Risultato dell'Idea. Notoriamente per Hegel, benchè l'Idea sia , da una parte , il prin cipio universale assoluto, e, dall'altra il principio iniziale dell'evo luzione dialettica assoluta, principio iniziale che farebbe come il Prius ideale dialettico , pur non di meno pel filosofo tedesco il vero Prius dell'Idea non è questo iniziale , ma quello finale a cui l'Idea perviene come Risultato del processo dialettico , risultato finale che è propriamente lo Spirito, ossia l'Idea pervenuta a co scienza di sè. È per questo che Hegel sostiene che il vero Prius non è l'Idea logica, ossia l'Idea pura ed estratta , ma lo Spirito, che è l'Idea che col processo dialettico si è fatta veramente reale e concreta. Or questo Prius che Hegel pensa e pone come vero è invece dal Ceretti ritenuto falso, perchè pensato ed ottenuto secondo un procedimento dialettico prestigioso e sconforme al vero ordine lo gico , che deve avere e seguire il Logo ( Logo che, come tosto si vedrà , è il principio specifico assoluto cerettiano sostituito alla Idea hegeliana) . Accanto a questo vizio generale , egli trova e addita vizii particolari affettanti l'Idea come logica naturale e spi rituale. I vizii spettanti all'Idea logica e al corrispondente processo dialettico sono tre e da lui stesso brevemente indicati come segue: Il primo è che nell'esplicazione dialettica dell'Idea logica la genesi di questa sia « una genesi della Nozione dalla Non-Nozione » . Il secondo è che l'esplicazione dialettica dell' Idena logica è piut tosto un'astratta esplicazione delle categorie, anzichè un concreto IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 33 un ri immanente processo di esplicazione ed implicazione. Il terzo è che il processo dialettico dell'Idea logica hegeliana è piuttosto un Logo astratto astrattamente esplicantesi e riassumentesi in sultato , anzichè la sanzione ( o affermazione) di sè stesso nella con creta immanente ed assoluta verificazione della propria posizione, dialettica e riassunzione ( 1 ) . Il primo de' tre vizii indicati, riproducendo il mentovato ge neral vizio del Prius, ei lo determina meglio designandolo come processo inconscio dell'Idea logica, processo che Hegel pensa appunto come inconscio ed il Ceretti pensa e vuole invece come conscio. E può dirsi che su tal coscienza dell'Idea logica poggia il punto cardinale della differenza dell'Idea hegeliana dal Logo cerettiano. Quanto al vizio concernente l'Idea naturale, esso è in grosso quello stesso dell'astrattezza, testè rilevato , o , che vale lo stesso , della non raggiunta realtà dell'Idea nel farsi naturale. Infatti, dice egli , l'Idea logica , estrinsecandosi e divenendo Natura, rimane in quello stato astratto e puramente e semplicemente ideale che ha come Idea logica, e non giunge a veramente naturarsi, com'ei dice , cioè a farsi vera realtà naturale. E finalmente, quanto allo Spirito , od Idea hegeliana spirituale, il filosofo intrese vi trova il vizio di quella stessa prestigiosità speculativa ( speculativa prestigiositas ), che ha trovata e rilevata per la Logica. Ed osserva, per giunta, che il general vizio in nanzi mentovato dell'Idea hegeliana, che cioè essa sia un Risul tato, diviene più specifico nello Spirito, in quanto questo , conce pito da Hegel come l'Idea che dal suo Esser-altro ( cioè dalla sua esistenza naturale ) ritorna a sè stessa , ha appunto il carattere speciale di essere un Risultato e non una realtà , a dir cosi , ori ginaria. Accanto ai predetti vizii fondamentali concernenti l'Idea nelle sue varie forme, logica , naturale e spirituale , ne rileva alcuni altri secondarii; ma noi , limitandoci alla indicazione de ' fonda mentali, passiamo ad indicare le corrispondenti emendazioni di essi . Preposto che alla Idea hegeliana egli in genere sostituisce il Logo, principio universale ed assoluto anch'esso, la prima generale emendazione, concernente il Prius ed il Risultato dell'Idea innanzi esposti , è fatta dal Ceretti nel senso che il Logo è oiginariamente conscio e non già tale per risultato. Rispetto ai tre vizii dell'Idea logica propone come emendazione ( 1 ) Mi piace di riferire colle stesse parole latine del Ceretti il predetto triplice vizio : cioè , « Hegelianæ logicæ tractationis defectuositas, in exitu prolegome norum designata , est primo, quatenus notionis a non-notione progenesis ; secundo, quatenus categoriarum abstracta explicativ, potiusquam concreta explicationis et implicationis immanens contraprocessuosilas ; tertio , quatenus abstractus er plicativce dialectica logus in abstracta resumptione, potiusquam in concreta positionis, dialectica et résumptionis immanente absoluta verificatione suun ipsum sanciens » . Pasael. Spec. vol . II , p. 6 . CENOBIUM , Vol. III, Anno II, Marzo - aprile 1908. 3 34 CENOBIUM e però riformazione, che il primo venga emendato mediante il principio della generale coscienza logica della Nozione od Idea hegeliana : il che importa che il Logo sia una Nozione ( Idea) che si genera dalla Nozione stessa e non già dalla Non-nozione ( No zione inconscia) . La emendazione di questo primo vizio coincide in grosso anche colla generale emendazione predetta del Prius e del Risultato. La emendazione del secondo vizio è dal nostro filosofo otte nuta col propugnare ed effettuare che la genesi delle categorie logiche non avvenga secondo un processo astratto di sola espli cazione , ma secondo un processo concreto di esplicazione ed im plicazione insieme : nel qual processo concreto i momenti astratti di esplicazione si negano come astrattamente tali ed affermano perciò la loro unità . Il terzo finalmente viene emendato, pensando e determinando il Logo assoluto in guisa che esso non rimanga un momento astratto di riassunzione ( risultato) , ma che divenga assoluta ed immanente affermazione (sanzione) di tutto il corso esplicativo , costituendo così un processo e controprocesso, in cui ogni mo mento è unità dell'astratto e del concreto. Quanto ai vizi relativi all'Idea naturale hegeliana , la emenda zione ( stata già implicitamente accennata nella critica fatta di essi ) consiste in quella che il Ceretti appella la naturazione del Logo. E cioè, mentre Hegel concepisce la Natura siccome l'Idea ritornante a sè stessa dal suo Esser- altro (dalla sua esternazione ed alterazione) , il Ceretti invece pensa che la Natura non è sol tanto ciò , ma è e dev'essere reale naturazione del Logo, ossia reale incarnazione ed obbiettivazione del medesimo. E da ultimo, quanto all'emendazione del vizio dell'Idea spi rituale, essa nel complesso è quella già rilevata nella critica fatta del vizio , e consiste nel concepir la medesima, ossia lo Spirito , siccome Logo originariamente conscio e non divenente tale per risultato d'un processo. Le predette generali e fondamentali emendazioni , accanto ad altre subordinate e secondarie , son quelle che nella esposizione ed esecuzione delle Idee filosofiche costituiscono la filosofia cerettiana riformativa della hegeliana , e filosofia riformativa che forma il contenuto della più volte mentovata grande opera del Ceretti , intitolata Saggio di Panlogica. Questo Saggio è un'opera veramente colossale ed è l'enciclo pedia filosofica cerettiana , modellata sulla nota corrispondente En ciclopedia hegeliana ( Encyclopädie der philosophischen duissen schaften) in tre volumi. Il Ceretti concepì la propria Enciclopedia vasto disegno da assolversi in otto volumi : il primo (i prolegomeni) come propedeutica a tutta l'opera, propedeutica che ad un tempo contenesse in germe il pensiere della stessa Enciclopedia ; il secondo contenente ( col nome di Esologia ) l'e sposizione della Logica e Metafisica ; il terzo, il quarto , ed il una con un IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 35 quinto ( col nome di Essologia ) costituenti la trattazione ed espo sizione della filosofia della Natura nelle sue tre parti della Mec canica, della Fisica e della Biologia (od Organica) ; il sesto, il settimo e l'ottavo (col nome di Sinautologia ) designati a trattare la Filosofia dello Spirito, distinta anch'essa in tre parti denomi nate Antropologia, Antropopedeutica ed Antroposofia . Di questa vasta concezione ed esecuzione il principio fonda mentale ed assoluto è il Logo, che il lettore vede essere in fondo alla Esologia, Essologia e Sinautologia : Logo che, come si è detto , in Ceretti piglia il posto e la generale significazione del l'Idea di Hegel. Il Logo Cerettiano, come quest'ultima, è l'uni versa ed assoluta realtà , e realtà con preminente carattere ideale , comprendente in sè la realtà logica, la naturale e la spirituale. Per tal carattere anche la filosofia cerettiana è idealismo ; tanto più veramente assoluto , in quanto , non meno e forse ancor più dell'hegeliano, abbraccia in sè in complessiva unità tutte le forme di Idealismo apparse nel corso storico della filosofia, si in generale le antecedenti all'Idealismo tedesco , si in modo più speciale quelle di quest'ultimo , cioè gli Idealismi subbiettivi Kantiano e Fichtiano , l'Idealismo obbiettivo Schellinghiano , non che lo stesso Idealismo assoluto Hegeliano. Questo carattere di universalità ed assolutezza dell'Idealismo cerettiano è una delle cose più spiccanti , più notevoli ed anche più rilevate dell'Enciclopedia filosofica del filosofo intrese. Quanto al principio assoluto del Logo , va parimenti rilevato , che , per la natura conscia del medesimo innanzi additata, esso vien dal Ceretti designato anche come puramente e semplicemente Coscienza : per modo che Coscienza e Logo ricorrono quasi pro miscuamente nella Enciclopedia cerettiana ed anche in altre opere posteriori) come espressive e determinative del principio assoluto. È bene , inoltre, rilevare che tal principio assoluto e dal nostro filosofo anche puramente e semplicemente detto l'Assoluto, il quale corrisponde in tutto e per tutto al Logo e alla Coscienza consi derati come assoluti . Ciò fa intendere come pel Ceretti l'elemento conscio costitui sce il carattere essenziale del suo principio assoluto , ossia del suo Logo in tutto il suo ambito , mentre per Hegel l'elemento conscio è caratteristico e specifico dello Spirito propriamente detto, ossia dell'Idea giunta a coscienza di sé . Ciò farà, d'altra parte, pari menti intendere come il filosofo intrese ponga come riformativa dell'hegelianismo la proposizione : L'Assoluto è la Coscienza . Per cio che concerne la designazione del principio assoluto, rilevo ancora che, ad esprimere il predetto principio assoluto, egli adopera tante altre volte anche le parole Idea, Nozione, persin Pensiere , come Hegel. Ma, se le espressioni son varie, il senso e valore fondamentale del suo principio è quello del Logo pen sato come Logo conscio o Coscienza (assoluta). Conformemente a ciò ( e in grosso conformemente all'hegelia 36 CENOBIUM con nismo) il Logo vien pensato nella sua intrinseca natura e nel suo processo dialettico. Nella sua natura il Logo vien considerato in tre diverse forme di esistenza, cioè, quale è in sè, quale è per sè, e quale è in sè e per sè. La considerazione del Logo in sè stesso costituisce la predetta Esologia (da sis, és, dentro e hópos) , ossia la dottrina logico- metafisica del Logo ; quella del Logo fuori di sè costituisce la Essologia ( da few fuori, in latino Exologia) , ossia la dottrina ( filosofica ) della Natura ; e quella del Logo in sè e per sė, o come il Ceretti la dice , del Lago in sè e con sè, costituisce la Sinautologia ( da suv e autos, con stesso ), ossia la dottrina dello Spirito . Degno di rilievo è inoltre che il Logo in sè pel filosofo in trese è il Logo nella sua Subbiettività, il Logo fuori di sè è il Logo nella sua Obbiettività, e il Logo in sè e sè il Logo nella unità della sua Subbiettività e della sua Obbiettività, ossia è il Logo subbiettivobiettivo, che è poi il Logo assoluto. È bene parimenti rilevare che come il Logo per lui è per eccellenza il Logo conscio , il quale è poi lo Spirito o la Coscienza , così si de signano egualmente lo Spirito e la Coscienza nella loro Subbiettività, nella loro Obbiettività, e nell'unità della Subbiettività e dell'Ob biettività. Il predetto triplice modo di essere della natura del Logo soggiace ad un processo esplicativo , che costituisce il pro cesso dialettico , appellato anche metodo dialettico. Questo pro cesso metodico ha , tanto per Hegel quanto per Ceretti , tre mo menti anch'esso. Questi momenti, che il filosofo tedesco appella comunemente dell'in sè , del per sè e dell'in sè e per sè , dando loro il valore e significato di momento immediato o intellettivo ( della speculazione dell'Idea ), di momento mediato o razionale negativo , e di momento immediato e mediato insieme, o razionale positivo, vengono invece dal Ceretti appellati ( nel complesso però con valore e significato simili a quelli di Hegel) momenti della Posizione, Riflessione e Concezione. La posizione , come la parola stessa indica, ha il valore e significato di quella che comunemente ( in Fichte , Schelling ed Hegel) , ricorre come tesi , mentre la ri flessione ha significato e valore di contraddizione ( opposizione, an titesi ) e la Concezione significato e valore di conciliazione degli opposti, sintesi della tesi e dall'antitesi. La triplicità delle forme di esistenza del Logo ( quelle di Eso Jogo , Essologo e Sinautologo con le corrispondenti dottrine di Esologia, Essologia e Sinantologia) costituisce per Ceretti i tre Cicli di quest'ultimo. Cicli che , mentre son tre , pur ne costitui solo sotto triplice forma : costituiscono cioè il Logo assoluto unitrino . Un altro punto pur degno di rilievo e caratteristico è il modo come Ceretti determina la considerazione filosofica o speculativa de tre Cicli . La considerazione del primo, ossia dell'Esologia , è per lui il pensiero del Pensiero ( cogitatio cogitationis) quella del scono un IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 37 ma secondo o dell'Essologia è il Pensiero del Pensato ( cogitatio cogi tatis ), e quella del terzo, o della Sinautologia, è il Pensiero del Pensante ( cogitatio cogitantis ). Anche nell'hegelianismo il Pensiero assoluto è identificato col l'Idea assoluta, in quella guisa che il Ceretti identifica parimenti il Pensiero assoluto col Logo assoluto. Però nella espressione e determinazione cerettiana la cosa ha un significato più specifico, e propriamente questo , che cioè l'Esologia è la considerazione del Pensiero in sè stesso , del pensiero puro hegeliano e potrei an che soggiungere, della ragion pura kantiana ; l'Essologia è la considerazione del Pensiero del Pensato , cioè del Pensiero non più in sè, puro ed astratto , del Pensiero estrinsecato ( fatto per sè ) , obbiettivato ; e la Sinautologia la considerazione del Pen siero del Pensante, cioè del pensiero come esistente ed esercitan tesi nel subbietto pensante. Potrei dire che la predetta triplice considerazione è quella del Pensiero puro e semplice, quella del Pensiero come obbietto di sè medesimo ( estrinsecatosi fuori di sè nella Natura ), e quella del Pensiero astratto ed operante come proprio subbietto ( nella Coscienza del pensiero stesso o nello Spirito ) . Dopo le antecedenti generalità , passiamo a considerare parte per parte il Logo nelle sue tre forme di esistenza nella logico metafisica ( Esogia) , nella naturale ( Essologia) e nella spirituale ( Sinautologia ). La dottrina logico -metafisica, conformemente alla hegeliana, è pur distinta in tre parti che anche per lui , come per Hegel , son quelle dell'Essere, dell’Essenza e del Concetto : solo che queste nel filosofo tedesco si susseguono nel modo indicato e nel filosofo intrese mutan posto , diventando primo il Concetto , secondo l'Es sere e terzo l’Essenza . Questo mutamento di posto nella serie porta poi naturalmente con sè un corrispondente mutamento nel processo dialettico. Le dottrine di queste tre parti così spostate hanno in Ceretti i nomi speciali di Prologia, Dialogia e Autologia . La prima con sidera il Logo esologico, o logico -metafisico, nella astratta iden tità del Pensiero , la seconda nella differenza di esso , e la terza nella unità sintetica dell'identità e della differenza del Pensiero stesso. Non credo che il nostro filosofo abbia avuto giusta ragione d'invertire l'ordine de' tre principii fondamentali predetti . Ma, checchè sia di ciò , è bene di allegare la ragione dell'invertimento da lui ritenuto razionale e necessario . La quale, a suo credere , è che per il Logo conscio, o che vale lo stesso, per la Coscienza il primo ( Prius) prologico ( cioè il primo con cui deve cominciar la logica) non dev'essere nè indeterminato , come sono l'Essere di Hegel e di Rosmini, nè determinato , come sono l'Io di Fichte e la predetta Ragione di Schelling , ma dev'essere lo stesso Prius, nel quale sieno implicitamente contenute tanto la indeterminazione 38 COENOBIUM quanto la determinazione. E un sì fatto Prius pel Ceretti è la Proposizione, che è il primo ed iniziale momento della sua Pro logia, il quale è più primitivo e più semplice del Giudizio che ne costituisce il secondo, al quale poi segue il terzo unitivo de' due primi, che è il Sillogismo. Quanto alla natura de suddetti momenti della Prologia, la Proposizione è la immediata ed indistinta coscienza logica, la quale , appunto per la sua indistinzione, non è nè subbiettiva nè obbiettiva . Il Giudizio invece è la coscienza logica, che dalla indistinzione od indifferenza si esplica e passa nella subbiettività ed obbiettività di sè medesima. E da ultimo il Sillogismo è la subbiettività della coscienza logica , la cui attività consiste nell'e splicare se stessa , esplicazione di sè stessa , che in fondo è poi una obbiettivazione della subbiettività. Dato tal concetto generale de' momenti della Prologia , il nostro autore passa a considerare e determinar ciascuno in se medesimo, ed inoltre secondo il predetto processo metodico trico tomico della Posizione , della Riflessione e della Concezione. Conformemente a ciò , distingue la Proposizione in posta, ri flessa e concepita ; e in posto, riflesso e concepito, distingue e de termina parimenti sì il Giudizio che il Sillogismo. La trattazione ed esposizione di ciò è amplissima, specialmente quella del Sillogismo ; ed è non solo amplissima, ma anche note volissima per le molteplici determinazioni logiche ed ontologiche non che illustrazioni ed applicazioni d'ogni genere alle diverse parti dello scibile e della stessa realtà . La trattazione è di tanto interesse che è degnissima di esser presa da ognuno in considerazione anche oggi alla distanza di una sessantina d'anni, dacchè fu pensata ed esposta . Non potendo entrare nelle particolarità a far intendere il pensiero cerettiano sì nella concezione de' momenti della predetta Prologia sì nel passaggio da questa alla Dialogia, allegherò un luogo nel quale l'autore lo riepiloga, e che è questo . « Il pen siero prologico ( 1 ) , uscito (passato) dalla sua generalità formale ( cioè dalla proposizione) colla particolarità formale della sua gene ralità ( cioè col giudizio) nell'unità formale della sua generalità e della sua particolarità ( cioè nel sillogismo ), si concepisce come sistema metodico della razionalità, ossia come forma assoluta delle forme. La forma sillogistica delle forme pensabili insegna che il pensiero è essenzialmente il sistema di sè, e non v'è sistema all'in fuori del sistema del pensiero, poichè l'altro del pensiero non può essere fatto (posto ) da altro che dal pensiero. Inoltre, insegna che il sistema assoluto del pensiero è il sillogismo giudicativo della proposizione, perciò l'Assoluto non può esser concepito altrimenti ( 1 ) Cosi a pag. 125 della Ragione Logica di tutte le cose , vol . II Esologia , nella versione dal Latino di Carlo Badini, Torino, 1890. IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 39 che nella forma sillogistica ; questa concezione porta con sè la ne cessità logica di sè , poichè è la Nozione della Nozione. Il sillogi smo assoluto , come prologico , non è più che la formalità ( la forma assoluta del Logo, la quale invoca l'essenzialità assoluta di sè da esplicare in sè da sè stesso . Quindi il sillogismo passa dalla sua subbiettività assoluta ad esplicare la sua obbiettività im plicita assoluta ; questa obbiettività è la verità della subbiettività sillogistica assoluta » . Ciò posto , quella che ora effettua il passaggio e progresso dalla forma e dalla subbiettività del Pensiero alla essenzialità ed obbiettività del medesimo è la Dialogia, che per eccellenza è la dottrina delle categorie logiche del Pensiero. Corrispondendo la dottrina dialogica cerettiana alle dottrine logiche hegeliane dell'Essere e dell'Essenza prese insieme, ne segue che le categorie, onde qui è parola , sono in grosso quelle che ricorrono nelle predette due dottrine hegeliane. Quanto al concetto della categoria e alla funzione logica della categorizzazione, sono importanti queste parole del filosofo intrese : « La categoria , dic'egli ( 1 ), è propriamente la predicazione del Pensiere fondata dallo stesso pensiere come necessaria ; e la cate gorizzazione del Pensiere è l'atto più nobile della speculazione filo sofica e la più alta concezione dal Pensiere umano Nè meno im portanti in proposito sono gli additamenti ch'egli fa intorno alla evoluzione storica delle categorie presso i diversi filosofi e corri spondenti scuole che spiccano intorno ad esse . Per cio che concerne le categorie trattate e sviluppate nella Dialogia, le fondamentali son quelle dell'Essere, dell’Essenza, e del l'Esistenza, come costituenti la triplicità dialogica per eccellenza ; e da queste fondamentali se ne sviluppano altre costituenti mo . menti subordinati, ma non meno importanti. L'Essere, infatti, è da prima il Logo generale ed indeterminato (est Logus Conscentiæ generalis) , ma esso si particolarizza e de termina in sè medesimo in ulteriori principii categorici. Per esem pio, si distingue e particolarizza come qualitativo, quantitativo e modale, sorgendo così le categorie della qualità, della quantità e della modalità (misura ). Ed inoltre l'Essere nella sua stessa gene rità ( innanzi alla predetta particolarizzazione dunque) è essere , non essere e divenire ( esse , non - esse , fieri); come, d'altra parte , le categorie della qualità, quantità e modalità alla lor volta si distin guono e particolarizzano in altre. Chi conosce la logica di Hegel vede subito nelle predette ca tegorie cerettiane la simiglianza con le corrispondenti hegeliane ; ed è forse questa la parte , nella quale il Ceretti si tiene più da vicino a quello ; mentre in altre parti vi sono non poche dissi miglianze. ( 1 ) Nel predetto citato volume della Esologia , pag . 132 . 40 COENOBIUM ecc. Dall'Essere il processo dialogico conduce alla seconda cate goria fondamentale predetta, cioè alla Essenza la quale non è altro che la particolarizzazione dello stesso Essere ( Esse suam absolutam particolaritatem adeptum est Essentia ). Ciò che si è detto avvenire per la categoria fondamentale del l'Essere avviene anche per l’Essenza, che cioè anche questa , alla sua volta distinguendosi e particolarizzandosi in sè medesima, ne produce di ulteriori , come quelle del fondamento, della sostanza , della materia , ecc. E quanto alla terza categoria fondamentale, cioè l'Esistenza , essa è l'unità dell'Essere e dell'Essenza . Ognuno nella Existentia riconosce l'Esse come particolarizzato ; ma d'altra parte, nella particolarizzazione dell'Essere si specifica e manifesta anche l'E lemento dell'Essenza, per forma che l'Esistenza risulta siccome una manifestazione dell'Essenza ( Exsistentia est essentia manifesta ). E da ultimo l'Esistenza dà anch'essa origine ad altre categorie subordinate , come realtà, necessità , La terza parte della Logica ( o della Esologia ) cerettiana, cioè l'Autologia, si fonda, sviluppa e sistematizza in tre categorie fon damentali, che son quelle di Sapere, Volere, Agire, ( Scire, Velle, Agere ), le quali sono in corrispondenza di quelle che ricorrono nella terza parte della Logica hegeliana, e che sono l'Idea del conoscere (die Idee des Erkennens ), l'idea del bene ( die Idee des Guten ) e l'Idea assoluta ( die absolute Idee ). Va però osservato che il volere e l'agire che in Hegel si congiungono nella Idea del Bene , e costituiscono la Idea pratica , in Ceretti appariscono, al contrario , come momenti e categorie distinte . Questa terza parte della Logica del Ceretti è una delle più belle e ad un tempo una di quelle in cui il Ceretti è come più originale e più indipendente da Hegel . Il modo rome il filosofo intrese vede la distinzione, la relazione e la unificazione del Sa pere, del Volere e dell'Agire è qualche cosa di profondo, di stu pendo e di vero , e lo si vede più chiaramente e più determina tamente di quel che possa vedersi nel, pure grandissimo, filosofo tedesco . Ciò viene dal perchè i tre momenti, che in Hegel sono come ancora implicati e inviluppati, in Ceretti ricorrono come più sviluppati e ad un tempo più sistemati . Il pensiero cerettiano dell'Autologia è ( secondo che lo espressi nella mia Notizia degli scritti del pensiere filosofico del Ceretti) che « l'Assoluto è la Coscienza logica che si sistematizza in se stessa , per quindi sistemarsi fuori di sè ( 1 ) allo scopo finale di sistemarsi in sè e per sè come assoluta unità di sè stessa. L'Au tologia costituisce un sillogismo assoluto ( cioè una connessa tri plicità assoluta ), i cui termini sono i predetti di Sapere , Volere , Agire. Nella Coscienza assoluta il Sapere è l'essere del Volere, ( 1 ) Nel Volere c'è , infatti, esterîorazione del Saputo. IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 41 il volere è l'essenza del Sapere, l'agire è l'esistenza del Volere ; e tutti e tre insieme costituiscono l'unitrinità della Coscienza » . Anche le tre predette categorie si distinguono e particolariz zano in altre . Il Sapere si svolge ne ' momenti subordinati (i quali son categorie anch'essi) di Sapere immediato, mediato, assoluto ; il Volere si distingue e particolarizza alla sua volta nelle forme ca tegoriche di Volere subbiettivo , obbiettivo e assoluto ; e l'Agire nelle sue corrispondenti di Agire attuoso ( agire come atto puro e semplice ), Agire volonteroso e Agire concettuale ( 1 ). Questo è in breve il concetto e disegno della prima parte della grande opera enciclopedica del nostro filosofo . La seconda parte, quella del Logo fuori di sè o del Logo nella sua obbiettivazione , cioè la Filosofia della Natura, ha avuta una estesissima trattazione ; e trattazione in cui il nostro filosofo si mostra non poco originale ed indipendente rispetto alla corri spondente parte della Enciclopedia hegeliana. Essa è per noi italiani tanto più importante, in quanto non vi è in Italia , neppure presso i nostri filosofi maggiori moderni, una sola opera che , prima di questa del Ceretti , meriti il nome di filosofia della Natura nel senso ampio, vero e moderno della parola. Io ho scritto su questa parte della grande opera cerettiana tre lunghissime Introduzioni ai tre volumi che vi si riferiscono, le quali, riunite insieme e pubblicate sotto il titolo di Filosofia della Natura di Pietro Ceretti, formano un'opera di ben 487 pagine; e in questa ho ampiamente chiarita e dimostrata la verità di tutto ciò . Quanto al cenno che posso farne qui, specialmente a cagione della vastità di trattazione che ha nel Ceretti , esso non può con sistere in altro se non nella pura e semplice indicazione del di segno, della materia e dell'andamento della trattazione stessa . Premessa la determinazione della posizione e del concetto della filosofia della Natura nel Sistema panlogico , egli passa alla considerazione di un punto importantissimo, quello cioè della evo luzione storica della concezione filosofica della natura , evoluzione che, secondo lui , passa per tre gradi e corrispondenti forme della coscienza filosofica , la forma estetico-teologica ( o sentimentale) la forma empirico -matematica ( o intellettiva e riflessiva ) e la forma speculativa propriamente detta ( o concetturale) . E fa in propo sito una stupenda rassegna storica di queste forme, giungendo all'ultima , ossia alla hegeliana, alla quale egli si riattacca, ulterior mente sviluppandola e riformandola in ciò che ha di difettivo . Procede quindi alla partizione della Filosofia della Natura, dividendola come abbiam detto in Meccanica , Fisica e Biologia , conformemente alla Natura distinta in sè stessa in meccanica , fi ( 1 ) Queste tre azioni (o funzioni ) categoriche dell’Agire il Ceretti le designa come Agere actum, Agere voluntatem e Agere notionem . 42 CENOBIUM sica e biotica ( vivente ). Carattere costitutivo della Natura mecca nica è la quantità, della fisica la qualità, e della vivente l'unità della quantità e della qualità, la quale unità è poi la modalità o la misura della medesima. Quanto all'unità inscindibile delle tre parti distinte e de' corrispondenti tre ' caratteri della natura , sono notevoli e riassuntive queste parole del filosofo intrese . Cioè : Il meccanismo é ove è la fisica ( la natura fisica ), e la fisica é ove è il meccanismo ; e se vi sono il meccanismo e la fisica, vi è anche la natura vivente » . Ad intendere meglio il rapporto ed il corrispondente concetto filosofico delle predette tre parti e de ' tre predetti corrispondenti caratteri , il nostro filosofo arreca un esempio illustrativo , che è bene di riprodurre anche qui . « Il meccanismo, dic'egli , suppone necessariamente l'esteriorità reciproca dei suoi termini ; quando questa esteriorità , passata nella sua interiorità , nella sua unità in separabile, trascenda sé a sè esteriore, non versa più in un piano ( campo) meccanico, il quale ammetta per sè alcuna intrinsecazione qualitativa della esteriorità meccanica, ma versa propriamente nella natura fisica del meccanismo ( in mechanismi physi ), la quale è la quantità passata nella sua qualità che deve esplicarsi. Così , ad esempio, in qualunque modo supponiamo il ferro, diviso, figurato, posto in movimento, ecc. , esso non cessa di essere ferro. E quando per azioni esterne, come ad esempio, per l'ossidazione, cessi di essere ferro, non consideriamo tali azioni come meccaniche, perchè due modi della materia (l'ossigeno e il ferro) sono divenuti un solo modo (neutrale), il quale non ammette più alcuna coalterio rità esterna ( 1 ) di fattori (essenzialissima al meccanismo, ma è in sè l'unità qualificata de' quanti , la natura fisica del meccanismo » . La quale unità è poi la vita, ossia , quel « principio , com'ei dice , grazie al quale l'alteriorità meccanica si neutralizza fisicamente , e la neutralità fisica si alteriora ( si fa altra ) meccanicamente : il che , in quanto è nella circoscrizione essologica ( naturale) , è la vita » . Ciò posto , egli , concependo la natura meccanica o il « mec canismo come il sistema della quantità » , passa alla reale consi derazione e corrispondente sistemazione filosofica di tutti i prin cipii (detti anche categorie naturali ) della medesima come spazio , tempo, moto , ecc. Conformemente a ciò , concependo la natura fi sica parimenti come il sistema della qualità » , svolge i principii o categorie naturali di essa, come etere ( o materia eterea) , luce calore, magnetismo, elettricità ecc. E s'intende che ciò che è detto della natura meccanica e della fisica, va detto anche della natura sivente, della quale, come unità concreta delle due antecedenti, si vvolgono, determinano e sistematizzano i corrispondenti principii e momenti. Questi principii , coi relativi sistemi vitali , sono nella loro generalità e progressività evolutiva la vita cosmica od uranica, la vita geologica e la vita fito -zoologica. ( 1 ) Per questa intende la predetta reciproca esteriorità de' termini . IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 43 La vastità di conoscenza delle discipline naturali non che la forza speculativa ch'ei mostra nell'intenderne e collocarne i prin cipii nel suo vasto disegno del Sistema pantologico sono tali da fare del Ceretti una delle menti filosofiche più vaste e più profonde del nostro paese. Col terzo volume della Filosofia della Natura, che è il quinto della grande opera panlogica, questa rimase interrotta ; però se rimase interrotta, la iattura non è stata nè intera nè irreparabile. Giacchè i cenni e relativi concetti riformativi anche della terza parte del sistema panlogico già delineati primamente ne' Prole gomeni, poscia qua e là considerati negli stessi quattro susseguenti volumi , son tali e tanti da potersi fare un concetto chiaro e de terminato anche di esso. Ma, per giunta ed ulteriore integrazione di questa, l'autore ha lasciato in italiano due opere (scritte dopo dell'opera latina) , che concernono proprio questa terza parte, cioè le due già mentovate intitolate , l'una, Considerazioni sopra il si stema generale dello spirito ecc. ( Torino 1885), l'altra , Sinossi del l'enciclopedia speculativa ( Torino 1890, da me pubblicata e con mie note ed introduzione) . Un brevissimo cenno anche di questa terza parte è il seguente: Quanto al concetto , obbietto e partizione di essa, rappresen tando la prima parte la subbiettività del Logo o della Coscienza assoluta , e la seconda la obbiettività , questa terza rappresenta l'assoluta unità delle medesime : assoluta unità , che vien cosi ad essere la Coscienza subbiettiva obbiettivata e ad un tempo la Co scienza obbiettiva subbiettivata. Or questa Coscienza risultata tale è ciò che il Ceretti ( conformemente ad Hegel) appella comune mente anche Spirito, il quale è appunto l'obbietto di questa parte da lui denominata Sinautologia. Intanto , siccome lo Spirito , benchè già sorgente nella stessa animalità , pur non giunge alla sua reale manifestazione, esistenza e verità (1 ) se non nella umanità , così divien questa lo speciale obbietto della Sinautologia. La quale perciò è dal nostro filosofo , designata come speculante l'Uomo, primamente nella Subbiettività secondamente nella Obbiettività, e in terzo luogo nella Assolu tezza del medesimo : Assolutezza, che è l'unità della Subbiettività e dell'Obbiettività. Di questa triplice considerazione, o meglio speculazione, la prima costituisce ciò che egli chiama l'Antropolo gia, la seconda l'Antropopedeutica, la terza, l'Antroposofia. I lettori che conoscono la dottrina hegeliana vedranno tosto la simiglianza della dottrina cerettiana colla dottrina hegeliana dello Spirito, distinta in quella di Spirito subbiettivo, spirito ob biettivo e Spirito assoluto . Senonché, se c'è simiglianza nella ge nerale concezione, c'è anche una notevole differenza nella partico ( 1 ) L'uomo, dice il Ceretti , è la concreta verità dello Spirito ( Homo est spiritus concreta veritas ) . 44 CENOBIUM lare trattazione della medesima. Per dire ancora qualche cosa della concezione e partizione cerettiana della predetta Sinautologia rileverò che l'Antropologia considera l'Uomo come Subbietto gene rale . E come tal Subbietto consiste dell'elemento fisico o corporeo e dell'elemento metafisico ( come il Ceretti lo chiama) ossia ani mico , così essa è primamente Psicofisiologia ; indi considera nel generale subbietto umano l'elemento, dirò così specificamente umano, ossia la mente, ed è Noologia ; in terzo luogo , la mente, o l'attività teoretica , si realizza come attività pratica e allora l’An tropologia nel suo terzo momento è Prasseologia o dottrina del l'azione (spirituale) . La Psicofisiologia, la Noologia e la Prasseo logia hanno alla lor volta principii , ossia momenti subordinati , e vengono anche questi considerati , accolti e sistemati nella An tropologia L'Antropopedeutica, all'opposto della Antropologia che consi sidera l'Uomo subbiettivo, considera l'Uomo obbiettivo, ossia l'uomo nella obbiettivazione della propria subbiettività : la quale obbiettivazione costituisce , primamente, la dialettica mondiale u mana e produce ciocchè si appella la Storia ; è in secondo luogo « il Logo sistematico della dialettica obbiettiva » , che in senso lato è ciocchè si appella la Didattica ; e in terzo luogo è la « stessa obbiettività sistemata nel Subbietto » , che è quella che si designa col nome di Diritto. Che anche queste tre parti dell'Antropopedeutica (Storia, Di dattica, Diritto ), si sviluppino, particolarizzino e sistematizzino in ulteriori sfere, attività , principii , ecc. , lo s'intende da sè ; e cosi viene assolta anche questa parte della Sinautologia. E finalmente vien considerata e trattata l'ultima sfera di questa , cioè l'Antroposofia, la quale ha che fare coll'Uomo considerato nella sua assolutezza , ovvero nella sua Coscienza assoluta, e com prende la sua attività artistica , religiosa e filosofica. L'Arte è la contemplazione e produzione del bello, del buono e del vero me diante l'ispirazione estetica : la Religione e l'apprensione, rivela zione e culto del divino, e tramezza la manifestazione estetica e la concezione filosofica ; la Filosofia sviluppa la immediata ap prensione religiosa nella mediata concezione del pensiero assoluto. La triplice ed assoluta attività dello spirito , artistica , religiosa e filosofica costituisce l'ultimo e supremo sillogismo del Logo as soluto o della Coscienza assoluta , e con esso si chiude il Sistema panlogico. Tale è in nuce il vasto pensiere filosofico cerettiano e la vasta esecuzione del medesimo. Per ciò che è riferito in queste poche pagine rimando il let tore ai miei molteplici lavori intorno al Ceretti, specialmente alla « Notizia degli scritti e del pensiere filosofico » di Pietro Ceretti, non che alla « Filosofia della Natura » del medesimo. E sog giungo e annunzio qui volentieri che intorno a quest'uomo, che IL FILOSOFO PIETRO CERETTI 45 ha occupato due decenni di studi della mia vita , son presso a finire l'ultima mia opera : opera che consiste in una estesa e par ticolareggiata esposizione di tutto intero il suo Sistema panlogico , compresa la Sinautologia. Ho forse speso intorno a lui più tempo di quel che conveniva per i miei propri studî e lavori ; ma non me ne pento, non solo perchè egli è stato di giovamento a questi stessi , ma specialmente perchè ho contribuito a far conoscere un uomo, che fa onore grandissimo alla filosofia in genere e alla filosofia italiana in ispecie. ‘Alessandro Goreni’. Pietro Ceretti. Keywords: communication, convention, homo sapiens, pirothood, inter-subjective, animality, animalness, soul, psichico, psychic, psychical versus psychological, progression, pirotological progression. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceretti” – The Swimming-Pool Library.

 

Ceronetti (Torino). Filosofo. Grice: “I like Ceronetti; he is a typicall Italaian philosopher; that is, a typically anti-Oxonian one; he thinks, like Croce and de Santis did, that philosophy is an infectious disease that some literary types catch! My favourite of his tracts is “Diognene’s torch”! Genial!” Per essere io morto all'Assoluto vivo come un innato parricida tra gente già di padre nata priva; pPer aver detto all'Inaccessibile addio da un cortiletto senza luce vergogna vorrei gridarmi ma resto muto. Tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo. Di vasta erudizione e di sensibilità umanistica, collabora con vari giornali. Tra le sue opere più significative vanno ricordate le prose di Un viaggio in Italia e Albergo Italia, due moderne descrizioni, moderne e direi dantesche, da cui vien fuori tutto l'orrore del disastro italiano, e le raccolte di aforismi e riflessioni Il silenzio del corpo e Pensieri del tè. Di rilievo la sua attività di saggista (Marziale, Catullo, Giovenale, Orazio). Diede vita al teatro dei Sensibili, allestendo in casa spettacoli di marionette. Le sue marionette esordivano su un piccolo palcoscenico, nel tinello di casa Ceronetti, ad Albano Laziale. Si consumavano tè, biscottini (i crumiri di Casale) e mele cotte." Nel corso degli anni vi assisterono personalità quali Montale,Piovene, e Fellini. Con la rappresentazione de La iena di San Giorgio, I Sensibili divenne pubblico e itinerante.  In Difesa della Luna, e altri argomenti di miseria terrestre, suo saggio d'esordio critica il programma spaziale da prospettive originali e poetiche. Il fondo Guido Ceronetti -- "il fondo senza fondo" -- raccoglie infatti un materiale ricchissimo e vario: opere edite e inedite, manoscritti, quaderni di poesie e traduzioni, lettere, appunti su svariate discipline, soggetti cinematografici e radiofonici. Vi si trovano, inoltre, numerosi disegni di artisti (anche per I Sensibili), opere grafiche, collage e cartoline. Con queste ultime fu allestita la mostra intitolata Dalla buca del tempo: la cartolina racconta.  Prese posizione a favore dell'eutanasia, con la poesia La ballata dell'angelo ferito. Beneficiario della legge Bacchelli, in quanto cittadino che ha illustrato la Patria e versante in condizioni di necessità economica. Robbe-Grillet, Moravia e Ceronetti al Premio letterario internazionale Mondello. Palermo Proposto dal controverso critico e politico Sgarbi come senatore a vita a Napolitano, declina subito l'invito. Attento alle tematiche ambientali, era noto per essere un acceso sostenitore del vegetarismo e per una pratica di vita estremamente frugale, quasi da moderno anacoreta.  Solo un vero vegetariano è capace di vedere le sardine come cadaveri e la loro scatola come una bara di latta. Un mangiatore di carne (non mi sento di scrivere un carnivoro perché l'uomo non è un carnivoro) neanche se lo chiudono nel frigorifero di una macelleria avrà la sensazione di coabitare con dei cadaveri squartati. C'è come un velo sulla retina dei non vegetariani, quasi un materializzarsi di un velo sull'anima, che gli impedisce di vedere il cadavere, il pezzo di cadavere cotto, nel piatto di carne o di pesce. Alcuni suoi articoli sull'immigrazione (disse che ha "un carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale e religiosa") e il Meridione, pubblicati sui quotidiani La Stampa e Il Foglio, furono tacciati di razzismo, così come scalpore fecero alcune posizioni da lui espresse sull'omosessualità maschile, accusate di omofobia. In precedenza sull'argomento si era attirato gli strali dei cattolici per aver descritto don Bosco come un omosessuale represso. Intervistato nel  per Radio Radicale Come articolista, principalmente su La Stampa e il Corriere della Sera, si occupava spesso di letteratura, arte, filosofia, costume e cronaca nera (ad esempio scrivendo sul caso del delitto di Novi Ligure), analizzando il problema del male nel mondo odierno in una prospettiva gnostica; al contrario giudicava noiosi i processi di mafia. Notevoli discussioni suscitò, altresì, un suo intervento giornalistico a difesa del capitano delle SS Erich Priebke (che visitò in carcere e con cui ebbe uno scambio epistolare), condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine ma che fu soltanto un mero funzionario esecutore, colpevole della "miseria di non essere un santo" (parafrasi del saggio di Bloy La tristezza di non essere santi), e creato Mostro delle Ardeatine, vittima di una giustizia dell'odio. Allo stesso modo, pur esprimendo sempre la sua simpatia per gli ebrei e per Israele, per convinzioni personali e la sua parentela acquisita con Giuliana Tedeschi, definì l'ergastolo inflitto a Hess, al processo di Norimberga, come un crimine politico. La sua posizione anticonformista pro-Priebke e pro-Hess fece scandalo essendo l'autore un noto filosemita, con moglie e suocera (superstite di Auschwitz) ebree nonché convinto filoisraeliano (scrisse articoli di fuoco contro Khomeini e il terrorismo palestinese).  Nel  fu insignito del premio "Inquieto dell'anno" a Finale Ligure. Ostile al fascismo nella seconda guerra mondiale e al comunismo poi, ma anche diffidente delle forme della democrazia, non prese mai parte politica attiva, a parte un brevissimo periodo in cui ebbe la tessera del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, fino al , quando intervenne al congresso dei Radicali Italiani, movimento liberale e libertario, e altre volte ai microfoni di Radio Radicale (era amico di Marco Pannella), anche se si considerava un "conservatore" e patriota del  Risorgimento (descrisse l'Italia come «una democrazia strangolata sul nascere da tre poteri con il verme totalitario, democristiano, comunista e sindacale»). Talvolta fu definito come un "reazionario postmoderno". «Sono sempre stato anticomunista. Il Mullah Omar e Osama Bin Laden sono modi dell'antiumano. Dietro di loro... l'ombra di Lenin, inviato della Tenebra, fondatore imitabile dell'universo concentrazionario, capostipite novecentesco di malvagie entità che non finiscono di manifestarsi.»  (Ti saluto mio secolo crudele) Nel  propose in un articolo su la Repubblica, ispirandosi al fenomeno delle assistenti sessuali per disabili, l'istituzione di un "servizio erotico volontario" rivolto agli anziani senza che dovessero rivolgersi a prostitute, per evitare "la barbarie di una vecchiaia senza sesso". Fece uso di vari pseudonimi, tra i quali Mehmet Gayuk, il filosofo ignoto (riferimento a Louis Claude de Saint-Martin, filosofo così chiamato), Ugone di Certoit (quasi l'anagramma di Guido Ceronetti) e Geremia Cassandri.  Morì nella sua casa di Cetona (SI) dopo un breve ricovero a causa di broncopolmonite. Come da disposizione testamentaria, dopo tre giorni e una cerimonia religiosa a Cetona, fu sepolto sulle colline tra Torino e il Monferrato, in una tomba a terra situata nel cimitero di Andezeno (Torino), il paese di origine dei genitori.  Disposizione da prendere. Non voglio donne in calzoni ai miei funerali. Cacciatele via. Almeno in questa pur insignificante occasione, ma per amore, siano insottanate come le ho sognate sempre, nella vita.»  Altre opere: “Difesa della luna e altri argomenti di miseria terrestre” (Rusconi, Milano); “Aquilegia, illustrazioni di Erica Tedeschi, Rusconi, Milano, con il titolo Aquilegia. Favola sommersa, Einaudi, Torino); La carta è stanca” (Adelphi, Milano); La musa ulcerosa: scritti vari e inediti, Rusconi, Milano); Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Adelphi, Milano); La vita apparente, Adelphi, Milano); Un viaggio in Italia, Einaudi, Torino); Albergo Italia, Einaudi, Torino); Briciole di colonna. La Stampa, Torino); Pensieri del tè, Adelphi, Milano); L'occhiale malinconico, Adelphi, Milano); La pazienza dell'arrostito. Giornali e ricordi, Adelphi, Milano); D.D. Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Tra pensieri, Adelphi, Milano); Cara incertezza, Adelphi, Milano); Lo scrittore inesistente, La Stampa, Torino, Briciole di colonna. Inutilità di scrivere, La Stampa, Torino, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale Emanuela Muratori, BUR, Milano); La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica Vittoria, Einaudi, Torino, N.U.E.D.D. Nuovi Ultimi Esasperati Deliri Disarmati, Einaudi, Torino); Piccolo inferno torinese, Einaudi, Torino); Oltre Chiasso. Collaborazioni ai giornali della Svizzera italiana, Libreria dell'Orso, Pistoia, 2004, La lanterna del filosofo, Adelphi, Milano); Centoventuno pensieri del Filosofo Ignoto, La Finestra editrice, Lavis); Insetti senza frontiere, Adelphi, Milano); In un amore felice. Romanzo in lingua italiana, Adelphi, Milano, , Ti saluto mio secolo crudele. Mistero e sopravvivenza del XX secolo, illustrazioni Guido Ceronetti e Laura Fatini, Einaudi, Torino, , L'occhio del barbagianni, Adelphi, Milano, , Tragico tascabile, Adelphi, Milano, , Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano, , Per non dimenticare la memoria, Adelphi, Milano, , Regie immaginarie, Einaudi, Torino,   Guido Ceronetti, Poesia Nuovi salmi. Psalterium primum, Pacini Mariotti, Pisa); La ballata dell'infermiere, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Poesie, frammenti, poesie separate, Einaudi, Torino, 1968 Premio Viareggio; Opera Prima; Poesie: Corbo e Fiore, Venezia); Poesie per vivere e per non vivere, Einaudi, Torino, Storia d'amore ritrovata nella memoria e altri versi, illustrazioni di Mimmo Paladino, Castiglioni & Corubolo, Verona); Compassioni e disperazioni. Tutte le poesie, Einaudi, Torino, Disegnare poesia (con Carlo Cattaneo), San Marco dei Giustiniani, Genova, Scavi e segnali. Poesie inedited, Alberto Tallone, Alpignano, Andezeno, Alberto Tallone Editore, Alpignano, La distanza. Poesie, Edizione riveduta e aggiornata dall'Autore, BUR, Milano, Preghiera degli inclusi, Alberto Tallone Editore, Alpignano, senza data Francobollo, Alberto Tallone Editore, Alpignano (sotto lo pseudonimo Mehmet Gayuk), Il gineceo, Alberto Tallone, Alpignano, febbraio 1998; Adelphi, Milano, In memoriam di Emanuela Muratori, Alberto Tallone, Alpignano, Messia, Tallone, Alpignano, Adelphi, Milano, , [nella prima parte del libro] Tre ballate recuperate dalle carte di Lugano, Alberto Tallone, Alpignano, Tre ballate popolari per il Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano; Pensieri di calma a bordo di un aereo che sta precipitando, Alberto Tallone, Alpignano; A Roma davanti al Tulliano Notte del 3 dicembre 63 a. C., Alberto Tallone, Alpignano, Con l'armata dell'Ebro morire oggi, Alberto Tallone, Alpignano; Invocazione al Dottor Buddha perché venga e ci salvi, Alberto Tallone, Alpignano; Le ballate dell'angelo ferito, Il Notes magico, Padova, Poemi del Gineceo, Adelphi, Milano, , [riedizione de Il gineceo  con inediti e nuova prefazione] Sono fragile sparo poesia, Einaudi, Torino, , Drammaturgia Furori e poesia della Rivoluzione francese. Carte Segrete, Roma, Alcuni esperimenti di circo e varietà. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Teatro Stabile-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Mystic Luna Park. Spettacolo per marionette ideofore, ricordi figurativi di Giosetta Fioroni, Becco Giallo, Oderzo, 1988 Viaggia viaggia, Rimbaud!, Il melangolo, Genova, La iena di San Giorgio. Tragedia per marionette, Alberto Tallone, Einaudi, Torino); Il volto (Ansiktet), Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Le marionette del Teatro dei Sensibili, Aragno, Torino [contiene: I Misteri di Londra e Mystic Luna Park] Rosa Vercesi, un delitto a Torino negli anni Trenta, Teatro Strehler-Teatro dei Sensibili, Alberto Tallone, Alpignano, Rosa Vercesi, illustrazioni di Federico Maggioni, Edizioni Corraini, Mantova; Traduzioni e curatele Marziale, Epigrammi, introduzione di Concetto Marchesi, Einaudi, Torino, II ed. riveduta, Einaudi, Torino; nuova edizione con un saggio di G. Ceronetti, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta e nuova prefazione di G. Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis, I Salmi, Einaudi, Torino; nuova ed. riveduta, Einaudi, Torino; col titolo Il Libro dei Salmi, Adelphi, Milano, 1985, Catullo, Le poesie, Einaudi, Torino, Adelphi, Milano, . Maurice Blanchot, Il libro a venire (Le Livre à venir), trad. G. Ceronetti e Guido Neri, Einaudi, Torino; Il Saggiatore, Milano, . Qohelet o l'Ecclesiaste, Einaudi, Torino, Alberto Tallone Editore, Alpignano, nuova traduzione ; Qohelet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano,  Decimo Giunio Giovenale, Le Satire, Einaudi, Torino, La Finestra Editrice, Trento, Il Libro di Giobbe, Adelphi, Milano, Premio Monselice di traduzione, nuova ed. riveduta, Adelphi, Milano, Cantico dei cantici, Adelphi, Milano, Alberto Tallone Editore, Alpignano, nuova versione riveduta, . Il Libro del Profeta Isaia, Adelphi, Milano; nuova ed. riveduta e ampliata, Adelphi, Milano, Come un talismano. Libro di traduzioni, Adelphi, Milano, 1986. Konstantinos Kavafis, Nel mese di Athir, Edizioni dell'elefante, Roma. Konstantinos Kavafis, Tombe, Edizioni dell'Elefante, Roma, Giovenale, Le donne. Satira sesta, Alberto Tallone Editore, Alpignano, Nostradamus: annunciatore nel secolo 16. della Rivoluzione che durerà dal 1789 al 1999 / profezie estratte dalle Centurie di Michel de Nostredame, Alpignano, Alberto Tallone Editore, Tango delle capinere, Castiglioni & Corubolo, Verona. Due versioni inedite da Shakespeare e da Céline, Cursi, Pisa, Teatro dei sensibili, La rivoluzione sconosciuta. Pensieri in libertà per ricordare. Una scelta di testi Guido Ceronetti, Tallone, Alpignano, col titolo La rivoluzione sconosciuta, Adelphi, Milano, raccolta di 44 locandine teatrali a fogli sciolti dalla mostra-spettacolo di Dogliani] Henry d'Ideville, Oggi, Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Constantinos Kavafis, Poesia, Alberto Tallone, Alpignano, senza data Georges Séféris, Poesia, Alberto Tallone, Alpignano, senza data. Sofocle, Edipo Tyrannos. Coro, Edizioni dell'Elefante, Roma (con Cristina Chaumont) Sura 99. Al Zalzala (Il tremito della terra) dal Corano, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Il Pater noster. Matteo 6, calligrafia di Mauro Zennaro, Edizioni dell'Elefante, Roma, Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza, con un saggio di G. Ceronetti, traduzione di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Piccola Biblioteca n. 330, Adelphi, Milano, Giorni di Kavafis. Poesie di Constantinos Kavafis, Officina Chimerea, Verona, Messia, Alberto Tallone Editore, Alpignano; Adelphi, Milano, .nella seconda parte del libro, Siamo fragili, Spariamo poesia. i poeti delle letture pubbliche del Teatro dei Sensibili , Qiqajon, Magnano, 2003 Tito Lucrezio Caro, I terremoti. De Rerum Natura. Alberto Tallone, Alpignano, Constantinos Kavafis, Un'ombra fuggitiva di piacere, Adelphi, Milano, Trafitture di tenerezza. Poesia tradotta, Einaudi, Torino, François Villon, I rimpianti della bella Elmiera, Alberto Tallone Editore, Alpignano, . Orazio, Odi. Scelte e tradotte da Guido Ceronetti, Adelphi, Milano, . Epistolari Guido Ceronetti e Giosetta Fioroni, Amor di busta, Milano, Archinto, Due cuori una vigna. Lettere ad Arturo Bersano, Prefazione di Ernesto Ferrero, Padova, Il Notes Magico, Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l'abisso. Lettere, Milano, Adelphi, . Spettacoli del Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Tragedia per marionette (allestito in appartamento), prodotto dal Teatro Stabile di Torino, con Ariella Beddini,  Simonetta Benozzo, Paola Roman e Manuela Tamietti, regia di Egon Paszfory (Guido Ceronetti), scene e costumi di Carlo Cattaneo Macbeth (spettacolo per marionette allestito in appartamento) Lo Smemorato di Collegno (anni '70, spettacolo per marionette allestito in appartamento) Diaboliche imprese, trionfi e cadute dell'ultimo Faust (spettacolo per marionette allestito in appartamento); Fu interpretato al Festival di Spoleto da Piera degli Esposti, Paolo Graziosi e Roberto Herlitzka, con la regia, scene e costumi di Enrico Job I misteri di Londra (allestito in appartamento); prodotto dal Teatro Stabile di Torino, regia di Manuela Tamietti, con Patrizia Da Rold (Artemisia), Luca Mauceri (Baruk), Valeria Sacco (Egeria), Erika Borroz (Remedios) e le marionette del Teatro dei Sensibili. Furori e poesia della rivoluzione francese. Tragedia per marionette (allestito in appartamento); al Teatro Flaiano di Roma con i burattini di Maria Signorelli Omaggio a Luis Buñuel prodotto dal Teatro Stabile di Torino, Mystic Luna Park (prodotto dal Teatro Stabile di Torino), spettacolo per marionette ideofore con Armida (Nicoletta Bertorelli), Demetrio (Guido Ceronetti), Irina (Laura Bottacci), Norma (Paola Roman), Yorick (Ciro Buttari) La rivoluzione sconosciuta, mostra-spettacolo all'ex-convento dei carmelitani a Dogliani Viaggia viaggia, Rimbaud! (prodotto dal Teatro Araldo di Torino, in occasione del centenario della morte di Arthur Rimbaud), regia di Jeremy Cassandri (Guido Ceronetti) con Melissa (Manuela Tamietti), Norma (Paola Roman), Francisco (Gian Ruggero Manzoni), Yorik (Ciro Bùttari) e Zelda (Roberta Fornier) Per un pugno di yogurt, collage di poesie Les papillons névrotiques (al Cafè Procope di Torino) con la partecipazione di Corallina De Maria La carcassa circense, spettacolo per marionette, azioni mimiche, cartelli, organo di Barberia con Rosanna Gentili e Bartolo Incoronato Il volto, dedicato a Ingmar Bergman in occasione dei suoi ottant'anni Ceronetti Circus ovvero Casse da vivo in esposizione pubblica, letture di poesia, azioni sceniche mimiche e intermezzi musicali con Elena Ubertalli e Giorgia Senesi M'illumino di tragico, collage di testi e pantomime liriche; in tournée anche con il titolo I colori del tragico Rosa Vercesi (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano), con Paola Roman, Simonetta Benozzo e Luca Mauceri Una mendicante cieca cantava l'amore (2006, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano) con Cecilia Broggini, Luca Maceri, Elena Ubertali e Filippo Usellini Siamo fragili, spariamo poesia, collage di testi poetici, ballate e canzoni Strada Nostro Santuario (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano) filastrocche, canzoni, ballate, azioni mimiche, happening e numeri di repertorio popolare La pedana impaziente (), repertorio di marionette e azioni sceniche mimiche Finale di teatro (, al Teatro Gobetti di Torino) con Fabio Banfo, Luca Mauceri, Valeria Sacco, Eleni Molos, Filippo Usellini Pesciolini fuor d'acqua (), con Luca Mauceri e Eleni Molos Quando il tiro si alzaIl sangue d'Europa (prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, in occasione del centenario della prima guerra mondiale) con Eleni Molos, Elisa Bartoli, Filippo Usellini, Luca Mauceri e Valeria Sacco Non solo Otello (al Teatro della Caduta di Torino) Novant'anni di solitudine (, a Cetona in occasione dei novant'anni dell'autore), con Luca Mauceri, Filippo Usellini, Eleni Molos, Valeria Sacco, Fabio Banfo, Salvatore Ragusa e Elisa Bartoli Ceronettiade. Deliri e visioni di Guido Ceronetti (, a Cetona in occasione dell'anniversario della nascita dell'autore), con Luca Mauceri, Eleni Molos, Valeria Sacco, Filippo Usellini Cataloghi di mostre L'Atelier dei Sensibili a Dogliani, Michela Pasquali, Dogliani, Biblioteca civica Einaudi, (catalogo della mostra nell'ex Convento dei Carmelitani a Dogliani). Dalla buca del tempo: la cartolina racconta. I collages di cartoline d'epoca del Fondo Guido Ceronetti, cura di Diana Rüesch e Marco Franciolli, Archivi di cultura contemporanea, Museo Cantonale d'Arte Lugano, Poesia marionette e viaggi di Guido Ceronetti nelle visioni di Carlo Cattaneo, Paolo Tesi e Maurizio Vivarelli, Comune di Pistoia, Dare gioia è un mestiere duro: trent'anni più due di Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti, Andrea Busto e Paola Roman, fotografie di Mario Monge, Marcovaldo, Nella gola dell'Eone. Ti saluto mio secolo crudele. Immagini del XX secolo. Tutti i collages di immagini dedicati al ventesimo dell'era da Guido Ceronetti, Il melangolo, Genova, "Per le strade" di Guido Ceronetti, Omaggio allo scrittore, Diana Rüesch e Karin Stefanski, Cartevive, Biblioteca cantonale, Archivio Prezzolini-Fondo Ceronetti, Lugano, Opere audiovisive su Guido Ceronetti I Misteri di Londra. Tragedia per marionette e attori, regia di Manuela Tamietti, Teatro Stabile di Torino (riprese videografiche dello spettacolo, Torino). Sulle rotte del sogno. Parole musiche storie, di Luca Mauceri (cd e vinile EMA Records, Firenze ). Guido Ceronetti. Il Filosofo Ignoto, film documentario di Francesco Fogliotti e Enrico Pertichini (Italia'), prodotto con la collaborazione del Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti e dei Cinecircoli giovanili socioculturali. Guido Ceronetti nei mass-media Cura cinque Interviste Impossibili per la seconda rete radiofonica rai, in cui "intervistò" Attila (Carmelo Bene), Auguste e Louis Lumière (Alfredo Bianchini e Mario Scaccia), George Stephenson (Mario Scaccia), Jack Lo Squartatore (Carmelo Bene) e Pellegrino Artusi (Mario Scaccia). Il cantautore Vinicio Capossela, nella raccolta di brani dal vivo Nel niente sotto il soleGrand tour, ha inserito come incipit della seconda traccia (Non trattare)una registrazione di Guido Ceronetti che declama i primi versetti del Qoelet. Note  Ha usato per molti anni un sigillo con scritto "In esilio" : Capossela intervista Ceronetti. 6 febbraio .  Morto lo scrittore, in Corriere fiorentino, G. Ceronetti, Tra pensieri, Adelphi, Milano, p.11  Paolo Di Stefano, In morte. Raffaele La Capria, Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Mondadori, Milano, .  Guido Ceronetti morto, ripubblichiamo la sua ultima intervista al Fatto: “Sono un patriota orfano di patria. Italia, regno della menzogna”  Nello Ajello, Ceronetti. Poesia in forma di marionette, La Repubblica, ricerca.repubblica/ repubblica/archivio/ repubblica ceronetti-poesia-in-forma-di-marionette.html  Samantha, lo spazio e il signor Freud  "Guido Ceronetti. L'inferno del corpo", in Cioran, Esercizi di ammirazione, Adelphi, Milano,   "Oggi una quantità delle mie carte è partita per Lugano dove tutto entrerà a far partedegli archivi della Biblioteca Cantonale." Per le strade della Vergine, Adelphi, Milano,«Urlate urlate urlate urlate. / Non voglio lacrime. Urlate. Idolo e vittima di opachi riti/ Nutrita a forza in corpo che giace / Io Eluana grido per non darvi pace Diciassette di coma che m'impietra Gli anni di stupro mio che non ha fine. Con Decreto del Presidente della Repubblica (pubblicato nella G.U.) gli è stato infatti attribuito un assegno straordinario vitalizio ai sensi della legge, l'aiuto della legge Bacchellila Repubblica, in Archiviola Repubblica. Edizione, "Il nostro meridionale è attaccato alla propria famiglia e nient'altro, qualsiasi abbominio, qualsiasi sfacelo pubblico non arrivino a toccargli la Famiglia non gli faranno il minimo solletico. Sono popoli incapaci di amare disinteressatamente qualcosa perché bello, al di sopra dell'utile. La loro vera patria la loro nostalgia prenoachide è il deserto e faticano da ubriachi a ritrovarlo". La pazienza dell'arrostito, Adelphi, Milano,  (comedonchisciotte. Org forum/ index.php?p=/discussion/ ceronetti-dal-mare-il- pericolo-senza-nome lessiconaturale/ migranti-e-prediche/)  (ilfoglio/preservativi/news/il-grande-pan-e-vivo)  (ilfoglio/cultura/news/far-torto-o-patirlo)  (ilfoglio/ preservativi/news/ deutschland-pressappoco-uber-alle, Sugli sbarchi in Sicilia l'europeista Ceronetti dice, come altri non oserebbero, che “hanno ormai un carattere preciso di invasione territoriale, premessa sicura di guerra sociale e religiosa", Ceronetti, nel dolore si nasconde una luce)  Mario Andrea Rigoni, Ma non bisogna confondere il nichilismo con il razzismo, Corriere della Sera, Guido Almansi, Le leggende di Ceronetti, la Repubblica, L'innocente Priebke L'invasione Africana; “Il male omosessuale” (Ceronetti dixit). Albergo Italia (Einaudi, Torino), capitolo "Elementi per una anti-agiografia",  Uno, cento, mille Ceronetti, Guido Ceronetti, Priebke. Alcune domande intorno a un ergastolo, la Stampa  Pietrangelo Buttafuoco, La pietas di Ceronetti per Priebke, il Foglio, Sono sempre stato anticomunista, sempre, Forse, subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati. Di quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni che andavano alle adunate, ma non c'è storia di anima o di pensiero o di famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti, erano bravi cittadini come tanti. (Corriere della sera). Si dice il responso delle urne. Come se un popolo di cretini potesse fornire oracoli (Per le strade della Vergine)  la mia America: “Un baluardo contro l’ideologia comunista”  XIII Congresso Radicali Italiani  ilfoglio/preservativi/ prttttt-in-una-sigla-tutto-pannella- impenitente-ottimista-e-visionario (corriere/ cultura/guido-ceronetti-in-un-amore-felice  Chi era, fustigatore dei vizi degli italiani  Riviste/ Su “Cartevive” omaggio, reazionario postmoderno  CERONETTI: ‘METTIAMO FINE ALLA BARBARIE DELLA VECCHIAIA SENZA SESSO: PER DISABILI E CARCERATI QUALCOSA SI È MOSSO MA PER I VECCHI MASCHI SI MUOVERÀ MAI QUALCUNO? LA PROPOSTA: UN SERVIZIO EROTICO VOLONTARIO PER GLI OVER 70! Abiterò per tre mesi al N. 4 di via Giolitti a Torino, per mettere in scena col Teatro dei Sensibili La Iena di San Giorgio. Sulla porta metto quest'altro mio nome: Geremia Cassandri. La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi, Milano, Adelphi, Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterario viareggiorepaci. I VINCITORI DEL PREMIO “MONSELICE” PER LA TRADUZIONE , su biblioteca monselice, Alberto Roncaccia, Guido Ceronetti. Critica e poetica (Bulzoni, Roma) Emil Cioran, Esercizi di ammirazione ( Adelphi, Milano, Guido Ceronetti. L'inferno del corpo) Giosetta Fioroni, Marionettista. Guido Ceronetti e il Teatro dei Sensibili secondo l'alchimia figurativa (Corraini, Mantova) Giovanni Marinangeli, Guido Ceronetti. Il veggente di Cetona (Fondazione Alce Nero, Isola del Piano) Fabrizio Ceccardi, Il Teatro dei Sensibili (Corraini, Mantova) Andrea De Alberti, Il Teatro dei Sensibili di Guido Ceronetti (Junior, Bergamo) Marco Albertazzi, Fiorenza Lipparini, La luce nella carne. La poesia (La Finestra Editrice, Lavis) Masetti, A. Scarsella, M. Vercesi , Pareti di carta. Scritti su Guido Ceronetti (Tre Lune, Mantova), Ortese, Le piccole persone (Adelphi, Milano). Lattuada, Frammenti di una luce incontaminata in Guido Ceronetti, La Finestra Editrice, Lavis,   Emil Cioran Gnosticismo moderno.  Ma io diffido dell'amore universale Guido Ceronetti, la Repubblica, Archivio. L’ultimo bardo gnostico che cantava il dolore per la bellezza perduta. Morto il più irregolare degli scrittori italiani. Ernesto Ferrero, La Stampa, V D M Vincitori del Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana V D M Vincitori del Premio "Città di Monselice" per la traduzione letteraria V D M Vincitori del Premio Flaiano per la narrative. Guido Ceronetti. Keywords: la lantern di Diogene, poesia latina, Catullo, Marziale, Orazio, Giovenale, il filosofo ignoto, la pazienza del … --. Aforismi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceronetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cerroni (Lodi). Filosofo. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other philosopher – surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of Italian identity? But his more general philosophical explorations may interest the Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic and Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a ‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia del diritto.  Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine politiche all'Lecce.  Divenne professore di ruolo di Filosofia della politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura dell'U.R.S.S.” (Milano : Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma : Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei movimenti contadini in Russia nei secoli 17. e 18.” (Milano : Movimento Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale : A cura della sezione giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma : Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale dell'URSS / Umberto Cerroni.S.l. (Bologna : STEB) Poeti sovietici d'oggi, Roma : Tip. Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna : STEB); Diritto ed economia : rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una teoria positiva del diritto / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Idealismo e statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano : Giuffrè); Individuo e persona nella democrazia / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); “Il problema politico nello Stato moderno / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Diritto e sociologia / Umberto Cerroni. Kelsen e Marx / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); L'etica dei solitari / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Lenin e il problema della democrazia moderna : saggi e studi (Roma : NAVA) Parlamento e società / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo / K. Marx, F. Engels, V.I. Lenin Roma : Editori Riuniti); Ritorno di Jhering: Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello : Unione arti grafiche) Sulla storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Milano : Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); La filosofia politica di Giovanni Gentile / Umberto Cerroni. (Novara : Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione normativa e concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l. : Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Teorie sovietiche del diritto / Stucka ...(et al.) ; Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Samonà e Savelli); Il diritto e la storia / Umberto Cerroni. Le origini del socialismo in Russia / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, 1966 Un ouvrage recent sur Marx et le droit : Umberto Cerroni , Marx e il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris] : Sirey); Che cos'è la proprietà ?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo : prima memoria, Pierre-Joseph Proudhon ; prefazione, cronologia,  Umberto Cerroni.Bari : Laterza); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali : relazioni sugli aspetti generali / Umberto Cerroni.[Milano : Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale,  (Milano : Tipografia Ferrari) La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino : Einaudi); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau” (Bari : Laterza); La libertà dei moderni” (Bari : De Donato); Metodologia e scienza sociale” (Lecce : Milella); Problemi della legalità socialista nelle recenti discussioni sovietiche / Umberto Cerroni.Milano : A. Giuffrè); “Sulla natura della politica : utopia e compromesso” (Milano : Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali”; Il metodo dell'analisi sociale di Lenin” (Bari : Adriatica); Il pensiero giuridico sovietico” (Roma : Editori Riuniti);  La questione ebraica” (Roma : Editori Riuniti); La società industriale e la condizione dell'uomo” (Lecce : ITES); “Sul metodo delle scienze sociali: una risposta” (Milano : Giuffrè); Principi di politica / Benjamin Constant ; Roma : Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma : Newton Compton); Tecnica e libertà : conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova : Grafiche Erredici) Tecnica e libertà / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Lavoro salariato e capitale / Appunti sul salario e appendice di F. Engels ; Introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton italiana,La societa industriale e le trasformazioni della famiglia / U. Cerroni.Milano : Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Karl Marx ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton italiana); Teoria della crisi sociale in Marx : Una reinterpretazione / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Strade per la libertà / Bertrand Russell ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton compton italiana); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau ; traduzione di Celestino E. Spada ; prefazione di Umberto Cerroni.Bari : Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V. I. Lenin ; prefazione di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Kant e la fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano : Giuffrè); La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il pensiero di Marx / Antologia Umberto Cerroni , con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.Roma : Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Saggio sui privilegi : che cosa e il Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti / Antonio Labriola ; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.2. ed.Bari : De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma); Il pensiero di Marx / antologia Umberto Cerroni ; con la collaborazione di Oreste e Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma : Editori Riuniti); Teoria della crisi sociale in Marx : una reinterpretazione (Bari : De Donato); Teoria politica e socialismo” (Roma : Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con appunti sul salario e appendice di F. Engels ; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / Umberto Cerroni. Politica ed economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari : De Donato); Salario, prezzo e profitto” (Karl Marx” (Roma : Newton Compton italiana); Il lavoro di un anno : almanacco, Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Il pensiero di Marx / Karl Marx ; Roma : Editori Riuniti); Il pensiero politico : dalle origini ai nostri giorni” (Roma : Editori Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese, ed.Roma : Ed. Riuniti); Scienza e potere / scritti di U. Cerroni ... <et al.>.Milano : Feltrinelli); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma : Newton Compton); Lo sviluppo del capitalismo in Russia” (Roma : Editori Riuniti); La teoria generale del diritto e il marxismo / Evgenij Bronislavovic Pasukanis ; con un saggio introduttivo di Umberto Cerroni.Bari : De Donato); Introduzione alla scienza sociale, Roma : Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con appunti sul salario e appendice di F. Engels ; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton, Materialismo storico e scienza / Umberto Cerroni.Lecce : Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta borghese / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto / Karl Marx ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Sulla storicità dell'eros : note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco); Crisi ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Scritti economici / V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin ; introduzione di Umberto Cerroni.- Roma : Newton Compton); Carte della crisi : taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Crisi del marxismo? / Umberto Cerroni ; intervista di Roberto Romani.Roma : Editori Riuniti); Critica al programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al socialismo / Karl Marx ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica / V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, In memoria del manifesto / Antonio Labriola ; introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma : Newton Compton Editori); Che cos'è la proprietà ? : o ricerche sul principio del diritto e del governo : prima memoria, Pierre-Joseph Proudhon ; prefazione, cronologia, biografia Umberto Cerroni. 3. ed.Roma ; Bari : Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx ; con appunti sul salario e appendice di F. Engels ; introduzione ... di Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin ; Umberto Cerroni.Roma : Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti giovanili / Karl Marx ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Editori riuniti); Saggio sui privilegi : che cosa e il terzo stato? Emmanuel-Joseph Sieyes ; introduzione di Umberto Cerroni : traduzione di Roberto Giannotti.Roma : Editori Riuniti, Strade per la liberta, Bertrand Russell ; introduzione di Umberto Cerroni ; traduzione di Pietro Stampa.Roma : Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma : Editori Riuniti, I giovani e il socialismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin, A. Gramsci ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma; Storia del marxismo / Predrag Vranicki ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti ; prefazione di Umberto Cerroni” (Milano ; Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi? Milano); “Logica e società : pensare dopo Marx” (Milano : Bompiani, La democrazia come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma : Editori Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma : Editori Riuniti); Il pensiero di Marx : antologia, con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.III. ed. Roma : Editori Riuniti, Scritti economici” (Roma : Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma : Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma : Editori riuniti, Politica : metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie / Umberto Cerroni.Roma : NIS); La politica post-classica : studi sulle teorie contemporanee” (Taviano : Lit. Graphosette) Urss e Cina : le riforme economiche” Centro studi paesi socialisti della Fondazione Gramsci.Milano : F. Angeli, stampa, Che cosa è il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma : Editori Riuniti, Democrazia e riforma della politica : Lo Statuto del nuovo PCI / Umberto Cerroni.Roma : Partito Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia : stato di diritto, stato sociale, stato di cultura” Roma : Ed. Riuniti, La cultura della democrazia / Umberto Cerroni.Chieti : Metis, Che cosa e il Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes ; Umberto Cerroni.Roma : Editori Riuniti, La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre ; Umberto Cerroni ; traduzione di Fabrizio Fabbrini; apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone : Studio Tesi, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels ; nella traduzione di Antonio Labriola ; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio Labriola ; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: TEN,  Nazione/regione : i contributi regionali alla costruzione dell'identità nazionale / Andrea Battistini, Umberto Cerroni , Michele Prospero.Cesena : Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e cultura umanistica : seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni ; A. Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma : Anpa, [Novecento : almanacco del ventesimo secolo, Cesena : Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano / Umberto Cerroni.Roma : Newton Compton, Il pensiero politico del Novecento / Umberto Cerroni.Roma : Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma : Editori Riuniti, 1996 Regole e valori nella democrazia : Stato di diritto, Stato sociale, Stato di cultura / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, L'identità civile degli italiani / Umberto Cerroni.Lecce : Manni, L'ulivo al governo : come cambia l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos, stampa Politica / Umberto Cerroni.Roma : Seam, Confronto italiano : atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni, Umberto Cerroni.Firenze : Ed. Regione Toscana, stampa (Firenze : Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile degli italiani” (Lecce : Manni, Lo Stato democratico di diritto : modernità e politica / Umberto Cerroni.Roma : Philos, stampa, Habeas mentem : Scuola e vita civile :Umberto Cerroni.Rionero in Vulture (Pz) : Calice, Conoscenza e societa complessa : per una teoria generale del sensibile” (Roma : Philos, Ricordo di Marisa De Luca Cerroni / scritti di Umberto Cerroni ... et al.Lecce, stampa Confronto italiano : atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze : Ed. Regione Toscana, stampa  (Centro Stampa Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma : Philos, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma : Meltemi, Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.Lecce : Manni, Le radici culturali dell'Europa, Umberto Cerroni.Lecce :Manni, Radici della civiltà europea, Lecce : Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce : Manni, Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico Umberto Cerroni.San Cesario di Lecce : Manni, L'eretico della sinistra : Bruno Rizzi elitista democratico” (Milano : F. Angeli,  Taccuino politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di Umberto Cerroni / Cosimo Perrotta ; con la collaborazione di Mariarosa Greco” (San Cesario di Lecce : Manni, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels ; nella traduzione di Antonio Labriola ; seguito da In memoria del Manifesto dei comunisti di Antonio Labriola” (Roma : Newton & Compton, Dialettica dei sentimenti : dialoghi di psicosociologia / Umberto Cerroni , Alberta Rinaldi.San Cesario di Lecce : Manni, [Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.[San Cesario di Lecce] : Manni, Ricordi e riflessioni : un dialogo con Giuseppe Vagaggini / Umberto Cerroni.Montepulciano : Le Balze. Umberto Cerroni. Keywords: categoria giuridica, Trasimacco, Kelsen. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library.

 

Certani (Bologna). Filosofo. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew at school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice: “Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia, Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele” (Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso; cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche, e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe” (Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel suo museo Cospiano al fol.117 e la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia Regnante parte III lib. II, pag. 118 ove parla di Questo soggetto. Oltre i sopraccennati ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec. Giacomo Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo Certani. Keywords: Il cavaliere penitente; ossia, la chiave del paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity, Percival, The Holy Grail, the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Certani” – The Swimming-Pool Library.

 

Ceruti (Cremona). Filosofo. Grice: “Ceruti is a good one – he has philosophised on solidarity – and previously on altruism – these are VERY different concepts, as he notes – but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for what I’m into! – “A Griceian at heart!” --  Grice: “Only one T!”. Tra i filosofi protagonisti dell'elaborazione del pensiero complesso, è uno dei pionieri della ricerca contemporanea inter- e trans-disciplinare sui sistemi complessi.  La sua filosofia si produce all'intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia (filosofia e storia della scienza, storia delle idee, noologia…), scienze della natura (fisica, biologia, cosmologia…), scienze dell'uomo (antropologia, sociologia, psicologia, storia…), scienze dell'organizzazione e del management. Si laurea in filosofia della scienza con Geymonat con “L'epistemologia genetica di Piaget” nella quale, attraverso l'analisi dell'epistemologia viene posto il problema del ruolo della biologia e delle scienze del vivente, nelle varie articolazioni disciplinari, come decisiva interfaccia fra le scienze fisico-chimiche e le scienze umane, in grado di favorire processi di circolazione concettuale e di traduzione reciproca fra vari e multiformi campi del sapere. Nei suoi studi ha affrontato le questioni del significato filosofico ed epistemologico delle maggiori rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività, teoria dei sistemi, biologia molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi del cambiamento stilistico e delle relazioni fra stile e contenuto nella storia delle idee, nonché dello statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi alle rivoluzioni scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto da Ginevra, presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata da Piaget, in qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro coordinato da Munari. In questo periodo approfondisce le relazioni che connettono l'opera di Piaget a vari modelli e approcci del contesto scientifico a lui contemporaneo: alla termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle ricerche sul concetto e sui processi di auto-organizzazione e autopoiesi, all'embriologia di Waddington, ai nascenti dibattiti sul significato delle ricerche della biologia molecolare. Il tema chiave di queste convergenze disciplinari è la possibile delineazione di modelli generali del cambiamento, nonché del ruolo della discontinuità in questi modelli. L'approfondimento dei singoli filoni disciplinari gli consente di interrogarsi più estensivamente sul significato profondo e complessivo dei cambiamenti paradigmatici delle scienze alla fine del ventesimo secolo: dalla convergenza di varie discipline emerge la prospettiva di una scienza nuova, caratterizzata da precise assunzioni relativamente alla natura del cambiamento, alla relazione fra soggetto e mondo, al ruolo del tempo, della storia e della narrazione negli approcci scientifici. La nozione di complessità costituisce un'utile maniera sintetica di rapportarsi con tali assunzioni. Per ricostruire queste novità del contesto scientifico, imposta un programma di ricerca attorno al tema della epistemologia della complessità, parte integrante del quale è stata a partire l'organizzazione di convegni internazionali e di seminari, e la pubblicazione del volume La sfida della complessità. Ricercatore associato presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie, Politique diretto da Morin, centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di ricerca di filosofia della scienza. In quegli anni approfondisce le problematiche dell'epistemologia genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo e la possibilità e La danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato dalle scienze evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana nel più generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche del contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge, ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche, alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva, cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali sul comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo studio dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione e della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle varie specie ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo sapiens. A partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia delle scienze biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e sulle identità nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione evolutiva di tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica costruttivistica, e convergente con i presupposti epistemologici, costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. In queste ricerche, viene affrontata anche la questione del significato della rivoluzione darwiniana nell'intera storia della tradizione scientifica occidentale. Un ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il volume Educazione e globalizzazione, che traccia un bilancio epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia, geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo della diversità culturale nella storia della specie umana e le radici profonde degli attuali processi di globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo e a Milano, dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore del Dipartimento di Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità che comprendeva la Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo.  Principali tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità; Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive; Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato, dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori.  Alle elezioni politiche italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della complessità” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium, Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare l'altruismo” (Laterza, Roma-Bari); “Una e molteplice: ripensare l'Europa” (Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli, Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari); “Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell'epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela, Lazlo E., Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano  Bocchi G., Ceruti M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:  La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Mauro Ceruti. Keywords: dal semplice al complesso, complesso proposizionale, discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex, solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta: il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore proprio, amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love, benevolence, organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e diverso, unico e multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cerutti (Genova). Filosofo. Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti umani dovrebbe avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano alla sopravvivenza»  Insegna a Firenze. La sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la "teoria critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra l'altro proviene. Lavora sulla filosofia politica delle relazioni internazionali ed affari globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria delle sfide globali (armi nucleari e riscaldamento globale), e la questione dell'identità “politica” (non sociale o culturale) degli europei in relazione con la legittimazione dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio del quale Cerutti stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza di classe” (Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo e politica. Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento globale” (Milano, Vita e pensiero). Furio Cerutti. Keywords: lotta di classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale, identita politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cervi

 

Cesa

 

Cesarini (Genzano di Roma). Filosofo. Grice: “Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also fought in the North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a philosophical story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of his ducal ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the name Sforza Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto sostenitore del nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti nel suo palazzo. Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che vennero loro restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma, reso possibile dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in veste di consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every Englishman loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the Pope!” – Grice: “Sforza Cesarini should never be confused with Cesarini Sforza: Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher, is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father, kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism, nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library.

 

Cherchi (Oschiri). Filosofo. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a philosopher is from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he! Cherchi is from ‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is very fun! My favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it relates to Vinci’s ‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a Cagliari. Placido Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese, interessandosi contemporaneamente di studi e problemi etno-antropologici e storico artistici. Come autore di importanti lavori sul pensiero di Ernesto De Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda, fu un membro attivo della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla presenza all'Cagliari di maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese, come pure di loro allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo stesso Cherchi.  Morì nel  all'età di 74 anni a causa di un'emorragia cerebrale. Altre opere: “Paul Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi materici, Stef, Cagliari); “Pittura e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); “Placido Cherci,  Ernesto De Martino: dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite: tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli); “Il peso dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei circoli, organizzazione non-partitica dei sardi , coautori Francesco Masala ed Eliseo Spiga, Zonza , Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera, Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe:   Giulio Angioni, Una scuola sarda di antropologia?, in  (Luciano Marrocu, Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, Roma, Donzelli, , 649-663  Addio a Placido Cherchi, il ricordo di Giulio Angioni: "Fu ideologo del neo sardismo" Archiviato il 2 ottobre  in . Notizie.tiscali  È morto Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia Fondazionesardinia.eu  Scuola antropologica di Cagliari Ernesto de Martino  Giulio Angioni, In morte di Placido Cherchi, sito "il manifesto sardo".il 6 ottobre . Roberto Carta, Che cosa è Placido Cherchi? Due o tre cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a Placido CherchiEnrico Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di Placido Cherchi. Placido Cherchi. Keywords: filosofia sarda, etnos, etnicicita italiana, sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Chiappelli (Pistoia). Filosofo. Grice: “One of my most recent reflections is on the distinction and striking parallelisms I draw between the Athenian dialectic – best represented in Raffaello’s “La scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but represented in those reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or better, my Saturday mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us with a most brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting – Strawson tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the rest of the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo Francesco Chiappelli, zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli, dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze : Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le Monnier); “Giacomo Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul cristianesimo antico, Firenze : succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina, Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, 2 voll., Ancona, G. Puccini e figli). Dizionario biografico degli italiani. Crusca. Alessandro Chiappelli. Keyword: Alcibiade, Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicero, ambassiata Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world, the reality of the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La scuola di Atene” – dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens, via Rome.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Chiaramonte (Rapolla). Filosofo. Grice: “Problem with Chiaramonte is that he let things influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ – where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione, because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista culturale indipendente "Tempo Presente".   Nacque a Rapolla, in Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico, si trasferì con la famiglia a Roma, Sin dall'età di vent'anni si votò all'antifascismo, dopo una breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della polizia. Fu in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la figura di Chiaromonte è adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale Giovanni Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York, facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals.  Fu propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste della rivista politics di Dwight Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con filosofi come Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e collaborò con Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.  Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria, anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio.  Nel 1956, assieme allo scrittore Ignazio Silone, fondò "Tempo presente", rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del mensile.  Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo catastrofico della Storia».  Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia.  Dal gennaio 1967 e fino alla morte, intrattiene una fitta corrispondenza con Melanie von Nagel Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca benedettina, sul tema della verità.  Opere La situazione drammatica, Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet,  Credere e non credere, Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza di Ignazio Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza (The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy), Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane, Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena, Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino,  Albert Camus-Nicola Chiaromonte, Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello, Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto, prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli Italiani,  XXIV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte  Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte, .  Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte La cultura politica azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The Swimming-Pool Library.

 

Chiavacci (Foiano della Chiana). Filosofo. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo gentiliano.   Nato a Foiano in provincia di Arezzo da Enrico Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequentò la facoltà di lettere del Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Guido Mazzoni, e conobbe tra gli altri il poeta filosofo Carlo Michelstaedter, di cui divenne grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore.  Con l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, Chiavacci combatté al fronte come capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Giovanni Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini.  Dal 1924 cominciò a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica.  Entra a far parte dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell'atto puro.»  (Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica». La filosofia di Chiavacci si muove tra l'idealismo attuale di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Carlo Michelstaedter dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista cristiana.  Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e un futuro illusori.  Riappropriandosi al contempo del criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».  Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e smarrisce la «fonte della verità».  L'atto invece, per Chiavacci, proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro».  Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza oggettivarsi», è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui».  Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo Chiavacci, essenzialmente fede.  Opere Tesi di laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, tipografia Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica». Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica (Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della religione. Chiavacci ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter (Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana.  A lui si devono poi altri due saggi sul Rosmini:  Filosofia e religione nella vita spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini (Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, introduzione di Eugenio Garin, Firenze, Olschki, GentileChiavacci. Carteggio, Paolo Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Roberto Grita, Gaetano Chiavacci, su treccani. Antonio Russo, Gaetano Chiavacci, interprete di Michelstaedter, Trieste. Così Chiavacci ricorderà il suo primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di Chiavacci a Gentile, cit. in Gentile-Chiavacci: CarteggioSimoncelli, Firenze).  Scheda su Gaetano Chiavacci [collegamento interrotto], su agiati.org.  Cit. anche in G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, Olschki. Gaetano Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia italiana». Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, in «Giornale critico della filosofia italiana», Gaetano Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A. M. Chiavacci Leonardi, Olschki, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter, Gaetano Chiavacci, su sapere.  Gaetano Chiavacci, Michelstaedter Carlo, in «Enciclopedia Italiana»,  Roma. Gustavo Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La Scuola, Augusto Guzzo, Gaetano Chiavacci: la "Ragione poetica", in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,  Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di Gaetano Chiavacci, in «Filosofia»,  Antimo Negri, Giovanni Gentile: sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci (1886-1969) interprete di Michelstaedter, Sergio Campailla, in  La via della persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Idealismo italiano Carlo Michelstaedter La Persuasione e la Rettorica Enrico Chiavacci  Gaetano Chiavacci, in Dizionario biografico degli italiani. Gaetano Chiavacci. Keyowords: critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The Swimming-Pool Library.

 

Chiocchetti (Moena). Filosofo. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” --  Emilio Chiocchetti (Moena) filosofo. Nato a Moena, in Val di Fassa, vestì l'abito francescano nel 1896 e l'anno successivo concluse gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna. Nel 1903 venne ordinato sacerdote.  Fino al 1908 studiò filosofia a Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò un'assidua collaborazione, su invito del padre Agostino Gemelli, alla Rivista di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione (1909).  Tra il 1908 e il 1909 progettò uno studio sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente nel 1910 per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore le lezioni di psicologia di Wilhelm Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto nel 1912, assunse la direzione della Rivista tridentina.  Note  Chiocchetti, Emilio, su siusa.archivi.beniculturali. 20 marzo .  G. Faustini, , Emilio Chiocchetti, Antonio Rosmini e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri, 2008 G. Faustini, , Emilio Chiocchetti: un filosofo francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura, Trento, Pancheri, 2006 Padre Emilio Chiocchetti un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento il 3 dicembre 2004, "Archivio Trentino", 1, 2005,  101–215 S. Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-Chiocchetti (1911-1949), Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2004 R. Centi, Un filosofo francescanoEmilio Chiocchetti, Trento, Gruppo culturale Civis, C. Coen, Chiocchetti Emilio, in Dizionario biografico degli italiani,  25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1981 (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati, ,  diEmilio Chiocchetti filosofo trentino (Moena 1880-1951) rettore generale francescano e professore di storia della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, Emilio Chiocchetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Emilio Chiocchetti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Emilio Chiocchetti, .   Pubblicazioni di Emilio Chiocchetti, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. Emilio Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: Grice: “In Italy, just to know that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher, and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica, Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Chiodi (Roma). Grice: “I like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” -- Pietro Chiodi (Corteno Golgi) filosofo.  Figlio di Annibale e Maria Romelli, frequentò le scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida del prof. Credaro, che lo avviò allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito nel 1934 l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò il 27 giugno 1938 in pedagogia sotto la guida di Nicola Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò per 18 anni. Qui entrò in contatto col professore di lettere Leonardo Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi lo scrittore Beppe Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il personaggio di Monti.  Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, Chiodi entrò, Il 2 luglio 1944, a far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia di “Piero”.  Il 18 agosto di quello stesso anno Chiodi venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Il 30 settembre alle ore 07:30 era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle) il 7 settembre 1944, insieme ad altri patrioti.  Nel 1946 narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici italiani.  Dopo la liberazione di Torino nel 1945, Chiodi era tornato all'insegnamento ad Alba. Nel 1957 si trasferì come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Vittorio Alfieri del capoluogo piemontese. Nel 1955 ottenne la libera docenza e dal 1963 fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino, insegnamento che ricoprì fino alla sua prematura morte nel 1970, affiancandolo all'incarico di Pedagogia. Nel 1961, l'Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la filosofia e nel 1964 gli fu conferito il Premio Bologna.  Alla ristampa del 1961 di Banditi Chiodi premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia».  Raccolse grande stima ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio.  Attività filosofica L'attività filosofica di Pietro Chiodi si concentrò specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Martin Heidegger.  Egli fu il primo traduttore in Italiano di Essere e tempo, nel 1953, e il terzo in assoluto a realizzarne una versione in un'altra lingua, dopo il giapponese e lo spagnolo. Proprio a Chiodi si deve la definizione della terminologia heideggeriana in Italiano, divenuta poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione del tedesco Dasein con l'italiano Esserci, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non ancora raggiuntain questo specifico casoin altre lingue. Al filosofo tedesco dedicò anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger (1947), L'ultimo Heidegger (1952), Esistenzialismo e fenomenologia (1963). Fu, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento (1952) e Sentieri interrotti (1968). A Immanuel Kant dedicò, invece, La deduzione nell'opera di Kant (1961) e ne tradusse nel 1967 la Critica della ragion pura e gli Scritti morali, usciti nella sua versione nel 1970. È infine da ricordare il suo interesse per Jean-Paul Sartre, del quale si occupò nel 1965 nell'opera Sartre e il marxismo.  L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi, per cui il valore della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio faccia rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua breve e unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Davide Lajolo «Il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità, 10 ottobre 1946) e da Franco Fortini «quasi un capolavoro [...]. Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come nel comico».  Opere Chiodi Pietro, Banditi, con introduzione di Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 2002 [1961],  978-88-06-16322-8. Chiodi Pietro, Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Giuseppe Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, 2007,  88-7642-194-7. Note   Deportati Politici Italiani, su restellistoria.altervista.org. Chiodi, Banditi, Torino, Einaudi, 1975V.  , Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, 1994132.  Resistenza italiana Deportati politici italiani Esistenzialismo Martin Heidegger Opere di Pietro Chiodi, .  Biografia di Chiodi nel sito dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi 'Beppe Fenoglio'CHIODI Pietro, su centrostudibeppefenoglio. V D M Antifascismo (1919-1943) Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani 1915 1970 2 luglio 22 settembre Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: nulla annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality, maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool Library.

 

Chitti (Citanova). Filosofo. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione.  Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio e di Saveria Barbaro, nativa di Napoli.  Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti patrioti del tempo.   Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, Maria Grimaldi-Serra, ultima principessa di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la restaurazione ebbe la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia del Regno.  A Napoli sposa la figlia di Emanuele Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Fu coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, fu quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ebbe l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si recò a Bruxelles.  In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli conferì la licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture furono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento. Pubblica altre opere ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli conferì la carica di Professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi lavori e strinse amicizia con Gioberti, che lo definirà valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimase in Belgio ancora per parecchi anni fino a quando partì per il nuovo mondo.  In America, tenta  varie imprese commerciali, ma difficoltà sopravvenute gli fecero abbandonare presto i suoi progetti e si stabilì a New York. Altre opere: “Trattato di economia politica o semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì. New York Daily Times pag. 4  Daily Free Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley Online Library  Vincenzo De Cristo, Prime notizie sulla vita e sulle opere di Chitti Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana, Dizionario biografico degli italiani,  25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cicerone – (Italia). Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably the Scipioni!” --  Marcus Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy. This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls humanitas  a coinage whose enduring influence is attested in later revivals of humanism  and it alone provides the foundation for constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached  much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius 143   143 ness in Tusculan Disputations 45. Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness and originality.  “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed courage. Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Cicerone – Keywords: untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.

 

Ciliberto (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, . Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno. Michele Ciliberto. Keywords: intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library.

 

Cimatti (Roma). Filosofo. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens, , ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: homo sapiens, storia innaturale, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoosemiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library.

 

Cione (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  «Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.Domenico Edmondo Cione. Keywords: l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperative, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservative as corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.

 

Civitella (Montorio al Vomano). Filosofo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica, nacque nel castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,  ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge curiata, come no , fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la regia signori , Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e la società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà inutile il presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia , e così avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori, parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza (cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione, ma che la somma dell’autorità , la vera sovranità, il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano . 1) ministri ed interpreti: e siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine lege Gerta , sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi dell’aristocrazia . Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus . .ae . iterumque cæpic populus Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem, idque prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto abbassata dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti, tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps) , che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute; ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus . In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni , e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche furono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali dovevano mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in qualche luogo d'Italia , e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali  e perchè nulla mancasse di condimento aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi di quelle leggi . La scovri ancora il E 4 po . (Vico : Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom . XVIII; Duni : Dėl Cittad. Rom) popolo , quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue pretenzioni ; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali , è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagli antichi é da moderni ; ed osservare in seguito, se ne pro venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate. Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute , non è poi molto felice nel darne le pruove ; così condanna Solone , per non aver imposto pera al parricidio , supponendolo impossibile , o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola , sem sapientiam ! esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi ; poichè se si riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche , ingiuste , severe , é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia : se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana loghe alle leggi ed all' usanze : se per la parte te stamentaria , è facile il vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica , per conser vare in forza gli Aristocratici dritti : della stessa indole furono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge furono pur sempli ci , come devono essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà esaminar quel te leggi in buona fede , e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi devono avere colla natura e collo stato civile , troverà senza fallo ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti . Ma forse neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo par che fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al suo tempo neppure erano ben intese , e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap prese a memoria , era poi passato di moda tal co stume : discebamus enim pueri XII. ut carmen ne cessarium , quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio erano cadute . in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero le leggi dei Fauni e degli Aborigeni . Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali ; poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi , godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore della prima. Ma che i Giure consulti moderni , e quelli specialmente della setta degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu cangiata , e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata . Per quel principio Teocrático , di sopra accen nato , ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che privati , il patrizio dal plebeo , era il dritto degli Auspicj . Era questo dritto che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili ; ed incominciando dal primo vincolo sociale , cioè dalle nozze ' , con i soli auspicj si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il carattere di padre di famiglia , la patria potestà , e la facoltà di testare ; e questa specie di nozze era de' soli patriz; ; poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver drito 1 ( 76 ) alle Magistrature , e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro ; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma , pure si può asse rire , ch ' esse non avessero propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole . Si crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo , fisso nel foro e delle curie , ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj , la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno nascer gran dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la misteriosa cu stodia delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava il privilegio esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del ( 77. Det ZE = ; pro ice e della pubblica ignoranza . Ma codasta sapienza Romana era fondata parte su l’ingiustizia , parte su l'errore : su questo , perchè la loro scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al volgo i misteri della natura , l'origine della cose, l'enera gia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni : la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o cibarsi dei polli , sul volo degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere , e simili cose , alle quali non pud appartener mai il nobile titolo di scienza o sapien . ma quello solo di vane osservanze . L'errore poi lo facevano servire all' ingiustizia , poichè con tali mezzi si mantenevano nell'assoluta disposizio ne delle leggi , facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque fossero erano pur pubblicate , una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere sarebbe andato a svanire , se non si fosse trovato un modo col quale si ae vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj , e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi ( 78 )* gi; se non fossero state avvalorate dalla doro re condita sapienza . Essi dovevano spiegarne il sen so ; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal legge ; qual era l'azione che ne proveniva , quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che poteva impedirla ; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza offendere i Numi . Ecco insomma la giurisprudenza , ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta un ori gine Aristocratica , un origine che si confonde coll' errore , colla malizia , e colla prepotenza . Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie ; pu re non si confermd , estese e stabilì nelle forme , che dopo la pubblicazione delle XII . tavole ; dopo questo prezioso compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole , s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti , e le ne by cessarie dispute del foro. Tali dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto , ma con pocabolo comune è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare : ed sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere certe e solenni ' ; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge , o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole ; dritta çivile deriva „ to da esse; ed azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti , La scienza poi tanto delle » leggi quanta dell'interpretazione , e delle azioni %, stesse era riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che pre sedesse ai privati affari o litigi ; e con questa , consuetudine visse il popolo per cento anni in » circa , „ Quale orribile contradizione ! Appena pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta zioni . E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis 80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi ? E qual razza di prudenti erano mai quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste leggislatrici . Ma poichè col progresso del tempo , e colla frequenza de' giudizi qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi in massime o in principj di giustizia , e cosi divenire di comune. intelligenza e di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse , e si mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza . Ne cið era sicuramente per una vanità dottorale , ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitra sia , qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico . L'unico mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni , cioè delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in giudizio , ma secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti civili , accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di aver la privativa de' giudizj ; poichè colle leg gi certe difficilmente avrebbero potuto abusarne : bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale prima delle XII. tavole teneva no le antiche consuetudini . E perchè non si man casse di venerazione a tale straordinario stabili . mento, i Pontefici ne furono fatti depositarj egual mente e disponitori . Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta non a dispensar giustizia , ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo , darà segno , di non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si trattava già di fac leggi , si trattava solo di tener il popolo in schia vitù : perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di privata cittadinanza avesse potuto godere anche quello d'Isonomia , cioè dell' eguaglianza delle leggi , qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione , avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che tanto F ambiva , ma che più sentiva che conosceva . Escla . md esso sovente contro quella specie di occulta o privala legislazione , dicendo, che la sua condizio de ea in questo assai peggiore di quella dei po poli vinti ; essendogli negato il poter sapere cioc che riguardava i più comuni affari çivili , e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agli altri non era Ignoto : segno sicuro che l'aristocrazia romana era inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo Vico con gran proprietà d' intelli genza penso che quel notissimo motto di Solone: conasciti, fu piuttosto un précetto politico che mo rale . Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve ra giustizia Solone ricorda va con quel motto all' oppresso popolo di riconoscer se stesso , cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano non eb be un Solone , che gli desse così utili ricordi ; ne forse ne aveva bisogno , poichè abbastanza si ri conosceva , ed agli insulti de'Patrizi rispondeva , che non erano fioalmente essi ne discendenti do’ Dei , nè venu i giù dall' Empireo . Avrebbe perd avuto bisogno di un Solone , per aver lidea d'una costituzione , senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degli abusi del potere Ari „ stocratico, ma non giunse mai a formare una pere ferta Repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della Giustizia naturale e positiva : per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde an che presto nella voragine del disporismo . Ma ritornando a quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente alle XII tavole, e che diede nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato, dirò , che sebbene da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre Gravina , tuttochè pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe nascon dere , quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit : aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare giustamente , come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza , avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive giuris prudenze dette media e nuova , ed avrebbe discon * fessato gl ' inopportuni encomj , che in generale yolle ad esse tributare . Per quanto perd si è finora ragionato , non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris prudenza e della giustizia sacerdotale ; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza , e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi . Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la ragion civile , onde il celarle, il corromperle , val lo stesso che privare gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono mezzo per tenere il popolo nell'oscurità , poichè non solo coll' inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono ; ma de' nuovi stabili men ( 85 ) menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo : institutum etiam ab iisdem coss. ( cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur , quia ante ato. bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa legge, come vedre mo in altro luogo , e i giurisperiti seguitarono ad essere veri Monopolisti delle leggi . Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria ; e perciò . la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri , o coronavano l'aratro di allori trionfali . Si sa che Roma allora e per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca , la quale dalle belle arti , dalle scien ze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole ; perciò chi non amava l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva , in vece di darsi alla cabalistica (Livio) e viziosa giurisprudenza , si riparava nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire , mostrandoci , che la famiglia la più in festa allo Stato , la perpetua persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia ; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità . Ma ritorniamo a Pomponio . Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo : la storia pero a gli altri autori dicono , ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica , toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa · Seguita dindi Pomponio a racconta re , come quelle formole ed azioni , essendo ri , dotte in forma da Appio Claudio , cotal mistico libro gli fu involato da Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio : ed aver . , dolo pubblicato e fattone un dono al popolo , » questo gli fu si grato , che lo fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe , Senatore , ed Edile „ Questo libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato , dal nome dell'editore fu deno ( 87 ) Si po , mitato drino civile Flaviano , benchè egli nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel multiplicarsi gli affari maticando alcune specie di formole , Sesto Elio non » guari dopo compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano , . trebbe" ragionevolmente pensare , che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana , il dritto cívile , le ' azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su i principj legali , sulla condotta degli affari , sul modo di amministrar la giustizia , . sulle ordine giudiziario , non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto , e sapere i mezzi d'ottenerlo . Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana , che forma va la base principale del loro ingiusto potere, tro* varono il'modo , onde far rimaner il popolo de fuso . E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres stamente si cangiano , e de ' nuovi si surrogano , onde sia salvo it mistero ; cost i bravi Giurispe siti eseguirono , cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell' ordine , e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza . Le formole e le azioni furono cangiate , e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo . Ma ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento ; Erant in In igna potentia qui consulebantur : a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con Fixerit , & singulis diebus ediscendos fastos populo proposuerit  & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin sapientiam compilarit . Itaque irati llli , quod sunt, veriti , ne , dierum ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi . notas quasdam com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun utile dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue , la Storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti , gli stessi principj , la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa condotta". La Giurisprudenza fu latente , in çerta , arbitraria , ignota al popolo ,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che cerca il vero , per render lo di comune demanio ; da quella Giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore ; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato ; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla Giusti, zia ; , lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali , dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj , e dall'abuso di un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza ! Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto Romano ci accenna l'origine de' plebi. - . sciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal Senato , e delle quali in appressa, vedremo gli effetti ee'l'l valore , e soggiunge , che » nel tempo stesso anche dai Magistrati nacque » un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè , tecid saw pessero i cittadini , di qual dritto i Magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura , & perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degli editri , da quali si costitui il » Dritto onorario , cost detto perchè proveniya dall'onor del Pretore , • E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nacque delle costituzioni de' Principi , cost riepiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano . ,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legisla os zione è costituita del dritto" o sia legge ; da » quello che propriamente si chiama Dritto civile , che non è scritto , è consiste nella sola interpre mtazione de' prudenti : dalle azioni della legge » le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del » Senato , dagli edini de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario ; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare ; e finalmente , dalle costituzioni de' Principi , Ecco tutta la Storia seguita , che Pomponio ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori tunti convengono . Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali , e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità , d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse ac quistando qualche dritto su l'Aristocrazia , puro questa sostenuta dal Sacerdozio , qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa de’dritti pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi , e sotto le chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giu stizia , e che tanto più diventa tale autorità effica cé , quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie . Ma per vedere come questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della stessa indole , prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto; cui si volle dare il titolo di onorario , ma che ves dremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole , che costituivano la Romana Giurisprudenza , ci porterebbe a perdita di tempo , ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le. deridevano e tenevano in altissimo disprezzo , cre do che dopo due mille anni potremo far noi al- , trettanto , e chiunque non sia un’ vero divoto , e cieco adoratore della Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente , che quando di cose sem. , plicissime si vogliono far misteri , allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre , le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie , e surrogare impropriamente le imma gini e le finzioni alla semplicità e realità delle co se e delle idee : specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza , e questi per allontanarli , facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il foro Romano; ma accennerò so , lamente ciocchè importa , per passare all'origine del dritto onorario . La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva ; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de patrizi , come fu quello della questura e de' tria buni militari , non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti , se non ottenevano la massima delle Magistrature , vale a dire il Consolato . E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj cercavano coprire le loro pretese , o tependone lungi il volgo profano , ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano ; così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l ' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali , ed andar an che essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor rendo alla fine il quarto secolo di Roma , furo no queste cose combinate ; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri , e che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei : e che nella nuova elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine , e l'altro pae trizio . Invano Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana : invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete ; invano minacciò d anate ma quel popolo , che potea far a lui più reali mi nacce : Roma ( diceva egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico , di privato , di sacro , di profano , in guerra , in pace , in cae sa e fuori , tutto doversi cogli auspicj trattare : che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare i Consoli dalla ple. be , quanto il rovesciare interamente la religione , ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato . Se questo colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare ; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace , si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco , per non perdere intieramente quel privativo potere che dipendeva dal consolato . Pensarono dunque sta ( 12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare nell'ordine patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario , e tuttociò che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti , onde non poteva no adempire agli ufficj della giudicatura , proposent to di stabilire un nuovo magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione , e fu ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore . La pretura dunque fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele . Le leggi e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate , ma per poia chi anni durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura . Eccoci intanto al tempo nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che passo di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il no . me Romano e l'Impero . Questa parte del dritto , come testè ci ha insegnato Pomponio , nacque da gli editti , che emanavano į Pretori nell'entrare in esercizio della loro Magistratura , ed essa façeva il maggior latifondio della Scienza forense . L'im para the S6 ) portanza dunque della medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare , seguendola brevemente nel corso della Storia' , ve derne in qualche modo l' uso , il carattere ; e gli effetti , Dopo lo stabilimento della pretura e della comu nicazione a tat officio delle plebe , e più dopo ese guito il censo di Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica , benchè non ne perdesse lo spirito ; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti , che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare fu molta , e qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in licenza , poichè essa non era limitata dalla legge ; ed il dritto de' suf fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la regolarità ed uniformità , che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo . E non fu mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo governo non fu costituita su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse ri montato alla necessaria divisione del pubblico po tere , e questo ripartito in modo che le varie par ti non si potessero nuocere fra loro , e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire ; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale . Non avremo perciò quind' innanzi frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale , poichè gittati i semi del disordine e della corruzione , essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi nazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki , non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente a vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata , mente trattarono degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO ( 1 ) Heinec. Hist. Edict. ( 12 ) Memor. de l'Accadem . des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo . Trovarono che in Roma e per l'Impe , so ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti , ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere , ebbe To pure il dritto o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario , ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto , ebbero l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi , incominciando dai Pontefici e dai Tribuni della plebe , nè gli uni nè gli altri Magistrati , e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero avere il dritto di far editti , e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa era compresa . Fra tanti Magistrati perd che eb bero o si arrogarono cotale autorità , gli editti di maggiore celebrità , e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori. Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe ; e quindi ottennero , che il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol , ( 99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura , non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal carica , mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino ; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo , cioè nel anno 510. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente , ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città , de' quali alcuni erano addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura , ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da altri , cioè che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli esercita vano , si dovrebbe naturalmente pensare , che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giu risprudenza , e ne fecero nascere una puova , çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze , le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto rità , e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo , nè si po trebbe facilmente immaginare , che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3 . G 2 ( 100 ) Giurisprudenza . Eppure non fu altrimente : essen do essi semplici giudici o ministri di giustizia , colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità Legislativa , che il dritto fu cangiato , e gli editti più che le leggi furono osservati , e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro . Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia , il loro officio era solo di applicare .la legge al caso particolare , o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può creare un dritto col le sue sentenze , poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo ; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo , cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto , molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano , si cangiavano le leggi , e se ne stabilivano delle altre temporarie , ci pre sentano degli atti di autorità arbitraria , tempora ria , ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto , il quale può solo emanare dalla - potestà legislativa , e dev'essere certo generale o perpetuo , fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà , che devono essere divise da limiti insurmontabili , si può dire che tal carica contenga almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano , e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita . Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta , ma come codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i Consoli , il quale era riunito al potere esecutivo , cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti , non fu difficile il farvi passare di tali abusi . A considerar dunque giusta mente la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario , ma da quello di far gli editti . In fatti se si va all'origine di que sto dritto , ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri : espres sione tanto generale , che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la le gislativa ; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti furono di uso promiscuo : Ma Papiniano è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu introdotto a pubblica utilità , per adjuvare supplire, e corriggere il drilio civile . Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi , vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium : Ecco dunque la vera origine del drixco Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti . Ajutare intanto indica debolezza , supplire , mancanza, cor reggere , errori . Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione , che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto , alcuna legge scritta , la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta , utile o noci va alla Repubblica ( 13) . Ma che altro è mai il Dispotismo , l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti : Se le leggi mancano, bisogna far le , e non solo il Ministro di giustizia , ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. ( 103 11 0 7 I na legge , ma nè a soccorrerle cadenti , nè a sup plirle difettose , nè a correggerle erronee , nè ad interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio ni o circostanze delle leggi , sopra le quali non pud cadere alcun dubbio , che il restituirle in qualun que modo non possa spettare ad altri che al So vrano ; ma in quanto all' interpretarle , . sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabia lita la sua autorità , rifletterò che l'interpetra re o interpatrare da principio fu in Roma del so to ordine del patrizi , quando tutti i poteri e spe cialmente il legislativo erano ristretti nell' ordine "Aristocratico . Essi dunque che facevano le lega gi erano i soli che potessero interpretarle , uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato . Quando una leg ge è oscura , non vuol dir altro , che il non sa persi precisamente , ciocchè essa comandi o pre scriva ; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa autorità , che l'ha emanata , sola interprete le girima di se stessa . Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare ; e percid gli ottimi legislatori e Giustiniano stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10 . ( 104 ) no . Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti , de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio , ed il maggior male da esse prodotto fu d' aver fatta nascere la Giurisprudenza , ed in seguito la corruzione della giustizia : nel qual fatto osserva l ' Eineccio , che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai Pretori cogli editti prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era no così incomplete , come sono quelle dei popoli bara bari ; e che i Romani lo furono a tal segno , che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà , ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo . Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù , e che con nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza ? Non togliamo a Roma gli onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia , che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj , do vremmo anzi prenderli per riformatori o corret . tori delle leggi . Tali furono in fatti , ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa : lo furono solo per abuso , vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura , e fer nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi , e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la dif ferenza de' tempi , e per i politici cangiamenti ; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene , avrebbe trovato più oppor tuno mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione . Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti , il quale propo neva annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi , e queste erano poi approvate o riggettate dal potere legislativo . Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto rità straordinaria , se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo potere per trent'anni . Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse , devo ricordare , che vi erano quattro specie di editti , cioè Repentina : perpetuæ jurisdi fionis caussa : translaticia : nova . E senz' andar esponendo il valore di ciascuno , ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito , mi ri stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò , che quelli editti i quali do vevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura , furono quelli appunto , da'quali deri varono maggiori abusi , cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa , pei quali il Pretore esponeva nell' albo le formole delle azioni , delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole era com preso, chi era autore delle formole, lo era in con seguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle formole per qualun que causa , cadeva dall ' azione , o rimaneva con inutile eccezione cioè perdeva la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div enuto legislatore , ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere , che tuttociò fosse fatto senza principj , e che non aven do idee certe e generali de' principj del driito , fa cessero gli editti ciascuno secondo le proprie co gnizioni ed idee: poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti , non sarebbero stati prescrizioni annua li , ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. Nè ci faccia illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis , poichè quella perpetuità era ristretta ad un sol anno . Il Pretore o Pretori che succede vano alla carica , avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudi ziario , e cangiare a lor grado la formola ed i principj ; e sebbene questo non si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conser vavano integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti , ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole , era sempre però in liber tà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo co nio , che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità , incertezze ; ed arbitrj . si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto , lo lascio giudicare agli amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio pretorio , e gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le loro fora mole , e su di esse disputare ed argumentare , per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo , che fossero mol te le azioni per lo stesso giudizio , ciocchè faceva un nuovo intrigo , ed accresceva l'arbitrio de’ magistrati . Più anche dovette crescere quando i Pre tori furono varj , e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati , poichè ciascuno a suo modo proponendo gli editri , quel ch'era giusto pres. so di uno , si trovava ingiusto presso un altro . La morale pubblica e quella delle leggi particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva , allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile , le quali sorgono sem . pre dall' arbitrio e dalla corruzione . Se il Pretore fosse stato uno solo , se l' Ammi nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura , non avrebbe potuto 1 dirs ( 109 ) diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio : ma gli ammiratori o visionarj della Sapienza Romana , trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine . Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari , per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni . Esempio pur croppo fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato , col governo, e fra se stessi . Non crescendo i rapporui non devono multi plicarsi e variarsi le leggi , le quali ne sono I espressione ; ne devono quindi" crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori . Possono crescere in numero bensi ed in divisioni , ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà , giurisdizioni , e le gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione , e multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere : ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino . In questo caso, la legislazione sarà uni voca , generale, uniforme ; i limiti del potere giu diziario resteranno distintamente marcati ; e le giurisdizioni , e le Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj . Più , non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e , per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo medesimo , onde più saranno piccoli , più avranno i difetti della piccio lezza , più saranno capricciosi , irragionevoli , ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli : . Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con venevolmente diviso , senza gelosia e senza inte- , ressi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura , ma non ne avrà le follie . Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano , non sembro loro ad ogni caso sufficiente ; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si . passa facilmente da abusi in abuşi , essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua , ma , pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria , si arroga anche il dritto di can . giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione , e farne delle nuove senza pre, vio esame , come, un corpo leggislativo farebbe , ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare . Questo pur si faceva nel foro Ro mano , e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto , ed un altro a quello sostituito . Pensi chi vuole , che fosse quella una sublimità di condos. ļa , o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi , che i pretori, nol fecero per altro che per favore , per interesse e per altre tali cagioni , stimate ferite mortali per la Giustizia . Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza , pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori . Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso , e facendo vero scempio della giustizia , si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti , e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù , vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie . Vede va condannati gl'innocenti , i deboli oppressi , ed i Magistrati impuniti ; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù . Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche : quindi non comparve mai nel foro , o a piatire innanzi ai Magistrati , o ad umiliarsi al po polo per ambizione ; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore . Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti , gli abu. 81 interessati , ed i sistemi di corruzione . Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub- . blica corruttela , stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis . Fasccs penes Æmilium S. C. factum est , uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di partir subi . to per la Macedonia , dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici , che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge ; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia , e di quell' equirà medesima , che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura . La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne ; ma tra i disordini , la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile . A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati , poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti . Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente , riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni . Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui , fra le altre utili leggi , propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria , « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj , che i fasci Consolari andiedero in pezzi , ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci , convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo . Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt , sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla , rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia , e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone : Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio ; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili , ed apparecchiati i ferri per le Ascon . in Orat. pro Cond . le nuove catene . Roma non godè mai della liber ' tà , non seppe conoscerla , nè conobbe mai i moa menti favorevoli , ne' quali avrebbe potuta ren : derla eterna , Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori , e se nuova Legislazione , nuova Giu risprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza , l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva . Nuove parole ' , nuove azioni , nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza ; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso , ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti , .i rapporti e le azioni ; in sostanza le finzioni legali : Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza . Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza , basta la più semplice ragione per ve dere , che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani ; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli , i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig. de Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris , così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones , quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC , qui bus difficiliores casus expediuntur , et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur ? = e peg gio altrove . Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali , e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza , potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti . lo aggiungero soltanto , che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne , che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị , de contratti , de’ litigj , credettero quasi che fosse cangiata la realità , e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati . Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto . Roma- , no un Poema serio , poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità , e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate . „ In con „, fum tà di tali nature ( dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica , la qua . le fingeva i farti non facii , i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora , mori i viventi , i morti vivere nelle loro giacenti eredilà : introdusse tan , te maschere vane senza subjenti , che si dissero , » jura imaginaria ; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì fatte favole , che alle leggi serbassero y la gravità , ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo , s le colle quali parlavano le leggi , per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole , nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod . H 3 bara sia : 99 he : (Vico Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani , la paragona a quella della se . conda barbarie , dicendo , Cost a tempi barbari ,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar , cautele intorno a contratti , o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon . dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la RomanaRepub . blica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà , ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus , denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro , che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione , si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione ; poichè da questo solo possono essere migliorate le : costituzioni , le leggi politiche , e le civili . Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto , se da quanto si è detto finora , la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata ; e chi volesse meglio istruir sene , può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma , vi troverà cose maravigliose e pelle grine , compiangerà l'attuale barbarie , e gemerà su le ruine del Campidoglio : ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione , riderà di molte fole , compiangerà coloro che ne sono restati illu si , e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio . Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia , dovremo dire , che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi , come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole ; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità , o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità , le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano . Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare , che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare , per cui , più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia . Riconosceremo nel tempo stes 50 , che questo nacque , dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere ; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario , la Giurise prudenza equivoca ed incerta' , e fecero nascere una nuova specie di dritto , che tali qualità tutte in se comprendeva ; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo , divenne . pure . un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi , e durò con perpetua continuità insiem . me colla Repubblica e coll' Impero Romano . Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria : l'equià ve a fu solo de' buoni , e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé , gli atti legittimi , e le finzioni legali , ci com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati . Cosi tutte le azioni che si face Justin . In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere , sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub . blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio . , per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce ,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere , e fuggi . finalmente di mezzo a un popolo , che non la co nobbe , e non fu mai degno d'adorarla . Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani , ne quina 7 vano per æs & libram , le rivindicazioni, le cré zioni , le manomissioni , le nunciazioni di nuove opere , le usutpazioni , le licitazioni , le antestazio lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis , dalle quali non si poteva trascendere , me con azioni e rappresentanze particolari , che rende. vanò comiche le processure giudiziarie . Questo però non significa altro , se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti ; e percið i simboli , i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro ; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità , i piaceri della società , le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura . Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza , si disputò , si discusse , si combatte , si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi , che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione . Essi non ebbero mai sentimenti univoci , e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta , ne seppero far cessare il nome di plebe , che vergo gnosamen te li caratterizzava , e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino . Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea , e quindi non poterono averla della libertà , che sola per quella sussiste , ed il vantato censo , non diro quello di Seryio Tullio , ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana , rispondero , che tali non sono poic ( 123. Det poichè quando si parla delle leggi , convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore , dei suoi sentimenti , e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire , che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro , e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre , e che poi quelle leggi fossero di un uso generale . E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente . $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani , dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata , poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine . E quantunque io sia nell' idea , che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia , qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe , e ro versciata vittoriosamente da Canulejo ; pure in un frammento rimastoci , troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo , cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio ; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato , ma di quelli soli che godevano il dritto , e meritava no il vero nome di Cittadini , quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche , la parola po . " polo divenne generale , e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato , ma solo di classi , ciocchè la cennata legge prescriveva , passò ad essere nel suo vero uso e valore , cioè , a far , sì che legge si chiamasse , ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato . Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana , vi devono esse re delle regole , accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale , onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano , dello Stato , e della Patria : Tali sono le leggi costitu zionali , che riguardano il dritto del suffragio , o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale , e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no , e il modo di darlo , forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo . cioè che tanto più si è Gittadino , quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale . Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia , come questo drit to si stabilisse in Roma: , cioè nella formazione casuale di quella Repubblica , alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà , che i priacipj d'intelligenza e di ragione . Dirò solo , che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee , che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava , per compir l'atto il più degno , il più glorioso p er un popolo , cioè il dar leggi a se stesso . Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico ; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf ( 18) Dionys. Antiqu. Romanarum lib. z. ( 126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo , giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti , nè ebbero in effetto il potere legislativo ; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze . Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto , che di esaminare o consultare , si arrogo pure in parte il potere legislativo . O la Nazione dunque radu nata per Tribd , o essa stessa convocata per Cen turie , o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo . Le risoluzioni per tribù dette plebisciti , non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi , cioè di obbligare tutti i cittadi ni , giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto . Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione ; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà , per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva , poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. ( 127 ) el 3 2 tiva . Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati , delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni , nè quello della convocazione , nè quello delle deci sioni . Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca , e si può trovare presso mille autori , che del governo Romano anno ragionato . Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare , come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità , e come il dritto di suffra . gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misus rata su le ricchezze , e non si può dire , che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini , che rappresentasse la volontà generale , come don vrebb' essere per natura . Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero , e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e , delusa . Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti , ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione : Dirò di più , e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione , che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa' , ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario ; ciocchè indica , qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema . Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire , che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati , perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione , nè auspicj , ma in verità se non erano magistrati nominali , lo erano in effetto , ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe , sul Senato , e sopra tutta la Repubblica : ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo , se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni . cittadino . Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero , e non era il rango o la ricchezza , che davano la preponderanza . E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge , come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati . lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato , che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori . Possiamo però ri Aettere , che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica , o relative alla libertà ed al lo stato popolare , le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale , furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni . Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà , e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero , Nè è da imputar loro che non fos sero migliori ; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei . Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo , non potè far a meno , di con fessare , che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi , ma che toline i due Gracchi , non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica , e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio . La maggior parte però delle leggi , dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie , essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari ; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne , non si riducevano però in un corpo , che avesse l'autorità d'un codice di legislazione ; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo , come pur ci vo . gliono far credere alcuni autori antichi . Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze , e spes cialmente da una di Cicerone . Possiamo da esse raccogliere , che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici , si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa , e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile . Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario , accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica , gli antichi curatori non le curarono più , e funne generalmente negletta la custodia Al ( 131 ) si . Almeno cosi ci attesta Cicerone , assicurandoci , che per saperle , o per conoscerle , bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus : itaque hæ leges sunt , quæ apparia tores nostri volunt ; a librariis petimus ; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus . Græci hoc diligentius , apud quos xquaquaames creantur : nec hi solum literas ( nam id quidem een iam apud majores nostros erat , sed etiam facta hominùm obsesvabant , ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria , che nel suo Co dice , legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che Tacito caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali , non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia , ma perchè, al meno in apparenza , avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione ; ed a causa delle leggi posteriori , prive di tali qualità . Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra , 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione , è da credere ancora , che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo , e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione , e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità , da privato interesse , e da spirito di vendetta . Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ , finis omnis æqui juris : nam sequuræ leges , etsi aliquando in maleficos ex delicto , sæpius tamen dissentione ordi hun , et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava , per vim taie sunt . ( 20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori . Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto , avrebbero veramente meritate P adorazione , e l'accettazione della posterità , se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione . Ma colla scorta della Storia , e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato . Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo , ed in struito della storia degli alui stati ; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva , cioè barbara e feroce , la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino : ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa , come si potrebbe provare su le poche tracce , che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili . In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato , che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche , si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro , che il loro potere era un nulla , se invece di esser capi de'patrizj , nol divenivano del la plebe o del popolo ; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli , Servio fu tru cidato , ed il secondo Tarquinio espulso . In tanta incertezza di cose , come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro , così si aprì la strada a credere , che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche , e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi , ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti , ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere , che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano , e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica . Tali poi furono anche il dritto civile , le azioni legitime , gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette , le quali sempre più confusero e resero incerto il drit , to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere , che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate , ed indegne di reggere un po polo qualunque , mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre , cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse , e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo , qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale . Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo , avrebbero facil mente ravvisato , che Roma non cadde oppressa della sua grandezza , poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base , e per difetto di Architettum ia . La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso , credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia , nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte , ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi . Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli ..... pag. 138  Spallanzani a M. Delfico ..... pag. 140  Luigi Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico ..... pag. 142  Spannocchi a M. Delfico ..... pag. 143  V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle] ..... pag. 148  Michele Torcia a G. Berardino Delfico ..... pag. 148  Gaspare Mollo a M. Delfico ..... pag. 151  Alessandro Carli ..... pag. 152  F. Mùnter a M. Delfico ..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli ..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico ..... pag. 160  Filippo Mazzocchi a M. Delfico ..... pag. 163  Gazola a M. Delfico ..... pag. 163  Giuseppe Micali a M. Delfico ..... pag. 170  L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico ..... pag. 178  Il medesimo a M. Delfico ..... pag. 179  L. Brugnatelli a M. Delfico ..... pag. 179  Antonino Anutos a M. Delfico ..... pag. 180  Gio. Andrea Fontana a M. Delfico . Il Duca di Cantalupo a M. Delfico ..... pag. 183  Giuseppe Palmieri a M. Delfico ..... pag. 180  Tommaso Gargallo a M. Delfico in Teramo ..... pag. 190  Giuseppe M. Galante a M. Delfico ..... pag. 194  Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico ..... pag. 194  Mattia Ab. Zarillo a M. Delfico ..... pag. 195  Giuseppe M. Giovene a M. Delfico ..... pag. 197  C. Amoretti a M. Delfico . Francesco Soave a M. Delfico ..... pag. 203  Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo) ..... pag. 205  Fortis a M. Delfico ..... pag. 205  Pietro Zannoni a M. Delfico ..... pag. 206  Bossi a M. Delfico ..... pag. 206  Tommaso Frantoni a M. Delfico ..... pag. 209  Daniele Felici a M. Delfico ..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico ..... pag. 212  G. Giacomo Trivulzio a M. Delfico ..... pag. 212  G. Melzi a M. Delfico ..... pag. 223  San Severino a M. Delfico ..... pag. 23  Il duca di Sant'Arpino a M Delfico ..... pag. 231  Tracy a M. Delfico . Antonio Canova a M. Delfico ..... pag. 240  Angelo Maria Ricci a M. Delfico ..... pag. 241  Donati Gioli a M. Delfico ..... pag. 243  Luigi Dragonetti a M. Delfico ..... pag. 243  Giuseppe Zurlo a M. Delfico ..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico ..... pag. 249  Antonio Orsini a M. Delfico ..... pag. 250  G. M. Burini a M. Delfico ..... pag. 251  Taranto a M. Delfico ..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico ..... pag. 252  L. Cicognara a M. Delfico ..... pag. 258  F. Santangelo a M. Delfico ..... pag. 259  Sebastiano Ciampi a M. Delfico ..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico ..... pag. 261  Il Duca di Laurenzana a M. Delfico ..... pag. 262  Giuseppe Grimaldi a M. Delfico ..... pag. 264  N. Santangelo a M. Delfico ..... pag. 271  Lodovico Bianchini a M. D. ..... pag. 272  Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico ..... pag. 272  G. B. Niccolini a M. Delfico ..... pag. 274  Giuseppe Rangone a M. Delfico ..... pag. 276  Leopoldo Pilla a M. Delfico ..... pag. 278  Il Duca di Gualtieri a M. Delfico ..... pag. 281  II Barone Poerio a M. Delfico ..... pag. 283  Leopoldo Armaroli a M. Delfico ..... pag. 283  G. Neroni a Leopoldo Armaroli ..... pag. 286  Francesco Fuoco a M. Delfico ..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis ..... pag. 288  Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara ..... pag. 293  Al sig. Pasquale Borelli ..... pag. 307  Al sig. Antonio Orsini ..... pag. 313  Al sig. Conte Armaroli ..... pag. 315  Alessandro Volta a Orazio Delfico ..... pag. 317  Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico . Piemonte . Liguria . Regno D' Italia . Toscana ..... pag. 326  Stati Romani ..... pag. 327  Napoli . Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo ..... pag. 335  Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo ..... pag. 363  La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico . I titoli nobiliari . Episodi della vita del Delfico . Opere ignorate del Delfico . Il contenuto delle opere . Catalogo per materia delle opere di M. Delfico . Lettere del Delfico e al Delfico . La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico . M. Delfico a Gaspero Selvaggio . A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti» (13).  Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali «svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degli oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e «nasce quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20).  Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico, Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo (21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20 giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel 1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino» (37). La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori (46), che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori».  Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53).  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano (74).  Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri (77), nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (78). Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86).  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello (89), pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale.  Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche (98).  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali (103).  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia.   Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno 1835.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e della politica. (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», a. VI (1841), vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-173  e  a. VII (1843), vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-153, col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa rivista, a. VII (1843), vol. XXII, n. LXVI, pp. 163-171, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63.  (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317.  (4) Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma 1990, pp. 103-155;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano 1989, pp. 215-290,  e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753.  (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp. 744-780.  (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg.  (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 248-261; fasc. VII, pp. 305-322 e fasc. VIII, pp. 358-365), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.  (11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. XVI.  (12) G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11.  (13) M. Delfico, Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846.  (14) M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete, cit., vol. III,  p. 126.  (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 167.  (16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze 1886, p. 122. La lettera è stata riedita nelle Opere complete, cit., vol. IV, p. 54.  (17) M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, cit., vol. I, p. 36.  (18) Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze 1986, pp. 1-24; L. Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Utet, Torino 1988, pp. 501-508.  (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit., pp. 48-49.  (20) Ivi, p. 47.  (21) Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp. 71-85.  (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.  (23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 164-165.  (24) F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.  (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane (1734-1831), in «Itinerari», a. XXIV (1985), n. 1-2-3, pp. 21-154.  (26) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260.  (27) Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235).  (28) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.  (29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes,  vol. III, Gallimard,  Paris 1964, p. 193.  (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253.  (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.  (32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo.  (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323.  (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo nel 1783.  (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279.  (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-396.  (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.  (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7.  (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.  (42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354.  (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n. 402.  (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg.  (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 403-431.  (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.  (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432.  (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.  (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867.  (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.  (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.  (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419.  (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione.  (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit.,  pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone.  (56) Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.  (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999.  (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69.  (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.  (60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519  sgg.  (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58.  (62) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995.  (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139.  (64) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.  (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg.  (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250.  (67) Ivi, p. 472.  (68) Ibidem.  (69) Ivi, p. 250.  (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814.  (71) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.  (72) Ivi, p. 246.  (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94.  (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.    (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit.,  vol. II, p. 11.  (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.  (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.   (78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43.  (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325.  (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 174.  (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  (82) Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138.  (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.  (84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40.  (85) Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53.  (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.   (87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497.  (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550.  (89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp. 187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999.  (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985.  (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.  (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20.  (93) Ivi, p. 67.  (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70.  (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII,  p. 79.  (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159.  (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588.  (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505.  (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp. 37-50.  (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37.  (101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32.  (102) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 38.  (103) Cfr. ivi, pp. 47-49.  (104) Ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico.  (105) M. Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45.  (106) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156.  (107) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87.  (108) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G. Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta.  (109) Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Deflico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, sensus, il vero carattere della giurisprudenza romana, suoi cultore,  benevolanza conversazionale, giustizia conversazionale, il principio di sensibilita imitativa, l’estetico, l’imitazione della natura, l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

 

Cocconato: Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van Gent, Ashgate, ,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T. . . a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange ; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC . (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. Fu edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è : " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE , op. cit. loco cit. LILIENTHALS , op. cit. loco cit. FREYTAG , op. cit. loco cit. VOGT , op. cit. loco cit. BAUER : op. cit. loco cit., WAHIUS , op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de! 1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il " Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S DECLARATION . Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work , as follows. BAUMGARTEN : Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL : Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS : Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098 . MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK : Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS : Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it : and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church ; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal Interest : so, whethe r these opinions are well or ill-grounded ; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin ; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work . I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age „. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries ; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz . lond . pag . 1-13 ; Ediz . Rot . pag . 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti : Pag . 2 - in not a Collins è qualificato : 0  great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz . de l 1736 . Pag . 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag . 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam . Il Discors o II (Ediz . lond . pag . 14-25 ; Ediz . Rot . pag . 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto . Unich e varianti : pag . 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag . 3 5 ediz . di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. Pag . 24-25 , nota , dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ pag . 3 7 ediz . Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736 : " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52 ; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz. Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „ ; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble ? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom. 4. V. 15.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part 3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion ; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them ; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves : Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore ; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz. 1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate . Pag . 207 - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag . 22 3 : mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol . 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag . 224-248 ; Ediz . Rot.) Titolo : "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron : " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P. ; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl. ; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77 . (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN , sotto 'Elicali.’ Cfr . QUERAR D op . cit . Col . 1231 , T III. Cfr. BARBIER : Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris, 1827 > T . III . N . 16186 .  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole " ... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2 : differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato. Keywords: implicature della morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.

 

 

 

Coco (Umbriaco). Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --  Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.  Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, CEDAM); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa,  Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.  La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo,  partecipa ai lavori per la stesura del nuovo Codice Civile e del  Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.  “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo,  come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della pubblica amministrazione”.  -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu­ra, ricevette  i primi  rudimenti  di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, succes­sivamente, in taluni suoi saggi filo­sofici su Aquino. Iniziò la carriera giudiziaria a soli venti­quattro anni e ottenne la nomina a  Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma , presso quella Regia Procura , col viatico di rapporti ol­tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano  e Calabria  della Corte d’Appello  di Napoli,  dove  vi  permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne  la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale  “Il  Tribunale”, pubblicazione mensile  edita a Roma, lo sa­luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte­nere, nonostante  l’altissimo  grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon­tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale  della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun­zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa­rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato­re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel­la  Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per  noi particolarmente  caro, di Redattore Capo della    Rivista di Diritto Pubblico. La  recente nomina, se indubbiamente  costituisce un nuo­vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà  di  buon  grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate  funzioni giudiziarie, alle quali porta il va­lido contributo della sua competen­za, ma soprattutto una grande se­renità ed equanimità. Riguardo ai meriti  illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so­lidissima dottrina e da rigorosissi­mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e­voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po­litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi­va normativa di attuazione gli die­dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina­zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor­mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove­rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri­ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va  dal  primo  dopoguerra all’ av­vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace  e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin­dacale, o “giuslavorismo”, costi­tuendo davvero una novità assolu­ta nelle scienze giuridiche del tem­po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco­nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli­tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto  Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag­giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap­punto Coco. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura  Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi­nenza della promulgazione, il Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte della sua vita coincide  con  l’immane  conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ebbene, nono­stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave­va scritto su “Il Messaggero” di Pio Perrone, di commento a leggi e que­stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu­ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu­ridecennale collaborazione, ne sco­va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in­tegerrimo, del quale va appena ri­cordato, ammesso ve ne fosse biso­gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle­citazioni per una causa che la inte­ressava. Ebbene, Coco pro­cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me­riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida­mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri­corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese­mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri­conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana­mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente.  Del Lavoro. Nicola Coco. Keywords: cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library.

 

Codronchi (Imola). Filosofo. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants .should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else.  SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI. Sor's incerta vagatur , Fertque refertque vices . Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or , che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità . Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti . ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere , e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro , come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli . Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente , qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza ; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at ; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo , mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione , per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura , e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono , ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri . A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo . Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura , e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza , numero determinabile , e ragioni certe , e ſicure . Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto , non ſi può fondare il rapporto , ſe non che ſulla ſperienza , e ſulle oſſerva zioni eſatte perd , e molte volte replicate ; e ſopra cagioni incerte , e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo , determinato , e ſicuro . Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione , parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure , e par te alla ſperienza del paſſato , e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito . Nei contratti adunque della prima fpecie , conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4 13 contratto , ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri . La ſcienza delle combinazioni , e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta , e dall ’ Ugenio , e dal Bernullio , e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa , che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe , che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più , intorno alle quali l'intertenermi , oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio ; e tanto più , che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari . Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi , ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati , ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto , e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi . Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire . Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli , per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari , i vantaggi reſpettivi dei giocatori , e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione , in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli . So che eſſendo la probabilità , o ſemplice, o compoſta , ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica , o di queſta con una pa rabolica , e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti . Ma laſciando da parte i profondi calcoli , e i miſteri della fublime Geometria , i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo , piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco , per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo , come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori , e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi . Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto , nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni , ſi diſputano un premio , che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice , per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria . E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo . Il dire che una coſa accada caſualmente , non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta ; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza . Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto , qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire . Che due dadi gettati ſu di una tavola , ſcoprano piuttoſto un numero , che un altro ; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto . E perd ugualmente vero , che dato quel tal moto alla mano che gli getta , dato quel tal grado d'impeto , e non più nè meno , data la mole dei medefi mi , e il piano ſu cui ſi aggirano , devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro . Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle , e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante ; anzi pure non ſolo del gioco , ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo , e generalmente di qualunque evento fortuito ( a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati , ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio . Le fatiche , gl'incomodi , le priyazioni dei piaceri formano il primo . Nella gloria , nell'autorità , negli onori , nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo , che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze , o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig . 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte , ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente , che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare ; o a quello , che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi , di pendentemente dalle medeſime condizioni , 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe , e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi , ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax . Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna , o del caſo , quando ſono uſate dal Filoſofo , hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia , e il volgo che non ragiona . << tro , così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco , e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni , d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto , e quale non incontran do , la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva , non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario , non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco . Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo , altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza . E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto ; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito .Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria ? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli , ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori ; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque . E' queſta una evidente verità , ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco , per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore , non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario , i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi , e per conſeguenza variabili . Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta , fi dee riflettere , che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore , è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente , ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj ; e al contrario il numero dei finiſtri , altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui , e dei favorevoli all'avverſario . Ma quando fi giochi con condizioni eguali , queſte due fomme fono eguali : dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione , e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri . Da ciò ne ſegue , che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti ; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco , o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco , nella guiſa di ſopra accennata ; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre , ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco . Sia concertato per eſempio , che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi , ed uno voglia gettarli più volte , o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero , è manifeſto , che dalla natura , e dalle leggi di queſto gioco , ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'az 23 zardo ſomma maggiore . Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata , che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni , in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi , e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario , ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco , è più difficile allora , ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione . L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione , o di eſporla diverſa . Nel primo caſo il giocatore che intraprende , e faminata la natura del gioco , e le leggi chę a lui propone l'avverſario , potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali , il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari , di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro , o al contrario . Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta , ſiccome ha cin que combinazioni contrarie , e una ſola fa vorevole , converrà , che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore , altrimente la proporzione reſta alterata . Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori , e ſi voglia più volte ricominciare , erinovare il gioco , converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli , ſia uguale a quel lo dei contrarj , del che , e relativamente al noſtro addotto caſo , e ai fimili , ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza , ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi . Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare , e rino vare il gioco , per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato ; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente , egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio , ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario , do vrà chiedere di gettare il dado tre volte ; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta . Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più , e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori , e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione , e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria , benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori ( a ) . Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco , ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto , ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III . 26 che i vantaggi , che ha in alcuni giochi il banchiere , per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta , ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza , perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo ; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo . Si pretende nonoſtante , che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco , vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione . Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte , e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo . Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna , che tenta in vano di placare ; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità . Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori , delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo , ed eſauſto , ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna ; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno ; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco . Io preſcindo dall' eſaminare quale , e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze . Due coſe ſolo aſſeri ſco . E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere , come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi , e in manifeſta utilità del ſecondo . Non voglio perd omettere , che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta fem 1 28 plice , cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media , è il 5 . per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte , allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza ( a ) . Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere . Bi ſognerà dunque per ottenerla , o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra , e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta : 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno , onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo . 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto , non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio : o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera , ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure , alle dotte occupazioni , ed al domeſtico reg gimento delle famiglie , alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina ; che non è già sì di rado, che una carta di gioco , o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici . Si aggiunge a queſto , che la dura legge del biſogno , e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte , e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo ; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers . Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon ; 1 1 1 1 30 Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon , On commence paretre dupe , On finit par etre fripon . E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus , e nei digeſti, e nel codice , e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat . Io però e nel gioco , e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza , preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi , e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo , che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri ; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo , e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza , che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna , azzarda una data ſomma di denaro . Troppo ſon note le leggi di queſto contratto , e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti , per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale , e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata . Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto , e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere , che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro , pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere , che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere . Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco , non giova il dire , che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione , che ſarebbe al trimenti tanto leſiva . Queſto argomento pro * 32 verebbe troppo in genere di contratti , e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni . Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare , che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori , come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito . Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento ; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto . Troppo anche più enorme era la diſugua glianza , prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori ; condizione però , che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto . / 33 Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte , e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe . Altro è l'aſferire , che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto ; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato , e debba toglierlo affatto , e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati . Il lotto può conſiderarſi come un tributo , che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo ; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico , ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato . Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te ; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen . te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro , che azzardi , può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia , o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo , o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri . Quindi è che tanti , e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di ( a) Non può negarſi per altro , che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone : può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro . Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio , può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile , che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali , o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto , levato da una gran quantità , fia una piccola por zione di eſſa , relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità , che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero , o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante , formandoſi perciò , per così dire , una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte . Queſto ſe non baſta , come ognun yede manifeſtamente , a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto , che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni , e calcolar le ſperanze . 35 quel bene che ſperano , non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero , getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo , e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo , e non legge che poſſa vincerlo . Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti , la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo . Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente , accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio , e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio , neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica . Così facendo il faggio Principe , e non 1 36 fi attira la taccia di ingiuſto , e merita tutta la lode di prudente , di politico , di difenſore e cuſtode della pubblica felicità . Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli , che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario , anzichè pof ſeſſori , ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio . Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio , nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte , ma molti ſono i premi , come molti e vari i caſi propizi ; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na , o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore , o minor premio . Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia , nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità , e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza , e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra ; . 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio . In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare , che varie ſono le ſperanze e molte , perchè vari e molti ſono i premi , e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti . Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo , così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi ; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole , ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj . Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza , poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj , non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega , ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe . In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj , e ſono ſtati così grada tamente formati i premi , e in tal numero , e così bene è ſtata regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto , in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera , e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie , che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità , e i caratteri di tale contrat to . Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti , dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri , e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo . Ognun vede , che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica , e il diſpendio dell'economo del gioco , e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae . In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza . Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria , e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo , ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac , la notata diſuguaglianza : e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio , ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua , e il diſpendio , quando ve n'abbia . Queſti lotti fi riducono , dice il citato au tore ad una ſpecie di compra , che ſi fa in comune , a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la coſa comprata . Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione , ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente ; penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore , o minor quantità di viglietti . Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia , non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali , e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi ; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto , benchè lo ſia riſpettiva mente . Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere , che anche quando il padron del gioco , o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende , che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio , non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione ; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione , giacchè quel di più che fi paga , non è a titolo di compra della ſperanza , ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio , e fatica ; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare . Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette . La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli , è l'effetto dell'azzardo , e come la deci fione , o l'oracolo della fortuna ; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione . Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli ; e la forte s'interrogava , o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna : e ai caratteri , ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte , e di a ſcoltarne gli oracoli . E' incredibile poi quan iti , e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità . Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte , e ad Anzio , e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche , e Virgi 41 liane . I verſi dell'immortale Epico Greco , nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto , e il furore dell'indomito Achille , ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città , e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario , aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe , gli animi tutti non reſpiravan che pace , e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe . Aleſſandro Severo , ſalito al foglio dei Ce fari , credette di averne avuto un preſagio , quando privato ancora , anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo , aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio , s'incontrò in quel tratto , ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo , e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris . Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa . Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive , diviſorie , attributorie , e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità , ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi . Due , o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare , nè tempo , nè denaro in ſuſcitare queſtioni ; aſcoltano anzi ſentimenti più miti , e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe , e diſaſtroſe vie dei Tribunali . Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte , e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico , e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto . Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno , giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale , che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto , e vario evento della forte . Ora ſe i diritti ſono uguali , ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna , ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano , ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno , al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente ; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza , la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta . L'iſteſſo può dirſi a proporzione , quando uno abbia un diritto , per eſempio doppio di quello degli altri ; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le ; e così dicaſi di altri ſimili caſi . E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato ; e ſi 45 è detto , che uno depoſitando maggior por zione , pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe . L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano , quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte , L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti , Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono . In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta , e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta , inalterabile , e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte , ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no . E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio , che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri , che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali . Chi intraprende queſti contratti pud , direi quafi, venire alle preſe con la ſorte , e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale . Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono , ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti , ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte , e varia : biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe . La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante , eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo . La ſeconda , che l'irregolarità , che non agli eventi medeſimi e alle vicende , ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire , ſcom parirà finalmente , e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita , e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo . Da queſte due propoſizioni argomentano , che dunque dopo un dato tempo , ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento , che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza . Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della natura , e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto , che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo . Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo , che poi la mantiene in moto coſtantemente , e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima , benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono , e le dan forza . Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele . Le grandi vedute di un politico illumi nato , che formano il ſoſtegno e la forza del Trono , non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio , dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita , e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni . Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za , o del tutto regola , abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende , e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro , un tal'ordine e non un altro , queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai . Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento , chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno , e ſovrano ? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee , che noi abbiamo di ordine , e conneſſione . O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola ; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta ; o tutto deve dirſi averla ugualmente . Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili , vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite ; o ne vede infiniti altri , per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità . Fra le infinite vedute , che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature , chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre ? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione , e ad allontanarne l'orgoglio : e ſe un padre , ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto , che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore . Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti , e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca , che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara , e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie , e alla mancanza di eſperien ze , in tale ipoteſi deveſi attribuire . SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento , oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce , le circoſtanze che lo accom pagnano , e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni . Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare . Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute , e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende . Replicando adunque le eſperienze , rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza ; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità . Di fatto ſoggiungono , che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte ? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto : ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi , che ſi fo no ſempre creduti giochi , e capricci di una irregolare fortuna . E' egli per altro evidente queſto diſcorſo ? Potrebb'egli un animo , che non voglia ar renderſi ad altra forza , che a quella della ve rità , dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo ? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo , convien riflettere di non notare ſe non quelle volte , nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze . Se così è , e ſe queſte ſono preſſo che infinite , e in finitamente variabili , ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta , e il circolo che la rappreſenta sì ampio , che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote , o sì poche ſe ne po tranno fare , e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza . Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà , che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare . Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire , e queſte in quante maniere poſſano combi narſi ; e vedremo , ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento , la eſiſtenza del medeſimo . Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote , che innumerabili ſono ancor eſſe , e capaci di innumerabili gradi di alte razione . E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie , le quali dimoſtrano , che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente , tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri , e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare ; talvolta sì piccola , che dopo averla conoſciuta , ap pena ſi può credere che da eſſa derivi . E la ragione , e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me , ( ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono , è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità . Di quì deriva , che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima , che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza . E quì fa d'uopo riflettere , che la proba bilità , e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi , come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento , e la certezza , vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro . 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza , è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere , ed è quello appunto che le rende ( ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili . Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento , non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità , e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi , che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo . Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito , così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza . Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza , è compoſta di cauſe , che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere , e poterſi in infinite maniere combinare . Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe , o almeno eſcludenti un pru dente dubbio , alcune ſempliciſſime leggi della natura , dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili , che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano . E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo ; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza , quella che è mera probabilità , e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi . Che non pud fare l'amor di ſiſtema ? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria , e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo , ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo , e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti , e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità , quan to v'ha di più vario , e mutabile . Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi , e dalla ineſorabil morte ; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere , le quali agi ſcono certamente , non perchè così voglia un ordine e non un'altro , ma perchè così vo glion eſſe , e non altrimenti . Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii , delle cadute fatali da un precipizio , e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola , ed ordine . Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate , in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro ; non ſi potrà mai dire 1 1 . $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine , o conneſ fione , e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto , o che ſia per produrre in appreſſo . E ſe è vero , che negli eventi , e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze , e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo , qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali ; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza ? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie , che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma ? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno , che per noi , e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca ; giacchè per molti , e molti ſecoli, ( ac cordando anche più di quello certamente , che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne , e irregolarità almeno apparente , che of ſervaſi nelle umane vicende , e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto , che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante . Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire , che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli . Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione , e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago , e che non ha affiffa alcuna idea , ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare . Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge , o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità , ecco ciò che 60 ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti . Alla ſocietà dunque , e alle fire maſſime deveſi attribuire . Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli . Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano , o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete , e felicità degli individui , e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale , e politico . Pochi elementi , e poche idee ſciolgono il problema . Induſtria eccitata , commercio invigorito , circolazione ampliata . Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati , come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito , e le conſeguenze . Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo . In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione , perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte . Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi . Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio , e per chi il diſcapito , potendo ugualmente nel caſo noſtro , e l'uno , e l'altro a ciaſcun di loro arrivare ; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale , la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza . Diſli alla perfetta uguaglianza , perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate , vacil lano ſoltanto , perchè oltrepaſſano certi li miti , dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe . Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne , è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri , quante più eſtrazioni fi anderan no facendo , tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro : è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi : ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento , tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano , e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello . Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento , e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza . Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte ; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara , ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto , e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto . Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione , Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un 63 . altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio , o altre convenute cagioni ; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato , e che fu ſempre del loro carattere , furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito . Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto , che il profondo , ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523. , e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563. , e 1570. le ordinazioni di Olanda . Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni , la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze , e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata . Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta , ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione ; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato ; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo , o com'eſſi dicono a ſiniſtro . Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico , e del ſiniſtro ; ed è quanto dire , che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà , nè l'aſſicurato la mercede , ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto , o ſe non apparten gono all'aſſicurato . Per maggior comodo poi , e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie , ma non nella ſomma che ſi afferiſce , e che cade ſotto l'aſſi curazione : o appartenenti affatto ad altra perſona . In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti , alcuni caratteri . Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto ; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto , purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti . Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo , fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto , che ne forma l'oggetto . Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda ; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli , agitato da vortici , terribile per gli ſcogli ; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro , e domina più in una ſtagione, che in un altra ; la qualità del naviglio , più o me no capace di reſiſtere agli urti , e di inſul tare gli Aquiloni ; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno , anzi con queſte confon derſi . Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano , perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato , o da quella dipendenti almeno mediatamente . La deſtrezza, e la buona fede del capitano : l'abilità dei marinari e dei piloti : il nume ro , e la gagliardìa dell'equipaggio : la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci ; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra , ſono o le uniche , o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali . 67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo : lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti , e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione , che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi , per cangiarla in una affatto diverſa , e talora dia metralmente oppoſta, e contraria . Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto , parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa , o fiſica , o morale , ſeparatamente o iſolata dalle altre ; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra , e quella non meno che hanno ſulle morali ; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche . Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata , o temperata colle altre . e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni , e ſingolarmente preſe , e in complef ſo , è neceſſaria una lunga ſperienza . In queſto contratto , per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni , che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore , e perder la nave , nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze , la confe gnano al ſoſpirato porto . Fatta una tavola di accurate , e frequenti oſſervazioni , e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave , e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine ; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri ; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli ; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema . Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere , e queſti che al ſecondo appartengono . Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti , e ſe ne conoſce perfettamente il numero ; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto , che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati ; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili , i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati . La proporzione ſi accoſta tanto più al vero , quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere : delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione , quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola , nei primi è incerto l'eſito della ſorte ; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo . Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze . Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole , ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione . Scioglie una nave dal Porto , e veleggia per un mare tranquillo , e placido ; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci , e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati , o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai , nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento , la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari , e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo ; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi , il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole , non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza . Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto , o infauſto . Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero , ed il valore , o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue ; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo , e ſull’infauſto l'ardire , e la forza dei ſecondi ? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove ; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa , che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi , e ſi nume rino i valori ; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere , che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai ; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza ; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota , come dal fin qui detto chiara mente appariſce . Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole , formano calcoli , e ſciolgon pro blemi ? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia , conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente , quanto più ſiano frequenti queſte tavole , e numeroſi i caſi che ad eſſe , come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta , o le deſidera ; l'indotto , e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore , o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti , e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto , e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte . In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore , è il valore delle merci , che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato ; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo . Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione , l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de , pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno ; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte ; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte . Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto , per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto . Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago , e contento di aver fatto il contratto ; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito , conſultando ſolo il ſuo van taggio , l'avrebbe nonoſtante fatto , anzi con tanto maggiore alacrità . Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento , in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato , fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede , qualunque ſia l'evento ; quando però la nave giunga a ſal vamento , è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto ; poichè ſe non lo aveſſe fatto , e avreb be avuta ſalva la nave , e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede . In queſto ſolo ſenſo , e non in altro , che ſareb be troppo contrario all'umanità , poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no , che neppur ridonda in proprio vantaggio , ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave ; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa , di cui è eſſenziale ſe condo alcuni , che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti , ſia per l'altro infau ſto , e ſiniſtro . Conchiuſo il contratto , l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità , deſi dera che ſi falvi la nave , ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto . Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo , ſi è nella perdita di una na ve , la minore, o maggior quantità di merci , ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde , e ritrarre al lido ; lo che ſuccede mol te volte , e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo ; ma diverſi , a miſura , che più o meno delle aſſicurate merci , ſi perde , e ro vinafi . Il poter prevedere , e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te . Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile ac cidente ? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni ; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore ? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto , quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare , pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra ; anzi alle merci , o ſituate nei magazzini , o in altra maniera cuſtodite . Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente , e per quello perire , o deteriorarſi , fi fa eſſere oggetto di queſto contratto . Anzi il guaſto di un incendio divoratore , le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe , porta la deſolazione per le campagne , la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici , ed altri pericoli di tal fatta , che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne , ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte , ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza , miſurarla . Un'altro contratto non meno intereſſante , e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio . Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante , e sì varie combinazioni che alterano , e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati ; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili , ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo . La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno . Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto . Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia , o che non curando le veci dell' uno , o dell' altra , non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo ; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore . Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti , e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto , ed è talor neceſſario , a chi trovandoſi in un'età cadente , accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi , rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma , ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale , e la ſomma degli inte reſſi ordinarj , che egli ne ha ritratti . Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie , queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo . Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro . Ecco lo ſpirito di queſto contratto . Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza , e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere , che sborſato il ca pitale che ſi perde , e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria , vi ſarà un certo nume ro di anni , per il corſo dei quali ſopravi vendo , la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le . Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni , non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia . Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni ; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti , è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni , che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire , e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni , o qualunque altro numero , ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima . Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio , conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone , per eſempio mille , all'età di quello che vuol farlo . La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime , dà un numero , che ſi chiama l'età media . Trovato queſto , ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine , e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra , quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni . Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono ; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media . Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore , e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia , ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi . La ſomma del capitale più le rendite ordinarie , che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo , deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente , come il numero dei cafi favorevoli al primo , al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo ; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione , ne ſegue che la ſomma del capitale , e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale , e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media , che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo . Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma ; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione , ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni . E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media . E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza , ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto : lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo . Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza . Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio . Vogliamo adunque miſurar la forte , non eſpellerla . f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media , quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età . Qualità di profeſſione, carattere di temperamento , indole di clima , eligono ſeparate oſſervazioni . In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite , per contrari quelli che le abbreviano ; e i ſecondi , nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi ; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera , quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze . Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie , ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera ; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae ; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria . Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo ; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non ܪ 83 farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria , che naſcerebbe dalla fillata proporzione ; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re , quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente , e per ferie cangiato in forte fruttifera , dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera , e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi , non ſi cangerà l'analogia . Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A , e una di lei porzione C , alla quale corriſponda l'annuo frutto B , ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte , eſpreſſa dalla ſeguente formola . (C + B ) A ,( B ) A ( C ( C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto ; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto ; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto . Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie . Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi , tanto la rendita ordiną ria , quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula , e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca , ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza . Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli , altro non s'intende , che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni , per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima ; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato ; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali , fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere , e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole , o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita , la morte , e gli altri accidenti della vita umana ; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti ; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti . Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità , e gli accidenti dellemalattie che egli tratta ; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato , che egli libera , o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte . Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori , anzi fovente farebbero neceſſarie ; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze , o alcuna almeno delle eſſenziali , rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore , o irri fleſſione . 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo ? Quot non ſunt caufae , dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet ? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente , perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie , è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata : La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie , dimoſtrata dall'or dine delle naſcite , morti e moltiplicazioni . Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie , e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra . Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria , e di curioſità , che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera , ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche , ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni . Più palpabile però , per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo , e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla . Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità , ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente . Già dai regiſtri delle na ſcite , che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione : ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni , ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa , e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi , che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto , e ad una tenue ſcoſſa . Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione , che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia . Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile , la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta ; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro , e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo , e di per der così la ſomma dal padre sborſata . Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo , che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo ; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma , e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita . Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine , ſta ai ſiniſtri (a) , o fia ai favorevoli all'altro ; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre , più le rendite ordi narie , all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie . Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera ( a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli , e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica ; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia ; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni , pagando , o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore , che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica , ſe egli muoja prima del termine ſtabilito . La eva luazione della vita , si in queſto , come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole . Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa , al contrario di ciò che accade nei vitalizj , e negli altri contratti ad eſſi analoghi . Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna . E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo . Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina . Non differiſce que fto dal vitalizio , ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui , che collocò il ſuo capitale a fondo per duto ; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe , e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina . L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe . A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età . E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni , e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire . Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga . Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite ; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto , val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere , che hanno quelliche ſopravvivono , pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre . Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni . Si è in oltre trovata la formola che eſpri me , dato qualunque numero di vite coetanee , il tempo in cui uno , o due , o più manche ranno , la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono , da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita ; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole , ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj , ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine . 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre , che ha trovate , e applicate le anzidette , e molte altre formole , che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi . Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe , e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti ; voglio rammentare , che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite , come ap punto ſono le tontine , ed altre di fomi gliante natura . E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria , e ad appreſtare alla parte ozioſa , e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto , ed anima al ben eſſere dello ſtato ; oltre di che ſi oppongono alla propagazione , allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici . En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine ; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine : O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages , Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages , Je ferai ſur l'etat , & j'aurai penſion . Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine ; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate , e andate in diſuſo , benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo . Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro , ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini , le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94 . fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni , per fare un eſame regolato dell'età , e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni , e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni , che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute . 1 1 1 1 . 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe , e ſicure , e in parte alla ſperienza del paſſato , e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato , ſi ripigli l'eſempio dell'urna , nella quale ab biavi un determinato numero , per eſempio di go. palle . Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla ; per la natura di tal contratto , o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1 : m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra , e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp ; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1 , la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe , come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere . Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe , e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza , ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe , la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I : m ; 112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p , non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla , di quello che ne eſca un'al tra . E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili . Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle , ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due , eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle . A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto , e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado , ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze , in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi , non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta , chi ra 97 giona ſu dati veri , e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità . Se ſi aveſſe a queſte riguardo , molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati , a queſta terza dovrebbonſi riferire . Ma io per le indicate ragioni , a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere . Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne ; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può , ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione . Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande , e i riſultati coſtanti , ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza , ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe , e la diſtingue dalle altre . Vi ſono in fatti molti giochi , nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g . 98 pizia ſorte , e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco , e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato . L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco , che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando , e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire ; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco , di dedurre , di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario ; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria , è ſempre vero che i giochi che di effa , e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo , In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze ; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti ; in certe cioè , e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento , ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza , acciò il contratto ſia giuſto . Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili ; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe , perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate , e dalla ſola ſperienza . Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero , prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte . Inoltre la deſtrezza di combinare , di de durre , di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco , è variabile , come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria , la perfetta diſpoſizione di ſa lute , e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre ; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente , e attuazione di fantasia . Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate , e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo , e quanto alla loro frequenza , e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco ; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco , e da circoſtanze incerte , e indeter minate , Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte , e il gioca tore avveduto , dice la Bruyere , imita in queſto un gran generale , e un abile politico . Al valore del primo , e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte . Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo ; e che là metton capo , ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati , e i piùmeditatiprogetti . Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo . O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo ; o un folo tenta la ſorte del gioco , e l'altro ſta ozioſo ſpettatore , e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario . Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco , è l'iſteſſo per ambidue , ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria , la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco ; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte . Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario ; eſſendo la deſtrezza , e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario ; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno , o reſtar coſtante ſecondo i progrelli , o uguali, o proporzionali , o di verſi, che l'uno , o l'altro facciano nel gio co . E' vero però non meno , che trattandoſi di rapporti , poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario . Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva , ma aſſoluta ; e fi riduce a calcolo con l'offervare , nelle medeſime combina zioni , o in non molto diffimili per la natura del gioco , quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto , fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire . Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco , in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva , e afloluta induſtria , converrà diſtinguere , e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli , e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario . Se non due , ina più ſiano i giocatori , ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti , e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto ; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe , e in quelli della feconda . Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto , convien ricorrere ai priini ; ove poi fia queſtione di offervazioni , e di cauſe indeterminate , conviene eſaminare i ſecondi ; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni , ſu gli altri , e la varia loro com binazione . Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo ; non devo diffimulare , che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani . Accid , dic ' egli , queſto cal colo foſſe applicabile , ſarebbe neceſſario , che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario , che gettata infinite volte in alto una moneta , ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca , per eſempio palle , e ſull' altra una diverſa , per eſempio croce , foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle , o croce ; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche . Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando , non lo è fiſicamente . E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità , non è applicabile ai caſi fiſici . Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta , e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità , durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo , ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti , la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia . : Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa : che non è in natura , che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino ; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi , ſi raſſomiglino fra loro . Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te , in parità di circoſtanze è tanto più pic cola , quanto queſto numero di volte è più grande , di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla , o quaſi nulla ; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco , o punto diminuita per queſto riguardo . Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili , quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica , ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura . Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi , e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili ? 1 106 1 Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà , o le mede fime reftino ſciolte . Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire . Se diaſi dunque un caſo , che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili , e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità ; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie ; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi , che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione . Che ſia fiſicamente impoſibiie ( ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia , donde ſi ricava , fe non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade , ma che al contrario ſi vanno alter nando , e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta ? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia , a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta . Se ſi concedeſſe ancora ( benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro , non che , come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert , che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro ; non correrebbe la parità , per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta , l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile . Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità . Tutte le combinazioni le quali fanno , che una coſa non ſia fimile all'altra , danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B , naſceranno tanti alberi fra loro diverſi ; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza . Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta ; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili , cioè croce ; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle , ſi ſcoprirà croce . Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe , formano infi niti rapporti , infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità , figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano . Di fatto gli elementi che formano la com binazione , che per infinito numero di volte preſenta palle , ſono tutti ſimili fra di loro , ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto . Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto , e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle , ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo , potendoſi dire , che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo , e così dicaſi di tutti . Talmentechè a rigor parlando , non ſi può dire , che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro . Non così degli elementi che formano un dato fiore , o albero ; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate . Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene , che la parità non corre ; e dalla fiſica impoſſibilità ( ſe fi ammetta ) di trovare mol te , o anche due coſe fra loro ſimili ; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia . 110 1 La diſparità compariſce più chiara , fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi ; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità , e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero , avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le , che ne riſultaſſero due alberi ſimili . Laddove vedendo una moneta , e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte , non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia , e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile , come la pretende , fondato ſulle addotte ri fleſſioni , il Sig. d'Alembert . In una parola della impoſſibilità ( ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione ; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta . Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe , III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo , dice d'Alembert , che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola ? chi vorrà crederlo poſſibile ? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta . Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili ; e ſi riſponde anche a queſto , che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre , e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo . La Luna , aggiunge il Ch. Filoſofo , gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra ; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione , e ſi vuol cercare qual n'è la cagione . Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo , per eſempio di 21 : 33 , niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo , e non ſe ne ricercherebbe la cagione ; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile , che quello di 21:33 ; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo , che non ſi cercherebbe del ſe condo ? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro , alla sfera . Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo ? perchè queſta combinazione , benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre , ſi riguarda .come effetto di un diſegno , e di una regolarità ? E non ſi crederà poi , che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile , benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni ? Ma io riſpondo , che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni ; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre ; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caſo ; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili ; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni , e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali ; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche , e meccaniche . Di più dico , che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo , e gli altri paffa , non è che metafiſica ; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre . Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus . Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola , e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea ; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano . Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione , l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo , contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni ; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni ; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa , che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni . Si può dunque dic' egli , ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive- , ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa ; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni . Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27 . anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare , o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni ; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero , o molto più , o molto meno di 420 anni , non ſarebbe fiſicamente poſſibile ; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando . Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili , che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra . Dunque la combinazione in cui , o infi nite volte , o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta , benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione , dev’ eſſere rigettata . E' nell'ordine naturale , ché un banchiere di faraone , che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo . Di fatti ſi oſſerva coſtantemente , che non vi è banchiere , che non accumuli groſſe fomme di denaro . Queſto prova , che quelle combinazioni , che hanno più caſi contrari che favorevoli , ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre ; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili . Dunque conclude egli , la combina zione , la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa . Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità , che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle , o aſſai maggiori , o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni ; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella , per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia ; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere . Dicafi piuttoſto che l'una , e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più , quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli ; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj . Venendo poi al caſo noſtro dico , che fo no varie , e moltiſſime in numero le cauſe vere , e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini . Ma trattandoſi del getto della mo neta , non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali , che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una , che l'altra delle combi nazioni , che a rigor parlando non ſono che due , come più ſopra ſi è offeryato . L'ordine delle umane coſe , e le fifiche qualità , e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita , ſon con ſultati nel primo caſo ; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio . Dunque fi pud predire , che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini ; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono , che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano . E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio , e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco . Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno , che vedendo gettarall'aria una moneta , aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo , o anche infinito numero di volte , pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia ? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta . Si può gettare a una gran de altezza , e a una piccola ; con poca forza , e con molta ; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte ; o che lo faccia obliquo ; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela . Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo . Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà , che laſciandola in tal modo cadere , ſpecialmente a piccola altezza , anche in finite volte , non vi è ragione di preſagire , che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima . La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento , la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo , o negli altri caſi ? Se la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica , che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento ? Se poi non la intende in queſto caſo , come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima ? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert , che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto , che un non sò quale fatal ordine della natu ra ,potrebbe cagionare la preteſa variazione . Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi , dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto ,dell'altezza , della direzio ne ; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due ; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce ; e non ogni variazione , e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert , nei quali trattan doſi di rapporto , o di diverſa conſociazione di parti , ognun vede , che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo . O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti ; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare , che palle , o croce ; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite , giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa ; nel caſo della moneta non è così , potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza , altezza , direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto ; potendoſi anche dare che in infiniti getti , o in un numero aſſai grande , ſi man tenga l'iſteſſa direzione , benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero , benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto . Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta ; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta ; verità che ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere ,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile , e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità ; dal che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito appariſca , per poterne formare la propor zione . . Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta , le oſſervazioni, e non altro , poſſono moſtrarlo ; quelle oſſer vazioni io dico , che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità , che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze , che lo conferinano . Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta , quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario ; ma vorrà gettarlo più volte . La ſua ſperan za è ,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6 , arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6 ; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo , la ſua perdita ſarebbe ſicura . La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità , che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert . Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo , e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare , che uomini di ſublime ingegno , e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile . Quanto a me , mi pare di aver ottenuto il mio intento , ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo , e per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo : nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere Codronchi proposto , quando a questo fine per sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798 : e con essa lei tornò al suo impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e delizia : e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Nicola Codronchi. Keywords: contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Colazza (Roma). Filosofo. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from Giovanni Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard . Close to the group , which adopted the name UR , were Guiliano Kremmerz ( 1861-1939 ) , founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle “forme”.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità ? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giovanni Colazza. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

Colecchi (Pescocostanzo). Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi vichiani; Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori gioi dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico que ste divine idee; aveva lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola  opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispose Vico a crear il “diritto universale” della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura , per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè o s t a p u n t o ( come crede Grozio , il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua.   Siegue da ciò , che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col Vico all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima , non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi , non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma :non esser ella di alcun uso , sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente ; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual , dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero , che rende certa la legge , m a non del tutto vera ; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti , che può dirsi ; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi : motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori .Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge , toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi ,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle , c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde Vico, v'ha unica ragione che così della , unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è , diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî , e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura . Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale , il quale h aperto della parola, o che torna lo stess , non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente , nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente con la morale. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrio – la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Colletti (Roma). Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, 1980. Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, 2001.  88-04-48844-1 Ministero per i beni e le attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio Colletti scienza e libertà, Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri. Collétti, Lucio la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio Colletti, su CameraXIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di Colletti Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di luglio-agosto 1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione reale” (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione dialettica”». Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch)» (1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla formula «A non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha la sua essenza fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa dalla formula «A e B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che  Massimiliano Biscuso – Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere» (74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali» (80), e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo», 112). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di liquidare «gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società» (95). In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto,  www.filosofia-italiana.net 5 l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa» (97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica» (102). Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate» (107). «Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria» (109): la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo» (111), dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg Wilhelm Friedrich Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt.[3] Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus in der Metaphysik' zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4]  Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apophasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’. The Germans deal with the widerspruch but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for ~ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library.

 

Colli (Torino). Filosofo. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma. Giorgio Colli. Colli. Keywords: L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco.”

 

Collini (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo Alessandro Collini, nato a Firenze. Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del (2) Il COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della "Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie" (l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo.[19]   Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato "Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e mammiferi.[21]   Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800, Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra; in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo. Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del 1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22] Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un rettile.  In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi. Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello marino.   Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.  Paleobiologia Classi d'età  Esemplare giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6]  Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6]  Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]  Crescita e riproduzione  Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]  Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]  Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29]  Note ^ Fischer von Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany – first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, vol. 245, n. 1, 2007, pp. 117–125, DOI:10.1127/0077-7749/2007/0245-0117.  Bennett, S. Christopher, New information on body size and cranial display structures of Pterodactylus antiquus, with a revision of the genus, in Paläontologische Zeitschrift, in press, 2013, DOI:10.1007/s12542-012-0159-8.  Bennett, S.C., Year-classes of pterosaurs from the Solnhofen Limestone of Germany: Taxonomic and Systematic Implications, in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 16, n. 3, 1996, pp. 432–444, DOI:10.1080/02724634.1996.10011332.  Bennett, S.C., [0043:STPOTC2.0.CO;2 Soft tissue preservation of the cranial crest of the pterosaur Germanodactylus from Solnhofen], in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 22, n. 1, 2002, pp. 43–48, DOI:10.1671/0272-4634(2002)022[0043:STPOTC]2.0.CO;2, JSTOR 4524192.  Jouve, S., [0542:DOTSOA2.0.CO;2 Description of the skull of a Ctenochasma (Pterosauria) from the latest Jurassic of eastern France, with a taxonomic revision of European Tithonian Pterodactyloidea], in Journal of Vertebrate Paleontology, vol. 24, n. 3, 2004, pp. 542–554, DOI:10.1671/0272-4634(2004)024[0542:DOTSOA]2.0.CO;2. ^ Frey, E., and Martill, D.M., Soft tissue preservation in a specimen of Pterodactylus kochi (Wagner) from the Upper Jurassic of Germany, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie, Abhandlungen, vol. 210, 1998, pp. 421–441. ^ Cuvier, G., Mémoire sur le squelette fossile d'un reptile volant des environs d'Aichstedt, que quelques naturalistes ont pris pour un oiseau, et dont nous formons un genre de Sauriens, sous le nom de Petro-Dactyle, in Annales du Muséum national d'Histoire Naturelle, Paris, vol. 13, 1809, pp. 424–437.  Taquet, P., and Padian, K., The earliest known restoration of a pterosaur and the philosophical origins of Cuvier's Ossemens Fossiles, in Comptes Rendus Palevol, vol. 3, n. 2, 2004, pp. 157–175, DOI:10.1016/j.crpv.2004.02.002. ^ Cuvier, G., 1819, (Pterodactylus longirostris) in Isis von Oken, 1126 und 1788, Jena ^ Kellner, A.W.A. 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Martill, Pterodactylus scolopaciceps Meyer, 1860 (Pterosauria, Pterodactyloidea) from the Upper Jurassic of Bavaria, Germany: The Problem of Cryptic Pterosaur Taxa in Early Ontogeny, in PLoS ONE, vol. 9, n. 10, 2014, pp. e110646, DOI:10.1371/journal.pone.0110646. ^ Steven U. Vidovic e David M. Martill, The taxonomy and phylogeny of Diopecephalus kochi (Wagner, 1837) and ‘Germanodactylus rhamphastinus’ (Wagner, 1851), in Geological Society, London, Special Publications, 2017, pp. SP455.12, DOI:10.1144/SP455.12. ^ David M. Unwin, The Pterosaurs: From Deep Time, New York, Pi Press, 2006, pp. 246, ISBN 0-13-146308-X. ^ Brougham, H.P. (1844). Dialogues on instinct; with analytical view of the researches on fossil osteology. Volume 19 of Knight's weekly vol. ^ Ősi, A., Prondvai, E., & Géczy, B. (2010). The history of Late Jurassic pterosaurs housed in Hungarian collections and the revision of the holotype of Pterodactylus micronyx Meyer 1856 (a ‘Pester Exemplar’). 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Natural History Museum of Los Angeles County and University of Washington Press, Seattle and London ^ Wellnhofer, P. (1970). Die Pterodactyloidea (Pterosauria) der Oberjura-Plattenkalke Siiddeutschlands. Bayerische Akademie der Wissenschaften, Mathematisch-Wissenschaftlichen Klasse, Abhandlungen, 141: 133 pp. ^ Schmitz, L.; Motani, R., Nocturnality in Dinosaurs Inferred from Scleral Ring and Orbit Morphology, in Science, vol. 332, n. 6030, 2011, pp. 705–8, DOI:10.1126/science.1200043, PMID 21493820. ^ Weishampel, D.B., Dodson, P., Oslmolska, H. (2004). The Dinosauria (Second ed.). University of California Press. Biografia Steve Parcker John Malam, Dinosauri e altre creature preistoriche. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Pterodactylus Collabora a Wikispecies Wikispecies contiene informazioni su Pterodactylus Collegamenti esterni (EN) Pterodactylus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Pterodactylus, su Fossilworks.org. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. LCCN (EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri. Il conte Cosimo Alessandro Collini. Keywords: pterodattilo, filosofia, pisa, Firenze, nobilita, coira. Pterodattilo. Polemica filosofica, Domenico Eusebio Chelli, marchesa Gabbriella Malaspina, Voltaire e la Toscana, “Firenze come una nuove Atene”, Collini su Ariosto e Boccaccio, Collini makes fun of Voltaire’s daughter. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Collini” – The Swimming-Pool Library.

 

Colombe (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo avversario di Galilei.  Non si sa quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.  Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra.  Per conciliare le osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo. Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galielei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library.

 

Colombo (Milano). Filosofo. Grice: “I love Colombo as I love Wilde – I mean, the sponsor of the Wilde Lectures on Natural Religion! Colombo wonders, ‘can ‘theologian’ be written under ‘profession’? Surely, like me, Colombo distinguishes between theologian and philosophical theologian – if there is no such distinction, and I’m not sure there is – perhaps there shouldn’t be, Colombo would say, the ‘philosophical’ in my ‘philosophical eschatology’ is totally otiose and anti-Griceian!” Insegna a Milano. Si è occupato di antropologia, metafisica e la filosofia italiana -- Rosmini, Martinetti, Volpe, ad Aosta. Altre opere: “Senzo e atto” (Studium, Roma). La morale communitaria (CUSL, Milano); “Pietra angolare: l’chiesa d’Inghilterra” (CUSL-Centro Toniolo, Milano-Verona); “Antropologia” (Massimo, Milano), “L’immanente e il trascendente”; “La correttezza del nome nel Cratilo – il nome corretto -- in  L’origine del linguaggio (Celestian Milani), Demetra, Verona; Il ri-ordino dei cicli scolastici, in "Quaderno di Iter", “Filosofia come soteriologia: L'avventura di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, Milano); “Il giusto prezzo della felicità, -- reasonable or rational? -- Edizioni ISU-Università Cattolica, Milano); “Antropologia ed etica (EDUCatt, Milano).  Forme e modelli del pensiero filosofico. Introdurre alla   comprensione e  uso   dei   linguaggi e  degli    strumenti specifici della    metafisica, dell’antropologia, dell’etica;- all’acquisizione di abilità critiche e analitiche per comprendere le dinamiche del vissuto, della società e della storia contemporanea dell’uomo occidentale. Salute     e  salvezza dell’uomo. Il  senso    della    cura   e  dell’educazione. Una   sfida    per   la ragione e per la fede.Valutazione critica    del   rapporto metafisica-antropologia-soteriologia in  tre  momenti della storia dell’Occidente. Il mondo antico-classico greco-romano. Il mondo nuovo Cristiano. Il mondo moderno e post-moderno.BIBLIOGRAFIA G. coLomBo, I Greci e l’amore incerto: grandezza e aporia dell’eros platonico: il Simposio, ISU-Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, S.    kierkeGaard, La malattia mortale (qualsiasi edizione, purché    completa): ai  fini   della   prova    d’esameè richiesta la conoscenza della sola Prima parte: La malattia mortale è la disperazione;J.   p. SarTre, L’esistenzialismo è un umanismo, Armando, Roma, 2006 (o altra edizione, purché completa).DIDATTICA DEL CORSOLezioni in aula, ricerche e percorsi personalizzati.METODO DI VALUTAZIONEEsame orale finale, valutazione di eventuali elaborati scritti o relazioni orali. 75AVVERTENZEIl docente è a disposizione degli studenti per ogni chiarimento didattico e contenutistico, per l’assegnazione delle tesi di laurea e l’assistenza necessaria alla loro elaborazione.Il docente riceve durante il periodo di lezione presso lo studio universitario, martedì e giovedì h. 10.00-11.30. Pausania, do not multiply loves beyond necessity – l’ambiguita di ‘amore’ – L’Afrodita celeste no participa della natura femmina, solo della natura ‘maschile’.  Pausania parla solo a maschi, ai maschi virili, al maschio virile. L’amante o amatore e maschio virile, l’amato o l’innamorato e maschio virile. L’amore celeste (ouranios) participa solo della natura maschile. Criterio d’amabilita, l’amabile. Giuseppe Colombo. Keywords: atto, attualismo, actualism, actum, senzo, sensus, sense, morale communitaria, pietra angolare, Chiesa d’Inghilterra, Cratilo, origine del linguaggio, glossogenia, glossotesi, gossogenetic, semio-genesi, il soteriologico, immanente/trascendente, aporia dell’amore platonico, eikesia, ‘Daddy wouldn’t buy be a wow wow’ true iff Daddy wouldn’t buy me a bow wow – correctness of iconicity of ‘daddy’ and ‘bow wow’ --.  Heteroerotismo – Il discorso di Alcibiade – analisi del simposio, l’elogio dell’eros. Il discorso di Pausania. Ero demone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombo” – The Swimming-Pool Library.

 

Colonna (Roma). Filosofo. There is already an entry for this; in Italian it is ‘Egidio Colonna’ --  giles di roma, Rome, original name, a member of the order of the Hermits of St. Augustine, he studied arts at Augustinian house and theology at the varsity in Paris but was censured by the theology faculty and denied a license to teach as tutor. Owing to the intervention of Pope Honorius IV, he later returned from Italy to Paris to teach theology, was appointed general of his order, and became archbishop of Bourges. Colonna both defends and criticizes views of Aquinas. He held that essence and existence are really distinct in creatures, but described them as “things”; that prime matter cannot exist without some substantial form; and, early in his career, that an eternally created world is possible. He defended only one substantial form in composites, including man. Grice adds: “Colonna supported Pope Boniface VIII in his quarrel with Philip IV of Franc eand that was a bad choice.” The Latin is EGIDIVS COLUMNA. The “Corriere” has an article as his book being a bestseller of the Low Middle Ages!” Cosnisder the claims here: ‘essence and existence are really distinct in creatures – and each is a thing – prime matter cannot exist without substantial forml – eternal and created world is not a contradiction – there is only ONE substantial form in compostes, including man.   Grice: “Must say I LOVE Colonna, or COLVMNA as the printing goes – of course the “Corriere della Sera” hastens to add that he wassn’t one! In any case, my favourite of his tracts is of course the one on Aristotle!”. Egidio Romano, O.E.S.A. arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato Roma Nominato arcivescovo Roma   Manuale Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps. Discepolo d'Aquino. Insegna filosofia. Fu inoltre il tutore di Filippo il Bello al quale dedica il saggio “De regimine principum”, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo. Considerato tra i più autorevoli filosofi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Colonna rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico. Infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il “De regimine principum”, saggio dedicato a Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel “De Ecclesiastica potestate”, invece, afferma la superiorità del “sacerdotium” rispetto al “rex” o “regnum”, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale. In seguito alle condanne di Tempier, difende la tesi d’Aquino, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. Gli avversari del papato trovano in Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra stato e chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo “De Civitate Dei” conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della “Civitas Dei Caelestis” e il piano temporale della vita terrena che è “Civitas Peregrina”), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al rex e regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”. Rivendica la plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto “homo spiritualis”. Sostituisce al concetto agostiniano di “ecclesia” quello di “regnum” al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico, il Papa, dove esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di “dominium” che coincide con la sua stessa missione spirituale. Atre opere: L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Olschki (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), da Punta.  “Quaestio de gradibus formarum” Ottaviano Scoto, Boneto Locatello. “In secundum librum sententiarum quaestiones” Francesco Ziletti); Opere, Antonio Blado; “In libros De physico auditu Aristotelis commentaria”; Ottaviano Scoto; Boneto Locatello, “De materia coeli” Girolamo Duranti,  “Quodlibeta”. Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano, “Le opere prima”; “I commenti aristotelici”, "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Dizionario biografico degli italiani. DEL GOVERNO DI SÈ. Del sommo bene. Quale è la maniera di parlare nella scienza de're e de' principi. Quale è l'ordinanza delle cose che si debbono dire in questo libro. Come grande utilitate ei re e' principi ånno in udire e in intendere e in sapere questo libro. Quante maniere sono di vivare e come l'uomo die méttare il sovrano bene di questa mortal vita in queste maniere di vivere. Com'è grande utilità e a' re ed ai principi che ellino conoscano il loro fine e'l loro sovrano bene di questa vita mortale. I re ne i principi, non debbano mettere il loro sovrano bene in diletto corporale. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere ricchezze. I  re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere onori. I re ne i principi non debbono mettere il loro sovrano bene in avere gloria o gran rinomo di bontà. Nè i re né i principi non debbono méttare il loro sovrano bene in avere forza di gente. I re ne i principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle uopere della prudenzia cioé del senno. Come ei re e' principi debbono méttare el loro sovrano bene nelle opere della prudenza e del. Il prezzo e'l guidardone dei re e dei principi bene governanti il loro popolo, secondo legge e ragione, è molto grande. senno. Della virtù. Quante potenze à l’anima e in quali potenze e la virtù di una buona opera. Come la virtù di una buona opera e divisa nella volontà e nell’intendimento dell'uomo. Quante virtù di buone opere sono, come l'uomo die préndare il numero di esse. Delle buone disposizioni che l'uomo à, alcune sono virtů , alcune sono più degne che virtù, alcune altre sono apparigliate a virtù. Alcune virtú sono più degne d'alcune altre e più principali. Che cosa è la virtù dell’uomo ch'è chiamato senno, over prudenza, over sapere. Ai re ed ai prenzi conviene es sere savi. Quanto e quali cose conviene ai re e ai prenzi avere acciò che ellino siano savi. Come și re e i prenzi possano fare loro medesimi savi. Quante maniere sono di drittura ed in che cosa è drittura e come drittura è divisata dalie altre virtú. Senza drittura e senza iustizia ei reami non possono durare, nè nulla signoria di città. I re e i prenzi debbono intendere diligentemente acciò che essi siano dirilturieri e che drittura sia guardata nelle loro terre. La forza di coraggio e . e quali cose ella die essere , e come ei re e i prenzi le. possono avere. Quante maniere sono di forza e secondo la quale ei re e i prenzi debbono essere forti. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama temperanza e in quali cose quella virtù die essere, quante parti a la temperanza, come noi la potemo acquistare. Ched elli é più disconvenevole cosa che l’uomo sia distemperato in seguire LI DILETTI DEL CORPO che in essere paurioso. Il principe debbe essere temperato nel diletto di suo corpo. La virtù che l'uomo chiama larghezza e'n quale cose cotale virtù de' essere, e come noi la potemo acquistare. Che a pena può essere el re o'l prenze folle largo e come è troppo sconvenevole' cosa che essi sieno avari e ch'ellino debbono essere larghi e liberali. Che cosa è una virtù che l’uomo cjiama magnificenzia e'n quali cose quella virtù die essere, e come noi potemo avere quella virtù. Come è cosa isconvenevole che i re e i prenzi sieno di piccola dispesa e di poco affare, e che maggiormente s'avviene a loro essere di grande spese e di grande affare. Che condizioni à l'uomo che è di grande spesa e di grande affare, e che conviene maggior mente averle ai re ed ai prenzi. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama magnanimità, cioè a dire virtù di grand'animo e in quali cose quella virtù di essere e come noi potemo essere di gran cuore. Quante condizioni à l'uomo che è di gran cuore, e che maggiormente si conviene ai prenzi d'averle. Come ei re e i prenzi debbono amare onore , o quale è la virtù che l'uomo chiama virtù d'amare opore . 68 Cap. XXV. Ca insegna che amare onore ed èssare umile possono essere insieme e che quelli che è di gran cuore e di grande animo non può essere senza umiltà. Che cosa é umiltà de la quale il filosafo parla e in quali cose ella die essere e che maggiormente conviene ai re ed ai prenzi essere umili. Che cosa è la virtù che l'uomo chiama dibuonairetà , ed in che cose la buonairetà die essere e che conviene ai re ed a i prenzi essere dibonarie. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE PIACEVOLMENTE e in che cose la detta virtù die essere e che si conviene che i re e i preozi sieno piacevoli. Che cosa è verità e in che cosa ella die essere usata e come si conviene al principe ch'esse sia veritiero o sincero. Che cosa è una virtù che l'uomo chiama sollazzevole, quasi dica di sapere sollazzare, e di essere allegro e gioioso, là ' ve si conviene , e per la quale ' l'uomo si sa avvenevolmente rallegrare nei sollazzi, come ei re e i prenzi debbono essere allegri e sollazze voli. Conviene al principe avere tutte le virtù, perciò che perfettamente l’uomo non ne può avere una senza le altre. Quante maniere sono di buoni e adi malvagi uomini e quale maniera di bontà ei re e i prenzi debbono avere. Delle passione. Quanti movimenti d'animo sono e donde essi vengono. Quali movimenti d'animo sono principali che gli altri e come essi sono ordinate. Come il principe debbe amare e quali cose debbe amare. Come il principle debbe desiderare e che cosa debbe desiderare. Come ei re e i prenzi si debbono portare ayvenevolmente in isperare e in disperare. Come avvenevolmente ei re si debbono portare in avere ardimento. Che differenza elli à intra corruccio e odio, e come ei te e i prenzi si debbono avvene volmente contenere nei corrucci e ne le di bonarietà. Come ei re e i prenzi si deb bono ayvenevolmente avere nei diletti. Come alcuni movimenti d'animo sono mantenuti e ritornano ad alcuni altri movimenti. Ched ei movimenti dell'animo alcuni sono da biasmare ed alcuni sono da lodare e come ei re e i prenzi si debbono conferire nei movimenti detti dinanzi. Della costume. Quale costume e quale maniere de giovani uomini fanno da lodare, e come il principe debbe avere essa costume ed essa maniera. Quali costumi e quali maniere dei giovani uomini fanno da biasmare , e come ei.re e i prenzi debbono ischiſare cotali maniere e cotali co stumi. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da biasmare , come ei re e i prenzi ei debbono ischifare. Quali costumi e quali maniere dei uomini fanno da lodare. Che costume e che maniera ha il gentile uomo, e come il principe debbe avere. Che costumi e che maniere anno l’uomo ricco e come ei re e i prenzi ei debbono. Che modi e che maniere ánno coloro che sono possenti ed anno signorie , e come li re e li principi si debbono avere in verso la gente convenevolmente. Avere. DEL GOVERNO DELLA FAMIGLIA. Della moglie. L'uomo die naturalmente vivare in compagnia, e che i re i prenzi il debbono sapere. Che, acciò che la casa sia perfetta, si vi conviene avere quattro maniere di persone, e come e' conviene questo secondo libro divisare in tre parti. Quella casa è perfetta ove v'à assembramento di un uomo e di una femmina, un figliuolo, e servi. L'uomo naturalmente si die ammogliare e che quelli che non vogliono vivare in matrimonio, o elli posono bestia, o ellino sono migliori che l’uomo. Ciascuno uomo e ciascuna femmina , e medesimamente ei re e i prenzi che sono ammogliati, si debbono tenere in matrimonio senza partirsi o senza divídarsi. A ciascun uomo die bastare una femmina, e che i re e i prenzi e ciascun altro uomo si die tenere appagato a una femmina. Un uomo die bastare a una femmina , e che una femmina si die chiamare contenta d'un uomo. L’uomo non die prendare moglie la quale sia troppo presso a lui di parentato o di lignaggio. Come le moglie dei re e dei prenzi e di ciascuno altro uomo debbono avere abbondanza di beni temporali. Come nè i re né i prenzi, nė cia scuno altro uomo non debbe chiėdare solamente ei beni temporali delle loro mogli ma anco ei beni del CORPO e quelli dell'anima, e ciò e il bello e il casto. L’uomo non die governare nė tenere la moglie nella maniera ch'elli die tenere e governare il suo figliuolo. L’uomo non die tenere nė governare la moglie nella manera che l'uomo die tenere e governare e fanti. Che elli non si conviene nė ai re nè ai prenzi ned a nessuno altro uomo, ch'ellino usino il matrimonio in troppo giovano tempo. L’uomo die piuttosto fare l'opera del matrimonio nel verno che nella state. Come alcune cose sono nelle femmine che sono da biasmare. Come ei re e i prenzi e ciascuno altro uomo die avvenevolmente governare e addrizzare la moglie. Come gli uomini si debbono portare con le loro mogli. Come la femmina maritata deb bono convenevolmente adornare il loro corpo. Né I re ne i prenzi , nė li altri uomini , non debbano essere troppo gelosi delle loro mogli. Che cosa è ' l consiglio della femmina , e che 'l suo consiglio l'uomo non die credere se non in alcun tempo. Com’l’uomo non debbe dire il suo secreto alla sua moglie. Dei figli. Il padre die essere curioso di guardare il suo figliuolo. Che ciò s'avviene maggiormente ai re ed ai prenzi, cioè ch'ellino sieno guardatori e curiosi dei loro figliuoli. Il padre governa il suo figliuolo per L’AMORE ch'elli à in lui. L’AMORE NATURALE il quale die essere da padre a figliuolo prova sufficientemente che il padre debbe governare i suo figliuolo e il figliuolo debbe ubbidire il padre. Nel quale dice che i re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare la fede ai loro figliuoli. I re e i prenzi e ciascuno altro uomo debbono da gioventudine insegnare ed appréndare ei buoni costumi e le buone maniere ai loro figliuoli. Il figliuolo del gentile uomo debbe apprendere le scienze della chericia, ciò sono, morali, naturali e matematice. Quale arte il figliuolo di un gentile uomini debbe apprendere. Quale die ėssare il tutore del figliuolo di un gentile uomo. Il padre die insegnare al suo fanciullo a parlare e a vedere ed a udire. In quante maniere l'uomo puó peccare in mangiare e come il garzone si debbe contenere. Come il padre die insegnare al suo fanciullo acciò che si sappiano portar avvenevolmente nel bere e ne' diletto della femmina. Come il garzone si debbe contenere nel diletto del corpo. Come in giovanezza l'uomo die schifare le malvagie compagnie. Che guardia l’uomo die avere de' figliuoli da che sono nati, insino a’ sette anni. Che guardia l'uomo die avere de' fanciulli da sette anni fino a quattordici. Che guardia l'uomo die avere del figliuolo da quattordici anni innanzi. Che il padre non die insegnare al figliuolo uno medesimo travaglio di corpo. Della casa e dei servi. L'uomo die diterminare e parlare delle cose donde la vita umana può esser sostenuta, volendo governare la sua famiglia e la sua casa. Il casino della villa del’uomo , die esser fatto sottilmente ed in buon áire. Il casamento dei re e dei prenzi , e di ciascuno altro uomo, die esser fatto in luogo dove abbia abbondanza di buona acqua e di chiara. Naturalmente l’uomo die avere possessione in alcun modo e che quellino che rifiutano le possessioni, non vivono come uomini, anzi sono migliori che uomo. Elli è grande utilità alla vita umana, che l'uomo possa vivare della sua propria ricchezza. Come l'uomo die usare dei beni temporali, e quale maniera di vivare è buona e onesta. Nel quale dice che ciascuno uomo, e medesimamente ei re ei prenzi, non debbono desiderare troppo grande abbondanza di ricchezze ne di possessioni. Quante maniere elli sono di vendere e di comperare e perchè ei denari fuoro prima mente fatti e trovati. L'usura è generalmente malvagia , e ch'ei re ed i prenzi la debbono difendare ch’ella non sia fatta nella loro terra. Nel quale dice ch’ei sono diverse maniere di guadagnare denari e che alcuna di queste maniere è avve nevole ai re ed ai prenzi. Alcuna gente è serva per natura e ch'elli è loro utilità ch'ellino sieno suggetti ad altrui. Nel quale dice che alcune genti che sono servi per natura e per legge. Nel quale dice ch’ellino sono alcune genti le quali sono serve per prezzo ed alcuna gente che servono per l’amore ch’elli ánno ai suo signore. L'uomo die dare gli ufici ai suoi fanti nelle case dei re e dei prenzi. Come ei re e i prenzi debbono provvedere ai loro sergenti robe e vestimento. Che cosa é cortesia e ched e' conviene ai fanti dei re e dei prenzi ched ellino sia cortese Nel quale dice come ei re e i prenzi si debbono contenere inverso ei loro sergenti. Che quelli che servono e quelli che mangiano alla tavola dei re e dei prenzi , e generalmente che il gentile uomo non debbe molto favellare. DEL GOVERNO CIVILE. Detti dei filosofi nel governamento delle città. Nel quale dice che la villa e ordinata e stabilita per alcuno bene. Fu grande utilità alla vita umana che colla comunità della villa e delle città , li uomini ordinassero la comunità del reame. Nel quale dice ceme Platone e Socrate dissero che l’uomo dovea ordinare e governare le città. Nel quale insegna che i re e i prenzi debbono sapere che tutte le cose non debbono essere COMUNE siccome Platone e Socrate dissero. Nel quale dice quanti mali avverrebbero se il figliouolo fusse comune. Nel quale dice come la possessione debbe essere proprie, e come debbono essere comuni, secondo l'utilità delle ville e delle città. I re ei prenzi non debbono sofferire che una medesima gente duri sempre in una medesima signoria. Nel quale dice che l'uomo non die cosi ordinare la città come Socrate disse, che dovieno essere ordinate. Come l'uomo può trarre a buono intendimento le parole che Socrate disse , al governa mento delle città. Come un filósafo , ch'ebbe nome Fal lea , disse, che l'uomo dovea ordinare le città. Le possessioni non debbono essere eguali, siccome disse Fallea. Come quelli che signoreggia alcuna città, elli die più principalmente intendare a cessare le malvagie volontà e i malvagi desideri e convoitigine, ched elli non die intendere a cessare la disuguaglianza delle possessiono. Nel quale dice, come un filósafo ch'ebbe nome Ippodamo , disse che l’uomo dovea ordinare le città. Nel quale dice quali cose sono da riprendare in quello che Ippodamo disse del governamento della comunità. Della migliore maniera di governare le città. Il quale insegna come l’uomo die governare le città in tempo di pace, e quante cose l’uomo die guardare in cotale governamento. Quante maniere sono di signorie e quali sono buone e quali sono rie. Ched o' val meglio che le città e ' rea mi sieno governati e retti per un solo uomo che per molti e che quest' è la migliore signoria che sia quando un solo uomo signoreggia ed elli intende il bene comune. Nel quale dice per quali ragioni alcuna gente volsero provare ched e’ valeva meglio che le terre e le città fossero governale per molti uomini che per un solo e dice in questo capitolo ciò che si die rispóndare a cotali ragioni. Ched e' val meglio che le terre e le signorie e' reami vadano per redità per successione DEL FIGLIOUOLO che per elezione. Nel quale dice quali sono le cose ne le quali il re die sormontare gli altri, e che diversità elli à intra'l re 'e'l tiranno. Nel quale dice che la signoria del tiranno è la peggiore signoria che sia e che i re ei prenzi si debbono molto guardare ch'ellino non sieno tiranni. Quale dia esser l'ufficio dei re e dei prenzi, e com’essi si debbono contenere in governare le loro città e i loro reami. Quali sono le cose che’ l buono re die fare , le quali il tiranno mostra di fare ma non le fa nèmica. Nel quale dice per quante cautele il tiranno si sforza di guardare sė ne la sua signoria. Ched elli è molto isconvenevole cosa ai re ed ai prenzi ched ellino sieno tiranni, perciò che tutte le malizie che sono nell’altre malvagie signorie, sono ne là signoria del tiranno. Nel quale dice che i re e i prenzi debbono molto ischifare la compagnia del tiranno, perciò che per molte cose ei soggetti aguaitano ed assaliscono il loro signore quand’elli é tiranno. Nel quale dice quali cose guardano e salvano la signoria del re e ched e'conviene fare al re sed e' si vuole guardare ne la sua signoria e nel suo reame. Quali cose fanno a consigliare e di quali l'uomo die avere consiglio. Nel quale dice che cosa è consiglio, e come l'uomo die fare ei consigli. Nel quale dice che consiglieri ei re e i preozi debbono avere ai loro consigli. Nel quale dice quante cose conviene sapere a quellino che consigliano ei re e i prenzi e in quali cose l’uomo die préndare consiglio. Nel quale dice che tutte le cose donde l’uomo giudica, l'uomo die giudicare secondo le leggi e che l’uomo die fare pochi giudicamenti e dare poche sentenze per arbitrio o per credenza. Nel quale dice come l’uomo dic fare ei giudicamenti: e ch’e giudici debbono vetare che li uomini che piateggiano non dicano parole dinanzi al giudice che’l possa muovere ad amore nè ad odio contra ad alcuna de le parti. Nel quale dice quante cose conviene avere a’giudicatori a ciò ch’ellino giudichino bene e drittamente. Nel quale dice quante e quali cose conviene riguardare al giudice, acciò ch’elli perdoni e sia più di buonarie che crudele. Nel quale dice ched e’ sono diverse maniere di leggi e diverse maniere di giustizia e che al dritto natu rale ed al diritto iscritto tutti gli altri dritti sono ridotti e ramenali. Quali debbono esser le leggi umane e ched elli fu grande utilità ai reami ed a le città a fare cotali leggi. Nel quale dice che ciascuno non die némica istabilire nė ordinare le leggi; e ched e' conviene che le leggi sieno publicate é fạtte sapere acciò ch’ell’abbiano forza d’obbligare le genti. Quante opere e quali le leggi ch'ei re e i prenzi istabiliscono ed ordinano, debbono contenere. Nel quale dice quale vale meglio o che le città o i reami sieno governati per un buono re o per una buona legge. Nel quale dice che co la legge naturale e co la legge iscritta e' conviene che l’uomo abbia la legge di Dio e la legge del Vangelo. Come l’uomo può, si die guardare le leggi del paese e ch'elli non è utile ch'elle si rimutino ispesso. Nel quale dice che cosa è città e che cosa è reame e chénte die essere il popolo ch’è ne le città e ne' reami. Nel quale dice che allora è la città e’l reame trasbuono e 'l popolo trasbuono, quand’elli v’à molte di mezzane persone. Nel quale dice ched elli é grande utilità al popolo di portare grande riverenza al prenze ed al signore e ched ellino guardino diligentemente le leggi che i re e i prenzi ánno ordinate. Come il popolo e generalmente tutti quelli che dimorano nel reame, si debbono mante nere saviamente , acciò che’l re o’l prenze non abbia corruccio nė odio contra loro. Come ei re ei prenzi si deb bono mantenere , acciò ch'ellino sieno amati e temuti dal lor popolo. Ed insegna questo capitolo che tutto debbiano ei re ei prenzi esser amati e temuti dal lor popolo, ellino debbono maggiormente volere essere amati che temuti. Del governo in tempo di guerra. Che cosa è cavalleria e da ch'ella é ordinate. Nel quale insegna in quale terra sono e’migliori combattieri e quali l’uomo die iscegliere per combattere dell’uomini che debbono andare a la battaglia. In quale tempo l'uomo die acco stumare il fanciullo all' opere dela battaglia e per quali segni l'uomo può conosciare ei migliori battaglieri. Nel quale insegna quante cose e quali e' conviene avere a' buoni battaglieri, acciò ch'ellino si combattano bene e giustamente. Nel quale insegna quali sono migliori battaglieri o i gentili uomini , oi villani , o quellino che nel campo dimorano, ciò sono ei lavoratori. Nel quale insegna ch’elli è grande utilità ai baltaglieri chedellino sieno bene esercitati all'arme; e che l’uomo die ei battallieri apprendare a correre ed a saltare ed andare ordinatamente. Nel quate insegna ched e’si conviene appréndare ai battaglieri molte altre cose che quelle che sono dette, cioè a córrare ed assaltare ed andare ordinatamente. Nel quale insegna che l’uomo die fare nell’oste fossati e castelli. Ed insegna questo capitolo come l’uomo die fare ei castelli e quante cose l’uomo die guardare in farli. Nel quale dice quante cose l’uomo die guardare quand’elli vuole o die imprèndare battaglia comune. Nel quale dice ch’elli è grande utilità ne le battaglie di portare bandiere e gonfaloni: e che l’uomo die ordinare capitano e maggiore a ciascuna ischiera. E so - nemici migliantemente questo capitolo insegna quali debbono essere e banderari e i capitani di quelli a piè e di quelli a cavallo. Nel quale dice che avvedimenti die avere e che die fare il signore dell’oste acciò che la sua gente non possa essere gravata dai nemici per la via. Nelquale dice come l’uomo die ordinare le schiere e le battaglie, quando l’uomo si die combattere contra I Nel quale insegna che l'uomo die ferire il suo nemico nello battaglia di puntone e non di ramata. Nel quale dice quante cose fanno gli avversari più forte che quelli dell’oste é come l’uomo die assalire ei suoi nemici. Nel quale insegna come ei battallieri si debbono tenere quando vogliono ferire ei loro nemici, e com’ellino ei debbono inchinare e come l'uomo si die trarre in drieto quando la battaglia non porta utilità. Nel quale insegna quante maniere ei sono di battaglie; e in quanti modi l’uomo può prendare le città e le castella ed in che tempo l’uomo le die assediare. Come quelli dell'oste si debbono fornire e come l'uomo può vénciare le castella per cava. Come per l’ingegni del legno che l'uomo può menare al muro del castello, l’uomo lo può prendare. Come l’uomo può e die edificare le castella acciò ch'elle non sieno leggermente prese ně come l'uomo può e die guérnire le castella acciò ch'elle non possano esser prese. Nel quale dice come quelli che sono nel castello assiso possono e debbonsi difendersi da la cava e dai tra bocchi e dalli altri ingegni che quellino dell'oste vi fanno. Come l'uomo die fare le navi, e come l'uomo si die combattere nell'acqua o nel mare, da che cosa tutte le battaglie debbono essere ordinate assediate. Che cosa è una virtù che l’uomo chia ma piacevolezza, cioè di sapere CONVERSARE piacevolmente con le genti, e in che cose la detta virtù die essere, e che si conviene che i re e i prenzi sieno piacevoli. Appresso ciò che noi avemo detto che cosa è debonarietà, noi diremo d’un'altra virtù, che l’uomo chiama piacevolezza. E dovemo sapere che le opere e le parole dell'uomo sono ordinate a tre cose, si come ad avere piacevolezza e verità, ed avere diletti e giuochi nei solazzi e nelle allegrezze. LA PRIMA RAGIONE: E la piacevolezza si è, in SAPERE BENE CONVERSARE, unde quelli che sa onorare e riverire gli uomini convene volmente e secondo ragione, si à la virtù della piacevolezza. La SECONDA ragione si è , che le opere e le parole dell’uomo sono ordinate sie a verità che, per le opere e per le parole dell'uomo può l'altro uomo conosciare chi egli è (“Conversation maketh the man”). Donde, verità non è altro se non che l'uomo non sia vantatore e che nè per parole nè per fatti elli non dimostri maggior cosa in lui che vi sia, nè che l'uomo non si faccia ispiacevole nè per parole nè per fatti oltre quello che ragione insegna, perchè elli sia gabbato ne dispregiato. La TERZA RAGIONE a che l'opere e le parole dell'uomo sono ordinate, si è, acciò che l'uomo sia sollazzevole convenevolmente, e si sappia bene portare nei giochi, e nelle allegrezze e nei sollazzi . Donde, se l'uomo vuole CONVENEVOMENTE CONVERSARE e' die essere giochevole e piace vole e veritiere. E di queste tre virtù noi diremo partitamente, ma prima diremo della piacevolezza. E dovemo sapere che, NEL CONVERSARE, alcuni si mostrano troppo piacevoli, si come sono e lusinghieri, e quelli che’n ogne cosa vogliono piacere altrui, che acciò che piacciano altrui, si lo dano tutti ei fatti è tutti ei detti di ciascuno uomo. E alcuni sono, che anno troppo gran difalta NEL CONVERSARE co le genti, si come sono ei malvagi e quellino che sono battaglieri, e tenzonieri; e questi fanno contra a ragione. Chè neuno die volere essere si piacevole nè si compagnevole, ch’elli ne do venti o ne sia lusinghieri, e piacere a tutti gli uomini, nė neuno die essere si pieno di contenzione e di noia, che li con venga cessare della compagnia delli uomini, ma quelli è da lodare che si sa mezzanamente portare e secondo ragione, nel CONVERSARE. Donde la virtù che l’uomo chiama piacevolezza cessa la contenzione dell'uomo e tempera il lusingare, e quello per lo quale l'uomo vuole a tutti gli uomini piacere. E perciò che l'uomo è per natura compagnevole, si come dice il filosafo, si conviene dare una virtù per la quale ne le parole e nei fatti sappia CONVERSARE COOPERATIVAMENTE E convenevolmente e secondo ragione. E questa virtù che l'uomo chiama piacevolezza, tutto sie cosa che, tutti quelli che vogliono essere piacevoli e vivare in cooperazione, compagnia ed in comunità con l’altro, conviene ch'elli abbiano, acciò che siamo cortesi e piacevoli, non perciò debbiamo essere si cortesi ne si piacevoli ad uno come un altro: chè la dritta ragione insegna, che, secondo la diversità dei due conversatori, l'uomo si die portare in maniera appropriata con l’altro. E perciò che troppa amistà e troppa gran compagnia mostrare ad ogni uomo fa l’uomo ispiacevole e vile; il gentile uomo si debbe più alteramente contenere che l’altro, acció che l'uomo lor porti più onore e più reverenza, e che la dignità de la loro grandezza non sia abbassata nè avvilata. Donde il filosafo dice che i re e i prenzi debbono mostrare ch’ellino sieno persone degne d’onore e di reverenza. Chè si come noi vedemo che alcuna vianda fuôra soperchio a uno infermo che non basterebbe ad uno sano, cosi è nell'essere piacevole e cortese, che alcuna piacevolezza s’aviene a’re secondo ragione, che non s’aviene cosi ad un’altra persona comune. L’Enciclopedia italiana cura l’edizione critica del “Il regime del principe”,  testimoniato da nove manoscritti, tra cui il codice della Biblioteca di Firenze (sig, che si distingue sia per motivi cronologici (nell’explicit reca la data) sia per la veste linguistica, in prevalenza senese, verosimilmente molto vicina a quella dell’originale, ciò che lo rende un documento di lingua privilegiato rispetto alle coeve attestazioni di varietà toscane non fiorentine tra fine Due- e inizio Trecento. L’opera discende dal “Il regime del principe”, composto da Colonna filosofo tra i più autorevoli della sua epoca, nato a Roma. Dedicato a un principe, di cui Colonna fu tutore e ispirato alla Retorica, la Etica, e la Politica di Aristotele, esuddiviso in tre libri concernenti la “morale», ossia l’etica (disciplina dell’individuo), l’oeconomia (della casa), e la politica (della città o reame o villa) - è il più corposo trattato basso-medievale sul regime del ‘gentile uomo’ ed ebbe non solo una straordinaria fortuna in Italia fino a tutto il XV secolo come elogio della cavalleria. Esercita una notevole influenza sul Convivio, sul “De vulgari eloquentia” e sulla “Monarchia” di Alighieri. “E lasciando lo figurato che di questo diverso processo dell’etadi tiene Virgilio nello Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita [il filosofo appartenne all’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino ne dice nella prima parte dello Regime del Gentile Uomo. L’ampia Introduzione, oltre a tracciare il profilo biografico di Egidio illustrando contenuto, fonti e storia della ricezione del suo capolavoro, esamina nei dettagli il debito di Alighieri, la fortuna figurative o iconografica del trattato (l’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, precisamente nella Virtù; l’Allegoria ed Effetti del Buono Governo realizzata da Lorenzetti a Siena, specie nella particolare raffigurazione della giustizia commutativa e la giustizia distributiva alla sinistra dell’affresco -- i rapporti tra il De regime e il Livre dou gouvernement (una drastica riduzione non sempre perspicua, di cui sono noti trentasei manoscritti) e tra questo e il Livro del governamento, la prima traduzione, pur parziale, di opere che solo successivamente furono volgarizzate nella loro interezza, ad opera di un anonimo senese, come avevano già ipotizzato, tra gli altri, Segre e Castellani. Inoltre si auspica - e intanto s’imposta in modo acuto e pregnante - un commento dedicato alle fonti del “Regime”, ormai indispensabile alla luce della ri-valutazione della filosofia nel vernacolare tra Medioevo e Rinascimento portata avanti dalla bibliografia più recente. Grazie infatti agli studi degli ultimi due decenni, siamo oggi più informati sui modi in cui la cultura vernacolare interagì con quella antica, bolognese, tradizionalmente ritenuta ‘più alta’, e sul diverso pubblico, dichiarato o reale, cui si indirizzava la trattatistica filosofica dei secoli dal XIII-XIV in avanti. Infine, si passano in rassegna le altre versioni del De regimine (quella senese è bensì la più antica, ma non l’unica: se ne conoscono almeno altre cinque).  Nella parte prima della Nota al testo si dà conto della tradizione manoscritta dei testimoni completi e dei testimoni parziali (descrizione esterna, descrizione interna, bibliografia), offrendo dati preziosi sulla tradizione a stampa del De regimine e sulle edizioni del Governamento. Nella parte seconda si indicano i criterî di edizione e gli usi del copista.  L’appendice prima alla Nota al testo raccoglie le aggiunte inter-lineari e marginali al Governamento del manoscrito fiorentino, mentre in una seconda appendice si riportano alcune annotazioni sulle relazioni fra i testimoni del Governamento. La prima e fondamentale caratteristica della tradizione è che tutti i mss. paiono al tempo stesso testimoni molto vicini tra loro tanto che è dimostrabile la presenza di un archetipo a monte della tradizione, ma non per questo facilmente classificabili nei loro rapporti reciproci, principalmente perché spesso contaminati dal ricorso alla versione nella lingua antica. Il secondo volume è interamente dedicato allo spoglio linguistico sistematico sull’intero testo, tendente per quanto possibile «all’esaustività delle allegazioni per ciascuna forma»: grafia, fonetica, morfologia, sintassi.  Chiudono il volume un ricco repertorio bibliografico e gl’indici onomastico, toponomastico, dei nomi e dei manoscritti. Grice: “Poor Ockham is known as Ockham – god knows, but he is not telling, what his surname was, if any! On the other hand, the rather pompous Romans have Egidio as a ‘Colonna,’ even if,  as the Treccani notes, ‘the links with the Roman family are unclear’!” -- Romano: Egidio Romano,  arcivescovo della Chiesa cattolica Filip4 Gilles de RomeEgidio Romano e Filippo il Bello (miniatura di un codice medievale). Template-Archbishop.svg   Incarichi ricopertiArcivescovo di Bourges   Nato tra il 1243 e il 1247, Roma Nominato arcivescovo25 aprile 1295 Deceduto22 dicembre 1316, Roma. Egidio Romano, latinizzato come Ægidius Romanus, indicato anche come Egidio Colonna (Roma), filosofo. Generale dell'Ordine di Sant'Agostino. Dopo la sua morte, gli furono tributati i titoli onorifici di Doctor fundatissimus e Theologorum princeps.   Fu discepolo di San Tommaso d'Aquino all'Parigi, dove più tardi insegnò, prima di diventare generale degli agostiniani e arcivescovo di Bourges (1295). Fu inoltre il precettore di Filippo il Bello per il quale scrisse il trattato De regimine principum, sostenendo l'efficacia della monarchia come forma di governo.  --  è considerato tra i più autorevoli teologi di ispirazione agostiniana, attivo anche nella vita intellettuale e politica in un contesto culturale ed istituzionale travagliato da frequenti ed aspre polemiche sul problema del rapporto tra potere temporale e potere spirituale. Questo filosofo è generalmente ricordato, insieme al prediletto allievo Giacomo da Viterbo, per il contributo nella redazione della celebre bolla Unam Sanctam del 1302 di Papa Bonifacio VIII e per il ruolo significativo che assunse il Maestro degli Eremitani di Sant'Agostino quale autore del De Ecclesiastica potestate e, dunque, quale teorico famoso e autorevole della plenitudo potestatis pontificia. In Egidio Romano rileviamo subito una compresenza del duplice atteggiamento dottrinale e politico; infatti è possibile rintracciare, fra le opere giovanili, il De regimine principum, opera scritta per Filippo il Bello e di ispirazione aristotelico-tomista inerente alla naturalità dello Stato, erigendola a difensore della potestas regale. Nel De Ecclesiastica potestate, invece, Egidio Romano afferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, distinguendosi quale rappresentante della teocrazia papale.  La riscoperta di Aristotele e l'agostinismo politico In seguito alle condanne di Étienne Tempier. Colonna difende la tesi di Tommaso, per la sua qualifica di Baccalaureus formatus, ma, proprio a causa delle condanne stesse, viene sospeso dall'insegnamento. In quegli anni, gli avversari del papato trovano nel pensiero di Aristotele gli strumenti per svolgere un'analisi politica che metta in discussione la sacralità del potere. Dall'altra parte troviamo l'influenza della corrente speculativa dell'agostinismo politico (ossia quel fenomeno, tipicamente medioevale, di compenetrazione fra Stato e Chiesa, all'interno del quale Agostino viene a giocare un ruolo fondamentale dal momento che l'apporto teorico del suo De Civitate Dei conduce a confusioni inevitabili fra il piano spirituale della Civitas Dei Caelestis e il piano temporale della vita terrena che è Civitas Peregrina), che ripropone la teoria delle “due città” e riafferma la superiorità del sacerdotium rispetto al regnum, costituendo un vero e proprio “partito del Papa”.  Egidio rivendica la Plenitudo potestatis come proprietà costitutiva dell'auctoritas del Papa in quanto homo spiritualis. Egidio sostituisce al concetto agostiniano di ecclesia, quello di regnum al fine di estendere gli ambiti del potere del sovrano ecclesiastico. Il sovrano ecclesiastico (il Papa) dovrebbe esercitare la sua sovranità anche sul potere temporale al fine di garantire l'ordine mediante una forma di dominium che coincida con la sua stessa missione spirituale.  Opere:Frontespizio delle In secundum librum sententiarum quaestiones L'edizione critica dell'opera omnia è stata intrapresa, per Leo S. Olschki, (Aegidii Romani opera omnia, collana Corpus Philosophorum Medii AeviTesti e Studi), dal gruppo di ricerca di Francesco Del Punta.   Quaestio de gradibus formarum, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502.  In secundum librum sententiarum quaestiones,  1, Francesco Ziletti, 1581.  In secundum librum sententiarum quaestiones,  2, Francesco Ziletti, Opere, Antonio Blado, In libros De physico auditu Aristotelis commentaria, Ottaviano Scoto (eredi), Boneto Locatello, 1502.  De materia coeli, Girolamo Duranti, Quodlibeta, Domenico de Lapi. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 3 dicembre . Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford, .  Charles F. Briggs e Peter S. Eardley , A Companion to Giles of Rome, Leiden, Brill, . Silvia Donati, Studi per una cronologia delle opere di Egidio Romano: I. Le opere prima: I commenti aristotelici. "Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale", Gian Carlo Garfagnini, Egidio Romano, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Francesco Del Punta-S. Donati-C. Luna, Egidio Romano, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Filippo Cancelli, Egidio Romano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Papa Bonifacio VIII Teocrazia Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Egidio Romano Collabora a Wikiquote Citazionio su Egidio Romano Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Egidio Romano  Egidio Romano, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ugo Mariani, Egidio Romano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio Romano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. su ALCUIN, Ratisbona.  Opere di Egidio Romano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. su Egidio Romano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Egidio Romano, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio Romano, in Catholic Hierarchy. Roberto Lambertini, Giles of Rome, in Edward N. Zalta , Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Stanford. Biografia a cura dell'associazione storico-culturale S. Agostino, su cassiciaco. Predecessore Arcivescovo metropolita di BourgesSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Simone di Beaulie u25 aprile 1295 22 dicembre 1316 Raynaud de La Porte. Egidio Romano. Egidio Colonna. Colonna. Keywords: conversazione cortese, conversazione gentile, padre/figlio, amore naturale, principe, cavalleria, cavaliere, cavalier attitude, cavalier implicature.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonna” – The Swimming-Pool Library.

 

Colonnello (Benevento). Filosofo. Grice: “I like Colonnello; as a typical Italian philosopher, he has philosophised about ‘all,’ from, first, of course, Croce, to the ‘tedesci’! – But also about ‘guilt,’ and my favourite, the ‘transcendentale,’ which in Italian, for lack of ‘n’ becomes ‘trascendentale’ – how many? Colonnello thinks more than one, if the plural is of any guide!”  Insegna a Callabria. Privilegia l'arco tra criticismo trascendentale e fenomenologia, esistenza, ermeneutica di Pareyson, storicismo di Croce, Nicol, Dussel. La sua proposta è verificare l'interazione, in chiave storico-critica, del kantismo, della fenomenologia e la filosofia dell'esistenza.  Altre opere: “Esistenzialismo kantiano” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Croce e i vociani” (Studio Editoriale di Cultura, Genova); “Tempo e necessità” (Japadre, L'Aquila-Roma); “Tra fenomenologia e filosofia dell'esistenza” (Morano, Napoli); “Ermeneutica esistenzialista del concetto di ‘colpa” (Loffredo, Napoli); “Percorsi di confine: esistenza e libertà” (Luciano, Napoli); Croce (Bibliopolis, Napoli); “Ragione e rivelazione” (Borla, Roma); “Melanconia ed esistenza” (Luciano, Napoli); “Storia esistenza liberta. Rileggendo Croce, Armando, Roma);  Martin Heidegger e Hannah Arendt, Guida, Napoli); “Orizzonte del trascendente e dell’immanente, Mimesis, Milano); “Inter-soggettivita riflessiva” L’itinerario dei corpi” (Mimesis, Milano).  Corpo, mondo, Fenomenologia (Mimesis, Milano); Fenomenologia e patografia del ricordo, Mimesis, Milano-Udine). Grice: “I used ‘body’ informally in my ‘Personal identity’, where I suggested, that “I fell down the stairs” could be replaced by “MY body fell down the stairs” – there is yet an essential indexical. Different if two wrestlers unison say, ‘Both our bodies are oiled” – where again the dual “both our” is used. We have not the second person but the FIRST PERSON dual. “Our bodies” “Both our bodies”. Pio Colonnello. Colonnello. Keywords: rivista La Voce, Croce e i vociani, patografia, German for ‘body’ Lieb, cognate with ‘life’ so that ‘Das Leib ohne Leben’ would be odd. The Anglo-Normans solved the problem with ‘corpse’, corpus, vita, corpore, vita, vivere, German ‘leben’, ‘live’ meaning with ‘remain’, creature construction, thing, living thing, living body, personal human living being. Bodily movement. Method in philosophical psychology, manifestation in behaviour, bodily behaviour, brain state, different from bodily movement --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colonnello” – The Swimming-Pool Library.

 

Colorni (Milano). Filosofo. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the passion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli).  Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista  ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico  per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica di Roberto Ardigò. Si accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa.  Incontra Croce, con il quale conversa a lungo.  Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di Croce.  Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel.  Nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero”.  La sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa.  Circa le dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile, riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.  Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica.  Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante.  Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria.  Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.  “Io ero da poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è  assassinata alla vigilia della liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista:  «Ricordare l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo fascista: Colorni e Fioretti. Ricordo come Colorni, mio indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, Colorni dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di Ventotene".  Il 28 maggio del 1944, pochi giorni prima della liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta nel 1982 dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta nel 1978 dal Partito Socialista Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta nel 2004 sempre dalla III Circoscrizione del Comune di Roma, contiene un errore.  Foto delle tre lapidi.  Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino). Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni, in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in , Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli, Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Guido Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino e Hoepli, Milano, . Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, Colorni e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del ’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini. Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni, in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista. Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero, staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere *conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti, Firenze, La Nuova Italia. Tra il 1930 e il 1940 avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di Colorni. […] le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Ludovico Geymonat; e quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». 7 L. Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in A. Bausola, G. Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire, nel 1945, con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9 . Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Giuseppe Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri fino al 1947, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono […] a profonda solidarietà mentale con Livio Gratton. Nacque così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” […] ma aperto ad ogni esperienza. Tra i “filosofi” professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) il Banfi, cui mi ero rivolto, mi indicò l’allievo suo Giulio Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara nel “filosofo”. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro giovane “filosofo” con preparazione e interessi analoghi: Eugenio Colorni10 . I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica11. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. E. Colorni, Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di Eugenio Colorni, si è occupato M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di Giuseppe Fachini, in Analisi. Milano, riletta da M. Quaranta, con testimonianze di G. Fachini, S. Ceccato, L. Geymonat, L. Gratton, E. Poli, Bologna, Arnaldo Forni Editore. Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’«impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma che la «soluzione neopositivista, verso cui ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il linguaggio  Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza: «L’incontro con i fondatori e la rivista», racconta a questo proposito Silvio Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola neo-positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che cominciava ad interessarmi era ormai piuttosto quello di P.W. Bridgman e di H. Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa con i due filosofi del gruppo, L. Geymonat e G. Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Antonio Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso 1947, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino13. Il periodico – che riportava il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si proponeva di riunire, come si legge nella seconda di copertina, «una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza». La nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori»14. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). 12 “Analysis”: trent’anni dopo, testimonianza di S. Ceccato, in Analisi. Milano 1945. In una lettera a Giuseppe Vaccarino del 3 maggio 1947, Vittorio Somenzi rilegge la storia di «Sigma» con le parole seguenti: «La rivista è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di Colorni e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che poteva avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di Analisi, di prenderne il posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 4, Collaborazione con Giuseppe Vaccarino, b. 1, Vaccarino, 1943-1948. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla FS, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario). 14 La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Giuseppe Vaccarino a Vittorio Somenzi il 14 ottobre 1946 riguardo a questa nota: «Rileggendo la tua edizione riveduta della Conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà da  Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ebbe però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che il Colorni, giovanissimo sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più gran parte del suo lavoro è inedita: molte pregevoli cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a Giuseppe Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli di Colorni sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a questo argomento19 . Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia scientifica – da Colorni discusso fra gli altri con Ludovico Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. 15 La conoscenza unitaria, cit., p. 4. 16 F. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, Eugenio Colorni, in «Analisi», I, 1945, 2, pp. 105-106. 18 Si tratta di E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica. 19 Lettera di Vittorio Somenzi a Giuseppe Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni, cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista metodologica. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 7 cora Somenzi ha sottolineato nel 1986 come esso corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino [dallo stesso] Geymonat e da Paolo Rossi»21 . A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare modalità della sua ricezione nella seconda metà degli anni Quaranta, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni. 2. Fonti e maestri Colorni fu allievo di Giuseppe Antonio Borgese e di Piero Martinetti alla Regia Università di Milano. Nel raccontare della formazione universitaria del giovane Eugenio, Enzo Tagliacozzo ha scritto a questo proposito: va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ebbe allora una personalità come quella di Borgese, che Eugenio e compagni chiamavano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnavano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Piero Martinetti che spiegava Kant alle otto del mattino. Martinetti avviava gli studenti al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discuteva di estetica e letteratura comparata23 . I debiti con l’insegnamento di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso Colorni, che in un suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto lavori su L’estetica di Roberto Ardi21 V. Somenzi, Eugenio Colorni filosofo della scienza, in «Filosofia e società»,  N. Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 E. Tagliacozzo, L’uomo Colorni, in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? […] Eugenio conobbe Hegel, ma non fu mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Benedetto Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24 . Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz25; l’introduzione alla filosofia di Kant26; il rifiuto del metodo dialettico27; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono Colorni al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in S. Gerbi, Tempi di Malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli, pp. 41-42. Cfr.: E. Colorni, L’estetica di benedetto Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Roberto Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad A. Vigorelli, Antifascismo tra i giovani: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 251-266); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo stesso Colorni, ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio su Croce: «All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col professore […]. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (E. Colorni, La malattia filosofica, p. 26). Sul rapporto fra Colorni e Borgese rimando ad A. Riosa, Giuseppe Antonio Borgese ed Eugenio Colorni tra letteratura e politica, in G. Cerchiai e G. Rota (a cura di), Eugenio Colorni e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laureava Colorni, altri due allievi di Martinetti, Giovanni Emanuele Barié e Carlo Emilio Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo stesso Martinetti scriveva nel 1926 a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Piero Martinetti a Carlo Emilio Gadda, 24 febbraio 1926; in P. Martinetti, Lettere a Carlo Emilio Gadda, a cura di G. Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr. anche: G. Cerchiai, Due inediti di Giovanni Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia della filosofia», LIII, 1998, pp. 125-136; Id., Eugenio Colorni lettore di Leibniz, in Eugenio Colorni e la filosofia italiana, cit., pp. 159-176. 26 Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a Colorni), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di Colorni presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. p. 11). Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di Colorni] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. E. Colorni, La malattia filosofica, p. 29; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Luca Guzzardi nel 2011, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti: «Colorni», spiega Guzzardi, «aveva potuto trovare una valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle “filosofie dell’esperienza” di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti. D’altra parte, ai primi del Novecento Martinetti aveva indirizzato allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un giovane e promettente allievo, Aurelio Pelazza. Tali circostanze», secondo Guzzardi, «fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, «che l’interesse originario di Colorni per l’empiriocriticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza» (L. Guzzardi, Lo specchio della natura. Colorni e la cultura scientifica del suo tempo, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota, cit., pp. 177-195, pp. 188-189). Prosegue Guzzardi in queste stesse pagine: «Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da Colorni nella recensione all’Introduzione alla metafisica; qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti “quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza aveva costruito la propria presentazione dell’empiriocriticismo, aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius» (ivi, p. 189). La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova ora alle pp. 52-57 dell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che Colorni accostò all’empiriocriticismo anche la filosofia di Benedetto Croce: «L’individualismo del Croce […] non è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’autocoscienza – che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empiriocriticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto» (E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit., p. 6). 29 Cfr. G. Cerchiai, L’itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di storia della filosofia», Geri Cerchiai 10 Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una filosofia31 . Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che il Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto. Scrive Colorni: Leibniz […] non parte mai con l’intento esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33 . Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, cit. Scrive ancora Colorni: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. Colorni, Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di E. Colorni, Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così Colorni nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36 . L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a Colorni di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. Già nel 1932, Colorni aveva anticipato le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente nuova E. Colorni, Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, E. Colorni, Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica, E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 237. 40 E. Colorni, Critica filosofia e fisica teorica, pp. 229-230. Geri Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su Eugenio Colorni filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di Colorni scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i Colorni»; il giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i Colorni, che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che Colorni diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V. Somenzi, Eugenio Colorni, cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche» (ivi, p. 80). dell’espressione. In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43 . Su «Analisi», nel 1947, uscì Filosofia e scienza44, mentre – fra il 1947 e il 1948 – un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45 . Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46 . I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con Ludovico Geymonat nel 194247. Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli Colorni indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per Colorni discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo Colorni sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così Colorni, «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio di identità.  Cfr. infra, la Nota del curatore. 47 Cfr. supra, § 1 e la n. 20. 48 E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 241. Geri Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la struttura»49 . L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura»50, utili a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51 . Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto di partenza – tutto kantiano – della metodologia di Colorni. Il criticismo trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti» da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo, decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura: «La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. E. Colorni, Sul concetto di esperienza, p. 251. Cinque scritti metodologici di Eugenio Colorni 15 nel domandarsi se siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel tentare senz’altro di scioglierle53 . In tal modo, spiega Colorni al termine di Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54 . L’ultimo testo qui trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56 . Lo scritto prende spunto da argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice Colorni all’amico Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già 53 E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica, pp. 227-228. 54 Ivi, p. 234. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue […]. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione […]. Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino, 1988, pp. 299-300). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che  i tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da Colorni: come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli di Giovanni Vailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di Colorni (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata Colorni, che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore.  Geri Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso Colorni – che alla scienza è giunto passando per la filosofia62 – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «carattere pragmatistico»63 del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, Colorni riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive Colorni: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo […], io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. 58 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Ferruccio Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. E. Colorni, Dello psicologismo in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Maria Luisa Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4 , il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5 , e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6 , avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue Colorni». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una lunghezza […] o un intervallo di tempo […] per poi dedurne le altre grandezze cinematiche […], si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni, cit., p. 130): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». Eugenio Colorni 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-2000, 2, Scatole grigie 1942-2000, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2 , il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la rivista4 .) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di Eugenio Colorni. Colorni sulla teoria della relatività, pp. 122-130. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3 . Non è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 2, Scatole grigie,1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni, 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, Colorni richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges., 1924; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a Geymonat per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane sviluppate in quegli anni da Ernst Cassirer e Hans Reichenbach, in Italia da Giulio Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3 , li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5 . La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, Eugenio Colorni e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di Colorni, in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità FS : per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS : immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS : lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS : le serrature, ma ci vorrà E. 7 di aprirle (Fuor di metafora FS : di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS : Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS : aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS : è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS : accessoria, sopraggiunta. E.  già stato compiuto FS : già compiuto E.  parte FS : porta E. 14 sola chiave, o con FS : sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS : Là si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS : di cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS : ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS : trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS : possono usare nelle varie E. 20 rudero FS : rudere E. 21 nei coi suoi FS : nei suoi E.  scuoterlo FS : smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS : ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS : immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS : costruire E. Da Galilei e Bacone FS : Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS : Quella E. 29 Chiuse[!]? FS : chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS : ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS : che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E.  Queste righe, e quelle immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato a mano nel testo FS : alcun mezzo per eliminare il polo E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS : oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS : mente E. Eugenio Colorni  vuta ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS : (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mondo […] che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Sugli scritti di Eugenio Colorni, in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS : né il soggetto né l’oggetto  il soggetto, a mano nel testo FS : l’uomo parte e FS : parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS : un “estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un cedere FS : un “cedere E. 45 violenza”, e FS : violenza”. E E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS : per raggiungere risultati utili e teorico FS : o teoretico sé FS : se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS : dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS : Ma, nella sua mente, ricerca  dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS : assolutamente impossibile E.  elencato FS : elencate E. spazio FS : Spazio E. numero ecc. FS : numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS : filosofico scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS : no. (I) Fra quelli che l’hanno seguito (a) gli scienziati E. categorie, contentandosi FS : categorie; contentandosi  positivisti), oppure FS : positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS : sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS : Newton e  di FS : , di  I filosofi invece, FS : (b) I filosofi, invece, E. Eugenio Colorni 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81 , invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS : ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS : kantiana E. 70 se FS : che E. 71 Coloro invece FS : (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS : disubbidito”, E. appunto FS : appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS : categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS : teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS : parola, E. 78 A capo in E.  essere FS : esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS : di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91 . Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS : risultati E. raccogliendo è, FS : raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS : imponente: E. 85 inesplorata FS : inesplorata, E. 86 unito FS : misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS : Kant, infine, E. dal FS : dalla possono FS : possano Nietzsche», afferma Colorni in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS : quei E.  campi senza FS : campi, senza E. concordanze FS : concordanza E. E. logico-matematico, che FS : logico-matematico che compiere non FS : compiere, non E.  di un FS: d’un E. e FS : ed E. che il del FS : che il E. 102 che lo dello FS : che lo E. Proprio in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS : sperimentale se E. 105 Kantiane FS : kantiane E. Kantiana FS : kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS : kantismo e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo. 108 Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 Colorni non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (E. Colorni, Del finalismo nelle scienze, pp. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della conoscenza». Eugenio Colorni 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso Kantiano si mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove Colorni, stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico della modernità. E. Colorni, Critica filosofica e fisica teorica (p. 206), ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di Eugenio Colorni. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e malvagio. Il vostro  Eugenio Colorni Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. PALINODIA COMMODO A RITROSO Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6 ; sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, Eugenio Colorni e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca (CCCLXVI, v. 63). E. Colorni, Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo dopoguerra.  Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library.

 

Conte (Pavia). Filosofo. Grice: “Must say I love Conte – he  has almost the same talent for linguistic coinage that I do! In Italy ‘filosofia del diritto’ is much more respectable a discipline that it is at Oxford! But Conte managed to keep it philosophically interesting for the philosopher’s philosopher that I am!” “Conte proves that moral philosophy is at the heart of philosopohy qua-uni-virtue – for the critique of reason must include the buletic – and that’s all that Conte dedicates his philosophy too! Into the bargain, he expands into concepts like sacrifice, punishment, ‘fiducia’ (my principle of conversational trust), and so much more!” “He plays with language the way only Heidegger did in German and I in English!” --  -- Grice: “Conte is what I – and Italians – would call a ‘Griceian conversationali pragmaticist.’” Studia a Pavia e Padova. Si laurea a Torino sotto Bobbio con “Ius naturale.” Insegna a Pavia. Si occupa della semiotica del performativo deontico o buletico, la regola eidetico-costitutive, validità buletica – desirabilita -- deontica, modo imperativo, prammatica conversazionale – alla Grice. In che cosa consiste quell’’impero’, dal quale il modo imperativo prende il nome. Altre opere: “Interpretazione analogica. Pavia, Tipografia del Libro, “Ius ed ordine” (Torino, Giappichelli). Primi argomenti per una critica del normativismo. Pavia, Tipografia del Libro, Ricerca d'un paradosso deontico” (Pavia, Tipografia del Libro); Nove studi sul linguaggio normativo. Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. I. Studi; Torino, Giappichelli, Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi; Con una nota di Bobbio. Torino, Giappichelli); Imperativo ed ordine. Studi Torino, Giappichelli); Filosofia del linguaggio normativo. III. Studi, Torino, Giappichelli); Filosofia del diritto” (Milano, Cortina); Ricerche di Filosofia del diritto” Torino, Giappichelli); “Res ex nomine” (Napoli, Editoriale Scientifica); “Sociologia filosofica del diritto. Torino, Giappichelli); “Adelaster. Il nome del vero” (Milano, LED). È inventore del genere da lui chiamato "eido-gramma" ed autore di numerosi eidogrammi, solo parzialmente éditi:  Nella parola. Osnago, Pulcino elefante, Kenningar. Bari, Adriatica. "Per una critica della ragione deontica" (introduzione alla Filosofia del linguaggio normativo).  Pragmatica. Filosofia del diritto Logica deontica Ontologia Performativo (atto verbale) Pragmatica Semiotica Semantica. Grice: “Conte quotes from Aristotle’s Soph. El. On the ‘homonimia’ of deon’ – “sometimes for the good, but sometimes for the bad.” Conte distinguishes between semantic ambiguity – surely ‘must’ or the imperative mode does not have TWO senses – and ambivalenza prammatica. Since Aristotle is refusing to use Frege’s idea of ‘Sinn’, and keep referring to ‘semeion’ (Latin segnare) rather, we may well conclude that Aristotle is just Greek Grice. Conte does not dwell much on the imperative mode. Modo imperativo is qualified. Modo is qualified as being modo verbale – the mode of the verb impero. But then the future in French has a ‘valore imperativo.’ Conte is more interested in the ‘must.’ But surely his quoting from Philippa Foot and his joint work with von Wright into Kant’s hypo versus cate is very Griceian! On top, Conte has a taste for local historical analysis and has discovered some gems in some jurisprudential philosophers of his ‘paese’!”  Amedeo Giovanni Conte. Keywords: the sorry story of deontic logic, fondatore della logica deontica al Ghislieri di Pavia, il giuridico, giudicare, giuridicare, impiego, employ (as noun), employ-ment, empiegamento, Conte e Wright – Wright cited by Grice, alethic --. Wright on change cited by Grice in “Actions and Events”, Mario Casotti, Volere, Grice, Volere --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conte” – The Swimming-Pool Library.

 

Contestabile (Teano). Filosofo. Grice: “I love Contestabile; I love a philosopher with a sense of humour! At Oxford, it has become increasingly difficult to laugh at people’s surnames! But ‘grice’ means ‘pig,’ in Norwegian! – Anyway, Contestabile contests a revisionist account of Bruno’s life – “surely he wasn’t a coward – I know because of his links with the Campanella whom my family supported in his fight against the furriners!” Cacciato con una telefonata» Intervista di Dino Martirano, Corriere della sera. Con il Psi non ho ricoperto grandi incarichi ma ho avuto l'onore di essere stato amico di Craxi. Mi mancherà la politica ma non è una tragedia. Torno ai miei studi, alla filosofia medioevale. Mi mancheranno certi momenti. Io, che ero stato nel Psi fin quando nel '92 la procura della Repubblica lo ha sciolto, ricordo bene i mesi trascorsi al ministero della Giustizia: col ministro Biondi fummo i protagonisti del tentativo fallito, però generoso, di riportare la giustizia sui binari della normalità. Sciolto il partito [Psi], chi si è fatto maomettano, chi ebreo, chi cattolico. Però sempre socialisti siamo rimasti. Domenico Contestabile avvocato e politico italiano Lingua Segui Modifica Domenico Contestabile Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Durata mandato10 maggio 1994 – 17 gennaio 1995 PresidenteSilvio Berlusconi PredecessoreVincenzo Sorice SuccessoreAntonino Mirone Vicepresidente del Senato della Repubblica Durata mandato           16 maggio 1996 – 29 maggio 2001 PresidenteNicola Mancino Senatore della Repubblica Italiana LegislatureXII, XIII, XIV Gruppo parlamentareForza Italia CircoscrizioneLombardia CollegioCinisello Balsamo, Vigevano Incarichi parlamentari Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia Sito istituzionale Dati generali Partito politicoFI Titolo di studioLaurea in giurisprudenza Professioneavvocato Domenico Contestabile (Teano, 11 agosto 1937) è un avvocato e politico italiano.  BiografiaModifica Laureato in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato. Entra in politica iscrivendosi al Partito Socialista Italiano (partito a cui è appartenuto fino agli eventi che hanno travolto tale formazione politica)[1]. In seguito aderisce a Forza Italia, affermando che in tale movimento politico l'area socialista era ben accolta e rappresentata[2]. Viene eletto senatore per la prima volta nel 1994 ed è rieletto anche nelle due successive legislature. Dal 16 maggio 1996 al 29 maggio 2001 è stato vicepresidente del Senato[3]  Incarichi parlamentariModifica Ha fatto parte delle seguenti commissioni parlamentari: Affari costituzionali e giustizia; Difesa. Membro, inoltre, della giunta per le elezioni e immunità parlamentari.  Sottosegretario di StatoModifica È stato sottosegretario di Stato per la Grazia e giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi (dal 13 maggio 1994 al 16 gennaio 1995).  NoteModifica ^ Tutti i figli e i figliastri del garofano[collegamento interrotto], su qn.quotidiano.net. ^ Adnkronos - Psi: Contestabile a De Michelis, noi stiamo bene in FI ^ Senato - XIII legislatura Voci correlate Modifica Governo Berlusconi I Partito Socialista Italiano Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Domenico Contestabile Collegamenti esterniModifica Domenico Contestabile, su Senato.it - XII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - XIII legislatura, Parlamento italiano. Domenico Contestabile, su Senato.it - XIV legislatura, Parlamento italiano. Biografie Portale Biografie Politica Portale Politica Socialismo Portale Socialismo Ultima modifica 3 anni fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Fabrizio Cicchitto politico italiano  Giulio Maceratini politico e avvocato italiano  Gaetano Scamarcio politico italiano   Il contenuto è disponibile in base alla licenza CC BY-SA 3.0, se non diversamente specificato. Altre opere: Bruno: una revisione contestata” – La storia della filosofia è continua revisione, e non mi scandalizzo per il revisionismo bruniano. Mi sembra però che questi non colga nel segno. La vita diBruno, dalla fuga da S. Domenico Maggiore a Napoli fino al rogo di Campo dei Fiori a Roma, è di singolare coerenza. Fu una vita “contro”. L’accusa implicita di opportunism mi sembra perciò singolare. E’ vero che, durante il processo, ritratta molte sue tesi, e avrebbe avuto salva la vita se avesse continuato in questo atteggiamento. Alla fine però si stanca, e scelse lucidamente di morire.  E’ opportunista chi cerca solo di salvare la pelle, e poi decide di morire perché ritiene che il suoi giudice ha esagerato? In quanto alla tesi sul Bruno spia elisabettiana, essa non è, a mio giudizio, provata, anzi è smentita dalla comparazione tra la grafia di Bruno e quella dei biglietti di spionaggio. Infine, la tesi a proposito della relazione tra Campanella e Bruno non mi ha mai convinto. Campanella (la sua rivolta e finanziata dalla nobile famiglia Contestabile, come ricorda Firpo nel suo ottimo saggio sul processo a Campanella) vuole poi un regime “comunista”? A leggere “La città del sole” non si direbbe. Domenico Contestabile. Keywords: nobilita italiana, la famiglia Contestabile financia la rivolta di Campanella -- filosofia medioevale, Bruno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contestabile” – The Swimming-Pool Library.

 

Conti (Roma). Filosofo. Grice: “Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione – l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico.  Direttore delle Antichità di Roma. Direttore della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo oxoniese Pater e Ruskin.  Altre opere: “Giorgione, Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia, Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R. Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura non era stata ancora terminata.  Dizionario Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello Carlino. A. Conti, Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte.  Io vengo dal mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui, la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo. Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli apprendere dal suo grande maestro? Non cer- 84 Angelo Conti, Leonardo pittore tamente l'arte, la quale non si apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista, un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire : " Il tuo cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare ; ecco in qual modo si modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l' immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso, il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un' immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo ; poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dal- Angelo Conti, Leonardo pittore 85 l'espressione d'iin volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile, l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi. Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la 86 AxGELO Conti, Leonardo pittore sua traccia come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo. Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi, -accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano, trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo, tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco avea prò nunziato le parole : qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo, con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità ! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le Angelo Conti, Leonardo pittore 87 dita allungate, esprimendo la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso. Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita, in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or sono Gabriele D'Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fu nel 1904 incaricato delle ricerche scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti, portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto, coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si solle- ^rt Angelo Conti, Leonardo inttore poteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio : la Minerva criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare, noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi, formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle, senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac- quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è •stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte, auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita il 4 luglio 1909, davanti al capolavoro vinciano, una bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di direttore delle pinacoteche vaticane. Angelo Conti, Leonardo inttore 89 prendere la vita maravigliosa che il Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa, una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza, quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione ; dov' era un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il tempo soltanto per le sue rovine ; è necessario esaltarlo anche per tutte le opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo da Vinci. 12 90 Angelo Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno, obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione, ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono da lontano, guidati dal mistero, sono una A\GELO Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo centrale è un accorrere disordinato di gente : uno ha le mani levate e grida come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti, sino a questi ultimi anni del quattrocento, 1481, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che co- 92 Angelo Conti, Leonardo pittore miincmcnte si chiama V incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta un miracolo ; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione. Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre, la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo ; vidi anche il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino, mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani, cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva, mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale : i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava, non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre : fra due donne nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda ne sorridesse come quando Leonardo cantava, per rendere piìi intensa la sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1' imma- Angelo Coxti, Leonardo pittore 95 gine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare le notazioni figurative degli scultori ; ma esso non è se non un appunta ideale, un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di Michelangelo per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale, il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti i momenti della multiforme ed ine- 96 Angelo Conti, Leonardo pittore saiiribilc attività del suo spirito trovano la loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo. Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano. Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo: dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia ; le sue impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es- Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA.  Angelo Conti, Leonardo j^^itore 97 sere sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si affievoliscono ; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di filotassi ; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire, dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci. lii 98 AxGELO Conti, Leonardo pittore un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto. Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura, ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore ; poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua precisione non è il segno rigido e freddo fatto da Angelo Conti, Leonardo pittore S9 una mano abile, ma è la linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino all'ultima parola. Infatti egli dice tutto ; ma il suo linguaggio è come il mare e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza d'espressione? In un modo semplice e grande : imitando la natura. L'imitazione della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura? Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose. Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè ? Volle forse Leonardo coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo 100 Angelo Conti, Leonardo inttore non dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „ , non deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „ . Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l' alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio. Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita. Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento Angelo Conti, Leonardo piitore 101 per aver in fine, come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura ; ne vi fu mai al mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse leggi con le quali la natura produce le sue forme : qual fanno le cose. E doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale " non fu impedito „ , come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo dal tempo „ , manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi: La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa, mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia ; ma poiché è perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Angelo Conti, Leonardo irittore 103- Chi sa in qual modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione rimane intatta in virtii della sua maggiore attività : il mutamento. Doctor Mysticus. Angelo Conti. Keywords: decadente, decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente, decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior, sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant, Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico, from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia, Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo, ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Conti (Padova). Filosofo. Grice: “Conti is a good one; for one he is a ‘patrizio veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests Newton! (Italian temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’ full of implicata as they are!” Patrizio veneto, classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si lege in amicizia con  Fay, noto per gli esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la funzione del coro: monologo, dia-logo, coro (terza persona?). Tra le sue tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre, tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche” (Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del Conti sono r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia nel 1718. e ſuoi pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono. Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di Platone; fima e onori di Conti. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso ; ſua morte. Rifleli Jul carattere di Conti , e notizie particolari della ſua vita private. Relazione de’ Manoscritti lasciati da Conti. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca. Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea. Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo. Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia. Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig. Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito. Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour. Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio propone una cosa per farne intender un'altra , che ſeco è in proporzione , se l’ “Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico* d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea (l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata, l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura (& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione di Augusto . Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo dichiara Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i tradimenti , gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non trattenuto dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente arrivato in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero, Evandro e i toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un nimico feroce e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno! Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione, compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’Eurialo verso Niso), verso l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì, gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo. Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante; ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto, una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta attento i cantici d'Ercole , e invoca Berecintia che l'allista nella nuova guerra. Alla sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese vuol conoscere i liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e nel regno d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo di cadervi: fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo dirige la nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore, prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise: giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi ſmente , una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra, che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla posseduta l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui poco lo scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai non si lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie Enea, si puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe tanti servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi. All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio , quando parla d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio, Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali, come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea. In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi , ne’ capitani ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile che tanta corriſpondenza sia effetto del caso , attesa spezialmente la sagacità del poeta , e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera.   . g. v. 176 D. V.. ILLUSTRAZIONE DELLO SCUDO DI ENE A. . Ome nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille unoScu do fabbricato da Vulcano così nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno Scudo fabbricato dallo ſteſſo Dio . Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo d'Enea , oſſervando prima generalmente , qual ne foſſe la materia , la faldezza , la figura , l'intreccio e i colori , ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie , cd allegorie . I'Ciclopi impiegarono nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo , l'oro , e l'argento , ma fecero che ivi abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die feſa , o di più raro ornamento . L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici , riſplen dea per la terſezza dell'acciajo , non altrimenti che ſe fiam . me ſpargeſſe . La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo , che quanto più maſſicci'ſi fingono , ed incurva ii , tanto più le faette e le ſpade ſpuntavano . Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli , i colori della Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro , ond'ella riſplende va come un Iride in faccia al Sole . Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte d'argento , ma purgato più volte da'Ciclopi ; l'oro nel foco avea ſvaporato l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa , più denſa , ed impene. trabile . Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente fuſi e temperati . I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre rotonde , che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono l'une nell'altre , perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini . Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli avea al numero de Pianeti. Forſe credea no , che gli aſpetti di cucci e ſette influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale . La figura dello Scudo d'Enea era ovale , nè a cid forſe an cora mancava il ſuo miſtero . Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di Numa , aveano la ſteſſa figura , Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro ; ed Enea , che doveva portarlo , non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro arte maeſtra , collocarono , intrecciarono , limetrizzarono , e colorirono le figure ſcolpite in maniera , che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo . Nè queſta a mio credere è un'Iperbole poetica , ma un'imi tazione di quell'idee che Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma , ove ſoggiornava, ed in quelli delle Città della Gre cia , ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti avea viag giato . A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi Scudi tutti ſtoriati , e tra gli altri Plinio racconta , che nel Tempio di Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo , ove in picciole figure era rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud) . Nel conveſſo dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni , e nel concavo la guerra degli Dei e de'Giganti . Offerva Plinio , che Fidia , volendo moſtrar l'arte nelle minimeparti , avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la battaglia de' Lapiti e de'Centauri , e nella baſe della ſtatua la naſcita di Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano la ſe dia della fatura di Giove Olimpico , lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea , da una parte il sole che conduceva il cocchio , e dall'altra Giove e Giunone ; a lato di Giove v'era una delle Grazie , indi Mercurio e Veſta., Venere pareva, uſcir dal ma re , l'Amore l'accoglieva , e la Dea Pito la coronava . Nello ſteſſo baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana , Minerva ed Er; cole , e nel piedeſtallo da un canto Anfitrite e Nettuno , e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un cavallo . Qual mol ticudine , qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio ? Or è molto verifimile , che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima idea dello Scudo d'Enea , così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo . Nella deſcrizione delle figure ben fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi , ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo , che regold la fantaſia del Poeta fino · lo ſpingo oltre la conghiettura , e pretendo che alle figu. se veduce da Virgilio ſcolpite o nell’avorio , o nell'oro , od in altro metallo negli vi applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da lui veduti nelle pitcure encauſtiche : Plioio ne annovera di tre fpezie , e non ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me tallo , ma su fmali di più dura tempra , e su vaſi e ſulle cop pe antiche , ove la varietà del colore riſultò dal vario grado del foco , che lor fu dato nel fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco ad ogni colo re , ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva cità differenti , e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo il biſogno o floridi , od auſteri , ed a tutti imprimere quello fplendore che ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume , ma di'mezzo tra il lume e l'ombra , ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate Fraguier , la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva , che nello Scudo d'Achille la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro , che i grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro , che le giovenche ſono rappreſentate al vivo col bianco e col giallo , cioè collo lta gno e con l'oro , e che veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero ; ma quando anche i Cro nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero , molto più debbono elli concedere , che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro , e ne’ſuſſeguenti . Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani , é poſcia conſecrate ne! Tempi. Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti , gli ha verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito , e d'on guſto così eſquiſito in ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0 , come parla Plinio , alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici d'oro , ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono i colli de'Galli , men. 1 1 179 mentre le loro chiome fon d'oro , e vergate d'oro le veſti ; il langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi . Per gli sfumiamenti de colori , ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi , diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo ; il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve , ma più bianco è lo ſteſſo Dio ; Cleopatra è pallida per la morte futura ; il Nilo al ſembiante ed al geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva ? Parrafio dipinle , al dir di Plinio , il Demone degli Atenieſi vario , iracondo , in giuſto , incoſtante .. Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda , li ſdegna , e minaccia . Nel Portico a . vanti la Curia di Pompeo era dipinto , ſecondo lo ſteſſo Plinio , un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di Icenderſe . Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da queſta alternaniente accarezzati ; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge , Mirava alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio , or le fuggenti vele . Ma paſſando a coſe più particolari , io per far meglio in tender l'ordine , l'intreccio , ed i fici delle figure , divido in quattro parii lo Scudo . La prima contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente . La copula o , cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo . La ſeconda parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica . La terza la battaglia d' Azio . La quarta i tre Trionfi d'Auguſto . Queſte parti, ſi fanno ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello 1pazio ſegnato i . ch' è come l'orlo dello Scudo io pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio nel primo libro e nel ſeſto : queſti ſono A Scanio , Silvio padre di molci Re , Proca , Capi , Silvio , Enea, i due giovani coronati di quercia , Numitore , e la Lupa che allatra i due bambini . De quindici Re d'Alba , di cui parla 2 2 Dio 186 Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio , Virgilio non nomina che queſti , perchè, come egli accenna , furono fondatori di colo . nie , avendo edificato Nomento , Gabia , Fidene , Collazia full? állo d'una montagna , ed il caſtello d'Inuo o di Pane . Fon darono ancora Bola e Cora , e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci , avranno dato oc caſione alle guerre e battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una Città qual era Alba lunga . Altri prendono gli ordini , ed altri gli eſegui ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra . La pittura d ' Aſcanio è ſulla cima dello Scudo ; nella parte oppofta , o nel ballo v'è la Lupa che allatta i bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie . Ne' lati dell'orlo dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva ; lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati , indi un Ře che guida un eſercito , un altro che eſpugna una Città , un altro che è in mezzo a Sacerdo ti e a Veltali , molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano colonie , o su monti , o nelle pianu. se . Nè Tito Livio , nè Dionigi d'Alicarnaſſo parlano in par ticolare di queſte battaglie , onde ſi poſſono ſcolpire a fanta ſia , ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica , ma incaſtrati di varj fogliami che riempiono i vuoti . Elli rappreſentano il ratto delle Sabine , e la pace cra Romolo e Tazio . Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli , e Porſenna che afledia Roma . Nel ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito da’Galli , e difeſo daManlio ; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che eſulcano ; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro con Catili na affiffo allo ſcoglio , e ſopra il ſotterraneo ( chiamato da Vir gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj , ove Catone dà la legge all'anime pie . Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere . Lo ſpazio è percid maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio . Apollo ſaettante è ſul Promontorio , ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio . Le navi d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco ; nel deftro corno v'è Augufto colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano , nel finiftro Agrippa cinto le tempia della co rona roftrata . Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An tonio . Secondo Plutarco , Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro , e Clelio il ſiniſtro . Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro , ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto . Tra i due ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no . Soggiunge Plutarco , che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e ferrate d'Antonio , ma nè anco inveſtirle per fianco , perciò che gli ſproni facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me col ferro : Era dunque queſta battaglia ( ſegue egli) mol to ſimile a una giornata per terra , anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà . Perciocchè tre o quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con partigiane , piche , e con fuoco . D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie di legno traevano dardi e pietre contro i nimici . Così ap punto Virgilio rappreſenta le navi che combattono . Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei moſtruoſi d'Egitto , in atto di ſaettar Neituno , Venere , Minerva , che ſtanno ſulle navi d'Auguſto , e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea moſſo la guerra , non meno che contro al. la Patria . Marre è in  mezzo della batcaglia , la Diſcordia , e Bellona , ed in aria ſtanno le Furie . Tutto ciò è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale , men tre a'lari ſono le navi ſchierate . Nella parte inferiore vi fo no le navi di Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga , che ſoffia dal capo di Salentino ; non lungi è la figura del Nilo , che allargà la veſte , e chiama i vinci a ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli : egli è d' una figura giganteſca appoggiato ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo , nel reſto dello ſpazio ſi diffonde il mare coi delfini che ſcherzano . Le figure di quello ſpazio ſono maggiori per la ragione ſopraccen nata , ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo . Nello ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto . Egli trionfo , dice Svetonio , in tre giorni l'uno dietro all'alcro ; la prima volta per la vistoria Dalmacica , la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina . Dione Caffio particolareggia i trionfi . Trionfo Ceſare , dic'egli , il primo giorno de' popoli Pannoni , Dalmatini , Japidi , ed altri loro circonvicini , e d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora , perciocchè Cajo Carina avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo , che nella ribellione da lo . Fo fatta gli erano ſtati compagni , ed oltre ciò avea dato una rolta a'Svevi , ed a quelli che aveano già paſſato il Reno ; laonde ed egli e Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire ſempre all'Imperatore , e l' Imperatore era Ceſare , è teneva in mano il governo di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia fatta al promontorio d' Azio nel mare . Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato . Le ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato di que' Trionfi ; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità ; tra l'altre coſe vi fi vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire , onde in un cerio modo queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era Aleſſandro ſuo figliuolo , e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome del Sole e della Luna . Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar le ragioni della qualità de'prigioni , e particolarmente perchè ne' cocchi ſi vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A . raſſe fiumi dell'Armenia e della Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto . Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a riſpondergli in particolare . Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono l'autorità di Dion Callio , è far loro oſſervare , che Antonio dopo aver chiamara Cleopatra Reina dei Re , Ceſarione Re dei Re , ed aggiunto alla loro giuriſdi. zione l’Egico , donò la Siria a Tolomeo , e lutte le Provin cie di quà dall'Eufrate fino all'Elleſponto ; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra , ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie . Or non è verifimile che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni , che egli doveva aver fatti o nella battaglia d'Azio , o nella ſcon fiila data ad Antonio in Aleſſandria ? Quanto al Reno , Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del Trionfo , ma egli è pro . 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare ſeco co me Cajo Carina . Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe , perciocchè oltre la corona roſtrata , con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto Pompeo in Sicilia , volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari ſimili a quelle dell' Imperatore , e , come dall'Imperatore , da lui ſi prendeſſe il ſegno della milizia , ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia : canto grande , gli diſſe Mecenate , tu faceſti Agrippa , che o biſogna ucciderlo , o ch'egli ſia tuo Genero . Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj ; uno ad A. pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino , al quale aggiun ſe una Loggia con una Biblioteca Greci e Latina ; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre , ed un altro a Giove Tonante nel Campidoglio . Secondo Dione egli ancora conſecrò il Tempio di Minerva , ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e molti doni della preda por tata d'Egitco , e molti ne conſecrò ed offerſe a Giove Capi. tolino , a Giunone, a Minerva . Non è da traſcurare che po fe l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva , e ſecondo Plinio nel Tempio del Padre Celare , il qua le era nel Foro ; aggiunge Plinio , che vi poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa , nel pri mo libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo , come interpreta Servio . Poſe ancora Augufto nel foro due quadri , uno della guerra , e l'altro del Trionfo ; e s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d' Azio , ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare . Comunque la coſa ſia , ove è il centro dello Scudo che è la parte più alta , io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo , alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’ Popoli dalle Provincie confederate . Tutto all'intorno vi ſono le are e gl’incenſi colle vittime , e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne , gli fu conceduto un Arco nella Piazza di Roma , e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali , e gli anda rono incontro le Vergini Veítali , il Senaco ed il Popolo , colle mogli , e il figliuoli: mi par ſoverchio ( ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne' prigioni Nomadi , o Numidi , Affricani , Lelegi , Cari popoli dell'Alia minore Ge no , e 184 Geloni ſpezie di Sciti , Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati verſo l' Oceano Britannico . Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini dell'Eufrate, del Reno , e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò . Tali ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo ; elle s'ingrandiſcono a proporzione ch'egli ſi va rilevando , e le miniature devono render ſenſi bili i colori di cui ſono in Virgilio dipinte . I colori domi nanti ſono il giallo e il bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame . Marte però deve eſſer dipinto con un colore fer rigno , o fia di ferro , non raffinato in acciajo ; diverſi ſono i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare ; ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore , o ſia quel grado vigoroſo di colore di cui s'è parlato . Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la parte ma teriale e ſtorica dello Scudo , egli è tempo di ragionare delle relazioni che le figure hanno ad Auguſto , al quale tutto il Poema è diretto , come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione . Biſogna quì ricordarſi che l'adulazione , ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze , or impiega le lodi dirette e manifeſte , or l'indirette ed occulte , ſecondo che l'une e l'altre per le cir coſtanze fono più grate a colui che fi loda . Lodar Augufto per la ſua ſtirpe , lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio , e per i tre trionfi , ne' quali fece tanto riſplender la ſua pietà , erano lodi che Auguſto fonima mente defiderava che ſi pubblicaſſero , onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione ed ubbidienza . Conviene a parte a parte moſtrarlo . Giulio Ceſare nel far l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna , diſſe , di Giulia mia Zia ha origi ne dai Re , é la paterna è congiunta cogli Dei immortali , im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre , da Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia . Trovaſ dunque nel ceppo antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el Re . Sin quì Svetonio . Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua genealogia verano i Re , gli Dei , e gli Eroi . Virgilio dice nel primo libro: il giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo, mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città . Nel feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome , e ſarà egli fello Re e padre di molti Re , . per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba . Virgilio ſcaltro nul la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio figliuolo d'Aſcanio e Silvio , e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre , ea Giulio per contentarlo la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi , la Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato , e s'è chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva . Io non so accordar queſto paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio , ove ſi vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue , ma per i ſuffragidel popolo in competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid , baſta quì oſſervare , che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli altri diſcendenci da lui, poichè dice , che v'era ſcolpita tutta la ftirpe d'Enea cominciando da Aſcanio . Io così interpreto quel Ab Aſcanio . Di tutti queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali , che pone nell'orlo del ſuo Scudo , come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti . Ciò ba fi intorno la lode manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette . Nelle medaglie , ove fi legge Reft. o reſtitui , ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite , o della libertà , o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani antichi , che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite . Il P. Ar duino vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito , di cui ſi contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano , di cui ſe ne contano 24. ma non , perchè queſte medaglie non ci reſtino , ſi può dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto , che vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo , l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric ; certo è almeno , che con queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira Tazio e Romolo . Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo II. il 186 9 il nome d'Auguſto , molti volcano che ſi chiamafle Romolo . In fatti Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero , ma ancora in molte circoſtanze della ftella fon dazione . Come Romolo col ratto delle Sabine avea provvedu to al mantenimento della Città , così Auguito con la legge di maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita ; due ne fece Auguſto ., la prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia , e l'altra dell'anno 762. e li chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio , e Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al Senato , nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il vantaggio e la giocondità de'figli , l'utile della Repubblica , e il biasmo di viver ſenza moglie , gli fa dire : Romolo autor noftro , e da cui diſcendiamo, non li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti ? Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda Auguſto ; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al maggiore come s'egli diceffe : fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che con una violenza provvide al mantenimento della Città , mol to maggior obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen . za danno de' vicini vi provvide con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò ſolennemen. te con lui , e diviſe feco il Regno ; ed Auguſto dopo molte guerre con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero , del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio . Tutta la parte , dic'egli , verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio , e l'alira verſo Occidente a Ceſare . Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio , e certamente ella è rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra Romolo e Tazio : ne deve far difficol tà il noine della vittima , poichè tutto ciò che li confacrava agli Dei era fanto , e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio del paeſe che ricercava . La pittura di Mezio non è meno allegorica ; egli tradi Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica , e tradi Ottavio con la guerra che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra . Mezio ne fu ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era rinchiuſa Cleopatra , andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il corpo di Mezio per la ſelva . Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì delicate che in un quadro allegorico , Due volie , dice Svetonio , entrò Auguſto in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare , una, poichè egli ebbe vinto Bruto e Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia ; il che moftra , qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto ; queſta ſteſſa egli usò con Marcantonio del quale e gli non crionfo , ma di Cleopatra , come ſi può raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio . Egli ſollevò i figliuoli d' Antonio alle prime dignità , nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del marito . Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa ; ma nel tempo ſteſſo , conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva , che negli animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra Marcantonio per la finta difeſa della libertà , eſli procurarono di maſcherar ne l'azioni con l'allegoria , della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il ſenſo , e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni che poteano darle . Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda ovale dello Scudo . Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi Cleopatra . Se Antonio , dice Dione , foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto , era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma ; è poco dopo ſoggiunge , che Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano , e che quando al cuno le dimandava giuſtizia , ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio :al che pur allude Orazio nell'Ode 37. l . 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli ſperanze non meno che di vino mareorico . Io non so ſe troppo raffini nel ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto , Ottavia che al dir di Plutarco eſce precipitoſamente dalla caſa d'Antonio ; ma certamente Coclite che rompe il ponte è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio con tra i Galli , come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono , dice Plinio , i fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino , ſe non gli aveſſe perduti nell'eſito della vita ; e Tito Livio ſoggiunge , che lo ſteſſo luogo nell'Uomo ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena . Anto nio difeſe il popolo Romano ne' Campi Filippici , e il popo lo Romano in Azio ed in Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte . I Salj ed i Luperci eſultano , e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache , abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio . Catilina tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio ? e per la ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà ? In grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe . Orazio nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma . Loderò di Caton la nobil morte ? Il P. Catrou pretende , che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe , ch'era troppo odioſo a'Ceſari, ma Catone il Cenſore , di cui dice Seneca , che tanto giovo co'ſuoi coſtumi al popolo Romano , quanto Scipione colle ſue guerre . Il P. della Rue é per il Carone Uticenſe , ma non ne aſſegna la ragione , la quale è manifefta, ſe ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che qui ancora ſoggiongo , perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come Cromuello fece a' noſtri tempi , di paſſar per difenſore della pubblica libertà . Tito Livio ( così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà , celebrò con tante lodiGnco Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano , nè perciò gli fu meno amico. Nelle Opere di Aſinio Pollione ( cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa onoratiflima memoria di Callio e Bruto : Meffala Corvino pre dicava Caffio per ſuo Imperatore , e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e d'onori, ed Auguſto , non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di prudenza , laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio , e l'orazioni di Bruto , che molto lo diſonoravano ; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo , ed al libro di Marco Cicerone nel quale s' inalza Catone al Cielo , riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i Giudici . Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio ed Ora zio non temerono , dedicando l'Opere loro ad Auguſto , di no. minar Giunio Bruto , Marco Bruto , e Callio , Catone, e Pom peo . Maquale ſcaltrezza cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti ? Par, ch'egli accen ni , che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli ca ideale di Platone , la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di Romolo . Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche . Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette , perchè cuite ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente acclamaffero . Egli ſteſ ſo , come ſi diffe , avea nel Foro di Ceſare conſecrata l'ima gine della battaglia , e del Trionfo , nè io dubito punto che Virgilio ne aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila , che nel primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano . Tutto poi nella deſcrizione e della battaglia , e del Trion fo , è diretto alla lode d'Auguſto. Nella battaglia , Auguſto è coi Padri , col Popolo , coi Penati , e co'magni Dei, ed ha in fronte la ſtella paterna ; ciò ſignifica , che la guerra era in trapreſa per la libertà del Popolo , del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già Deificato . All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari , ed un'effeminata Reina ; Auguſto è di feſo da Venere genitrice , da Minerva , e da Apollo , Dei del la prudenza e del conſiglio , e da Nettuno , che gli era ſtato favorevole nelle guerre in Sicilia contro Seſto . All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei moſtruoſi ed odiati da' Romani . Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna , tanto maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa , ch'egli ſempre accompagna per le ragioni di ſopra accennate . Le Furie e la Diſcordia con Bellona liriferiſcono a Cleo patra ; ma qual mai v'è ſagacità poetica nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina ? Mentre ella ſuona il filtro non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle ; ella con fida iyo fida in vano nelle forze dell'Egitto , e in vano tenta di rifu . giarſi nelle più occulte ſpiagge delNilo . Tutto allude al .con higlio ed alle azioni di Cleopatra . Perchè poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie , e tra i prigioni non poneſ ſe i figliuoli di lei , la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di compaffione , e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto , e tra l'altre quella della pietà . Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono e a quel che tacciono , onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia , e dalla Storia alla Poeſia , quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol accomodare il Poeta . Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo ha relazione al fine gene rale dell'Eneide . Le figuredel ſecondo ſpazio riguardano il ſenno d'Auguſto , le figure del terzo il valore , le figure del quarto riguardano la ſua pierà . Queſte ſono le tre virtù do. minanti dell'Eneide . Dionigi d'Alicarnaſlo , che ſcriveva nel tempo d'Augufto , le ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero , e Virgilio vi fabbrica ſovra l'Eneide . Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti. €0 , la chiarezza , e la brevità , colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime tante coſe , nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione , maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti , ciò che deve ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. DISSERTAZIONE PRELIMINARE i ALL' ILLUSTRAZIONE DEL PARMENIDE DI PLATONE. atentat nesatentratata L A ſecca della Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia , tra le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono , celebre la Lucania , ed in queſta la Città di Velia , o d'Elea così denomi nata dal fiume che l'irrigava . Quivi Senofane di Colofone , Cit tà della Jonia nell'Alia minore , ſtabilì e perfezionò la fecta , che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica , e meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto , e quel Filoſofo grave e venerabile , che con Zenone paſsò in Atene , ove tenne la con ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo . Ora avendomi propoſto io d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto , o la Filoſofia Pittagorica , e la Platonica ; finalmente ſe mi fer punto che Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico , e poetico dello ſteſſo Dialogo . lo difli , che Senofane ftabili , e perfezionò la ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta , la gente d ' Elea incomincia appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller che Talete, o Pittagora , oi difcepoli loro ; non regnando, allora alıra Filoſofia nella Grecia , ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da i loro allievi . Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete , ma più antico di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche , alle quali oltre l'autorità di Platone , s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi , e i viaggi loro . Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari , ma come poteva egli calcolarle ſenza conoſcere la propolizione , che Euclide poi fe ce la 47 del primo libro degli Elementi , e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a Pitcagora ? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul . no ( 4 ) no dedotti da trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe ſteſſo , e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento , o fu contemporaneo di Talete , o fiori prima di lui . , Io credei , che queſta foſſe una dimoſtrazione in cronologia , finchè in Plutarco ( a ) ritrovai che gli Egizj ſimboleggiavano co ? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4 , e s le loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro ; aſſegnando ad Oſiri de la perpendicolare, la baſe ad Ilide , e ad Oro l'ipotenuſa ; L'antichità del ſimbolo manifeſta quella della cognizione , tan to più che gli Egizi coltivarono l' aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e non par veriſimile , che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo , il pri mo e il più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di queſte due ſcienze . V'aggiungo, che fe condo Platone ( 6.) noci erano, agli Egizi gl' incomenlurabili , la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo ; I lati del retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati , e queſta è la prova che dagli E giz lo toglieſſe Pittagora , e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto Talete , benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la dimoſtrazione Geometrica , ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee , e che nel progreſſo del tempo Eudoffo , che fiori nel tempo di Placone , portò dall' Egitto col s elemento . Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le antiche , e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de' principjmatematici . Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide , e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo ; il Newtono fi limitò all'altrace ta Teoria della luna , e l' Hallejo l'applico a correggere le Tavo le aſtronomiche . La ſeconda congettura della contemporaneità di Pitragora, e di Talete , ſi prende da coſe più facili . Vuol Jamblico , che Ta lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi fcritti morendo , e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu tutto il ſecolo , ne ( a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride . ( 6 ) Nella Rep. e nelle leggi . ( 5 ) 1 4 ne ful mezzo ſecolo , ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni diſtante ; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora , machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto ? queſta lieve differenza non toglie però , che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe ancora Pittagora : Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo , e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico , Senofane paſsò in Sicilia al tempo di Gerone , ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta , che diede Senofane ad Empedocle . Non è facile il determinare , nè qui lo cerco , quanto Epicar mo , ed Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora , e quindidà Ar chita Tarentino il vecchio , da Peritione , da Timeo di Locri , da Ocello Lucano , e da altri , che ſi dimandavano Piccagorei ( 6 ) perchè udirono Pittagora , a differenza deglialtri , che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la Filoſofia , quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia , e quella di Pittagora nella Magna Grecia ,e nella Sicilia ; su queſto fondamento altri fecero Seno fane diſcepolo di Anaſimandro , ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora , il quale avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato Senofane ftudiò ſotto ( c ) un certo Bottone Ateniere . Dalla povertà cacciato Senofane dalla Grecia , paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine Pittagoriche , più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre , e profondo. Dalla Filoſofia Jo nica , e dall' Italica traſſe un nuovo liftema , è meritò ď' effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica , e della Pla tonica , delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla ancora s'è fatto , ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di Parmenide , e queſta con quella di Socra te . Tralaſciare dunque molte epoche inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane , ed è che egli fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo , e da altri , fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti . La voce fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia , perchè non ſempre moſtra , che un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no meilluſtreacquiſtato . Il Newtono , che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle matematiche, fioria del pari in Inghilterra nel 1662 quando ſcriſſe al Leibnizio la lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo , ( a ) Plut. de vit.pud . ( 6) Patr. diſcuſs. prop . 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. ( 6 ) 3 8 luppo , e l'uſo del Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata , e nell'anno 1716 in cui molte coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj naturali della Fi loſofia matematica , Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104 an ni , ed altri almeno fino a 100 , potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti, perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo , e la ſua fama tanto più ſpargeali per le bocche degli Uomini , quanto egli abbelliva le ſue meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare , e leggere con più d'avidità . Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea ( a ) ſotto Amenia , e Dio cheta Pictagorici , i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze , ecol tivar la vita privata, e darſi tutto alla Filoſofia . Biſogna dun que che in eſſa molto riuſciſſe , o la Filoſofia foſſe la paſſione , che più lo dominava, ſe nato de' più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio ; ma ciò molto applauſo dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini , ſe fin d'allora cominciarono a celebrarlo in guiſa , che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld . Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea , e poi foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria . In Elea era ſtato emulator di Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane , che lo profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76 . Paſso Senofane in Elea , ed ivi Parmenide conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane , come i giovani nobili , e ben educati ſo leano far nella Grecia , quando nelle loro Circà udiano entrar un Filoſofo illuſtre , e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma , del che chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora , nelGor gia , ed in altri Dialoghi di Platone . Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio ; ma qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta , che nel pricipio dell' olimpiade 76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile , e non aveſſe allora che 36 , e ancor 40 anni , la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con Socrate in Acene . Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77 , ed avea 4 anni com piuti o 5 anni cominciati , quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40. Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene , come vuol Platone , non avea che 60 anni, e Socrate che 25 , onde era egli molto giovane relativa mente a Parmenide . Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei ( a ) Laerzio vita di Parmenide . 1 ( 7 ) e dei viaggi dei due Filoſofi , e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi , perchè oftinarſi a rigettarle , e rinunziare all'au corità di Platone , che potea molto meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica , che non ſi conobbero 6oo an ni dopo , e ben più ? Le circoſtanze , con cui Platone accompagna l'abboccamento di Socrate con Parmenide , accoppiano in guiſa alla verità del fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo , che pare non do ver laſciarſi alcun ſoſpetto . Io le eſtrarro dal Dialogo . Parmenide , e Zenone fuo diſcepolo favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di un cer to Pitidoro . Nelle ſolennità de grandi Panatenei , itofene So crate a ritrovar Parmenide , ritrovò folo in caſa Zenone , e comia cid a diſputar feco fu l'idee . Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro , ſi proſeguì la diſputa incominciata alla pre fenza di molti , tra' quali Ariſtotele non lo Stagirita , ma uno dei 30 Governatori , o Tiranni di Atene . Tali ſono le circo ftanze del luogo , del tempo , e dei teſtimoni della diſputa . Socrate non avea allora che 25 anni ; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni, dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza , e tanti appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo , ſe Platone lo ſcriffe dopo la morte di Socrate : ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo ; la memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in Atene , di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e l'Ugenio , e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale . Alle verilimiglianze ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo , che è una ſpecie di Poeſia Dramatica : così lo teſse Platone. : Cefalo per bocca di Antifone ſuo fratello uterino , e figliuo lo di Pirilampo , racconta ad A dimanto , e Glaucone , tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero Zenone pri ma , e poi Parmenide con Socrate . ' Antifone avea converſaco familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone , ma poi laſcia ta la Filoſofia coltivava l'arte equeſtre , e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a ritrovarlo , egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro ; circoſtanza che io credo finta per dar rilievo al racconto , é fiffar la fantaſia del lettore con qualche coſa di ſtrano . Par toſto che Antifone occupato in un volgare eſercizio , non debba favellare ſe non di coſe volgari , nè mai s' aſpetta , che egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica ; quindi il lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia ( 8 ) 1 > e di viglia , allora che egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi s'interrompe alla venuta di Parme nide , che fattoſi pregar un poco la continua fino al fine. Quan te menzogne , ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica , per dar or namento alla verità del fatto di cuiCefalo , Adimanto , e Glau cone vivendo poteano renderne teſtimonianza ? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta la lettura de ſuoi Dialoghi , cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le più sfacciate ? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti dell'opere ſue fue , e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai Platone ſul loro abboccamento , e pur ne poteva trar degli argomenti, per renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a Platone , non gli autori Latini , che più ſtudiarono i Greci , e tra gli altri Cicerone e Plinio , che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era Filoſofica . Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio , che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone . ( a ) Egli dice : Appena permette l' età che Socrate aveſe veduto , ed udito Parmenide , non dover però noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di Socrate ; che Paralo , e Zantippo figliuoli di Pericle , e morti nella peſtilenza , ragionaſſero nel Protagora , e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel che mai s'era fognato di dire . Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo , e s'affatica a dipingerlo tanto mordace , e maledico quanto bugiardo . Non so perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino , che Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara , che poco intervallo di tempo v'era ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate , maqueſto vix qual ha poi forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti , di Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni ? Il Calaubono il qual nel ſuo comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito , elu mille altre coſe inutiliffime a ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti morde Platone . Io per me credo , che A teneo vedendoſi incapace d' emulare l'immenſità della dottrina Platonica , e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone Platone ne'ſuoi Dialoghi , teſſe lunga ſerie d'accuſe , e lo condanna di menzogne ro , e maledico per accreditar ſe non altro la veracità , e la mo deſtia colla quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico ( a ) Ateneo lib . 14. Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure , e ſen ' applauda ; non per queſto io crede rò , che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate , e ſtard immobile nelle mie ipoteſi cronologiche , che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre , che in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria : Candidamente perd confeſſo , che io farò per ſacrificarle a colui , che all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo fpecta ; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo , che ſe Platone tutto finſe , il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto , di cui poteano farſi onore i men dotti . Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi che lo precede rono , e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali , così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche , le quali non ſi correffero che nel fecondo ſecolo della Religione , per le varie diſpuce che, nacquero tra iPlatonici , e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la natura della difpu ta , dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia , ed in di la particolareggierò in Pittagora , e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane e Parmenide, e la terminerò con Platone . A queſte due coſe io riduco l'origine, e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia .. Gli antichi Filoſofi , ſenza eccettuarne nè pur uno , convennero nel principio , che di nulla fi fa nulla , e ciò gl' impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re , buono , e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per negazione , o per caſualità , o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e cuti'i Teologi . Era Dio ſtato ſempre con la materia ? Dunque altro non gli competea , che eſſer un modo di efla od un ente , che ſolo per preciſion di ragione dalla materia ſi diſtingueva ; era egli per metà uno , per metà onnipotente , fe dipendea da un principio , ſenza il quale operar non potea , non più che il Pitcore dalla tela e dai colori , e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della potenza toglieva a Dio la bontà , perchè non poteva egli vincer in guiſa la contumacia della materia , che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col bene . Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione cominciò la ſtoria del mondo ; così per opporſi a tutti gli errori che derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da Dio creatore , inſiſten do al dogma di S. Paolo , il quale nella Epiſtola agli Ebrei : In tendiamo ; ( a ) dice egli , per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli Tom . II. b dalla ( a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe ſecula ver bo Dei . ( 10 ) dalla parola di Dio . I Padri nelle loro diſpute co'Gentili lo dichia rarono. Noi , dice Atenagora ,Jepariam Diodalla materia , lamateria crediamo un ente diverſo ---- ( m ) Dio è uno , ed ingenito , ed eterno ; la materia è corruttibile ; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di tutte le coſe . - - .- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe fteſi . Taciano (6 ) pur dice : Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti materiali e nelle forme , ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte le coſe . Teofilo d'Antiochia ( c) parlando ad Autolico, dice , ſe Dio è ingenito e la materia è pur tale , non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe . Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno dall'altro . Gli errori de' Marcioniti , de' Valentiniani , de' Baſiliani , chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri d'illuſtrare il lor zelo , dichiarando con la crea zione della materia il principio fondamentale della Religione Criſtiana . Anzi Taciano dimoſtro , che i Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari , ed i Barbari dagli Ebrei , benchè poi le aveſſero oſcurate e corrotse . Affaccendati gli altri Padri a purgarle , oſſervarono che Dio , autore del pari della Fede , che della ragione , non le avea ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile , ma le avea in maniera accordate , che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra , cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere . Si compiacquero dunque della ſetta Eclerica , ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de' Catechiſti d'Aleſſandria , poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato Pocamonico ( d ) anzichè Platoni ço , San Clemente ſpinſe tant'oltre la condiſcendenza , che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio del mondo , ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone , ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter nità di Dio , ſe ben egli nulla ſcriveſſe , laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli , onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni , nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create , ma da lui dipendenti , come il raggio dalSole , o l'ombra dal corpo . S'accorſero i Padri, che iFi ( a ) Apologia pro Chriftianis . ( 6) Tat. allir, cont. Græc. ( c ) Teof. Aut, lib . 2. ( d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio . ( 11 ) e tras i Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra Dio , coglievano a Dio la libertà , perché cacitamente fupponevano , che da Dio neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal corpo . Far di Dio un Agente neceſſario , è lo ſteſſo che farlo per metà Signore , per che ſe fi confeſſa da una parte , che da Dio dipenda la coſa che egli fa , fi nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto ? Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo , ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l' obbiezioni ; ma quello , che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò , è ſtato Lattanzio Firmiano , che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe . In queſto ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica , e poi S. Agoſtino nel la Città di Dio , l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano , 1 alţro con erudizione più vigorofa , e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità , l'animazione , la divinica del mondo , e l'immutabi lità del Fato . Apparve Proclo ( as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita , rinovd il fiſtema di Amonio Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto . Nel fecolo dopo , Zac caria di Mitilene , ed Enea di Gaza , ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii ſi raccoglie , che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria , non men di quel la del bilineo rettilineo , che rappreſenta alla mente una figura , é non è che una contraddizione . Il P. Balto , nel ſuo dotuiffimo libro contro il Platoniſmo ſvelato , lo dimoftra ; e dopo il Balto fe de fece dal Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell' opere del Cuduortio , da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino . lo nell’eſpor la doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici recenti , non più , che fe non aveſ ſero mai ſcritto , ſalvo allora , che s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica indifferente . Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo , che naturalmente preſen iano , e dove ſia queſto oſcuro , ed equivoco , ricorrerà all'in terpretazione o di Cicerone , o di Plutarco , o di Sefto Empirico , o di Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo , e Plutar co viffe a Roma ſotto Adriano, o Trajano , dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio , diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par ( a ) Pachimero in Suida , Vedi Fabrizio Bibliot. art , Proclo . e mo , . ( 12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed altrove. Laerzio e Seſto Empi rico , fiorirono in circa ſotto Severo , che vuol dire molto prima di Amonio Sacca , di Plotino , di Porfirio , e di molti alori nimici del nomeCriſtiano ; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi , che i Padri m'offrono allora particolarmente , che non hanno certa indulgenza alle opinioni filoſofiche , ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro coloro , che gl'inſultava no . La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella de' Pittago rici , e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente Pitta gora , Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente , ma non ſeparato dalla materia , anzi con effa non facen do che un tutto , avrò dimoſtrato , io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico . Cominciero da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de' primi Accademici o di Platone , e lo craſſe da' Pittagorici , come da Placone purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici , poichè quanto a' Peripatetici ( a ) eli convenendo nelle cafe non differivano , che ne' nomi . Gli antichi , dice egli , divideano (b )lanatura in due coſe , l'una delle quali era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le coſe.. Incid che facea riponevano la forza , in ciò di cui ſi fa cea , una certa materia , ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia può aver coerenza , ſe non ſia da qualche forza ritenuta , ne v'è la forza ſenza qualche materia , poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo . . Se la forza e la materia erano indiviſibilmente unite , la fola mente le ſeparava , e perciò conſiderar l'una ſenza l'altra era un ?: aſtrazione , una preciſion della menee . Cid che riſulta ( c ) dall'uno e dall'altro , o ſia dall'accoppiamento , lo chiamavano corpo , e quafi certa qualità ...-- . Di queſte qualità al tre fono principali, ed altre derivate da queſte . Delle principali ſono ognuna ( a ) Cicer. Quæſt. Acad. 1. Peripateticos', & Academicos nominibus differentes , & re congruentes lib. 2. ( b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in res duas , ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua effi ceretur aliquid : in eo , quod efficeret vim eff: cenſebant ; in eo au tem quod efficeretur materiam quamdam : in utroque tamen utrum , que : neque enim materiam ipfam cohærere potuiſſe , ſi nulla vi contineretur ; neque vim line aliqua materia : nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. ( c ) Sed quod ex utroque id jam corpus , & quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur qualitatum ſunt aliæ Principes , aliæ ex his ortæ . Principes ſunt uniuſmodi , & ſimplices , ex iis au tem ortæ variæ funt, & quafi multiformes : itaque aer quoque ( uti niur ( 13 ) ognuna della ſteſſa ſpecie , e ſemplici. Da queſte qualità , altre ne for no nate , e quaſi moltiformi. L'aere , il fuoco , l'acqua , ela terra for no primi , e da queſti nacquero le forme degli animali , e le altre coſe , che ſi generano dalla terra . Dunque que' principi , per tradurlo dal Greco, ſi dicono elementi , de' quali l' aria , il fuoco , banno la for za di muovere , e di fare , le altre parti di ricevere , e quaſi di pati re , l'acqua, dico , e la terra . La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile , e Seſto ( a ) Em pirico pur la prende in queſto ſenſo . Vè un quinto genere , b )di cui ſono gli aſtri, e le menti ſingolari , ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri quattro . Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento , che gli altri , non ſon eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che Cicerone dice altrove . Teniamo noi che l'animo abbia tre parti , come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno ; ſe ſemplice ſia egli come il foco , il fangue , l'anima , cioè il ſoffio . Queſte coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua Cicerone . ( c ) Ma penſano, che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva di ogni specie , e d ogni qualità , e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte , e che può ricever in sè tutte le coſe . Se la materia era prima d'ogni fpecie , d'ogni qualità , non cra corpo , e perciò conſiderata dalla mente , indipendentemen te dalla forza , ella era incorporea ; Selto Empirico chiama per . incorporei i punti, le linee , e le ſuperficie . .. Platone nel Timeo , la chiama difficile ed oſcura fpecie , e il recercacolo d'ogni generazione, e quali nutrice ; aggiunge , che ella non fi diparte mai dalla propria potenza , perciocchè tut te le coſe riceve , nè prende maiper alcun modo, alcuna forma a queſte fimile , e prova eller convenevole , che di tutte le ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi, comequelli che hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia , che vogliono di certo odore, cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun proprio odore e colore eziandio , vogliono in materie molli imprimere alcune pgure , los niuna mur' n. pro latino ) ignis , & aqua , & terra prima ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter ras, ergo illa initia , ut è Greco vertam , elementa dicuntur ; è qui bus aer , & ignis movendi vim habent & efficiendi ; reliquæ par tes accipiendi & quafi patiendi, aquam dico & terram . a ) Contra Mathematicos. ( b ) Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra dixi diſſimiles , Ariſtoteles quoddameſſe rebatur . ( 6 ) Sed Salicetam putant oinnibus fine ulla fpecie , atque carentem omni illa qualitate o ... materiam quandam ex qua omnia eſptela , atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere pofito ( 14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in quelle , ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe aggiunge Placone , che Ariſtotele in una de finizione riduce , dicendo che la materia non è alcuna di quelle co fe , di cui l'ente fi determina , e tra l'altre coſe annovera la qua lica , e la quantità , che par Cicerone ridurre alla ſola qualità ; ma che l'idea del corpo , e della materia foffero diverſe ſecon do gli antichi , lo dimoſtrano le diverſe parole , con cui l'eſpri mevano , chiamando la materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome , dice Platone nel Sofiſta , dalla cofa diverſo , introdu ce veramente due coſe . La materia dunque, non eſſendo il corpo , ella era incorporea , ed incorporea la chiama in molti luoghi Sefto Empirico , e Plotino , la cui autorità qui è tanto più for te , quanto che egli ſteſo col nome d'incorporeo , non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo fpirituale . Stobeo ( a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non tanto , perchè manchi degl'intervalli del corpo , o delle tre dimenſioni , quanto perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore , gravità , leggerezza, ed ogni altra qualità , e quantità . La materia pud ( b ) in tutti i modi mutarfi , ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che poſsono all' infinito partir li, e dividerſi , nulla eſſendo di minimo in natura , che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con intervalli , che all'infinito ſi poſſono dividere , e cosi' movendoſi quella forza , cheab bian detta qualità ( cioè il corpo ) e di qud , e di là verſando per fano , che tutta affatto la materia fi muti , efi faccian le coſe, che chix miam quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il mondo , fuori di cui non v'è alcuna parte di materia , nè abas cun corpo . Quante coſe raduna Cicerone in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della materia , eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli , che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime , ed indivi fibi ( a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap . 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ infinite lecari , atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam minimum quod dividi nequeat : quæ autem moveantur omnia intervallis moveri; quzintervalla item infinite dividi poſfint, & cum ita moveatur il la vis , quam qualitatem effe diximus , & cum fic ultro citroque verfetur : & materiam ipfam totam penitus commutari putant , & ita effici quæ appellant qualia , e quibus in omninatura cohærente , & confirmata cum omnibus fuis partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque corpus . ( 15 ) Ibili . Con la coerenza delle parti della materia , Cicerone eſclu de il vuoto negato da tutti , da Talece fino a Platone , onde dif ſe Empedocle: Nulla di vuoto vė , nulla che abbondi. Accenna pur Cicerone le leggi coſtanti che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli , i quali all' infinito ſi poffon dividere , non applica egli le leggi del moto a' corpi minimi come a'fenfibili ? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente , e nella quale v'è una ragione per fetta , e la ſteſsa fempiterna , nulla effendovi di più forteche poſsa diſtruggerla , e la steſſadirfi mente , ſapienza perfetta , e chiamarfi Dio, ed eſer .quafi certaprudenza di tutte le coſe , cheprovede alle coſe celefti , ed a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio degli antichi Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le parti del mondo , ſe egli era il ſenſo , la ragione perfetta, la ſapienza , la providenza che reg gea queſte parti , era egli altro che una modificazione della forza e della materia , giacchè non v'era forza ſenza materia , nè materia fenza forza , e non era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di ragione ? Qual relazione ha que fto Dio al noſtro , che è un ente ſingolariſtimo in sè, e fepa rato non per preciſion di ragione , ma realmente dalla forza e dalla materia , della quale egli è il Creatore ? Alle volte lochiamiamo ( b ) neceſſità , perchè null' altro pud farſi , ſe non ciò che da lei è coſtituito nella quafi fatale , e immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno ; alle volte poi lo chiamiamo fortu na , la qual fa molte coſe improvvife , nè da noi penſate per l'oſcuri. tà , ed ignoranza delle cagioni ; ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario , o ſenza libertà ; ecco diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe ; ecco come per la noſtra igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione , e le conſeguenze delle ( a ) Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ natura ſentiente teneantur , in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem piterna : nihil enim valentius eſſe a quo intereat , quam vim ani mam effe dicunt mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam quem Deum appellant, omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem cæleftia maxime dein de in terris , eaque pertinent ad homines . 16 ) Quam interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at que ab ea conftitutum fit inter qual fatalem , &immutabilem conti nuationem ordinis fempiterni ; nonnunquam quidem eandem fortu nam , quod efficiat multa improviſa hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum , ( 16 ) delle cagioni , e degli effetti loro . In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l' eternità , l' animazione , la divinità del mondo , e l'immutabilità del Fato , le quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio . Comparando il trattato d' Ilide , e d' Ogride di Plutarco col paſſo di Cicerone , non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi eſſenziali non era diverſa dalla Greca , ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne' ſimboli . La materia , di cui parla Cicerone , era Ilide , la quale in ogni coſa potea tramu . tarſi, e di tutte le coſe eſer capace , della luce , delle tenebre , del giorno, della notte, della vita , della morte , del principio , e del fi ne . La forza è Oſiride , la cui veſte ſi facea ſenza ombra , e ſenza varietà , d'un color ſemplice , e rilucente ; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo , intefo , puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro . Riſultava queſti dall'accoppiamento d'Ilde , e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura , rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5 ; per cui ſi chiamava con la voce Pente , da cui deriva Panta, o l'Univerſo , che gli Egizi penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio , nel che, come egli dice , s'accordava Ma netone Sebenita con Ecateo Abderita . Diodoro di Sicilia nel principio della ſua Storia , ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo , ſul principio del le coſe , ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot , che è il Mercurio degli Egizj , quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla formazione della Luna , delle Stelle , degli Elementi . La Teologia miſtica dei Fenici , che dagli Ebrei , ſecondo Euſebio ed altri Padri , ſi preſe , reftd in guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed introduſſero poi l'arte fice o l'amore , per opra del quale ordinarono il caos , é fabbrica rono il mondo . Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto canto del caos vetufto , E come agli elementi , e come al Cielo Origin deffe, ed alla vaſta terra , E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio . Il caos era la materia , l'amore , o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi . La ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto indeterminata , la ſciava infeparata la materia da Dio , e dai compoſti , ed era molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include eſſenzialmente le creature , nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 ܗܳ ana ( 17 ) analogia molto lontana al Creatore . Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora , di Senofane, e di Parmenide , e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone . Pittagora e Platone ( a ) giudicano , che il mondo ſia ſtato fatto da Dio : dunque le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante , egli imparò ciò da Pitta gora , che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo , anzi dal pro prio maeſtro ( 6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto , che in tut ta l'eternità Giove , il tempo , e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la cagione di tutte le coſe , e gli ſi dia ſomma pruden za , e fomma ſapienza , egli non ſarà mai che la forza , e l'amore che eguaglieraffi al tempo , e alla terra ; vi ſi aggiunga , che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta Tellure, ( c ) non altro mai ſi concluderà , ſe non che prima la forza , e l'amo re temperaffe, digeriſſe , ed ornaſſe quella mole indigeſta , che chiamavali terra . Pittagora generò il mondo dal foco , e a guiſa di foco ſotti liſſimo ( d ) Iparſo, e rinchiuſo nel mondo , volea Placone , che foffe Dio . L'ornamento , ( e ) l'unione , l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il mondo, e diffe egli , che il mondo viſibile era Dio . Stimò il primo , dice Cicerone ( f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo , e per la mente da cui gli animi noftri ſono tratti , ne vide per la detrazione di que fti diſtaccarſi , e ſquarciarſi Dio , e farſi miſera una parte di lui , mentre queſti ſoffrivano. Dio dunque era il mondo , e l'anime era no parti di Dio , effetto della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo di Locri lo dice . Virgilio eſpreſſe il ſentimento di Cicerone nelle Georgiche. * Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo , che Dio Va per tutte le terre, e tutti i mari , E pel profondo Ciel ; quindi gli armenti, E le pecore , e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra , che da se rimove La tenue vita allorchè naſce . Tomo II. E nell ( a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374. Franc. Edit. Vechel . ( 6 ) Laert. (C ) S. Clem . Aleſs. ( d ) San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. ( e) Plut,plac.lib.2 . ( 1) De Natura Deor. I. 1 . Elle apibus partem divinæ mentis , & hauſtus Æthereos dixere : Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum . Hinc pecudes , armenta , viros , genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas . 1.4. Georg. . C ( 18 ) E nell' Eneide , * Nel principio le terre , il Cielo , e i campi Liquidi, e della Luna lo fplendente Globo , e gli aſtri Titanj , interno fpirco Alimenta , ed infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran corpo ; quindi E di pecore , e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita , e'l mar che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta . no , Pittagora fu l'autor dell'idee ; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe igeneri, e le ſpecie , ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe . Così ravviſava tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti ( 6 ) conſide rò , che la materia era mutabile , alterabile , Auflibile in ogni gui fa , ma che non vi ſono ſpecie , che s'accreſcano , o che perifca e perciò gli Uomini oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono eterne ed immutabili . La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri convengono all'Uomo , al cavallo , alla giuſtizia , al la caſa , e a che so io ; dunque i numeri ſono univerſali , perchè atti alla rappreſentazione de' molti. L'oſſervazione è d'Ariſtotele , ( c ) e molto più la ſtende Poſſidonio , riferito da Seſto Empirico , ( d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le coſe , e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia , nè alcuna delle tre dimenſioni del corpo , nè ciò che riſulta da corpi uniti , coerenti , diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che appartiene alla vita , ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili per i numeri . Pitragora dunque ſi ſervì del numero , per dar un ſimbolo dei due principj delle coſe, la forza , e la materia , di cui chiamò l'una l'uno , e l'altra il due . L'unità , diceva egli , è Dio , ( e ) ed anche il bene che è di natura * Principio Coelum , ac terras camposque liquentes Lucentemque globum Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit : totamque infuſa per artus Mens agitat molem , & magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus vitæque volantum , Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus . ( a ) Plut. plac. Phil. l. 1. ( 6 ) Plut. ib . l. 1. c.9 . ( c ) Metaf . lib . 10. ( d ) Contra Logicos . ( e ) Plut. plac . Phil. lib. 2 . ( 19 ) un ſolo , e lo ſteſso intelletto , il due infinito , e genio triſto , d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia . Chiamava uno la forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile ; chiamava due la materia , perchè ella è fempre divil bile in due , Di queſti due principj, uno è quello del bene , e l'altro del male, già l'ha inſinuato Plutarco. Archelao Veſcovo ( a ) di Cara dice ; Širiano introduce la dualità contraria a ſe ſteffa , la quale egli preſe da Pittagora , ſiccome tutti gli altri ſettatori di tak dogma, ; quali difendono la dualità declinando dalla via retta della ſcrittura . Tutte in ſommal'ereſie , che vi ſono nel compendio della Filo fofia di Cicerone , che vuol dir l'eternità , l'animazione , la divis nità del mondo , Piccagora le raccolfe in un ſiſtema , ed in vano fi dice, che egli nulla fcriveſſe . Liſide diſcepolo ( b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco , dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti, e dimoſtra che delle coſe , le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora , non ve n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice , che agli Uomini oppreſli da tale calamitat, ( cioè dalla morte di Piccagora ) : manca lo ſciens di lui , la quale arcana e recondita cuſtodida in petto , nè vi reftas fono che certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora ; ed aggiunge ,che dopo la morte di lui „ Lilide , Archippo ,ed altri furono folleciti , chei penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero , onde eutti gli arcani della ſua Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta ,perchè i Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora , in Cicerone, in Plutarco , in Laer zio : ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora ,.co me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla ; e non è manifeſto che egli la riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico ; lo ſteſſo Porfirio , che dice nulla aver fcric to Pittagora , come poi ebbe fronte d'afferire , che egli avea ſcrit to fu l'ente , il che Euſebio ( c ) riferiſce ? Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio , Pe ritione , Timeo di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio ( d ) , che Simplicio confonde col giovine , fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo , i quali s'eſtendono a cutte le cole , potendoſi d' ognuna cercar la ( a ) Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ , atque Latinæ . Archelai Epiſcopi acta . ( 6 ) Galeo . ( c ) Propof. Evang, lalg . (d ) Patrizia diſcuſ, Peripa,1 ( 20 ) la ſoſtanza , la quantità, la qualità , l'azione , e gli altri acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica , in cui copiò il trattato di Archita . Lo Stanlejo , che pretende di numerare tutte le donne Pitcago riche , omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre ,le da lei trafse Ariftotele ( a ) tutta l'idea della ſua metafiſica . Lo prova con molta erudizione il Patrizio , allegando la definizio ne della fapienza di Peritione , e comparandola con quella di Ariſtotele. Laſapienza , diceva ella , verſa in tutt'i generi degli en ti , perchè verſa intorno tutti gli enti , come la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la ſcienza che contem pla l'ente , in quanto ente , e le coſe che per sè gli convengono . Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo : delle coſe che accadono agli enti , alcune univerſalmente accadono a tutti , alcu ne altre a molti di loro , e certe ad un ſolo , ma riguardar univerſal mente , e contemplar tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza . Que. fte ed altre cole che ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione , e nettezza di Peritione , e nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche , ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo tuttavia meravigliarſene , di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la Marcheſa di Chatelet , ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane , queſtione molto più oſcura di quella dell'ente . Timeo di Locri nel ſuo ragionamento ſull'anima del mondo , in queſta univerlità di natura , dice egli , v'è un certo che, il qual rimane , ed è l intelligibile eſemplare delle coſe , che ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe ſingolari , co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea , ed è dalla mente compre fo . Nell'univerſità dunque delle coſe , che vuol dir dentro le coſe o in cutti i compoſti v'è quel non ſo che , che mai non cangia , e può dalla mente eſtrarli qual idolo . Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo diſsegnarono , al dir di Platone , nell'Omero , ed Eſiodo ſotto l'imagine dell'Oceano , e di Te ti , e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici , ma ſolo di quelle , che nè col ſenſo , né coll' immaginazione ſi ravviſa no , e queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica , e l'Italica . Epicarmo ſommo Poeta , come Omero al dir di Platone , so all' una grandezza d'un cubito ( diceva egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera miſura ; gli Uomini pa rimen ( a ) Patriz. l . 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. ( 6) Ragion, ſu l'anima del Mondo . ( 21 ) rimente conſidera or accrefcere , ed or decreſcere , tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo . ( a ) Jeri tu fofti un altro , io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo , e fieno Di nuovo gli altri , che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo , come la ragion lo predica . Per l'Intelligibile così parlo : A. L'arte tibicinal è qualche coſa ? B. Perchè no . A. Forſe è l' Uom queſta tal arte ? B. Non mai A. Vediam , che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom ; non dico il vero ? A. Il ver ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene ? Io voglio dir che il bene Una coſa pur ſia , ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono ; Il Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore , e ceſtor quegli che a teſſere Impararo , e così d'ogni altro l'arte Certamente non è , ma ben l'artefice . Nel dir Epicarmo , che il bene è una coſa come l'arte , e che nè il buono , nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna a far le aſtrazioni della mente , la qual avendo comparato tra loro molti Uomini che fien buoni , molti tibicini , molti falcatori e teſtori , ne ha compoſto quell'idea , che poi convie ne a tutti . Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in tutti i tem pi , ed in tutti i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo , ed è principio del diſcorſo , o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte , le quali nel raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli , le fanno comprendere la ragione. Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe , ed eccoci a ' Filolofi più vicini a Socrate, ed indi a Platone , i qua li a poco preffo ſi trasfuſero le ſtelle idee non diverſificate , che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle . Senofane, dice Euſebio , e quelli ( 6 ) che lo ſeguirono , moſfero così con ( a ) Laerzio Vita di Platone . ( 6 ) Lib. 11. cap. 1. Prep. Evang. ( 22 ) 1 . 1 contenzioſe ragioni , che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne , che ajuto . Pittagora volea che il mondo foffe eterno , benst come gli altri Filoſofi , quanto alla materia , ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato , ma eterno , 'aderendo ad Ocello Lucano , che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele ; ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era ; Pittagora avea pofti per principj l'uno , e il due , Senofane riduſſe tutto all'uno , Senofane", dice Cicerone ( a ) , è più antico di Anafagora ; vuel che uno fieno tutte le coſe , nè queſto uno è mutabile , ed è Dio non mai nato , e ſempiter no , e di conglobata figura . Seſto Empirico ( b ) parlando per bocca di Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa , che Dio eſiſteva in tutte le coſe , e che era di figura sfe rica , e di ragione dotato . Ad Empirico ſi conforma Laerzio ( c ) dicendo , che ſecondo Senofane , Dio nella materia tutto udiva tutto vedeva , ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe inſieme erano la prudenza , la mente , l'eternità . Io dimando, ſe nel far Dio fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva egli dall' opinione che Cicerone eſpoſe nel compendio della Filoſofia ? Non v'è che la figura sferica che gli aſſegna Senofane , e per cui non infinito , ma finito lo rende ; ma chi fa , fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica , comela più ſemplice , intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le perfezioni ? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo , e ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina . Non reſtandoci che conghietture , io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar Cicerone con ſe ſteſfo , il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente all'infinito . Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema , perchè ſup poſta l'eternità della materia cost argomentava : ( d ) Eterno è cid che è , se è eterno è infinito , fe infinito uno , ſe uno fimile a sèl . Di nuovo ſe l' uno è eterno e ſimile , egli è ancora immobile , fe immobile non ſi trasfigura per poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri . Ariſtocele elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento ; il principale è ; da ciò che il mondo è ecerno , infini to , uno , non ne fiegue che egli lia effettivamente immobile , per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a cont ( a ) Queſt. Acad. lib. 1 . ( 6 ) Lib . 1. dell'ipotipoſi . ( c ) Laert. lib. 9. idí Arift. contra Xenof, Zenon. & Gorgiam . eſſendo per i 2 ( 23 ) a concepire, che il moto ſia eterno come la materia . Coloro che ammettevano il caos eterno , davano eterno il moto , ſebben ſen za regola o forma . Non ſi cerca qui però , ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane , ma ſolo qual foſſe la ſua ſentenza , e coſa egli ne dedu ceſse . Come poi accordarla colla ſua fifica? Ammetteva egli per principj ( a ) delle coſe naturali la terra , il foco , l'aria , e l' acqua , e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe , perchè, ſecondo lui , conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 ) eſalazione in una nuvola ignita , e la Luna in una nuvola coſtipata . Manon era poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta contradizione . Poneva egli de' Soli innumerabili , e la Lu na abitata . I ſoli innumerabili erano quelli de' Pitcagorici , e di Orfeo ( C ) ; ma come abitar una nuvola ? La terra ( d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto , era coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro avea inventata o propagata per cutta la Grecia . Cor revano allora tali dottrine, e Senofane , in Colofone, in Atene, in Sicilia , e in Elea le avea ſtudiate ; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna , avea Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a lette corde determinato il pu mero , e le diſtanze de' Pianeti ; non è poſſibile , che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie ; non erano dunque , che idoli fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più badare al color, che alla coſa . La grande difficoltà di Senofane era nel combinare il fiſico col metafiſico , o lo ſtato ideale con l'obiettivo . Avea già ſtabilito Pictagora , l'intelletto altro non eſſer che ( e ) mente , ſcienza , opi nione , ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la mente per l'uno , ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza ; diſegnava la ſcienza pel due , poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra ; diſsegnava l'opinione per il tre , poichè nel trar la conſeguenza da un principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due , in uno de'quali v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa . I Pit 3 ta ( a ) Laert. vit. di Xen. Plut. plac. ( 6) Plutar. lib .... Origenes Philoſ. ( c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee . Plutar. plac. de Fil. lib.i. ( d) Gregorii Aſtronomici Pref. ( c ) Plutar. lib. 1. de plac. ( 24 ) tagorici furono tutti dogmatici , o per dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro , o perchè pareſſe loro , che la fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza , come accade nell' opinione milta dell' una , e dell' altra . Senofane fu il primo ad introdur il dubbio nella Filoſofia, e quindi l'opinione. ( a ) Chiaro l'Uomo non ſa , nè ſaprà mai Degli Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur , ſiaſi perfetto Pur quanto ei dice , tuttavia non fallo , E v'è opinion in tutte queſte coſe . Da queſti verſi Seſto Empirico inferiſce , che Senofane non to glica la comprenſione, ma ſolamente quella che dalla ſcienza de riva ; nel dire in tutte queſte coſe d'è opinione accenna il proba bile , e l'opinabile , onde conclude che Senofane deve porſi tra coloro , che negano darſi criterio della verità , e non tra gli ac cattalecici , che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere . L'autorità di Selto Empirico è d'un gran peſo , ove ſi tratta di determinare i gradi della cognizione , ma non è da ſprezzar fi ciò che dice Cicerone ( b ) : Senofane e Parmenide quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati d'ignoranza coloro , che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno . Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza , ed ogni opinione . Senofane ſi diſtinſe per la Logica , ( c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio , (d ) egli fu udito da Protagora , e da Nef ſa ; Metrodoro udi Nefra ; Diogene Metrodoro ; Anaſarco Diogene, e coſtui Pirro d' Elea , dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia , il qual diceva : Non v'è nulla ; ,fe anche vi foſe qualche coſa , non ſi potrebbe comprendere , e ſe compren dere , non mai ſpiegare con le parole . Come inoltrarſi dopo tale raf finamento di dubbj ? Tra i diſcepoli però di Senofane il più illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave , e vene rabile e di una profondità al tutto generoſa , il che vuol dire, ſe mal non m'appoogo , che egli nella diſputa non era oſtinato , ſu perbo , rozzo ed agreſte, come Ariſtotele ( e ) dipinge Senofane è Meliſſo . Socrate in quel Dialogo , ed in altri s'aſtiene quanto pud ( a) Xenoph. ap . Seſt. Emp, adv. Matem. ( 6 ) Queſt. Acad. l . 2. ic ) Eufeb.1.6 . C. 19. ( d ) Id. l . 12, c . 7. ( c ) Metaf. lib. ... ( 25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la rive renza che ad eſſo portava . Euſebio ( a ) caratterizza la dottrina di Parmenide , qual via contraria a quella di Senofane . Ermia però , dice Parmenide in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile , e ſempre ſimile a ſe ſtero . Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe ſempiterno , ed immobile . Stobeo riferiſce , che Senofane, Parmenide, e Meliſſo colſero affatto la generazio ne , e la corruzione. In che dunque diſconvenia Parmenide da Se nofane , ( 6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo , dicendo : volea Par menide, che tutto foſe uno ſecondo la ragione , e Meliſo ſecondo la materia , e da queſti due differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno , nè l'altro . Eſer uno ſecondo la materia , è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa . Ed in fatti una è la materia , fe in tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea , qual Cicerone la deſcrit ſe nel compendio della filoſofia , e l'ammiſero Platone , ed Ariſto tele . Cicerone rammemora ancora la forza , utrumque in utroque , ma conſiderando forſe Meliſſo , che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti ſucceſſivamente alla materia , non mai erano continuamente cangiando , gli eſcluſe dall'eſſenza , e in con ſeguenza dall'unità della materia ; ma ſe una era eſſenzialmente la materia , uno era il mondo o l'univerſo , che da eſſa riſultava e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile , eterno , ed immutabile . Malgrado dunque le continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti , e le continue diſſoluzioni de'tutti nelle lor parti , malgrado le altera zioni , le generazioni, e le corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva uno , e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue agitazioni che foffre da innumerabili flutti . Se tal era la ſentenza di Meliſo, ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani , perchè la materia , fe condo lo ſteſſo Cicerone , non può aver coerenza , e in conſeguen Tomo II. d za ( a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. ( 6 ) Parmenides unum fecundum rationem attigiffe videtur , Meliſſus vero fecundum materiam , quare id & ille quidem finitum , hic ve ro infinitum ait effe , Xenophanes autem quando prior iſtis unum poſuerat ( nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil tamen clarum dixit , & neutrius eorum naturam attigiſſe videtur , ſed ad folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum . Metaf, Arift. l . 1 . cap . 5. ediz, Parigi ( 20 ) 1 1 1 4 > za unità , ſe non è ritenuta da qualche forza , e la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa , non è me no eſſenziale al mondo , che alla materia . Ragionava dunque più ſottilmente Parmenide ; dalla materia , e dalla forza , dalla ſoſtanza , e dall'accidente , avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo . Il P. Maſtrio quali tre mille anni dopo ebbe una fimile idea , poichè egli vuole che l'en te in quanto tale preſcinda dal finito , e dall'infinito , da Dio , e dalle creature e la ſentenza è ſeguita da tutti gli Scotiſti . Qualunque ella fiali , certo è che come quella di Parmenide curta opera della ragione più raffinata , e che ben diſſe Arifto tele , che l'uno di Parmenide era tutto ſecondo la ragione, non che la ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe , ma egli nel fondarla tutta ſulla materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo . Da Parmenide , e da Meliſſo ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità dell'ente e dell'uno , s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con cui la deduſſe. Ariſtotele ( a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi ca , par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la generazione' , e la generazione , e la corruzione, i quali come ben dicano in altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici , poichè l'efervi alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della Fiſica. Non condanna dunque Parme nide , e Meliffo , perchè aveſſero tratcato dell'unità , ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano fatto un punto di Fiſica , dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe eterne , e immuta bili , onde credendo che il mondo , e il Cielo lo foffero , parte ne trattò nella ſteſſa metafiſica , e parte ne' libri del Cielo; na chi può credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze , avendo aſſegnati due principi delle generazioni, il foco , e la terra ? e determinato che un foco ſottiliſſimo , o lia l'etere cingeſſe gli altri , e che movendoſi in vortice raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo , e le coſe contenute, ciò che è il principio de' più moderni Filoſofi. ( 6 ) Egli componeva il mondo di molte ghirlande tra loro teſſüste , una rara , e l'altra' denfa ; fra le ghirlan de ne poneva dell'altre meſcolate di tenebre , e di luce , e volea che la coſa la qual a guiſa di muro le circondava forje foda , e maliccia . Queſte ghirlande, e corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi de'genj. Quelli ( a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1 , ( b ) Plut, lib. 2. cap. 7 . ( 17 ) ( * ) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge , e fola ſpucali Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali , E il Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere . Accoppiando il paffo di Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle , raffigurando Parinenide nella luce le fiffe , e nelle tenebre i Pianeti ; chi sa, che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo , perchè tutto etereo , il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento del mondo viſibile ? il moto della Luna , dice Plutarco , ( a ) ol'impero con cui gira , l'impediſce di cadere in quella guiſa , che la fionda torta in giro dalbraccio impediſce la caduta del faffo . Vuol Favorino, che Parmenide primo ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina , e lo fiegue la fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo . Plinio ne attribuiſce la ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto , col ſiſtema cele fte ; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella , più che gli altri Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra . Filolao la facea gira r in cerchio intorno alSole , ed Ecfan to volea , che movendoſinon partiſſe dal proprio luogo , ma fer mata a guiſa di ruota , ſopra l'aſſe proprio intorno quello giraffe da Occidente in Oriente ; non (6 ) aderiva Parmenide , nè a Filo lao , nè ad Ecfanto , ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente lontana dalCielo , la ponea in equilibrio , e voleva che ſenza eſſer fpinta da alcuna forza a queſto , o quell'altro verſo , ella fi ſquaſfaſe bensì , ma non ſi moveſſe . Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj fol ftiziali , indizio manifeſto , che egli avea proficcato delle teorie di Anaſimandro , di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era : il ſiſtema aſtronomico di Parmenide : nel fiſico egli divinizzò la guerra , la difcordia , l'amore , e diffe : Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore . * Αιθέριον μεν γαρ σφεμένος πόντον δε διώκει , Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις Η'ελία ακαμαντος , ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις . Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και συγένεσι δε πάντες . Plut. de Ifide , & Ofiride . ( a ) De facie Lunæ . 16 ) Plut,deplac . Phil. lib. 3. d 2 Cosi ( 28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio , ed Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina , e fabbrica le coſe nella commedia degli uccelli , gli altri Dei non erano, che gli elementi già di vinizzati da Parmenide. ( a ) Empedocle l' emulò , benchè egli quattro elementi poneſse , e due Parmenide , il foco , e la ter ra , principali architetti delle corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati , ſi cangiano in aria , ed in acqua . I principj, ſecondo Ariſtotele , devono eſser tra loro contrari , e nulla v'è di più contrario , che il caldo , e il freddo , a quali corriſpondono il raro , ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto ,, e la quiete . Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta . Le mu je Jadi, ele Siciliane, dice , a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura d'annodare le coſe inſieme , in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno , e ſi tenga colla diſcordia , e colla concordia , perchè diſcordando ( 6 ) fem pre s'accoſta egli come dicono le più forti muſe , ma le più molli non hanno voluto , che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che l'Univerſo ſia uno , ed amica per Venere, altra volta molte , e con sè per ſeco diſcordanſi con certa conteſa . S'io non m'in ganno , qui s'allude all'amicizia , e alla diſcordia , o all’amore , e alla lite, che Parmenide poſe come principj efficienti delle genera zioni , e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle Poeſie di Par menide, e di Empedocle , non ifpiegarono con la lite, e con l'ami cizia , ſe non alcunifenomeni particolari , come chi dalſiſtemadel Newtono , il quale poſe per principio univerſale l’ attrazione ; al tri ſolo la prendeſse per iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità , la gravità ec . fi valeſse d'altro prin cipio . Non può dirſi dunque , che Parmenide non foſse eccellente Fi fico , ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò tanti ſeco li dopo ; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura , come Lucre zio , ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da Seſto Empirico . ( c ) Mi portano i deſtrier , e quant'io voglio Traſcorrono ; che già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio ; via Di cui m'aveano ammaeſtrato appieno Gľ ( a ) Cicerone .... 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una parte di erta fugge da un' altra parte , in quanto ella è attratta con più forza da un altro corpo ; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. ( ) I verli ſono in Seſto Empirico contra Logicos. ( 29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla fama. Correndo il cocchio ſquaſsano , cui Duce Le fanciulle precedono , ma l'aſſe Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti . Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi , e della notte abbandonando Le café tenebroſe oltrepaſsarle , Nella via della luce al fine entraro ; Da i ſpiragli rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte , e della luce ; L'une e l'altre circonda un arco immenſo , E il pavimento tutto n'è di marmo ; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi, L'ultrice Dea , che premj , e pene imparte . Con parole molcendola ottennero Le fanciulle , che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva . L'adattata chiave Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe , mentre l'affe Si rivolgeva , e l'orbita del cocchio , Facilmente reggean l'alme fanciulle , A cui ben pronti il cocchio , ed i cavalli Ubbidiro . La Dea liera m’accolfe , E per la deſtra preſomi usd meco Tali parole . Dio ti ſalvi , o figlio Dilecto figlio, che alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di reggere il divino Cocchio , nè rea fortuna ti conduſse In tal via . Non è trita a paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi , onde ti laſcino le leggi Inveſtigar della natura , in grembo Di veritade , che a ubbidire è proſta , E de' mortali tu fuggir potrai Le opinion , di cui non vera fede , Ma tu rimovi il tuo penſier da queſta Via di ricerca , nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai ( 30 ) Ai dogmi che ragion non prova . Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error corregge . Seſto Empirico , comentando queſti verſi oſſerva , che Parmeni de chiama gli appetiti dell'animo i cavalli , la ragione il genio , o demone , e gli occhi le fanciulle Eliadi ; tutto il reſto è fancaf ma poetico , e, comeSenofane , egli penſava intorno alla ricer ca del vero ; concludendo il giudizio appartener alla ragione , e non ai ſenſi , ſenza eccettuare i due delladifciplina , o l'udi to , e la viſta ; dogma che fu poi quello dell'accademia , come a lungo Cicerone lo prova . I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino l' allegoria all' imitazione , e all' armonia , foddisfanno in un tempo ſtesſo , al fenſo, alla fantaſia , e all'incellecco , ono de queſte potenze coſpirando inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase , a preſtano ſcambievolmente le loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni , non ſvaniſca l'idea , e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino , ma ſervino alla mente di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è , che lo ſpec chio non abbia troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente , ed affortiglino il raggio , che turbaco non ci laſci diſcernere , dove è l'oggetto. Alla proſa dunque , ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze della anima . Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come Pittagora dall'eternità , divinità , animazione del mondo racco glieſe l'idee ; le divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto , e ne faceſſero degli enti a parte ; come Senofane, il primo ricavaſſe la concluſione dell'ente uno ed im-. mobile , come Parmenide contemplaſse ſecondo la ragione queſt' idea , e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane , diſtinguendo ľ opinabile dal vero . Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la maniera di penſar di Pictagora , maniera falla , e pienamente diſtrutta da Padri, che molto al di là del IV . fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora , ma con Platone , di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel Dialogo la dottrina dell'idee , dell'uno immobile , e dello ſcetticismo , perchè egli vi parla , e dell'idee , e dell'uno , e tutto proponendo per iporeli nulla conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca , che favelliamo dello ſtile Platonico in generale . Profonda e delicata cognizione della lingua Greca ſi ricerca per ( 31 ) e per ben intendere la bellezza , la forza , e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone ; l' Abbate Fraguier , che in tutto il cor ſo della ſua vita , l'avea con un ſpirito molto colto nella Poeſia Greca , e Latina , ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato , ben eſaminando il ſuo ſtile , ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico , il Lirico , ed il Dramatico . Com parava egli la profopopea , colla quale Dio nel Timeo ra giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle narrazioni dello ſteíſo Timeo , e in alcune del la Repubblica , la magnificenza Epica dell'Iliade . Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di quel Dialogo intito lato col ſuo nome , ci dice , che un giovane, e Lepido Archilo co regnava in Atene ; allude egli a Platone , che irritato con tro i Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro , ma i ſali di Platone non erano aſpri, ed ulcerofi , come quelli di Archiloco , e di Ariſtofane , ma eſtratti dallo ſteſſo mare , in cui nacque Venere. Così Plut arco dice di Menandro , e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone , che tut to comicamente condiſce con le grazie , e con le luſinghe della Poeſia di Omero , ed ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti , che non mai gli affronta con quell' ingiurie , colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille . L' ironia di Socrate a ' è la chiave , ed ella è così ben maneggiata , che da alcuni ſi crede nel Menedemo ( a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano . L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici, di cui teſſuta è l'anima del mondo ; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti; allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico , e quanto diſſe dell'Iſola Atlantica , e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti; tutto vi è finto per preparar l'idea della Repubblica , il cui modello cerca Platone nella fabbrica ſteſſa del mondo , ed ordiſce così la men zogna poetica, che molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il Ciro di Senofonte . Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle frafi poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe , e politiche, e morali, e metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte , o dalla muſica, o dall'altro nomia, o dalla geometria ; tre ſcienze ( 6 ) nelle quali era fo mamente dorto al ſuo tempo . Certo è , che ſe giuſtamente non retro s'ap ( a ) Cicer, lib. 3. Acad. ( 6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone . ( 32 ) s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico , li corre riſchio di non intender mai , nè le parti , nè il tucco di un certo Dialogo , e ne vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia con Parmenide , ma molto egli l'accrebbe col Dialogo , modo più naturale per iftrui re , più comodo per illuminare , adoprato da Socrate , da Seno fonte , da Stilfone, daEuclide , da Glaucone , e al dire d'Ariſto tele da un certo Aleffamene inventato . S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini , come ne? drami s'imitano le azioni . Platone che voleva emular in tutto la poeſia di Omero , ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi , in quella guiſa che Omero avea imitate le azionidegli Eroi . Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio , è la queſtione al Dialogo , e la digreffione, e' nell'una , e nell'altra riuſcì egregiamente Plato ne . Non v'è Tragedia antica , che meglio eſprima il principio , la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga , diſcuta , termini la queſtione , in cui ſebben nulla concluda , però gli bafta d'aver conſumate le ragioni dall' una , e dall'altra parte. Nelle digreffioni comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione , poi ſpazia o nella Geometria nella muſica , od in altra ſcienza a fuo talento , e ſenza che il lettore fe ne accorga , il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti , ma per gradi . Anche in cid imitd Omero , che al dir del Gravina ( a ) traſcorre tallora alſoverchio , tallora moſtra ď abbandonare , ma poi per altra ſtrada ſoccorre . Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori , e delle ſentenze ; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride, l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo , e laſcivo ; il carattere di Neftore è trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate , ove queſto conſiglia , ma Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della vita , e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava . I caratteri de' Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine , e ſen za diſcipliita s'avanzano come le Gru ſchiamazzando , e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza , e dal consiglio, e fino da Minerva . Molti . pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far ragionare Socrate , Timeo , Parmenide, l'Oſpite Arepieſe , e l' Eleatico , due perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia , a Traſimaco a Claride., a . Protagora , & Eucidemo , ciò che non approva e vuol rifiutare , ma coſtoro non avvertono , che nel ( 2 ) Ragion Poetica . ( 33 ) nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo Dialogiſta , e talor peffi moFiloſofo , perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in diverſiDialoghi , o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe , che non ſi può raccoglierle , non più che le membra di Penteo ( a ) diſunite e sbranate. Tratto di cutte le parti della Filoſofia, or Logica , or Fiſica, or Metafiſica, accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia , all'ottica , ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni , tutto propoſe ſenza nulla concludere. Cicerone lo conſidera come il primo degli Accademici, o quel che diede ad Ar ceſilao , ed indi a Carneade il metodo di dubitare . Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an cora più gravi , come in quelle dell'anima,del mondo , di Dio ; nè a ciò Cicerone ( 6) è contrario . Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne colla ſcola Eleacica , così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col Dialogo reſe più problematico . Confideriamolo adeſſo nelle fentenze , e principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità , e ſulla materia. S'è già dimoſtrato , che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee , ed ai numeri. Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee , econ duffe lo ſpirito alla cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della bellezza , e cosìfece del valore , della tem peranza, della ſcienza , e dell'altre virtù morali ed intellettuali , com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea della Repubblica , o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa la ragione. Credevå egli , che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali, fof ſe il metodo chela natura leguiva , allorchè procede dalle cagioniagli effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile , e più ſendibile nelle inſegnar le ſcienze , ſeguir l'ordine dello ſpirito , chealla cagionevi per l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro , che la ſin teſi, e l'analių , di cui l'una comincia dalle coſe generali , per difcen dere alle particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali ; l'uno e l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe , adoprò il metodo ſteſſo di comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. Cicerone riduce l'idea alla (c) terza parte della Filoſofia , che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavaſi dagli antichi , che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il giudizio nonfoſe ne fenſi , ma che la mente fore giudice delle coſe , ſtimandola ſola atta a di ſcopriril vero , perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della ſteſanas tura , o tal qual era , e queſto lo chiamavano idea già così nominata da Platone , e noi poſiamo ( conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie . Non erano perciò l'idee Platoniche , a ben comprenderle, che le fpe cie , eigeneri che noi facciamo , comparando ed altraendo , eche , Tom . II. ( a ) Eufeb.Prop.Evang. ( 6 ) De Natura Deorum . ( c ) Lib.1.Accad . 2 e come ( 34 ) 1 come ſi diffe , cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto va unificando per ſua natura . Una ſpiegazione sì facile , e breve dell'idee Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche , e queſto nome gli avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile . Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui tanto inferiore in ingegno , e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi fece capo , e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo antagoniſta , attaccandoſi alla parte più difficile , e più equivoca o alla quiſtionedell'idee , alle quali Preuſipo imitando .forſe il metodo di Platone dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate, ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di loro , Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo , ed al ſuo ſolito con brevica ed oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo , ed i ſuoi di i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni peripatetiche . S'elle ſon vere , non che verifimili , verifimile è pure che fin d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino , Porfirio coltivarono , e Jamblico , e Procloridul fero in regolato fiftema. S.Giuſtino , che avea più ſtudiatii Platoni ici , che Platone era perfuafo, che l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate , collocate con Dio nella sfera più alta . S. Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole , la Luna, egli altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo ipaſſi di S. Ireneo , di S. Bafilio e d'altri , i quali impugnarono l'idee ſeparate , che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la Religione Criſtia pa . Soſpetta il P. Balto , che Eufebio difendere l'idee Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza , e molto più l'anonimo Soci niano nel tuo Platonismo ſvelato , ove ſi confondono con l'idee di Platone , gli Eoni rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage , I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità , nè avendo forza di critica fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo , e di Jamblico , anziche abbadarea'ceſti di Platone , ne s ' avviſarono di ben pelare le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla toniche da Dio ; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create , e queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi , ne fece molti articoli , of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon rappreſentano a Dio ( 35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie , ma ancora gl'individui , col rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le veggiamo , ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su queſto punto il Dacier , che per difender malamen te Platone, cade non volendo in un errore . Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo , che le propoſero Pitcagora , ed Archira , pare che egli ancora come queſti ſentiſſe intorno la Divinità . S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora , Senofane e Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa , dice Ci cerone , ( a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio ; nel Timeo nega , che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi, ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio . Lo stesſo nel Timeo , e nelle leggi, dice eſſer Dio, il mondo , e gli altri e la terra , e gli animi , e gli altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori . Il Padre Arduino raccolſe tutti i paffi , ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero . Dio nel Timeo ſi chiama bensì il Padre , e l'artefice del mondo , ma non mai il Signore , il Sovrano ; ſi chiamava il mondo un Dio generato , il quale ba una perfetta ſomiglianza con Dio ; figliuolo , e figliuolo unico di Dio ; un Dio completo , un Dio generato da un altro Dio , un Dio felice , im magine del Diointelligibile , perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani doceano diGiove , per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe . Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino , e da cutii ſi raccoglie , che Placone non co noſceva Dio , che come principio intelligente , qual lo conobbe Pittagora , Senofane, Parmenide, e cant alori , a' quali può ben applicarſi il pallo di S. Paolo , in un ſenſo filoſofico , che cono ſcendo Dio , non come Dio l'onorarono ( non ſeparandolo affacco dal la materia , o , ponendolo ad eſsa coeterno . ) Pitcagora avea generato il mondo , e lo generarono i Fenici, Orfeo , ed Eliodo . A queſt'idea poetica , Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura , e dell'anima del mondo , e ne compofe il Timeo , nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella fabbrica del mon do , dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe nel Dialogo del Giuſto . Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad una Repubblica, in queſta v'è il Principe , che comanda ai Magiſtrati militari , e civili , e nel mondo v'è Dio , che col miniſtero degli Dei inferiori, compie , conſerva, ed ordina cuc te le coſe . S'è © e di lo Lei li i e lo i e ( a ) D: Natura Deorum lib. I. 3 ( 36 ) s'è gia dimoſtrato , che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità , neaſſegnavano il primo ſegno a Dio , in quanto a Dio , ed il ſecondo a Dio creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che s'av vicini a queſta dottrina . Teofilo ( a ) non ve la ritrovd altri menti dicendo , che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio , e la materia ingenita ; con che non venia a porre Dio , nè uno; nè ſolo . lo qui ſtenderò un lungo paſſo di Plutarco , perché fe 'ne giudichi . Il mondo , dice egli,è bensì ſtato fabbricato da Dio , perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni l'ottimo , ma la ſoſtanza , e la materia , della quale è ſtato formato , non eſſer mai nata , ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro , ed ubbidiente a ricever quell'ordine , e quella diſpoſizione , che fore in quanto ella potelle comportare a lui fimigliante , percbè il mondo non fu creato dinulla , ma di ciò che era privo , di bellezza , di leggiadria , e di perfezione , ſiccome la caſa , la veſte , la ſtatua, perciocchè tutte le cose , primache naſceſe il mondo , foffero confuſe , e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo , ſenza fora ma , ſenza regola , moſle da movimento a caſo , e ſenza ragione. Que sto altro non era ; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta , perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo , nè anima di coſa d'anima priva , nella maniera che noi vediamo , cbe il Maeſtro di muſica , e dell armonia , non fa egli la voce , bensì la voce acconcia , e il moto proporzionato ; così parimenti Dio non fece il corpo trattabile , e ſodo , nè l'anima atta a moverſi, ed in gannarſi, ma preſo l' uno , e l'altro principio , quello oſcuro e pienodi tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel convenevole ordinandoli ; e diſponendoli , e congiungendoli formd un animal beltiſſimo , e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da quella natura , come dice Platone , che abbraccio il tutto , ed è fondamento e nutrice di tutte le coſe che naſcono ; non dimeno la natura delp anima fu da Platone nel Filebo nominata infini to , il quale non riceve numero , nè proporzione , nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di ſoverchio , di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il dedurne , che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo , ma nuova la for ma , ( a ) Teophil. ad Autolicum 1.2 . Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem confitetur ingenitum , patrem præterea & conditorem hominum , at que deinde fubjicit , live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam , quæ fimul cum Deo prodiderit five extiterit ; verum fi Deus cen ſetur ingenitus , & materia perhibetur ingenita , jam nec amplius Deus conditor & creator eſt hominum etiam fecundum Platonicos , nec quod unus & folus ſit ab his vere demonftratur . nè il moto , ma 1 1 ( 37 ) má , ed in queſto Platone differiva da Ariftotele, il quale , come s'accennd , fece ad un tempo eterne , e la materia , e la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone , d' aver fuppofto , che la materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la poſe in quiete . Vuole egli ignorare , che affatto poetico foſſe il Timeo ; pure non è credibile ,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo , che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo forſe a Pittagora ; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti d'Egitto , iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide. , ſtempera in una taz za i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze , ne ſparge le reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi , che Timem ( a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica . In ſomma ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina Filoſofica poeticamente maſcherata , io ſon perſuaſo , che in Platone , comene Pictagorici , Dio vi s'introduca qual animadel mondo , o la ſteſſa mente , e ſapienza perfecta ſparſa per tutto ; allora perciò che dice Cicerone nella natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo ( b ) egli confonde Dio con la mate+ ria , la quale era incorporea , come ſi diffe , prima che da Dio ſe ne eſtraffero i corpi . Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia , co me l'architetto al Palagio , e lo ſcultore alla ſtatua . In vano dun que dall' opere di Platone, e degli altri Filoſofi antichi , i qua li ammifero la materia eterna , li cerca l'idea del Dio che ado. riamo ; egli è uno ſpirito infinito , nella di cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili , e poflibili ; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni ; e i Cartuliani l'ente infinitamente perfecto . Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli Pagani , ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge , che Dio ha tratto dal niente l' Univerſo , e che è diltinto realmente , e ſoſtanzialmente da tutto ciò che ha creato . Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate d'Oliveta ’ Filoſofi ( c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze , tra le quali entra e Pittagora , é Senofane , e Parmeni de , e Platone Itello , Non (a . ) Nel fine. ( 6 ) Cicer. Natur. Deor. ( c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu , je veux dire un eſprit infini , dont la nature eſt indiviſible & incomunicable ; dans lequel font réunies toutes les perfections imaginables & poſsibles , ſans aucun mélange d' imperfe etion ; qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct réellement & ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé . 0 1 ( 38 ) o dell' Non è tuttavia , che debbano ſpregiarſi le dottrine di Placone , e rigettarle come inutili ; conobbe egli Dio ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele , e in quella guiſa che S. Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi , e combinandoli coi rivelati propoſe molte concluſioni Teologiche , così può farſi di Platone ; S. Tommaſo dall' uno , e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio , impiegando i mori , le cagioni , l'ordine del mondo , i gra di più o meno perfetti delle coſe , ma non potè trarla dall' en te contingente e neceſſario , che Platone non conoſceva , ponen do ecerna la materia , e chiamandola neceſſità . Dimoſtrar il primo ente qual principio intelligente , per l'adequaca idea di Dio , non baſta le da eſſo non ti rimovono tutte le compoſizio ni , dimoſtrando , come fa S. Tommaſo , che in lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia , e che non può ridurſi ad alcun genere , Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj ; tutto vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno . Convien dedurla da' ſuoi principj, od eſtrarla come fece Pittagora , e Peritione da tutti i compofti , ed eſaminarne le proprietà . Così San Tommaſo , ove tratta dell'unicà , e della bontà di Dio , prima ricerca , quanto la ragione, gli può per mettere , coſa ſia l' uno , e coſa ſia il buono , indi col princi pio rivelato cid combinando , dimoſtra la purità , e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione , fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide , laſciando agli altri la fa rica di ſpiegarlo in un modo fublime , applicandovi le coſe Teologiche , delle quali non intendo d' attaccarne , o diftrug . gerne la minima . Io cratterò della dottrina del fine , indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione intitolarono queſto Dialogo , il Par menide o dell' idee , perchè Parmenide parla più degli altri , e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee , o per cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate , eſempli ficandone il caſo nell'idea dell' uno , la più ſemplice di tutte l'al tre , e a cutte l'altre comune . Supponevano i Pictagorici , che tutte le coſe imicaſſero , o par ticipaſſero l'idee , o le fpecie ; provacontro loro Parmenide , che le cofe non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto , nè ſecondo unaparte , indi col principio di contraddizione , col progreſſo all'infinito , e coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine ; gli fteffi argomenti di cui ſono nel Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone , ciò che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata , che in queſto Dialogo Parmenide, o Pla ( 39 ) o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate . Annullate tali idee in modo cheSocrate ne reſta convinto , Pare menide per non laſciarlo nell' imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere , quanto che non fi poffono de terminare , nè co' ſenſi , nè colla fantaſia . Parmenide' nell'etem plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno , e la con ūdera relativamente a ſe ſteſſa , indi all'ente , al fine , al non en te . Così un matematico trattando per eſempio del triangolo , lo conſidererebbe prima in ſe ſteſſo , poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane , ed al fine alle non rettilinee, od alcerchio . Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti , e chiama uno ciò che non è molti . Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno ; prende Parmenide la definizione , e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti o li predica de' molti ; negà ch' egli fia cutro , parte , principio , mezzo , fine , figura moto , quiete , lo ſteſſo , diverſo , ſimile , diſſimile , eguale , mag giore , minore ; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente , paſſato , futuro , l'eſſenza , la ſoſtanza , il nome, il ſen fo , la ſcienza , l'opinione. Parmenide prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â conſideri per rapporto a ſe ſteſſo , perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è , ſe l'uno ſia che accada all' uno , ed all'altre coſe ; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente , come rente dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell' , pud predicarſi dell' uno ; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica , la parte , il tutto , il finito , l'infinito , il principio , mezzo , il fine , la figura , il luogo , il moto , la quiete, il fimile , il diffimile , lo iteſto , il diverſo , l'eguale , il maggiore, il minore, il tempo paffato , preſente , e futuro , 1 eſſenza, o la ſoſtanza , la ſcienza , l'opinione , il ſenſo , tutte queſte coſe ſi predicheranno ancora dell'uno . Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno , e dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto , ma in varj te m pi o ſecondo diverſi riſpetti , e ciò fa che le contraddizioni non ſieno , che apparenti , o del genere di quei meraviglioſi , che de generano ſpiegandoſi in puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto , maParmenide nel cercar qui ſe ſia l'uno , quali altre co fe ne fieguano , non cela all'uſo de Sofiſti , ma ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri , e queſta iola credo una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito . In ente ( 40 ) In queſte due prime nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche ; mabensì ve ne fono nella terza , ove fi rapportal'uno al non ente , o al nulla , di cui non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile . V'è un affioma Logico , il qual diceche , dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce , pera che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente ; fia lo ſteſſo dir il non uno, che il non en te , ma del non ente o dell'impoffibile fi dice che ha effenza , o che non l'ha , che è lo ſteſſo e diverſo , che è ſimile , e non fi mile , eguale , non eguale , cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno . Nell'attribuire il non uno all'altre coſe , fi trasformeranno queſte in fantasmi, o sogni d'eſtenſione , di mal fa , di moto e di quiete , ciò che rende il mondo più poetico del cabbaliftico . Platone o Parmenide maneggiano queſto argo mento con ſomma ſagacità , e delicatezza , e ben ſi vede quanto foſſe la loro Filoſofia profonda , e quanto utiliffima eller poſla , non cangiando il grado dell' aſtrazione , nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come fece il Ficino . I celebri Pittori , attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti , di ſcorcii , di lineamenti , difigure , ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite impreſſevi dalla caligine , le vanno combinando con la loro immaginazione , e creano delle figure leggiadramente fimecrizzate , e canto ſi rifcaldano nel vagheggiar opera loro , che le additano agli altri , come fe ivi foffero ,e ſi cruciano e fremono , e ingiuriano , quando queſti ſemplicemen te riſpondono di non ravvifare , che orme irregolari di fumo . I Filofofi, e particolarmente i comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me , fiffi in un fiftema l'addatano a tutto ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato , e dove egli ancora parla nel modo più ſemplice , e naturale , e conveniente a'ſuoi principj, par loro di fargli torto , ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni , e lo dimoſtrano tanto più ammirabile , quanto nyono l'intendono , c quanto dagli altri è meno intefo . In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo il Ficino, di far di Placone ( a ) un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al ( a ) Prima ex quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat diſponitque deorum ſequentium ordines . Secunda de fingulis Deorum ordinibus , quo pacto ab ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm . vel de uño rerum principio , & de 9 ideis . ( 41 ) al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo , e del Fedro ſenza biſogno , e profitto ; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio nell'ordine loro , ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo ? Annullò il Serano gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee ; Dio è la prima e principal idea , le ſeconde ſono le va . rie idee delle coſe create ; ma ſe Parmenide non diſtingueva Dia dal mondo ; coſe affatto poeriche non ſono le idee divine ? Non bado il Serano , che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie ancora l'eſſenza. Si , ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari , e quando Parmenide dice , che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza d'elfte re alle coſe ſingolari . Or come ſi può includere nell'idea dell' uno , in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno , ſenza concepirvi l' eſſenza , e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza , e non concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea , dice il Serano , fi diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza , e facoltà d ' eſiſtere , che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno , la feffa moltiplici, tà , e quaſi infinità delle coſe ſingolari . Queſta è la luce tenebroſa del Flud , chi può ſpiegarla ? Va il Serano peſcando le affezioni dell' idee ſeconde , e ne ri trova ſei , dopo le quali la ſua vena metafiſica , e teologica , ſi conſuma, o perde , ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente fiſto , ed eſtatico ſul ceſto Platonico , par uno di que' Chineſi, che per molti anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non batte egli palpebra tutto concentrato in sè , nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con note margina li l'imbarazzato lettore . Io ſon ben lontano dal condannare le al tre note di queſto autore , colle quali negli altri Dialoghi eſpone la conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto , ma nel Par menide ſpiegando alto il volo per emular il Ficino , li dimentica del ſuo coſtume, e laſcia in aſciutco il leccore ; ma come è poſſi. bile , che avendo egli canto ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo delFilebo , in cui li ſpiega il fine , che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo ? Nel Filebo , che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide , cosi ſi parla da Socrate a Protarco . Tu , o Protar dice Socrate , intorno l' uno ed i molti ai dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi , ſono concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili , e facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le ammetteſſe ; nè è Tom. II. f de ( 42 ) - 1 1 tal uno , da ſtimarſi coſa meraviglioſa , ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa , e tutte quelle parti , confeſſando quella eſerne una ; di poi la confutalle , e ne prendeſe beffe quaſi sforzato a con . feſare coſe moſtruoſe , cioè che una ſola coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola , E' quì da notarli quel dividere con la ragione le membra di alcuna coſa , formula che egli repplica ſovente nel Parmenide , in cui dice , ſeparar le coſe con l'intelligenza , e fino sbranarle ; indizio manifeſto che qui non ſi tratta , che d'aftrazione di ra gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono , non le par ii, ma gli attributi , e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente ; or tutto ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno , non divien egli un di que' meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate , fe non s'averte , che le contraddizioniſono apparen . ti , o che nel medeſimo tempo , e ſecondo lo ſteſſo non s'aſcrive all'uno , il fimile e diffimile? Siegue Socrate : quando alcuno giovane pone l'uno , non eſſer alcu na di quelle coſe , le quali naſcono , e muojono , perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto , che non ſi debba con futare . Parla quà Socrate della prudenza , della ſcienza , e della men te , di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co , e delle quali , come d'eſſere reali , parla nel Sofiſta . Conclude Socrate : Ma quando ad affermare è altretto un fol Uo mo , un ſol bue, una coſa bella , ed una coſa buona , allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo ſtudio , ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente ; di poi, in qualguiſa ſia de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una , e la medeſima ſempre, nè fi pren da generazione, nè morte , ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei ; finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate , od infinite, o partita , ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno , e lo dello ſi facele parimente in uno , ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano intorno a cotali coſe , ma non quelli , o Protarco che non conceduti bene ſono cagione d'ogni dubitanza , ed ogni facilità ben conceduti . Manifeftiffimo è , che quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide , e ſu le quali confeffa , che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno . Da ( 43 ) Da queſti palli io deduco , che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu , che d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade, quando non ben li diftingua no i concerci della mente , o s'amia irasformare i concetti in ido li , ed a realizzarli poeticamente , come faceano i Pittagorici . Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo dell'antichità , e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile , e d'una profondità al tutto generoſa , il che vuol dire , ſe non erro , che egli nella ſua maniera d'argomentare franca , libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del lopraciglio , e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud l'ultima analiſi , che i Pitcagorici faceano dell'idee , oltre le quali il procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea , comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici , che fpingendo troppo , oltre le queſtioni oncologiche , ofarono ſin negare il principio di con traddizione , ed affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to . Nel Gorgia, nel Protagora , ed in altri Dialoghi contro iSo fifti , coll'arte dell'ironia Socratica , li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini, mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze , e diſcipline falſe ; ma chi può dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide , qual mer catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto , che così devono chiamarſi le quiſtioni tenebroſe , ed all'ambicate ; bujo peſto è quel lo di cui troppo liberalmente lo caricano il Ficino , ed il Sera no, non quel che combina la doctrina d' Ariſtotele , con quella di Platone ; dotcrina che curt " i Peripatetici , e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta chiarezza e preci* fione , eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia . Queſto Dialogo è primieramente ontologico , e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di pericolo che la metafilica d' Ariſtocele , ma ridotta alla Dialeccica , L'antica Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe , attenca a compararli , a combinarli , per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici .1. Ai non ripugnanti , o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato , è l'eſfer figure di cre o quattro linee , perchè non v'è ripugnanza , che il numero ter nario o quaternario , s'adatti o fi combini alle linee rette . 2. Ai differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza , nc gli attributi , e ne' modi ; così il triangolo è differente dal qua drato , ed il quadrato dal cerchio . 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no ( 44 ) no tutte le matematiche conſiderate dagli antichi , come il vero modello della diſciplina , ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo de' probabili . Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del le coſe ; l'eſſenza o ciò che è , lo ſteſſo , il diverſo , il moto , e la quiere ; a queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica , onde diſfe Ariſtotele , che ignorato il moto s'ignora la natura . Lo ſteſſo e il diverfo vaga per tutte le altre fcien ze ; onde Platone dello fteſſo , e del diverſo , compoſe l'anima del mondo , e la bellezza . Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni dell' ente in genere , fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie , il fimile, il diffi mile , Peguale , il maggiore, il minore , il nuovo , l'antico . Que fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte per l'acume della mente da' concreti , coſa ben di verſa dalla ſcala de' predicamenti d' Ariſtotele . Il Wolfio ( a ) fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi , e con eſſa ſciogliere il problema dell' analiſ dell'idee , propoſta ma non trattata dal Leibnizio . I Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò , applican doli alla determinazione dell' idee , quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente , in genere dell'ente , in ſpecie . Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è quello del principio di contraddizione , che ci conduce all' aſſurdo ; metodo non tanto accetto a noi , per . chè ci dimoſtra la noftra impotenza , ma che ci sforza invin cibilmente all'faffenſo . In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri , il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica . Nel metodo d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa , e s'eſcludono o tutti per dinotare l'aſsurdità , o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema . Così Archi mede avendo dimoſtrato , che un dato poligono non è , nèmag giore , nè minore del cerchio , nel quale è inſcritto o circon Icritto , conclude che gli è eguale . Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo . Nel metodo dell'analili geometrica , fi aſſume ( 6 ) il quefito come conceffo , e per legitime conſeguenze s'inoltra fino ad un ve 1 uno , ro ( a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per ea quæ conſequentur ad verum conceffum . ( 6.) Wallis Il . dell’Algebra . ( 45 ) To conceſso , da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito ; molti vogliono , che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide per darne l'eſempio ; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni , fe i loro autori fi foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di dogma , cagione d'eterni litigi non ſalvati , ne da ſtile elo quente , nè da calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico , ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale . Che dirò dell'arte del Dialogo , in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane . All'imitazione. ( a ) di queſte convien il palco , ed il verſo , non all'imitazione de' ragionamenti, la quale per ſua natura appartiene alla Dialettica : poco o nulla di leg giadria avrebbono i fillogismi, egli entimemi in verſo , e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato della ſcena . Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo , è come la favola , e l' epiſodio al Drama . Nel Parmenide la quiſtione è intorno l'idee , ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta , la preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate . La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne , la quale o è ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento, nel quale , o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo , o s' inſegna , o s'inveſtiga da molti la quiftione propoſta . A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi , al dottrinale , al Dialettico , al tentativo , al contenzioſo . De’due primi generi è miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te , quaſi ſolo favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele , approvazioni per lo più della concluſione , o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata . Nel inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno , qui non v'è tentativo , nè litigio , nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare , ſe ſia meglio adat cato all'inſegnamento che il maeſtro interroghi , od i diſcepo lo . , perchè appena termino la breve diſputa có Zenone , che Parmenide cominciò a interrogar Socrate , ed avendolo confu? lo , ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva riſpondere, Para ( a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo . ( 46 ) uno . Parmenide paſſa ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo , che come una ſia l'azione nel Dra ma , così una fia la quiſtion nel Dialogo , la quale o è infini ta , per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù , o è finita , per eſempio che deggia far Socrate condannato a morte . La qui ftione del Parmenide è infinita , perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine , la natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate , l'origine dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano . Queſte due coſe ne fan no propriamente una , perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza prima determinarne l'origine . L'una e l' altra determina Parmenide , e rimove l' idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le acquiſta. Parme nide lo propone , non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co ſtume della ſua fetta , che era di propor dubitando le coſe : Non è cutravia in ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide . Dimanda Socrate , che gli ſia dichiarata la quiſtione delle idee , ed intorno alle coſe che ſi veggono ,ed ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione . Parmenide , e Zenone attentamente lo aſcoltano , eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate meravigliandofi . E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo , e di cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia , e nel Fedone . Ella è qui ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento , e che colla triſtezza , e coi fogghigni accenna , ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione . Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento , è do ve dice Parmenide o Socrate troppo per tempo , innanzi che tu ti eſerciti a parlare , ti sforzi di definire ciò che ſia il bello , il giu ſto, il buono , e qualunque dell' altre ſpecie . Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele . Per certo mi credi , que fto tuo fervore è bello è divino , il quale alla ragion ſi conduce , ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa coltà la quale a molti inutile , e ſi chiama dal volgo garruli tà , altrimenti ſi fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per cutti i generi , ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume divecchio venerabile . Sarebbe cofa ſconvenevole , cheſi trat tale maſſimamente da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti , non ſapendo il volgo , che ſenza queſto vagare , e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile abbattendoſi nel vero acquiſtar men te . Ariſtotele e gli altri lo pregarono , e Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile ( 47 ) apologo : egli è neceſſario finalmente che s'ubbidiſca , tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il cavallo Ibico , cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette , e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli , alimigliando egli a ſe ſtello, dille cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori . Nel medeſimo modo diſſe Parmeni. de , a me pare di temer malto , quando penſo in che guiſa cosè.d'età avanzata , io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda menti . Intorno la ſentenza , o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore del Dialogo , ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto , nel vagar per i generi delle coſe , e nell'argomentare , e ben de gno , che nelle coſe intellettuali Platone , Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli altri Pitiagorici , e n'imitaſſe la ſotti gliezza , e nell' idee , e nel metodo di proporle . Nella Poelia. Epica , altro è che il Poeta imiti narrando un facto , altro che introduca un degli attori a narrarlo . Così nell' Odiſſea , aḥtre ſono le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe , altre quelle che narra Ulife ſteſſo . S'in troducono ne' Poemi i racconti , per variar i modi dell' imita zione , ed ancora per accreſcerla ; ella è perciò doppia , quando nel Poema i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto . In queſto Dialogo , Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide . I Dialoghi, benchè fpecie di Poeſia Dramatica , in ciò con vengono con l' Epica , e Platone , che nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero , emold anche queſto nel modo di rappreſentarli . Nel Filebo propone ſenza alcro la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere , nè premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori , Socrate , , Filebo e Protar co ; così fa nel Sofiſta , nell' Eutifrone nelle Leggi , e nella Repubblica , ma non cosi nel Convito , nel Fedone, e nel Par menide . Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo dell'altro , perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa fotto gli oc chi , intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po in tempo lo ricreino con opportune digreffioni , ma tutte convergenti alla quiſtione propoſta , ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra , ma nel Dialogo , ſe ſi vuol imitando perfe zio ( 48 ) zionar la natura , nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf ficiente . La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell: interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe , ma nel Par menide il dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante , perchè eſcluſe l' idee ſeparate , Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le ſuppoſizioni. ; 1 1 1 > ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE. . Tom . II. } , ( 51 ) ILLUSTRAZIONE D E L PARMENIDE. tertentanut Estates L A diſputa su l' idee fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te , ed un certo Ariſtotele , viene a Glaucone , e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto , che molti anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri , poté in tutte le loro cir coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento , che egli ebbe con Cefalo , e coi compagni . Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea detto che tutto è uno , e Zenone provato in uno ſcritto , che uno non è molti . Si comincia la Jercura dello ſcritto , e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura , quan do Parmenide con Pitidoro , e Ariſtotele entrarono in caſa . Si leſſe di nuovo alla preſenza di Parmenide , e degli altri il pri moargomento , e fi difputò incidentemente su la differenza del le due definizioni parendo a Socrate , che il dire tutto è uno foffe lo ſteſſo che il dire , uno non è molti . Glielo concede Zenone , é lodaća la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia egli ha' fcritto , ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi sforzavano di ſchernirlo , perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa l' Orazion di Parmenide , molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il : li bro nella ſua giovanezza , ma un certo avendoglielo rubato.fi pubblico . Si ricomincia la diſputa. Parmenide , e Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer univerſale " . Accorcol Parmenide , che tutta la forza dell'argo mento ( 52 ) mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate , l'imbarazza co ftringendolo ad aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà. Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro participazione , contro il lo ro progreſo all' infinito , contro alla loro incomprenſibilità. So crate n'è molto curbato , credendo che annullate l ' idee ſepara te non vi fieno più principj per ben filoſofare . Ammira Par menide il fervor di Socrate , e lo conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben inveſtigare l'idee . Pitidoro ed Ariftotele , pre gano Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione dell'Idee . Egli ſcieglie l'idea dell' uno , e col metodo delle ſup poſizioni la tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de relativamente alla definizione di Zenone , che l'uno non è molti . La prima è quella dell'uno per rapporto all' idee feparate ; Ia ſeconda dell'uno per rapporto asé ; la terza dell'unc per rap porto all ' ente ; la quarta dell'uno per rapporto al non ente . Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via d'ipoteſi : ſe l'uno ; ſe l ' uno è ; fe l'uno non è . Per non traſcurar nulla di ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo , premetterò partitamente ad ogni quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni neceſſarie , ſtando più che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto quale Dardi Bembo il tra duffe ; mi par inutile di por tutto il Dialogo , perchè eſſendoſi ri ſtampato di freſco , tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già proveduti ,per gli altri èinutile e vana ogni illuſtrazione . SEZIONE PRIM A. b. I. Enone defini l'uno ciò che non è molci . Approva Ariſto tele ( a ) queſta definizione, perchè in generale ogni defini zione , dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra , che i molti ci ſono più noti che l'uno ; i fanciulli più teneri nel coccare , nel vedere , e nell'udire pereepiſcono i molti , e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno , che la loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno , e quindi numerar su le I molti dunque eſſendo più noti dell' uno , negandoli di forma 6 ) Metaf. lib . 1o. diata ; dita . il ( 53 ) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa , che negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto . Dall'uno G fa l'idea aſtratta dell'unità , come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità . Tre ſono le ſpecie dell'unità ; la Lo gica, la Matematica , la Metafifica. L'unità Logica ſono i generi , e le ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo de' numeri , o il prin cipio per cui fi numera ; principio differente dal zero , da cui ſi nuinera . L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell' ente , o che conviene all'ente in quanto tale , poichè d'ogni ente fi predica l'uno , come fi predica il vero , e il buono , o ſia il perfetto , ma la verità , e la bontà , o la perfezione , inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l' uno , onde tra le proprie tà dell'ente egli è la più univerſale ( a ). L'unità o l'uno nel ſuo concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni, potendoſi per l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che rappreſenta , nè a' numeri che compone , nè a ciò cui conviene : In queſto ſenſo aftrattiflimo definiſce Zenone l' uno , opponendolo ai molti in genere . Contro queſta definizione cosi argomenta Socrate . Vi ſono idee ſeparate : dunque ogni idea eſſen do una in sè , e molti , nel participarſi a molti l'uno , eimolti poſſono accoppiarſi ; dunque non pud dirſi , che l'uno fia molti . Prima di ſviluppar l' argomento rifletterò su certe voci , e nozioni di Socrate. $. 2 . Suppone toſto Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia della voce Greca , ſignifica propriamente com fa viſta , e per traslato ſignifica coſa inteſa , o ciò che s'inten de ; ma tallora ſignifica l'atto per cui s'intende , il qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint l'idea , intelligenza per rapporto a Dio , pri mo intelligibile per rapporto anoi , miſura quanto alla mate ria , eſemplare quanto al mondo ſenſibile , effenza quanto a ſe ſteſſa . In tutti queſti ſenſi la prende or Socrate , ora Parmeni de ; ma la prima nozione dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile . $. 3• ve ) Wolfo Metaf. ( 54 ) § . 3 . Socrate: oltre l' idee del bello , dell' oneſto , e del giufto , che Parmenide gli accorda , ammette ancora quelle del limile , del diffimile, del moto , della quiete , dell' uno , e de' molti . Queſte ultime idee ſono tra loro oppoſte e contrarie , come il caldo , il freddo , il bianco , ed il nero ; eſſendo contrarie , ciò che convie ne all'una , non conviene all' alira , e quindi ſecondo Socrate i ge neri, e le ſpecie , idee più o meno univerſali conſiderate in se non patiſcono paßioni contrarie , ma nulla vieta nell'ipoteſi di Socrate, che non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4 . Partecipare è propriamente ritener in sè una parte d'un cutto ;; così l'aria partecipa la luce ', poichè ogni particella d' aria ha in sè una particella di luce . In un ſenſo più ampio , la voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità , all'azione , all effenza Iteffa. ;. così ſi dice , che l'accidente partecipa della ſoſtanza', gli effetti delle cagioni, un figlio le virtù , eivizj.del padre : La par cipazione è quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla ſola convenienza delle qualità , e molto più dell'imitazione , che alla fimiglianza aggiunge la relazione tra il modello , e la copia ; due gemelli naſcendo saſlimigliano , e pur l'uno' non è la copia dell' altro . I Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee ſeparate , come a loro modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee , ma fecondo Ariſtotele ( a ) non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di participazione, e d'imitazione . S. 56 Cið fuppoſto , il primo argomento di Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior chiarezza . Ogni idea è una in sé , ed una in molti , dunque nel tempo ſteſſo , uno può efser molti . Cosi lo conferma , Benchè l' idee lieno tra loro con crarie , nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti , anzi dallo ſteſso ſecondo diverſi riguardi , ma in queſte participazioni ritengono la loro unità , dunque: ſon uno e molti. Così lo prova : oppoſte e contrarie ſono tra loro l’idee , del ſimile , del diſſimile', del moto', della quiete , dell’'uno; é dei molti ; dunque comenulla viera , che lo ſteſso poſsa aver more in ( a ) Metaf, lib. ( 55 ) in una parte , e quiete nell'altra ; eſfer fimile ad un altro in una parte, e diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno , e molti ; una Caſa ha molti legni , e molte pietre ; ogni . Uo mo è uno conſiderato in sè , ed è o ſeſto, o ſettimo conſide rato con altri . la un Uomo , altra è la deſtra , altra la fini ſtra , altre le parti dinanzi, altre di dietro , altre le ſupreme , al tre le infime. Nel Sofiſta egli dice ; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti cognomi , mentre a lui attribuiamo i colori , le figure , le grandezze, le virtù , ed ivizi : nelle quali coſe tutte , ed in altre infinite , non ſolamente diciamo che egli fia Uomo, ma ancora buono , ed altre infinite coſe , e le altre fecondo la ſtella ragione . In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una , di nuovo l'appelliamo molte e con molti nomi ..... Onde ſi è da noi data occaſione di contraddi re , come jo penſo a' giovani , ed a ' vecchi di tardo ingegno : percioc che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile, che molte sofe folero una , ed una molte . ( a ) Dunque uno può eſſer molti ; dunque non è generale la de finizione , che uno ſia non molti . La participazione dell' idea evidentemente lo manifeſta . 7 9. 6 . . Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell' idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri gecta l'ipoteſi, come nè generale , nè chiara ; non generale .per chè non s'eſtende a cutti i cafi poflibili i ; non chiara . , 'perchè non pud fpiegarſi la participazione dell'idea. Cost :provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire , non baſta affe le .coſe morali , e matematiche , mabiſogna af. ſegnarne ancora per le fifiche : dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto , del bello , del buono , del grande , del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua , e d' alcune coſe , che molti fimano per avventura ridicoloſe ; i peli, il fango, le macchie., ed altre coſe ignobili , e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare , che ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole , poi can didamente confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo , e che quando di là fi ferma ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente , e fantaſia cadendo in ciancie ineſplicabili ., onde a quelle coſe ritornato ( cioè all'idee del giuſto , del bello , del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle . In ( a ) Sof, pag. 306 , ( 56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio ; ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente , come l'eſtenſione intelligibi- : le , eſſendo immobile in Dio , gli rappreſenti il moto , ove il luſtra queſto articolo dice nel fine : ( a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar queſto ſoggetto a fondo , temendo di dir coſe, o troppo aftrat te , o troppo ſtravaganti, o ſe ſi vuole , per non azzardarmi a dir co ſe che non so , nè sono capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate . Ariſtotele ( do ) ove nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone , adduce tra l'altre coſe , che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de' ſingolari, de' corrut tibili ; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide eſemplifica to , e poida Alcinoo , che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici idee delle coſe arcifiziali ; uno ſcudo , una lira ec. ne delle co fe oltre natura la febbre , la bile non naturale ; non delle coſe ſingolari, Socrate , Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure , paglie ec. donde traffero i Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide ? §. 7 . Propoſta che ha Parmenide un'obbiezione , che Socrate non può riſolvere , egli cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem , che vuol dire non argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i principj del diſputante , e ne deduce la contraddizione . Suppone dunque che vi fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa , o ſecondo il tutto , o ſecondo la parte . Parmenide dimoſtra , che nèl'uno , nè l'altro può eſſere . Sia da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco , dunque tut ta l'idea è in ſe ſteſſa .; e tutta fuori di ſe ſteſſa ; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè , e cutca fuori di sè . Siaľ idea conliderata in sè A , e participata fia B , C, D ec. generalmen te , o non A ; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A , e non A , ciò che è contraddittorio . Nè occor dire che un giorno è uno , e lo Steffo , ed inſieme in mola ti luoghi , e pur non è da ſesteso in diſparte . Il giorno non è che la luce del sole , diffuſa in tutto il noſtro emisfero . Or quel la parte di luce , che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino . Parmenide li ſerve dell'eſempio della ve la , ( a ) Ricerca della verità T. 4. pag. ... ( b ) Metaf. I. .... ( 57 ) la , la quale molti coprendo , non è perd una in molti , perchè la parte c he copre l'uno , non è la parte che copre l'altro . Reſta a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte ; la dimoſtrazione è da se manifefta , perchè l'idea participata ſarebbe una , e non una ; una tutta in sè , e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte . Queſto modo d'ar gomentare , è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele , come il primo prin cipio in cui ſi riſolvono cutti gli altri . Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra mente , la qual mentre giudica che una coſa ſia , non può inſieme giudicare , che la ſteſſa non ſia . Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5. 8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno . Nel conce pir il più fi concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore , e nel concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più , nè meno nelle quantità che ſi comparano. lo dico che li comparano , perchè nè il più , nè il meno, nè l' eguale concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o ſenza compararle , e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte, la quale , come ben dice il Wol fio , non ſi può concepir ſenza un altro a differenza della quali tà . Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo , od ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro . Così Platone eſpreſſe la natu ra della relazione nel Politico , nel Simpoſio , nel Sofifta , e pri ma di lui Archita , ed Ocello , ( a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi . Da queſti autori traſfe Ariſtotele ( 6 ) la definizione , che dà della relazione . Nulla perd vieta , come & proverà , che per compendiare i concetti non ſi concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto , a cui accade – eſſere mag giore , minore , ed eguale , e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l minore come aſſoluti, a' quali accada il più , o meno , o nè l'uno , nè l'altro . Suppoſto dunque , che fi dia l'idea della grandezza , e in conſeguenza del maggiore, del minore , dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del maggiore , B del minore , C dell' eguale ; ſi dividano tutte2 , e tre in parti ineguali : С poichè dunque una coſa in canto è maggiore , in quanto partecipa l'idea del maggiore , lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom . II. h par ( á ) Diſcuſ. Perip. Patriz ; T. 2. pag. 185. ( b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A ( 58 ) partecipa non ſarà egli nel tempo fefto , e maggiore , e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e dell' idea dell'eguale . Se'l idee dunque fi participano dalle coſe , ſe condo una parte loro non potrà mai effer quefta , una delle par ri ineguali. Parmenide non procede olore , maè facile l'aggiun-. gervi , che nè meno pud parcicipare delle parti eguali , perchè la parte .eguale del maggiore participata dalla coſa , la farebbe nel tempo ſteſſo eguale , e maggiore ; e così la parte eguale del mi nore , ſarebbe la coſa minore ed eguale. . 9. La noſtra mente , come per ſua natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito , biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo , il qual è come Tuncino che ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele , e'ne'mori, e nel le cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10 , modo d' argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo all'infinito rectilineo, e cir colare . g. 10 , . Poſta l'aſſurdità del progreſſo all'infinito , così argomenta Par menide : Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una , quando pare i te cbe certe , e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura in ris guardando a tutte le coſe , che ſia queſta una certa idea , onde tu penfi che il grande fia uno . Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone inſegna, co me comparando le coſe , nel riflectere a quello in cui conven gono , ne riſulta un'altra idea , come prima avea inſegnato Epicarmo , Queſt' idea è ſempre una , perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le coſe hanno di commune . Continua Parmenide : Se'il grande, e l'altre coſe che ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe , non apparirebbe egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del grande con le grandezze participate , nè riſulta un'altra idea di grandezza , per la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza fuor do esſa grandezza , e di quelle che fono ! ( 59 ) fono partecipi di lei , e dopo tutte queſte , altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide qualunqueſpecie fia una , ma piuttoſto di numero infinito . La ragione è , che l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione , eſſendo per loro natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili , e così all' infini to . Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide , e tutti i Platonici, e tra gli altri Alcinoo dillero , che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę , altre idee He deduffe , concluſe Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono , che nell'animo . Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno , ma gli fa confef fare , che queſt' acto ha un oggetto , ed è l' ente'; l'ente perd in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente : prende egli qut l'idea , non per la nozione , o per il concetro' della mente 1 atto , ma per la relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non relativa mente all'atto dell'intelletto , ma all' ente che la partecipa poichè ſecondo i principj di Socrate , ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe . Ne deduce per confeguenza , che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto , le coſe che partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed intelligibili . Vi riſponde So crace , che le coſe non partecipano' dell' idee , in quanto' queſte fono atti dell'intelletto , ma in quanto rappreſentano le coſe ; che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari , di cui le co fe fono limiglianze ; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno ſimili . Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee , argomenta coll' aſſurdità del progreſſo all' ip knito , come fece delle grandezze . $. 12 Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze' , e delle coſe , e dell' idee , Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza , e queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe , darà un' altra idea di fimiglianza , e co sh all'infinito , cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto argo mento Parmenide : non ſarebbe egli neceſſità grande , che' quel che è fimile al fimile' folle partecipe dell' uno , e della fleffa ſpecie ? Or hi 2 non ( 60 ) 5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie , di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi fiano fimili ? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo' , ne cellerebbe mai queſto progreſo , che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie , ſe ancora folle ſimile la ſpecie , a chi di lei ſi rendeſe partecipe : Ariſtotele propoſe lo ſteſſo argomento ſebben oſcuramente L'Uomo , dice , ſignifica non meno la ſoſtanza ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per sè , o fia l'idea dell' Uomo . Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune , fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro , e così all'infinit . Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo univerſale partecipa , e dell'animale e dell'animale a due piedi , e d'altre coſe , ciod , quelle che ha comuni colle piance, colle pietre , ed altre innume rabili. Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa che è nell'Uo mo , pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili , ed invidia bili , o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i Pittagorici , effendo incorrutti bile , ed univerſale non ſi può comparar a coſa ſingolare , e cor ruttibile , ed eſtrarne quindi nuova idea ? Ariſtotele vi riſponde : i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili , e pur per conoſcer li biſogna dar un'idea comune di binario , in cui convenga il binario B , il binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio , al triangolo , ea tutte le figure piane e ſolide, onde ella , è propriamente ge nere relativamente alle ſpecie , ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia , nè cerchio , nè triangolo , nè altra ſimile ? Intanto la concepiſce la figura in genere , in quanto la mente non s' applica , che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio , fen za far attenzione rifeffa , nè al modo , nè al numero , nè al fito dei limiti ſtelli . Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile . Egli è impoſſibile che io concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia , o Equilatero , o Iſollele , Sca leno ; altro è poi , che nel rappreſentarmi uno di queſti crian goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati . Noi non intendiamo le cofe , dice San Tommaſo , ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro . Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura ? Confuſamente a tutte le figure ; ma io non ne , con ( 01 ) conſidero diſtintamente alcuna , e ſolo attendo a ciò in cui cut te convengono , ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto ; ma ſe nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà ammettendo l' idee ſeparate , quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche ? Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile , dell'ente , dell'atto , della potenza , della cagione , del principio , del modo , dell'attributo , del terminato , è dell ' indeterminato , del neceſſario , del contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe , ma del prima , del dopo , dell'inſieme , del ſeparato , e finalmente del genere in quanto genere, e della ſpecie in quanto ſpecie : coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio , perchè ad ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione , ed al numero dovrebbe aſſegnarſi un'idea , Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee delle negazioni , e delle privazioni , o degli op pofti , cioè dei contraddittori dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee , data la loro participazione, ed eſcluſa la compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra gli enti relativi; od aſfoluti . Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative , ( 8. 8.) é ve ne ſon altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari , che le coſtituiſcono , e queſte ſon le affolute ; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è nel loro confronto , ( 5.8 . ) includono effi neceffaria. mente due termini tra loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute , che tra loro fi comparano ; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto . Un Uomo fuffifte per sè , e ſe foſſe ſolo nel mondo , non farebbe nè Padrone , nè ſer-' vo , ma ſuppoſto che viva in una ſocietà , può eſſer l'uno , e l' altro, in guila però che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo , ma come Padrone ſi riferiſce a coloro cui comanda , come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno , e l' altro gli accade in quanto è Uomo , ed a diverſi Uomini li ri . feriſce. Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano , biſogna che ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una parola , che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza determinata . Con clude ( 62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra loro, un ' eſſenza , ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze , o in altramaniera di cui facendoſi partecipi , noi la nominiamo con , qualunque di eſſe. ; . aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua d'eſiſtere in verſo l' idee , ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe . Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in . noi ,, e: in torno a noi: equivoche: all' idee .. Cagione equivoca: degli animali , delle piante , de metalli ec. diſero Ariſtocele , e gli Scolaſtici il Sole , perchè ſebben concorra alla loro generazione, non conviene con loro , 0 non gli aſſomi glia che nell'eſſere . Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di Socrate , il quale nell' ammecter l' idee , come cagioni delle coſe , era sforzato ad ammetterle come cagioni equivoche ,, non potendo ammetterle, come cagioni eſemplari, il che: Ariſtotele così : dimoſtrò :-ſe quando l'Uomo fi genera da Socra te, eglis'alfomiglia all'idea , e non a Socrate , fi potrà generar: { mile all'idea , liavi o non ſiavi Socrate ;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia all'idea , ma a Socrate , come è manifeſto dall' eſperienza ; dunque Socrate , e non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee : influifcano nella generazion delle coſe, convien ſempre porle , come cagioni equivoche ; : ma da: chi Ariſtotile traffe cal idea , ſe non da Placone ? ' Or fe: l'idee non hanno relazioni alle coſe , o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo conoſcerle? Se le piante , de pie tre ragionaſſero , . potrebbono mairappreſentarli ( rimirando ſe fteſ . ' fe , . ), che il Sole foſſe loro: tanto diſſimile ? che ebbe . tanta parte nella loro generazione . Le noſtre idee non ſono cagioniequivoche delle coſe , le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro modello . Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa , la ſtatua , . , l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata , e perciò comparano l'effet to all' idea per miſurarla ,, e perfezionarla ; , nella combinazione dell'idée chiare , . e diſtinte conſiſtendo la ſcienza , l'oggetto del la noſtra ha ſempre proporzione all'idee che d'effo formiamo ;.. ma ſe l .idee : ſeparate come cagioni equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo , non par poffibile di : riconoſcerle , e in conſeguenza aver- Scienza di loro . Delle co fe quindi rivelate , non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe , € infallibili , ma non a noi: chiare e diftinte .. g . 145. ( 63 ) S. 14 . Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe; altre non 'han no avuto origine , nè finiranno giammai , perchè ſono immutabi li , e fempiterne ; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, & corruzzione ſoggette : À queſti due ge neri di coſe , ' fa corriſponder due generi di cognizione ; delle coſe immutabili , ed eterne ſi ha ſcienza , dell' altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee , perchè ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro , nè ſi può ſapere ſe non ciò che è , ed è ſempre nel medeſimo modo ; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè continuamente fluendo , non ſono mai nello ſteſ fo ſtato . Come dunque Placone nel Tilebo , dà fcienza dell'idee , e nel Parmenide non la dà ? La riſpoſta generale è , che da cid che ſi dice in un Dialogo ,nulla deve inferirſi relativamente a cid che ſi dice nell'altro , perchè Platone non ragiona ſecondo la ſua ſentenza , come nelle lettere per eſempio , ma ſecondo le ſenten że altrui ; oltre a cid , Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli è manifeſto , che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto ,ſenza poi procurarſi di cercare , ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini , I Matematici definiſco no il cerchio , e il triangolo in quanto è poffibile , nè fi curano ſe eſiſta o.no : quindi ben ' li definiſce la Filolofia , la Scienza dei poffibili in quanto tali ; nel Parmenide non della poſſibili tà , ma dell'attualità della ſcienza ſi tratta , e Parmenide mo ftra , che dandoſi l' idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe , perchè non hanno alcuna proporzione con noi , e con le coſe .noſtre . 5. 15 . Ammettendo con S. Agoſtino , e S. Tommaſo , cheIddio ab bia idee , e molte idee , onde per eſſe conoſca i ſingolari , i fu turi , i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire , che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio , o che poliamo conoſcere co me per queſt' ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio , ed il Poiret, che lo tentarono , caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1 . 16 . ( 64 ) . S. '16. : s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea , come la bontà , la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza , non ha alcuna proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla , poichè le ſcienze intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi , o su le coſe che ſono intorno a noi . Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale , nè men poſſiamo conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre idee convien participar dell'idea della ſcien za , ciò che è impoflibile : Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del la ſcienza , come potremo ſcientificamente , o chiaramente , e diſtintamente conoſcere il bello , l'oneſto , il giuſto , e l'altre idee ? Nulla a mio credere v'è di più acuto , e profondo che queſtº argomento , e quel d ' Ariſtotele non l'eguaglia , benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate . Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza , non ſi può per eſse ſpie gar il moto , dalla cui cognizione dipende quella della natura ; dunque l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte . Coloro i quali amiſero con Eraclito , che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso , ricorſero all'idee ſeparate , le quali immutabili eſsendo , ſomminiſtravano a? Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema ; la difficoltà è come i Filolofi le conoſceſsero , ſe la lor mente , non nell' eſsere , ma nell operare dipende dagli organi del corpo umano , ſoggetto alle vicende dell'altre coſe fenfibili ? f. 17 . All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro greſſo all' infinito , Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine . Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo , e del cur vo , così il cumulo di tutte le perfezioni che è in Dio ; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle perfezioni di Dio ſteſso , e di quelle dell'altre coſe . Per via del principio di contraddizio : ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio , e per via , o di negazione , o di eminenza , o di caſualità , fi di moſtrano le infinite perfezioni di lui , onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua l'annullazione di qualche perfezione divina , l'al ſur ( 65 ) ſurdo è maſſimo, perchè Dio nell' effer principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza , e nulla può eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina . Socrate non potea non conoſcer Dio comeprincipio intelli gente , dunque era neceſſario , che gli attribuiffè l' idee non me no convenevoli all'intelletto , che i tre lati ad un triangolo ; pur tace Socrate , quando Parmenide gli prova , che la perfec tiſſima ſcienza o P idea della ſcienza convenendo a Dio , egli per queſt' idea non poteva conoſcer le coſe , ciò che era con trario alla divina natura . Par dunque che Socrate ſupponeſſe l' idee ſeparate , ma dall'altra parte Ariſtocele dice chiaramen te , che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli univerſali . Non ſi ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà , di cendoli che Platone , per bocca di Socrate , parlò dell' idee in fenfo poetico , per aver occaſione d'annullarle, e propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele , e della quale poi ſi ſervì contro que' diſcepoli di Platone , che realizzarono l' idee ſeparate . . 18. Annullate l' idee ſeparate , la voce idea nel progreſo del Dia logo , tutta fi riſtringe all' idee , che la mente aftrae comparan do le coſe . S'è già accennato ( $ . 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza , e de' ſimili , e li vedrà inoltrandoſi , che egli parlando dell' uno e dell'ente, proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza , e con queſta fino sbra narle', che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee , ſecon do i rapporti delle coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime ; nulla v'è di più ſemplice dell'anima per ſua natura indiviſibi le , e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze , ſecondo le rela zioni , che ai varj organi del corpo ella ha operando , onde fi dice che ella ſente , ë che ella immagina . Nella parte ancora intellettiva , ſi diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare , e di aſtrarre , e di combinare e di , e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente , e ingelletto, ( c ) voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di confrontano ai varj uffizj dell'anima ; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l' aſtrazioni fonda te . La fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle ſen Tom . 11. i (a) Mens è detta a menfura , poichè l' anima compara , e miſura le coſe , Intellectus da intus legere , poichè intendendo ſcieglie , e deduce una cola da un' altra . fibili , ( 06 ) fibili , la metafiſica da ogni materia . Vuole il Patrizio , che come in una gran parte del Sofifta , čosi in tutto il Parmeni de non ſi tratti che di quella metafiſica , che Ariſtotele colſe da Placone , e di cui le prime idee ne diedero i Pitcagorici , e tra gli altri, Archira e Peritione; io v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti , cioè l' ontologia , o la ſcienza , che tratta delle proprietà dell'ente , in quanto ente , e la Teolo gia naturale o la ſcienza , che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia , come Dio e l'anima , Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia , e manifefte ne faranno nel progreſo ſo le prove ; baſta accennar qui , che dovendofi dar un elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee , ſcieglie Parmenide l'idea dell'uno , applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni . Due coſe aggiunge alluſive all'analiſi , ed alla ſinteſi . La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo il poter apprendere , come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa , ciò che ſi fa cominciando dall'analiſi , o dall'eſame delle coſe particolari , e per l'aſtra zione , elevandoſi agli univerſali ; la ſeconda , che ufficio è di uomo meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate , ciò che ſi fa per la ſinteſi , combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi deducono i problemi , e i teoremi , ed indi i corollari , e le annotazioni. Sommo acume di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni , e di nuovo da .quefte aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee , e ſomma fodezza , ritrovare l'idee , concatenarle in guifa che alcri con facilità , e prontezza le intendano, e l'uno , è l'altro dimoſtra Parmenide , o col luo nome Placone. SEZIONE SECONDA . Se l'uno che ne ſegua . b . I. Vuol Uole il Ficino , che queſta prima fuppoſizione debba inten derſi . Se l' uno , perchè il verbo è , o ſia la copula del predicato o del ſoggetto v'è pofta , non in grazia della coſa , ma dell' orazione . Nel legger la nota marginale del Ficino mi ricordai, che Licofrone ( a ) invecedi dire , il parete è bianco , di ceva il parete bianco , ed altri il parete biancheggia , quaſi che Platone non riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion ſenza verbi , o che (a ) Ariſt. 1. Phil. 9 ( 07 ) che i verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo ſteſſo il dire , io amo , che io ſono aman te é io biancheggio , che io fono biancheggiante ? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione condizionata , ed implicità fé uno , nè così la propone Parmenide , ſe non per intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi , che all uno preſo in un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto prin cipio della linea ; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro ; e nell' ontologia dall' uno traſcendentale , che conviene ad ogni noftra idea . Eſclude tutte le relazioni , perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A , B , C ec. non è più uno , ma molti , in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che ſi riferi ſcono ai molti . Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere , e l'alore dell'ente in fpecie . Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà , e la di verſità , perchè non competono meno alla ſoſtanza , che alla quantità , qualità , ed agli altri predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono , la limiglianza , la diſſimiglianza , Peguaglian za , l'ineguaglianza , l'antichità , la novità eco perchè competo no o alle fole qualità , o alle ſole quantità ec. * l une e l'altre intanto ſi dicono relazioni , in quanto non conſiderano le coſe in ſe ſtelle , ma relativamente tra loro : il diffimile , l'eguale ec. non li concepiſcono ſenza i due termini , che tra loro fi paragonano . Se l' uno in quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa , biſogna eſcluder da lui tutte queſte relazioni , tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti. Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che ſono quelle della quantità ; paſſa alle relazioni della qualità , e ad alcre , e finalmente all'eſſenza ; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può aver all'opinione , al la ſcienza , é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto aftrat tiſſimo fi nominalle , avendo ogni nome relazione al ſenſo , al la fantalia , od alla mente , e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti . Si ſente più che non s'eſprimequeſt' ultimo grado , ed abbiamo grande obbligazione a Platone , che in que Ro Dialogo , nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica , ci ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non moltiplicarla , che fino ad un certo grado , a fine che l'idea coll' altrarla tanto non s'inlanguidifca , è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più ravviſarla in quella guiſa , che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri , al fin diviene si ombratile , che ſvaniſce da. gli occhi . Frattanto era neceſſario dimoſtrare in un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè , l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la mente , non eſſendovi altro modo di accennare , come in ogni quiſtione s'arrivi a quell' ultima idea , in cui conviene che vi ci ripoſi , anco malgrado l'impeto innato , che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci. Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi , come era in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa , procurerò deſprimer diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi Parmenidea . Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni, e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla ; onde bafta ſolo ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie , eſtrar la propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri . L' uno non è molti . Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione ; qui fo lo avverto , che come il Wolfio , dopo d'aver definito , che l'en te ſemplice è cid che non ha parti , da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è ſteſo, non è diviſibi le , ſenza figura , ſenza grandezza, che non riempie ſpazio , che non ha moto inteſtino ec. Così Platone , da ciò che è l ' uno , dimoſtra le fteſſe coſe , e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando , e deducendo dalle nozioni preme{le . g . 3 . 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con molti ; per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale , che chiamaſi totum , ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo , come ſi vedrà fra poco , conviene non meno alle quantia tà , che alle qualità , ed alle ſoſtanze , e l'idea di molti è più univerſale , che quella delle parti , convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi . Parmenide non definiſce qui , che il tutto integrale , raccogliendo inſieme le 1 ( 69 ) le parti , e limitandole in uno, a cui niente manca , ed è per fua natura indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti , e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe , che il tutto è prima delle parti, e non le parti del tutto , il che , ſe ſi crede al Patrizio , tolfe da Ippodamo Turio . ( a ) §. 4. L'uno non è nè tutto , nè parte di sè . Se l'uno è tutto non vi manca alcuna parte , ( $. 3. ) dunque ha parti ; dunque è molti contro la definizione dell' uno ( $. 2. ) Se l'uno è parte di sè , è un tutto riſpetto a sè , ma non pud eſser un tutto , come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. COROLLARIO . L'uno non effendo nè tutto , né ſteſo , od è indiviſibile , o è ſemplice. parte , non è 8. S. Ogni cutto ha principio , mezzo , e fine . Cid vuol dire , che propoſtoſi un turco nel numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima , e li progrediſce all' ultima paſſando per le intermedie . §. 6. L'uno non ha principio , nè mezzo , nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ( $ . 5. ) il che è impoſſibile ( 8.4. ) Α Ν Ν Ο Τ Α Ζ Ι Ο Ν Ε . Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine ; offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice , che l'infinito ( o piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio , nè fine, cioè non ſi sa in eſſo , nè dove comin , ciar la numerazione , ne dove terminarla . In queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita , o indefinita , le comincia da un punto , nè una ſuperficie, nè un corpo , ſe la ſuperficie comincia da una linea , e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici , che cominciano da un termine , non compere la definizione, che Platone aſſegna dell'infinito , da cui eſclude il principio , ed il fine . ( a ) Diſcuſ. perip. T. 2. p. 280. ܐ S. 2 : ( 70 ) S. 7. L ' uno è infinito . L'uno non ha principio, nè fine ( S. 6. ) Dunque è infinito . ( An. Si 6: ) 9. 8 . La figura è una parte dello ſpazio , o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti , o è retta come il quadrato , il cubo ec. o ro tonda , come il cerchio , la sfera , Pelifli , l'eliffoide ec. o miſta dell'uno , e dell'altro . Il principio della figura è dove i moder ni pongono il vertice , il fine dove pongono la baſe" , il mez zodove la figura fi divide per mecà . 8. 9 . L'uno non ha figura . Ogni figura, o recta , o rotonda ha principio , mezzo , o fine ( 8. 8. ) ma l'uno non ha principio , nè mezzo , nè fine. ( $ . 6. ) Dunque non ha figura. COROLLAR10. L'uno è infigurabile. $. 10. Non lo può concepire' , che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere con la mente , che ella è comprendente e compreſa , cid che è concepirla due volte , o di uno far due . Non ſi può conce pire , che una coſa ſia in altrui , ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia , o comprende la coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui , od effer in ſe ſtello ,, ſono due oppoſti ſenza. mezzo , come il moto , e la quiete . So IT . L'uno non è in luogo. O ſarebbe in sé , o in altrui ; ( $. 10. ) ſe in sè , egli ſarebbe a sè il ſuo luogo , onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo , e comprendente , e compreſo , cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ( $. 2.) ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 ( 71 ) be toccato in molte parti, onde avrebbe molte parti contro la definizione. ( §. 2. COROL. L'unonon è circonſcritto da alcuna coſa , terra , Cielo , materia , ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto argomento lice inferire , che Parmenide cob ſidera qui l'uno , in quanto è dalla mente aſtratto da corpi , che ſono in luogo ; s'è già oſſervato , che l'ontologia degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia , dalla forma, dal compoſto, dagli accidenti ; onde queſt'uno aſtratto da corpi , e da loro dipendente non ha alcuna relazione a Dio , ch'è un ente per sè , in sè , infinito cc. . 12. Il moto alla ſoſtanza , ſecondo Ariſtotele , è quando una coſa , per eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra , e comincia ad eſſer pianta . Il moto alla quantità è quando una coſa , per eſempio un fanciullo creſce nella ſtatura , ed un vecchio decreſce . Il moto alla qualità è quando per eſempio la carne d unUomo fredda , dura , ed aſpra , li fa da sè calda , molle , liſcia . Preten deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca , che facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro , li diſtingueſſero dal moto locale , nel qual altro non ſi con ſidera , che il paſſaggio da un luogo all' altro : Parmenide , o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni, all'accoppiamento delle parti , e quindi all aumento delle qualità , due coſe accom pagnate dal moto locale , o di traslazione. Lo conſidera egli in linea retta , oin cerchio , nel qual moto una parte della coſa & forma nel mezzo , e le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo . Vuol poi , che tutto ciò che ſi genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla . Platone nel Teeteto dice per bocca di Socrate : Se dimoſtran eli una ſpecie di moto , o due ſpecie , come a me pare , nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo , mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque coſa face cia meſtieri, ficchè mi di , cbiami tu forſe moverſi , quando alcune coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie ? Teodoro glie lo concede. Socrate ſoggiugne : Dunque fiare una specie questa , ma quando fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia , o di bian , ca fi fa nera , o dara dimolle , e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti ? ... Ora dico che fieno due le ſpecie del movimento cioè alterazione , la ( 72 ) la circonferenza. Egli dice circonferenza in luogo di traslazione in cerchio , per moſtrar che nel pieno ogni coſa va in giro. , Conſidera poi quì , che nel farſi una coſa vi la un accoppia mento , nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa , mentre l'altra parte , che ſi deve aggiungere , è ancora fuori della coſa . 1 $. 13. L'uno non ha moto di alterazione , nè di generazione . Non di alterazione , perchè ſe ſi altera non è più uno , ac quiſtando nuove qualità ; ſe fi genera non è più uno, acquiſtan do nuove parti . Or nuove qualità , e nuove parti fanno molti ; dunque ſe l' uno o fi altera , o fi genera , è molti contro la de finizione . IN ALTRO MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra , perchè tutto ciò che è , o fi fa, è in qualche luogo , ma ſe l'uno non può effer in un altro ( S. 11. ) nè meno può farſi in eſſo . In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro , non ancora ella è ſe ſi fa . Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei , e una fuori di lei , perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo , ma l'uno non avendo parti ( 5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè , nè tutto , nè parte fuori di sè . Dunque non può ge nerarſi . Corol. L' uno non è generabile , nè alterabile , nè par § . 14. L'uno non ha il moto di traslazione . L'uno non è in luogo ( 5. 11. ) ma la traslazione in linea ret . ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo . Dunque l ' uno non eſſendo in luogo ( $ . 11. ) non può mutar il luogo , ſecondo la linea retta , ma nè meno pud mutarlo , ſecondo la linea circo lare, perchè deve raggirar nel mezzo , e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo ; ma l'uno non ha nè mezzo , né parte , dunque non può rivolgerſi in cerchio'( . 13. ) Dunque le alluno non conviene nè l'uno , nè l'altro , non gli conviene il moto di traslazione . Q. 15 . 1 1 . 1 ( 73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto , nel concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile , o ſia il rapporto continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi conti gui ; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe parti dello ſpazio , e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio . $. 16 . Luno non è nè in quiete , nè in moto . L'uno non è in sè , nè in altrui ( 9.11 . ) ma ciò che è in quiete , è ſempre nello ſteſſo , ciò che li move è ſempre in al trui . Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo , nè in altrui, non ſi ripoſa , nè ſi muove . $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion di tutto , di parte , di principio, di fine , di mezzo , di figura , di luogo , di moto , cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla quantità, come la più nota , e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era infinito , im mobile , non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile , che egli ne arecaffe le ſteſſe ragioni , che poi Parmeni de più fteſe , ed affottiglid ? Paſſa Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla qualicà , di cui le prime ſono l'identità e la diverſità . Non premette Parmenide alcuna definizione dello ſteſſo , e del diverſo ; come fece del tutto ; dai Pittagorici ( a ) impard , al dir del Patrizio , che l'identità , e la diverſità non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente , ma come generi ſecondarj , i di cui primi ſono il moco e la quiere . Ariſtotele all'incontro riduce l' identità a una certa unità , e dichiara che ella come la diverſità appartiene alla ſuſtanza , poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono , o nella materia , o nella ſpecie , o nel numero , o nel Tomo II. k gene ( a ) Diſcuſ. Perip. T. 2. p. 207. ( 74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità , e di verſità alle qualità , e da lui impårarono i matematici a dire , che le ragioni o proporzioni , che ſono le ſteſſe con una ſtella , ſo no le ſteſſe tra loro ; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore , di lume ec. e. parimente ragioni diverſe , di verſo grado di calore , di lume ec. Dunque non alla ſola fo ftanza , ma alla quantità , alla qualità , ed agli altri predicamen ti apparciene lo ſtello , e il diverſo . Inliftendo il Wolfio su le nozioni ſcolaſtiche , dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo . Quelle coſe , dice egli , fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo qua lunque predicato , che loro aſſolutamente , ſotto qualche con dizione convenga ; ſicchè fatta la fortituzione , la coſa reſta ta le , come ſe non foſſe ſtata ſoftituita . Se in una bilancia , in cui ſang equilibrati due peſi, in cambio di un peſo , d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo che l'equilibrio Loro non lia tolto , queſti due peſi, in quanto peſi, nulla diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi . Se nel peſo che è prima nella bilancia , vi foſſe una certa figura , ed un certo colore , eun cer to grado di calore , e di freddo , ed anche un certo odore , e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo che ſi ſoſtituiſce , que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo , e nell' altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma di ſe ſteſſo , o cui ripugna d'efiftere due volte ; nel dirſi, queſto triangolo è que ſto triangoló , ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo , onde convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto , e al predicato , egli è manifeſto , che il triangolo in quanto è nell' uno , e nell' altro non ha doppia eſiſtenza , mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli , che ſcambievolinente non poſſono ſoſtituirfi , falvo ogni predicato che all' uno , o all' altro aſſo lacamente o condizionatamente convenga . Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio , il pelo ſofticuito è diverſo dal peſo , di cui preſe la vece ; egli è diverlo in ragion di peſo , benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza , nella figura nel calore , ed altre qualità . Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un predicato , e diverfe negli altri ; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo , e il diverlo in affoluto , e in relativo ; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza ; ſono relativi le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri . E'cid neceſſa rio di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 ( 75 ) fo , e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la coſa , perchè a lui baſta, che l'identità , e la diverficà fiano affezioni, o generi delle coſe non preſe in sé , ma relativamente all'altre , baſtando queſta fola relazione per eſclu derle dall' uno ; quindi può facilmente dimoſtrarſi, che l'uno non è , nè a se , nd ad altrui lo ſteſſo , perchè nel ſuo concerto aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione ; ma Parmenide in alcro modo lo dimoſtra , rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria , che l' uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti . Ciò ſi rende ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I , e poi aggiongendovi A , o qualche alera lettera , onde egli fia prima i , indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo ſteſſo , nè diverfo a sè , nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo , ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i , dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A , dunque non più i contro l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello , cioè 1 + A non cið che è , od uno , il che di nuovo è contro l'ipoteſi . . 19. L'uno non è diverſo , nè da altrui , ne da ſe ſteſſo . L'uno convenendo con tutte le coſe , perchè d'ogni coſa ſi dice , uno non è diverſo da effe , che in virtù di qualche predicato ; dun que in quanto non è più uno ; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe . Non è la ſteſſa la natura dell' uno , e dello ſteſfo , perchè quando una coſa li fa la ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno ; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo , che il colore di B , non perciò mai A è B , perchè le due coſe colorite comparandoſi, benchè con vengano nel colore , e in queſto fieno uno , non perd convengono nell ' çliſtenza , Se gli Itelli non ſi conofcono , che per la Toſti tuzione, gli ftelli convengono bene ne'predicati ; ma ſono fem pre due . Dunque quando una coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra , di due non ſi få uno , ſe non inquanto ſi concepiſce, che con vengono , o nella quantità , o nella qualità ec. ma non perchè convengono non ſono due ; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno due , e cosi l'uno non è uno , o reſtando uno non k 2 ſi può ( 70 ) la pudfar ſoſtituzione . Dunque non pud dirſi , che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo . 20 . Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili , e diffimili. Aris ftorele dice , che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo , ei diffimili quei che pariſcono il diverſo ; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la qualità ,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità , e diverſità , il che imparò da Platone nel Filebo ( a ) e più facilmente dal Parmenide , ove Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego , il diffimile , ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità , come attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto , il quale nel riceverle in cerca guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza . Su queſte orme Parmenidee , il Wol fio definiſce i fimili quelli , in cui le ſteſſe ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi , onde ſecondo lui , la fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi linea menti , ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io ritrovo , che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti , in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono , che vuol dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze . Il Wolfio fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici , ben oſſervando , che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto , fi riducono al quale . re , S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno , o a se , o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto ( . 20. ) ma l' uno eſclu de lo ſteſſo ( S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa fuor di quello che è l' eſſer uno , pa tiſce d'eſſer più l'uno , perchè egli è l'uno , ed inſieme la coſa che pariſce , onde almeno egli è due o molti ; dunque non è più uno ; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo , o loco , o con altri , non può eſſer a ſe ſteſſo , o ad alcri ſimile , ( a ) Patriz. Diſcuſ. perip. p.202. Il ( 77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità ( 5. 20. ) ma l'uno non può parire diverſità , dunque non è , nè diverſo da lui, nèda altre coſe, altrimenti non ſarebbe più uno ; dunque l'uno non è diſli mile , nè a ſe ſteſſo , nè ad altrui . 1 l . 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno , nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza , nè la diffimiglianza, paſ fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale , due pro prietà delle grandezze comparate P une all' altre ; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo , da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto minore . L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure , paragonato al mag giore ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con Socrate ad bominem , fi ferve del ter mine di participare , che non è allegorico , ove ſi tratta di par ti . Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con l'uni tà , e col numero, è manifeſto , che la miſura è ſecondo lui quan tità ; pur gli attribuiſce lo ſteſso , e il diverſo. g. 23 . L'uno non è , nè eguale , nè maggiore , nè minore . Non participando , nè dello ſteſso , nè del diverſo , non parte cipa mai, o le ſteſse , o le diverſe miſure , in conſeguenza non è nè eguale , nè maggiore , nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti , così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive , le quali paragonare l'une all' altre, compete loro lo ſteſso e il diverſo , cioè il più, e il meno . Si dice che due Uomini hanno la ſteſsa età , quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per maggiori o minori rivoluzioni ſolari . L'antichità , la vetuftà , la novità ſono relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva ; antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro ; nuo vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro ; il giovane , il vecchio , ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini, mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe . 9.25 . ( 78 ) f. 25. L'uno non è più vecchio , più giovane di ſe ſteſso , o dell' altre coſe . L ' uno non pud participare , oo delle ſteſse ,, o di maggiori o minori miſure degli enti ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso , e del diverſo ; ma quel ch'è più vecchio , partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di minori , dunque ec. g. 26 . Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane , mi è neceſsario trasferire alcu ne nozioni della ſeconda ipoteſi , ed aritmeticamente ſvilupparle . g . 27 6 3 5 4 Se il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a' conſeguenti d'una grandezza eguale , il rapporto ſempre decreſce . Sieno i numeri 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta dell'unità , èmanifeſto che ( a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle ragioni . Il valore della ragione di = it ; il valore di = ito il valore di = i + . Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3 anni , e B D l'età d'un | fanciullo di due anni , s' aggiunga alla А С F prima età un anno , ciod ad " A C. s'ag giunga CF , e alla ſeconda età B D SA D G. aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di } ; li vada aggiungendo ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio ni di e di . Egli è manifeſto , che il fanciullo di tre anni è più vecchio di quello di due, ma nel creſcere all'uno , e all' al > 3 4 Ā 1 B tro ( a ) Il ſegno è quello del maggiore , Il ſegno di < del minore . Il ſegno è quello dell'eguale . ( 79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore dell'altra ; molto minore è quella di , e molto più minore quella di onde ſebben il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro , contuttociò per l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente , perché dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1 , e quindi , ſempre mi nore . Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due fanciulli , ma ſi conſideri folo l' erà di uno , che ſempre riſpetto a ſe ſteſso creſce di un'anno , egli è manifeſto , che per queſto eguale accreſcimento , nel decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati , lo ſteſso fanciul lo nel farſi più vecchio di ſe ſtefso , fi fa ancora più giovane. Si vede quindi , che nel farſi il più vecchio dal più giovane , fi fa cid dal diverſo , e che non è diverſo , ma'ſi fa . Corol. Lo era , lo efser ſtato , il li faceva , ſignificano i modi del tempo paſsato ; il ſi farà , il ſarà , e ſarà per farſi, i modi del fucuro o dell'inanzi ; l'eſsere , il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non è in cempo . Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo ; dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio , ma queſto non pud eſsere , come s'è dimoſtrato ( 9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi più vecchio , ſi fa più giovane di ſe ſteſso , ( §. 27.) ma l'uno non può farſi più vecchio , nè più gio vane di ſe ſteſso , perchè non può farſi , nè una cola , nè l'altra ( 9.25. ) Dunque non è in tempo . Il più giovane che ſi fa dal più vecchio è diverſo da lui , e non è ma ſi fa , ma l'uno non può ricever il diverſo ( § . 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane ; dunque non è in tempo . Il più giovane non ſi fa dal più vecchio , nè in più lungo tem po , nè in più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso , o fia , o ſia ſtato , o ſia per dover eſsere ; ( § . 27. ) mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale ( § . 23. ) Dunque nè meno dell' egual tempo ; dunque non avendo le paſſioni del tempo non è in cempo . . 29. ( 80 ) S. 29. L'uno non partecipa , nè del preſente , ' nè del futuro nè del paſſato . L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem po , ma le paſſioni del tempo ſono , il preſente , il paſſato , il futuro . ( $ . 27. ) Dunque non le partecipa . Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo , non fu mai , nè ſi faceva , nè era , nè ora è fatto , nè fi fa , nè farà . 8. 30. Ogni ente , o ciò che è partecipe di eſſenza , è , ſecondo Plato ne , o nel tempo preſente , o ſarà nel futuro , o fu nel paſſato . Nel Timeo egli dice , che Dio per far il tempo fluente nel numero , fece un'immagine dell'eternità . Dunque l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente , e ciò pur dicono i Teolo gi nel diffinirla con Boezio , una poſſeſſione tutta inſieme di una vita interminabile . Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno , gli nega l'eternità , onde è egli evidente che non parla di Dio , ma ſolo d'un ente di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che involve rela zione a qualche coſa , ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte , qui Parmenide non eſclude dall'uno , ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe corporee e viſibili, il tutto , le parti , il luogo , l'eguale , il maggiore , il minore, la generazione , la traslazione , le differenze del tempo ; e ciò che dice dello ſteſ. fo , e del diverſo , del fimile , e del diflimile , che pur conven gono alle coſe incorporee , lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1 . 31 . L'uno non è , o non ha eſſenza . L'uno non partecipa del preſente , del paſſato , del futuro ( 9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno , o dell'altro ( $. 30. ) Dunque l'uno non ha eflenza . Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come uno , cioè a dire oppoſto amolti , ſi debbe eſcludere , oltre l'eſſenza attuale , an cor la poſſibile , perchè la poſſibilità come fonte, e principio del, la ( 81 ) la realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte , é dall' uno ogni relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente , di ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico , il metafiſico , il matematico , e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario ancor chimerico . . §. 32 . tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei predicati delle co ſe , ed è l'eſſenza , e queſta non ſi dice d'altre coſe , o d'al tre eſſenze , ma bensì o gli attributi , i modi , e le relazioni fi dicono deſsa ; cal è la definizione logica , che Ariſtotele diede della ſoſtanza , chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano d'eſsa . In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto , non differiſce dal la foſtanza , che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa , ed agli aleri de' quali è ſoftegno , per il che ſi dice , che ella non ha contrario , e non è capace di più, e di meno . Se l' uno non può predicarſi dell'uno , o di le ſteſſo , per non radoppiarlo o farne due o molti , egli è manifeſto , che non è ſoſtanza to più ſe fi conſidera col Wolfio , che nella nozione della fo ſtanza, v'è qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią , come un valo od altra coſa , che in sè ri. ceve gli accidenti . $. 33 L'uno non è ſoſtanza . L'uno non ha eſſenza . ( S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ( $ . 32. ) ſ. 34. La ragione è propriamente quell'atto della mente , che da una coſa n'inferiſce un' alera , od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità univerſali ; la ſcienza è la cognizione cer ta , ed evidente delle coſe, ed è tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra . Nell' attribuire una coſa ad un altra , ſe li ha qualche cimore , che ad efla ſi poſſa attribuire l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono , che le coſe ſingolari , o determinate in ogni parte , e quindi compoſte di molti . Da queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza, dell'opinione, del Tom . II. I fen ((82 ) . fénfo s } includono moki , çd - in oltre che ogni coſa , che .0.4 ſénte , o su cui di ragiona fcientificamente , od opinabilmente , ha un' eſſenza attuale o poflibile ; falfa o vera. 1 $. 356 Dell' uno non li ha ragione, ſcienza , opinione , ſenfo . Quefte coſe includono molti , e dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza ( §. 34. ) ma l' uno non ha eſenza ( S. 31. ) e non in olude molti (.9.,2 . ) Dunque ec, g . 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe , della cui eſſenza , o per ragione, o per opinione, o per ſcienza , o per ſenſo ſi ha un ' idea o chiara , od ofcura, o diſtinta , o , confula , o miſta di que Ite differenze. S. 37 ... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:( : 34:) Dunque l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto , ſi può for mare tal fillogismo . Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono, eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno ; ma cid che appatriene alla quantità , alla qualità ; alla refazione ec ? vi s'includono imolti ; dunque devono queſti eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno , . ] Se fi diceffe , che così concludendo ſi confonde l'uno col nul la , manifeſto è l'inganno , poichè la definizione del nulla è , che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva , o negativa , ciò che elclude dal nulla ogni realtà . Quando'io dico all'incontro, l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà , benchè eſplicitámen te io non vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto s’oppone a molti , e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal conſiderar l' uno , o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero ; noi poſſiamo, come accennai , più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen tali , e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo ( 83 ) mo ſe poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri ; nè per altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe , che per addeſtrar la mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio quell' idea , in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado , ove pofla mai giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti della arte , che l'imita , fe non ned maffimo . Io dimando al Lettore ; che legge attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario , fè altro faccio in effo , che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto : Abbia pur Pro clo , e gli altri Placonici , e Gentili , e Criſtiani confiderato queſto Dialogo , non come ontologico , ma come Teologico , io ril pettando , e la dottrina , e l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce , che degli intelletti più fublimi del mio , teologicamente non l'inalzino a coſe maggio ri , come fece il Cardinal Befarione , applicando a queſto Dia logo la dotrrina del preceſo S. Dionigi Areopagita . Si può ri leggere avendo preſente tútra l'intiera ſeſſione , quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo : Dio'è un en te fingolariſfimo , e nell' applicarvi quel che conviene all' en te di ragione ; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro ; la merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel riferir la prima ' alle coſe , queſte includevano Dio , che gli antichi non ſeparavano dalla mate ria , che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda conſiderando fe coſe non ha a Dio , che un'analogia molco lontana, perchè fi diſtingue eſenzialmente , é realmente dalle ſteſſe . SEZIONE TERZA. Se l'uno è , quali coſe adivengono intorno ad eſſo . I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia meſtieri, che ſucceda- un cert' uno , ma ſe vi ſia l'uno ; o pure ſoſtituendo la nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta ne fiegue', che' l'uno non è la pro : pria 'eflenza , o che l' effenzà, e l' uno non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza , dice preciſamente la: non ripugnanza dei predicati, e chi dice uno , dice 'non molti . ; Nel cratcat queſta: ſuppoſizionë , Platone comincia a frami I 2 fchia ( 84 ) ſchiare all' aſtrazioni le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto , perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò , che non è che un' imaginazione ed imaginazione tallora falſa , da cui li deduce una contraddizio ne , nèſempre però vera , ma apparente , il che raddoppia l'ab baglio , ſe non vi s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico , in tanto mi ſia lecito di contraſegnare con due ſimboli diverſi , A , e B , i due concettidell'ente, e dell'uno . Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due parti, che io tra loro ſeparo con la mente , per ragionarne più diſtintamente fi 2. Se l'uno è , ogni parte di queſto tutto ( uno è:) può dividerſi in infinite particelle . Si prenda la particella uno , e ſi concepiſca come ſeparata per un momento dall'altra particella ence , poichè per la fuppoſizio ne l'uno è , egli è manifeſto , che conſta di due particelle , uno ed ente . Di queſto nuovo compleffo ſi prenda la particella uno , e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due altre , ente ed uno , e così all'infinito . Or ſi prenda l'altra particella ente, e poiché ogni ente è uno , ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali di nuovo fi divideranno, e così all'infinito ; dunque ogni particel. la del cutto uno è , ovvero è l'uno , ſi divide in infinite particel le all' infinito . Così può ſenſibilmente rappreſentarſi . Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a + 2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente , uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1 uno , Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno , e dell'ence dedotto dall'ente , o da A , e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo compleſſo imma ginario dell'uno , e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone fuppone darli reciprocazione tra le due pror ( 85 ) propoſizioni l'uno è , è l'uno , nella prima delle quali l' uno è il loggetro , cliente è l'attributo , e nella ſeconda l'ente è il ſoggetto , e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio , quanto l'attributo , onde può reciprocarſi la propoſizione . Il triangolo è una figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo , ma non già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero , perchè non ogni numero è ternario . Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno , l'uno ſi moltiplicherà come l'ente , onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o che l'uno è mol ti . Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi , ma è con traddizione immaginaria od apparente , perchè l'uno per sè non è molti , ma è molti per accidente , cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi , ſecondo gli enti che lo partecipano , onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo , e ſecondo lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3 . Platone s'inoltra con le nozioni immaginarie . Conſiderando l? uno , in quanto partecipe di eſsenza , lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza , ſpartato da quello di cui diciamo che ſia par tecipe , cioè dell'eſsenza . Ciò vuol dire , che dell'ente , e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A , e per B. ANNOT. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente , s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente . $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente , e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza , ed altro l'uno ( : 32. Sez. 2.) Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo , e l'eſsenza in quanto eſsenza è diverſa dall'ano ; dunque l'uno , e l'eſsenza ſono diverſi ; Co sì può illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la non ripugnan za dei predicati coſtitutivi ; l'uno in quanto uno include l'oppo Gizione ai molti , ma queſti due concetti tra loro non convengo no ; dunque ſono diverfi. 8. 5. ( 86 ) $ . s . L'eſsenza , l'uno , e il diverſo fanno tre concetti o tre coſe trx loro diverſe . S'è già dirnoftrato , che l'uno , el ente non termi nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro , ma il diverſo non includendo nel ſuo concetto , che la non convenienza , fa un concet to diverſo , ed in conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due ; dunque l'eſsenza , l'uno , il diverſo fanno tre coſe diverſe. . 6 . Si rappreſenti l'uno per A , l'enre per B , e il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A , B ,CAC uno in due Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A , B , C, o dall'ente , dall' uno e dal diverſo il 2.primo pari , il ' tre primo diſpari , dae volte 3 parimenti impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri . Combinandoſi il 2 il 3 due volte, tre volte e fin quattro volte , ma non altre , ſi compongono tutti i numeri: fino al dieci . It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 + 2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te : 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 = 10 II 10 è fatto dall'ı , e dal o , e ſignifica ', che il primo articolo dei numeri termina alla prima decina ; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge l'i , il 2 , il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina , e collo ftelso metodo alla terza , alla quarta ec: fino al 100 , che è la decima decina da cui ſi va fino a 1000 , o 10 volte 1oo ec. I Pita ( 87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito , come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma : dot trina , dice nel Eilebo Platone , la quale diſcende dagli Dei ; queſta è , the tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato ; o piuctoſto l ' indefinito . Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo ſimboleggiavano nel 2 , o nel binario , poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in due e ognuna delle parti in altre due , ; e così all'infinito . Quando a queſto infinito s'aggiungea luna , che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il compoſto che era l'altro principio , di cui par la Platone; queſto compoſto dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto , in cui vera principio , mezzo , e fi në . Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3 , e lo chiamavano numero perfecto , medio , e proporzione ; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, € rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione continua , aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4 , numero che immediata mente luccede al 3 , ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè cominciando la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6 ; nel continuare la proporzione con queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano . S. Agoſtino per ciò offerva co'.Pittagorici , che la perfezione dei numeri è ne quattro primi , in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi , e i mezzi agli eſtremi . Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro numeri 2 3-4 , 1 ' 2'3 ? ſ. 7 . Se l'uno è , egli è ogni numero . Nella combinazione dell'uno , dell'ente , e del diverſo fi de ducono tutti i numeri ( 9. 6.), Dunque nell' uno , in quanto è , vi ſono tutti i numeri, ; Carol . Il numero eſſendo molti nell' uno , in quanto l'uno è . , egli contiene moltitudine, e perchè i numeri fono infiniti nell uno che è , vi farà una moltitudine infinita . COROL. 2. Il numero in moltitudine infinita , eſſendo inclu ſo nell'uno che è , farà egli partecipe d'eſſenza . Si prenda la ſerie naturale de numeri 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie 200 , 30, 40 , fino 200 = 60 altra unità eterogenea , da cui comin ( 88 ) . cominciali, un' altra ſerie 2 co ' , 300'ec. ſino a o , e cosi all' infinito . Se di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec . co ' ... 00 ? ... oo ... , fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione . Cominciando da uno , li può con le frazioni continuar la ſe . rie decreſcente con lo ſteſſo ordine che l'altra , onde 1 I 1 ec . • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec . 4 Combinando la ſerie dei finiti intieri , rotti , e degli infiniti matematici , e immaginarj , fi ha tutta la ſerie . ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In queſte eſpreſſioni non v'è errore , purchè non s' attenda , che alla proporzione delle quantità , nè ſi realizzino i ſimboli . Ma non biſogna credere , che la numerazione ſia terminata , po tendoſi concepire , e tra gli intieri, e tra rotti , e tra gli infi . niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono , come ben prova il Ba rovio , veri numeri ( ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di vere quantità, come i numeri , ointieri, orotti , e gli infinitamente grandi, egli infinitamente piccioli. Platone , al dir d'Ariſtotele , poſe i due infiniti ( a ) magnum & parvum , e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi , ſono gli infinita mente grandi , e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome tri ; infiniti replico immaginarj , de' quali con tanta chiarezza trattò il Wolfio nell'Ontologia , ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro, che non ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici , caratterizzati da profondi Geometri con tan to utile della Geomecria , della Mecanica , ed altre parti delle Matematiche . Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai grandiflimi, e menomiſlimi , di cui qui parla . 8. 8 . In quanti luoghi è l' ente , in tanti è l'uno . Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente , ma non v'è ente , che non ſia in qual che luogo ( 9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente , in tanti è l'uno . a ) Plato vero duo infinita magnum & parvum . Arift. 3.Phiſ. c .4 . § . 9: ( 89 ) g. 9. Se l' uno è , non ſolo ' egli è l'uno , ma un certo uno. Ogni ente ſingolare partecipa dell'ente , dunque dell'uno ; dunque come ogni ente ſingolare è un certo ente , ogni ente ſingolare è un certo uno . ČOROL. Si compartiſce dunque l'uno , non ſolo con le coſe in genere , ma con le coſe ſingolari , onde v'è l'uno , e il tal uno, e a queſto compete , come all'altro , eſfer molti , perchè vi ſono molti enti ſingolari , e compete loro il luogo degli enti ſingolari. g. 10 . Se l'uno è , egli è un uno che è uno , e cert' uno , e mol ci , e parti, e finito , e in moltitudine infinito . Egli è uno , e cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente ; egli è tutto ſe ogni ente , in quan to è , egli è un tutto ; egli è párte , ſe ogni parte dell'ente è jina ; egli è finito , ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le contiene in sè tutti i numeri . Annot. Queſte contraddizioni non ſono che apparenti. D. II . Se l'uno è , egli ha principio , mezzo , e fine . L'uno è finito , e tutto, e parte ( S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti , perchè ogni una di queſte coſe ne ha ; dunque ha principio , mezzo , e fine. Corol. Dunque l' uno è partecipe di figura retta o roton da , o d'amendue miſta . ANNOT. Come l'uno , di cui quì parla Parmenide , pud effer Dio , o qualche idea divina , fe egli è circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti ſingolari, ſe è tutto , parte , finito , figurato ec . 5 Tom . II. m 6. 12 . ( 20 ) Do ? 127 ** Se. l'uno è , egli è in ſe ſtello , e iş altrui ., Ciò che è tutto , comprende tutte le ſue parti ; ma l'uno com prende tutte le ſue parti , dunque l' uno è un tutto ; ma il tutto contien ſe ſteſſo , è l' uno è un turco . Dunque l'uno contiene ſe fteffa . ANNOT. La propoſizione è identica , e vuol dire : un tutto è. un tutto ; o iltutto è nel tucta ; non ſi faccia più attenzione al tutto , mamaall all'uno , e li concluderà , che l'uno è nell'uno . Si com bini poi l'uno, e il cucco , e ſi concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello , così l'uno è in fe fteflo . Quel che è in ſe ſteſſo , egli è in ogni ſua parte , ed in tutte le parti, ma il cutto non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe pel manco , nè meno il tutto può eſſer in tutte le par ti , perchè ſe in cutie, farebbe ancora tutto in ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo , ma l'uno è il cutto ; dunque non è in fe fteflo . Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò chenon è in qualche kuogo è nulla ( S.12. Sez.2.) e quel che è in qualche luogo è in fe felio , o in altrui, perché non li dà mezzo ; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è in ſe ſteſſo , dunque è in altrui ; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli era in le ſtello ; dunque è in ſe ſteſſo , ed in alcrui . ANNOT. Non v'è quì che contraddizione apparente , perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo , ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando all'incontro fi confidera , che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti . S. 13. Se P upo è , egli fta , e ſi muove . Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo, perchè da lui non mai & di parte ; ' ma l'uno eſſendo nell' uno , non ſi diparte mai da fe ftef ſo ; dunque è ſempre nello ſteſſo ; dunque fta. Quel che è ſempre in altri non è mai nello ſteſſo , e non eſsendo nello ſteſso mai non fta , e non ſtando ſi move , ma l' uno non è in ſe ſteſso , ma ſempre in altrui ; dunque ſempre fi move . ANNOT. Non è pur queſta , che contraddizione apparente . . 14. ( 91 ) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra , o è la ſteſsa , o diverſa , o è par te di quella coſa conliderata come tutto , od è tutto , conſiderata 1a cofa come parte . Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso , e il diverſo relativamente alle qualità ſolamente, e la parte , cutto relativamente alla quantità. Se dunque fi dimoſtraſse , che una coſa relativamente a un' altra non foſse, nè tutto , ne pare ce , nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d' eſcluſione, che ella fofse diyerſa . g . 15. Se l'uno è , egli è a ſe ſteſso lo ſteſso , ed a ſe ſteſso diverſo . Se egli è in le ſteſso , e fta ſempre , egli è a ſe ſteſso lo ſteſso , ſe egli è in altrui, e ſempre lr move , è da ſe ſteſso diverſo . L'uno non è parte di ſe ſteſso , nè tutto rifpetto a ſe ſteſso , nè l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto , che una coſa compara ta ad un'altra , fe d'eſsa non è tutto , nè parce , nè diverſa ſarà la ſteſsa ; dunque l'uno ſarà lo ſteſso con ſeco ; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso ; dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16 . ne Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza , convie. ne particamente illuftrare i principj da cui dipende . Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo , come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo , effendo contra rj , uno non può mai eſser dell' altro . Cost lo ſpiego · Molci enti potendo efiftere , od eſiſtendo nel tempo ſteſso , lo ſteſso farebbe nel diverſo , ciò che è impoſſibile , non potendo i con trarj , cioè A , e non A ſtar inleme . Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo , e dello ſteſso aſsoluto , e non relati. vo , quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta , che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza , nelle quantità , nelle azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe . Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto , o l'idea del diverſo , e conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso . ; l'uno non può mai ſtar nell'altro , e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello ſteſso tempo di queſte due idee contrarie . Allude qui tacitamente Par m 2 meni ( 92 ) menide a ciò che ha già dimoſtrato , parlando della participazio ne dell'idee. L'argomento ha tanto maggior forza , quando fi conſiderano gli enti ſeparati dall' uno , poichè ſe foſsero diverfi , per ragion del diverſo participerebbono dell' idea del diverſo che è Tempre una , dal che deduce Parmenide , che non poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate , non ſono diverſi tra loro . 3. Suppone che le coſe che non ſon uno , non fieno partecipi dell'uno , perchè non ſarebbono uno , ma uno in certo modo. Quì pur Parmenide parla dell'idea dell' uno , che participandofi dalle coſe non è più uno , ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor faranno eziandio numero , perchè ogni numero è uno . 4. Le coſe che uno non ſono , nè aſsolutamente uno , non poſsono eſser parti dell'uno , poichè l' uno non può eſser parte delle co ſe che non fon uno , nè può eſser tutto , quafi comparato a par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non pud eſser participata , nè ſecondo la parte , nè ſecon do il tutto , dal che deduce , che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno , nè ſono all' uno quaſi a particella . Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d' eſcluſione . g. 17 . Se l'uno è , egli è diverſo , e lo ſteſso con altre cofe ; all'uno convien il diverſo , aſsolutamente in quanto diverſo , e non all” altre coſe, cui non conviene , che relativamente ( §. 18. ) Dun que l'uno è diverſo dall'altre coſe .; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno , nè ſono parci , nè tutto riſpetto all' uno ; dunque fono le Aeſse con l'uno . F. 18. Chi proferiſce lo ſteſso pome una , e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto ; dunque nel proferire la voce, diverſo ; applicandola all'uno , confiderato relativamente agli altri , e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno , nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto . Quindi dice Par: menide : quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno , e l'uno ef ſer dagli altri diverſo , non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa , che la natura di cui è proprio nome . $ . 19. ( 93 ) S. 19. s'è gia oſſervato , che fimile è quel che patiſce lo ſteffo ; difts mile quel che patiſce il diverſo ( 9. 20.Sez. 2.) Se l'uno è , egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo , ed agli al tri . L'uno è diverſo dagli altri ( 9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe dall' uno , ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno , che l'uno dall' altre coſe ( S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più , nè meno, rimane che egualmente fia uno . In quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile , dunque l'uno e limile agli altri , e gli altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui . Il diverſo è contrario allo ſteſſo ; ma fi dimoſtro , che l'uno agli altri è lo ſteſſo , e diverſo , ( S. 17. Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante ; dunque in quanto lo Steffo fia diflimigliante , ſecondo la paſſione contraria . ANNOT. E' da notarſi, che l'uno è ſimile agli altri, in quan to diverſo , e diſſimile in quanto lo ſteſſo . S. 20 . Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra , nè tra effe vi ſi frammette un terzo , perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe , ma il terzo frappoſto . Ove due coſe fi toccano , due ſono le coſe , ed uno il contatto , ove tre li toc chino , tre ſono le coſe , e due i contatti ; in ſomma creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti , ſecondo il nu mero dei termini meno uno . Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro ; fi facciano toccare da un terzo punto , queſto pu . re coinciderà , e quindi infiniti punti matematici non fanno che un punto , onde de liegue , che la linea non è compoſta di punti , o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno grandezze. Ciò naſce , perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti , ma ſe vi foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti , nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri , benchè non componeſſero grandezza , tuttavia fa rebbono più , come ben offervò Ariſtotele . Ciò diede occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici , ma ete ( 94 ) eterogenei , o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori degli altri coeſiſtano in uno ; quindi per la no zione dell' eſtenſione , convien conſiderare , e più enti che eſi Atano fuori di sè , e che tra loro s'unifcano , e formino uno . Non fanno però un eſteſo ;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non ſono tuttavia tra loro uniti , come allora che liquefatti più me talli ſi confondono in una maſſa . Le partipoi indeterminate dell'eſteſo , conſiderate in aftratto , cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie , non diferiſcono tra lo ro , che nel numero . Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più , oi molti, per quanto l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno , onde egliè il ſuo quadrato , il fuo cubo , ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite , e non folo avete un eſponente, ma molti , come le quantità che ſi dicono eſponenziali. $. 21 . Se l'uno è , egli tocca ſe ſteſſo , e l'altre coſe . L'uno è in fe fteſſo , ed in altrui ( 5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien impedito di toccar l'altre coſe , dunque tocca fe Hello ; in quanto è in altrui , è nell'altre coſe ; dunque le coccherà . I N A L TRO MODO Una coſa nel coccar l'altra giace appreffo quella che tocca , ed occupa la ſede vicina ; ma ſe l'uno tocca ſe ſteſſo , giace appreſſo ſe steſſo , ed è quindi due coſe , il che non potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno , non potendo effer numero , perchè .non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno far due , ma nel contatto v'è ſempre almeno due ( 9. 19. Sez.-3 .) Dunque l'uno non toccherà l'altre coſe . : ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi fa l'ano corporeo nel fupporre , che ei tocchi . Nozione immaginaria . 22. Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione dell'idee, combattuta nella prima parte ; conſidera quindi la grandezza , e la piccolezza, come due ſpecie ſeparate , tra ( 95 ) tra loro contrarie ; ben a cid s'avverta , perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo , e la forza del ſuo ragionamento , S. 23 2 os' Se l'uno e , egli non è ně eguale , nè maggiore , në mi nore degli altri enti . Sia l'ente minore degli altri enti , egli dunque participerà dell ' idea della piccolezza , la qual è contraria alla ſpecie della gran dezza . Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno , o farà in tutto l'uno , o in alcuna parte di eſso ; fe in tutto l' uno , eftenderà per l'intiero uno tutto al di dentro , che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza , o l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà ; ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale " , e fe lo comprende gli è maggiore , onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei . Se la piccolezza è una parte dell'uno , ne ſeguirà , che ella lia di nuovo in tutta la parte , o al di fuori , o ál di dentro quindi che ella fia eguale , o maggiore per le coſe dimoſtrare ; dunque non potendo eſser la piccolezza , nè in tutto l' uno , nè in parte dell'uno , non ſarà nell'uno , onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri enti . Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola , che la piccolezza ftetsa , ma dove non v'è il piccolo , non v'è neppur il grande, perchè l' uno non è che per riſpetto all'altro ; dunque non vi faranno coſe grandi , trartone la grandezza , e quindi I uno , e altre coſe ſaranno prive di grandezza , e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è , le altre coſe non ſono di eſso nè maggiori, nè minori, nè eguali . Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive di grandezza, e di piccolezza , dunque, rifpetto alla uno , non fono nè piccole, ne grandi , e per la ſteſsa ragione , l'uno non è nè maggiore , nè minore dell'altre coſe , eſsendo privo di grandezza , e dipiccolezza . 5.125 . ( 26 ) S. 25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo , ed all'altre coſe . Non è maggiore , nè minore dell'altre coſe , ma ſe l'uno non è , nè maggiore , nè minore dell' altre coſe , egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale . §. 26. Se l'uno è , egli è eguale a ſe ſteſſo , ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza , nè piccolezza , nè eccede rà ſe ſteſſo , nè da ſe ſteſo farà ecceduto , dunque farà eguale a ſe ſteſſo . S. 27 . L'uno è maggiore , e minore di fe ſteſſo . Egli è in ſeſteſſo , dunque li comprende ; dunque èmag giore di ſe ſtello ; eſſendo in ſe ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo , dunque è minore ; dunque è maggiore, e minore di ſe ſteffo . S. 28, Se l'uno è , le altre coſe ſono maggiori , minori ed eguali all' uno . Null'altro v'è , che l'uno , e l'altre coſe , non dandoſi mez zo , ( $ . 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa ( S. 10. Sezione 2. ) e ciò che la contiene è maggiore ; dun que , poi che ogni coſa è in un luogo , ( . 12. Sezione 2. ) e che altro non v'è che l' uno , è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno , o l' uno nell'altre coſe ; ma ſe l' uno è nell' altre coſe , queſte ſono maggiori dell' uno , perchè lo conten gono ; l'uno è minore, perchè è contenuto ; dunque l'altre co le ſono maggiori , e - minori dell’uno : ma s'è dimoſtrato , che l' uno non eſſendo nè maggiore , nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà eguale ( §. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale , mag giore , minore dell'altre coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali , maggiori, e minori , riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! ( 97 ) Ha più miſure riſpetto alle coſe delle quali è maggiore , me no miſure riſpetto a quelle delle quali è minore , e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale . 6. 29. 9 Paſſa a dimoſtrare Parmenide , che ſe l'uno è , egli è parce cipe del tempo , ed è , e ſi fa più giovane , e più vecchio di ſe fteſto , e degli altri , ed in contrario , e che non è , nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello , e degli altri par cicipanti il tempo . Per intendere adequatamente queſte propoſizioni, in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle nel ſ . 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò . 1. Che chi partecipa dell' eſſenza , partecipa delle differenze del tempo . 2. Che cið che ſi fa più vecchio di ſe ſteſſo , e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio , li fa più giovane, e cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1. comparando percið le ragioni di į , e di abbiam veduto , che i loro va Iori i ti, eit ! + divengono ſempre minori . Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo , da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al preſente, e dal pre Tente al futuro , e dall'era all'è , è dall' è al ſarà . 2. Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è , nel futuro ove ſarà , e perciò nel farli è di mezzo cra l'uno , e l'altro , onde propria mente ciò che è nell' inftante , non ſi fa , ma è quello che è , o , come l'eſprime Platone , una coſa che ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi , od è ciò che allora convien che fi faccia . 3. Il preſente è ſempre unito all'uno , perchè è ſempre unito all' ente, dal qual l'uno è inſeparabile . 4. Il diverſo , o l'idea del diverſo è la ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te , e percid è ſempre uno, onde quello che non è uno , non può eſer il diverſo , o l'idea del diverſo, onde le coſe diverſe dall' uno , o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno , o hanno in sè moltitudine , e in conſeguenza numero o più . 5. Delle più ſono prima le poche , che le molte , e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è la prima , e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi . 7. E' impof fibile', che una coſa ſi faccia oltre la natura , onde in una co ſa che ha principio , mezzo , e fine , prima li fa il principio , indi il mezzo, e poi il fine , che vuol dire , il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n ( 98 ) il primo . 9. Chi ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto ,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme col cutto .. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è , egli è , e ſi fa , e non è , nè ſi fa più vecchio , e più giovane di ſe ſteſſo . Se l' uno è participando l'eſſenza , participa del tempo ( $. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo , è in un fluſſo continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente al futuro ( S. 28. Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio . In quanto paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè ;ma nel farſi più vec chio , ſi fa più giovane ( S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio , e più giovane di ſe ſteſſo . Chi non oltrepaſſa il preſente , nel far progreſſo dal paſſato , nell'avvenire non ſi fa , ma è ciò che è ( $.22. Sez . 4. ) Dunque quando l ' uno tocca primieramente il preſente , non ſi fa allo ra vecchio , ma è vecchio oggimai, Nel toccar il preſente , co me ha prima di lui fatto acquiſto , cefla di farli , od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno , quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence , cella di farſi , od è allora più vecchio di ſe ſteſſo , di ciò che era toccando il pal fato ; ma l'uno è di quello più vecchio , onde fi faceva vec chio ; e facevali di ſe ſteſſo , ed il più vecchio è più vecchio del giovane ; dunque allora l' uno è più giovane di ſe ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente , ma il preſente è fempre unito all'uno ; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio , e più giovane di ſe ſteſſo ; ma facendoſi tale , od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età , e chi ritiene la ftel fa età , non è più vecchio , nè più giovane ; dunque l'uno eſ ſendo , e facendoli in tempo , non è più vecchio , nè più gio vane di ſe ſteſſo . g . 31 . Se l'uno è , egli è più vecchio dell'altre coſe , o l'altre coſe più giovani di lui . Nelle coſe diverſe , che hanno in sè moltitudine o numero , altre ſon fatte prima , altre dappoi ; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, ( 9. 26. Sez. 3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo , dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che hanno numero , o che fono . 1 ( 99 ) fono diverſe dall'uno , o ſono gli altri ; ma il primo che ſi fa è più vecchio , le coſe che dipoi ſi fanno , ſono più giovani ; dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe , e l'altre coſe più giovani. g . 32. Se l'uno è , egli è più giovane dell' altre coſe , e le altre coſe più vecchie dell' uno . L'uno non può farſi oltre la natura fua ( .9 .,26. Sez: 3. ) Dun que avendo parti, o principio , o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del principio , del mezzo , e del fine , ma il princi pio fi fa il primo , è il fine ſi fa l'ultimo , ma l' ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe , e l' altre coſe più vecchie dell' uno ( $. 26. Sez. 3. ) ; dunque l'uno è più giovane degli altri , e gli altri dell'uno . $. 33. Se l'uno è , egli non è più vecchio , nè più giovane dell' altre coſe.. Ogni parte dell' uno è una ; ogni parte del mezzo è una , ed uno è parimente il fine, od il tutto , onde fi farà l'uno , é colla prima coſa che fi fa , ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo fi farà un tutto , o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo , non dall' eftre mo , non dal primo, non da altro ; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri ; dunque ſe non è nato oltre la propria natura , non è fac to prima nè dopo l'altre coſe , ma inſieme e fecondo queſta ragione non è più vecchio , o più giovane degli altri , nè gli altri dell' uno . ſ. 34. Se l' uno è , egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe ſteſſo . Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra , li farebbe ancora più vecchia di ſe ſteffa : A ſia più vecchio di B , nel creſcerfi gli anni ad A , egli & fa più vecchio di fe fteffo , e di B ; dun n 2 que ( 100 ) | 1 que l'uno nel farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè ; manel farſi più vecchio , ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione , che creſcendo tempi eguali, la ra gione decreſce ( 5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più giovane di ſe ſteſſo , ma s'era dimoſtrato , che ſi faceva più vecchio ( S. 30. Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane , e più vecchio di ſe Iteffo . 1 f. 35 . Se l'uno è , egli non può farſi , nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe . Ciò che fi fa più vecchio d'un altro , o più giovane, ſi fa più vecchio , e più giovane ancora riguardo a sè ( 1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa , ma è , e più giovane , e più vecchio ri guardo a sè ; dunque non ſi fa , nè più giovane , nè più vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio , che le altre coſe , ha più lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno, onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio ; ma ſe egli ſi fa più giovane , quell' altre coſe ſi faranno più vecchie ; dunque le coſe che erano innanzi , e più giovani dell'uno , ſi fanno dell' uno più vecchie , cinè fi fanno più vecchie , riſpetto a quello che era più vecchio ; ma le coſe più vecchie non ſono , ma fi fanno ſempre , perchè la fanno più vecchie , mentre l'uno ſi fa più giovane ; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie dell'uno . Le coſe poi più vec chie , parimente ſi fanno più giovani dell' uno più giovane perchè l'uno , e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi cendevolmente contrarie , cioè le coſe più giovani dell'uno , ſi fanno più vecchie dell'uno che è vecchio , ed all'incontro l'una più vecchio , li fa più giovane delle coſe più giovani ;, ma non, è poffibile che l' uno , e l' altre coſe fieno fatte nè più giova ni , nè più vecchie, perchè le cali foſſero , non più li farebbo no ; dunque le coſe , e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie , e più giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe , per quello che parve eſſer più vecchio , e prima fatto , l'altre coſe poi fi fanno più vecchie , per quello che ſono ſtate fatte dopo , e ſecondo la ſella ragione : l'altre coſe ancora ſe ne ſtanno riſpettivamente alla uno , come quelle che ſono ſtate più vecchie , e prima dell'uno . Dunque inquanto che nè l' uno , nè gli altri fi fanno , diſtan do 1 ( 101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più vecchio degli altri , nè gli altri dell' uno . Ma come decreſce ſempre la ragione dei tempi , o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime dall' ultime , e l'ultime dalle prime , così è neceſſario che l' altre coſe ſi facciano , e più vecchie più giovani dell'uno , e l'uno dell'altre coſe . Quinci aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato , che l'uno è , e li fa più vecchio , e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio , nè più giovane di ſe ſteſſo e degli altri . Corol. Perchè l' uno è partecipe del tempo , o ſi fa più vec chio , e più giovane , egli è partecipe del quando, del futuro , e del preſente . Dunque era l'uno, ed è , e ſarà , e ſi faceva , e fi fa , e li farà , e ſarà ancora alcuna coſa in lui , e di lui , ed è , ed era , e farà . COROL. 2. Perchè la ſcienza , l'opinione , il ſenſo , la defini zione , il nome , riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi , in quanto l'uno è capace di queſte differenze , è ancora fog getto di ſcienza , d'opinione , di fenſo , può definirli, e può no. minarſi . Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo , il che biſogna accordare con ciò che diſke ( 9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le verità , che ſono a noi dintorno . 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco , quanto Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe l'uno è . 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno , e dell'ence ., 2. Ne com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno , e dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo . 4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri , che dividono l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto , e parte, e finiso , e infinito . 6. Da ciò che è un tutto finito , conſiderò in effo il principio , il mez-, 2o , il fine , e quindi la figura . 7. Da ciò che è un turto , e che il tutto è nel tutto , conclure che l'uno è nell' uno , ed in fe ftel 1o . 8. Da ciò che l'uno è comeparte nel tutto , conclure che è in altrui . 9. Che ſta , e ripoſa , ſe egli è in ſe ſteſſo . 10. Che ſi mo ve , le è in altrui . 11. Che è ſimile a sè in quanto l'uno , è lo ſteſſo che l'uno . 12. Simile agli altri , perchè paciſce d' eſſere co me gli altri . 13. Che è diffimile in quanto cert'uno , e certo ente . 14. ( 102 ) 14. Che è lo ſteſſo , poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo tempo . 15. Che è diverſo , in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti. 16. Quindi fimile , e diffimile , perchè patiſce le ſteſſe cofe . 17. Che è maggiore , minore, ed ineguale , e non maggio re , minore, nè eguale dell'altre coſe . 18. Che è , e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo , e dell'altre coſe , e non è , e non fi fa , nè più vecchio , nè più giovane dell'altre coſe , e l'altre co fe di lui . 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza ,, ſenſo , opinione , e può denominarſi , e definirſi. Si potrebbe più compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che reciproche ſono queſte due pro polizioni : l'unoid , è l ' uno , per il che ſi può predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente , la parte , il finito , l'infinito , il principio , il mezzo , il fine , la figura , lo ſteſſo , il diverſo , la quiete , il mo to , il limile , il diſſimile , e il maggiore , l'eguale , il minore, it giovane , il vecchio ec. cutti queſti predicaricompereranno pari mente all'uno . Ben ſi vede , che qui non ſi parla che dell' en te corporeo , e degli enti particolari , a cui or compete una co fa , ed or un'altra. il tutto , S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile , il diffimile, it maggiore , e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all' uno , ed all'ente ſenza contraddizione , Parmenide moſtra che queſti attributi contrari non gli competono nello ſteſſo tem po , ma in diverſi tempi ; tal è la natura di ogni ente finito : gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente infinito , in cui tutte le perfezioni poſſibili , che attribuir gli ſi poſſono , .ftan no in lui tutte inſieme , onde non male con due parole molto energiche , ſebben barbare , ſi chiamò Dio dal Bulfingero , omni tudo compoſibilitatis . Gli Scolaſtici lo chiamarono atto puro , cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza , e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza , e talmente pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo , edell'eſiſtenza . $. 38 ( 103 ) go 38. Se l'uno è ; egli prende diverfi ſtati ſecondo le :: differenza dei tempi . Nel tempo ſteſſo non ſi può participare , e non participare dell'eſſenza , e delle coſe che conſeguono al non participarla , ed al participarla ; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza ; il rovinarli e privarſi dell' effenza ; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo , e prender , c laſciar l'eſſenza . Dunque la pren de , e la laſcia in diverſi tempi , Quando ſi fa uno , egli perde l' eſfer molte coſe ; quando ſi fa molte coſe ceffa d'effer uno; nel farfi uno , e molte , li fepara , e fi congiunge , qualora ſi fa ſimile , e diffimile , ſi affimiglia , e diffimiglia ; quando ſi fa maggiore, minore , ed eguale , creſce , decreſce, e li pareggia ; quallora movendoſi fi ferma, e quallo ra fermandoſi li move . Or tutte queſte coſe , eſſendo tra loro contrarie , l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo , dunque l'ha in tempi diverfi . 9 . 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto , e dal møto alla quie te , ſenza cangiamento di itato . Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione di diſtanza , che egli ha ad altri corpi vi cini , ha uno ſtato diverſo da quello d'un corpo , che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo ; ma conſidera Platone, che nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che d'improvviſo , e di momentaneo , che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio , e non più appartiene al moto , che alla quiete ; non al moto , perchè la coſa ſi concepirebbe ancora in ripoſo ; non al ripoſo , perchè la coſa fi concepiſce ancora in moto , Conclude dunque Placone , che queſta natu ra improvviſa è quaſi ſconvenevole tra il moto , e la quiete ; che ella non è in verun tempo , e a queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò che ſi ri pola . 8. 40. ( 104 ) .. § . 40. Se l'uno è , nell'atto che cangia ſtato , non gli competono più i predicati dell'ente . Nel paſsar l'uno dal moto alla quiete fi muta momentaneamen te , e all'improvviſo , o mutandoli egli non è in alcun tempo ; dunque non ſta nè fi move . Così quando paſsa dall'eſsere alla ro vina, o dal non eſsere al farſi , non è , nè ſi fa , nè fi diſtrugge . Parimente quando paſsa dall' uno in molti , e da molti in uno, non è , nè uno, nè molti , nè ſi congiunge , nè fi ſcongiunge , e paf fando dal ſimile al diſſimile , od al contrario , non è , nè affimi gliato , nè diſlimigliato , e paſsando dal piccolo al grande , ed all' eguale non creſce , nè decreſce , nè ſi pareggia. Annot. Da queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa , imparò Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a propoſito ſchernità da coloro , che non ne inteſero nè la forza , nè l'uſo . Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la rendevano tale , ella ceſsa d' eſsere la tal coſa , cioè reſta priva di tutto ciò che la coſtituiva , e diſtingueva dall'altre coſe , ma nell'atto ſteſ fo , in cui ceſsa d'eſsere quel che era , comincia ad eſsere ciò che non era , o paſsa dalla privazione alla forma contraria ; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma , e la non forma, Platone chia ma natura mirabile , e momentanea , ed è certo , che ella nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che non opera mai per falti. Nel Timeo dice : Dovendo eſer l'ef figie delle coſe diſtinta da ogni verità di forma , non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie , le quali è per ricever da qualche parte , percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe che in sé riceve fimiglianza , quando riceverà una natura contraria di quella di cui è ſimile , ovve ro un' altra , affatto malagevolmente la ſimiglianza , e l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole , che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi . Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia , la quale vogliono di certo odore condire , di tal guiſa preparano , che * ella non abbia alcun proprio odore . E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella , ma quelle cercano in prima di render qan to poſibil fia polite . Ciò ſi rende ſenſibile nelle quantità algebraiche poſitive , e ne gative , nelle quali non ſi paſsa dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il ( 105. ) o il zero , che non è nè negativo , ne poſitivo , ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria il punto matematico equi vale al zero , che è il principio negativo dell'eſtenſione , e dal quale fi comincia la miſura , come l'unità è il principio poſitivo , per cui fi comincia la ſteſſa miſura . Il punto è comune alla linea , che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra , e comincia ad eſsere alla deſtra , o che termina d' eſser in alto , e comincia ad eſser a baſso ; così egli non è deſtro , nè finiſtro , nè alto , nè baſso . Tut te queſte ſono eſpreſſioni utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene , come il niente , o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti. L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura momentanea , ed ammirabile di Platone . In queſto calcolo non ſi cercano , ſecondo il Newtono , le quantità infinita mente piccole , chemainon poſsono determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di quelle , le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al zero , il qual ſimboleggia il termine del ripoſo , e il principio del moto il termine del moto , ed il principio del ripoſo . Sieno nel preſen te momento le fluenti quantità y, x ; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione Newtoniana y toy , ed xtoy, ove o y , od ox eſprimono i momenti delle velocità . Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la della parabola yy. =ax , quefta fi caogierà nell' equazione . yy + 2 oyy tooyy = oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax , e cancellando il comune o 2 yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita , non può mai de terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che ella s' annulli , come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle grandezze , ove o s'eguaglia a zero , fi ha 2 yy = ax , e ponendo l'equazione in analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata , con cui le qualità cominciano o termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione delle Auſſioni ; baſta a me d'averlo quì accennato , per moſtrare che agli antichi non man cavano quell' idee , che i moderni hanno poi ſviluppato , carat £ erizzandole con canta utilità delle ſcienze , e delle bell'arri . Tomo II. 5. 41, ( 106 ) S.' 41, 1 Platone preſuppone nel ſeguente argomento , che la partenon è parte nè di molti , nè di tutti , ma di cert'una idea , e di cert'uno che chiamiamo tutto , ed è un cutto fatto da tutte le parti , e in sè perfetto , Dalla parola idea lice argomentare , che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il tutto , e le parti . L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com prende egualmente le parti, ed i tutti , dicendoſi molte, o più parti, molti o più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero , o riſtretto in cerci limiti ; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire , che la par te ſia parte di molti , perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte , Nel dir dunque Platone , che la parte non è parte di mol ti , allude ai modi , o ai più vagamente preli , e nel dir che la parte è parte del tutto , allude ai più riſtretti ; ne' più , come s'accennd , vi ſono incluſe indifferentemente le parti , ei tutti, onde ſe la parte foſſe parte dei più , potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa . Aggiunge Platone , che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno , cioè di un certo tutto . La par te del triangolo non è la parte del quadrato , nè un ſoldato che è una parce d' un eſercito , è parte di una proceſſione di Frati . Il tutto poi che è fatto di tutte le parti , o a cui non man ca alcuna parte, è perfetto . , Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo , il dir molti, o più d'uno ; che ogni coſa quindi o è uno , o più , cioè molci ; che una parte dell' eſtenlione cratca fuori di efla , o feparata da eſſa , eſſendo fteſa , contiene più, e ſe dinuovo ſi ſepa ra in due , una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa , ritiene ipiù . In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2 , ed indi per 2 i Pittagorici aſſegnavano il 2 , come il fim bolo dell'infinito . Prima che una parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione , ella riteneva il nome di parte , ma quando è ſeparata , e che di nuovo ſi divide , ella non è più parte , ma tutto . Queſti nomi di tutto , e di parte ſono ſempre relativi ; coloro per ciò che definiſcono l' eſtenſione , ciò che ha parti fuori" di ? par ( 107 ) parti , null' altro dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione , perchè non ha parti ſe non ciò che è eſteſo . Molto peggio fan no coloro , che ſuppongono , che l' eſtenſione eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe , ſia compoſta d'una infinità di ſo . ſtanze tra loro tutte ſeparate , perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di relativo , e ſuppone la coſa aſſoluta ,' o la ſoſtanza , su cui la relazione ſi fonda . Il corpo fiſico , e mecanico non ſono pura eſtenſione , come il geometrico, ; perchè nel corpo fiſico v'è la forza , o la for ma, e nel mecanico il peſo , origine delle proprietà , e dei lo ro fenomeni. . 8. 42. Se l'uno è , le parti in quanto parti ſono parti dell' uno , o partecipano dell'uno . Le parti non poſſono eſſer parti di le ſteſſe , nè di molti ( $. 40. Sezione 3. ) dunque dell' uno, il che è dire , che partecipano dell' uno . §. 43, Se l'uno è , il tutto in quanto tutto partecipa dell' uno . Il tutto cui nulla manca delle tre parti è uno ; dunque par tecipa dell'uno . Corol. Il tutto dunque , e le parti partecipano dell' uno , e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri , ma eſiſten; te per sè , ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che Parmenide nel dir , che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri , e per sè eſiſtente , alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol ciò dirſi , come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne liegue egli , che parlando qui con Socrate , parla bensi col fuo linguaggio , ma nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente . 0 2 9.44. ( 108 ) 8. 44. Se l'uno è , le cofe che partecipano dell' uno fono altra coſa che l'uno . Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno ; dunque ſe le coſe partecipano dell'uno , che vuol dire , non ſono lo ſtes fo uno , bifogna che fieno un'altra coſa . COROL. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono de verſe dall'uno . S. 4.5. Se l' uno è , le coſe che partecipano dell'uno , ſono in moltitudine infinite . Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall' uno , non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente ; ma non fon l'uno , dunque più d'ano , dunque ogni parte d'uno , include in eſſa i più, e queſti altri più , e così in infinito , dunque le coſe clre parteci pano l'uno , ſono infinite in moltitudine . COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in finita , ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben piccoliflima rifpetto all'altre , ſarà in moltitudine infinita . ANNOT. Platone dice da quelle ( cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa piccoliffima . In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della mente .? nel dir Platone , che confiderando la diverſa natura della fpecie fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito , e in moltitudine , altro non ſignifica con la diverſa natura , ſe non che ogni parte dell' eftenfione include in sè più , e queſti altri più , e infiniti in . moltitudine . 1 g. 46. Se l'uno è , la parre in quanto parte è diverſa dell' uno , per chè l'uno è per sè indiviſibile , e la parte per sè divifibile . 8. 47 ( 109 ) S. 47. Se l'uno è , le parti ſono più che l' uno . Le parti diverſe dell'uno , ſe non ſono uno , o più d'uno , nulla ſaranno , ma ogni cofa è uno o più ; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon uno , ſaranno più che uno . S. 48. Se l'uno è , le parti che lo partecipano hanno termine tra loro , e riſpetto al tutto , e il tutto riſpetto alle parti . Ogni parte è una, ogni tutto è uno ; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno ; ma quello che è fatto uno ha un termine . Dunque ec. Corol. All' altre coſe , che all' uno , avviene che partecipan do dell'uno , e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro cert'altra coſa, il che dà loro il termine , ma la natura loro che include i più , è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte ſecondo le particelle loro , ſono infinite in numero , e par tecipi di termini. g . 49. Se l'uno è , le coſe che partecipano l'uno , fono fimili, e dil ſimili, ſi movono , e ſi fermano , od hanno altre paſſioni con trarie , Le altre coſe che l'uno , ſono tutte infinite , o indefinite , fe condo la loro natura , onde tutte patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini , e diverſi termini, patiſcono il diverſo , ma il limi le è quel che patiſce il ſimile , il diſſimile quel che patiſce il diverſo . Dunquele coſe , altre che l'uno , ſono ſimili, e diffimi li . Maſe patiſcono le ſtelle coſe , e diverſe , pariranno anche il moverſi , ed il fermarſi, l'eſſer maggiori , minori , ed eguali , l' eſſer più vecchie , più giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette , abbiam dimoſtrato che ſe l'uno che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti riſultante partecipa pur dell' uno ; che le parti parte cipanti del tutto , è dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han ( 110 ) . hanno termine tra loro , e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le coſe ſteſſe , e diverſe ſono ſimili, e diffimili , ſi moyono, e fi fermano . Paſſa a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione , che sia l'uno , coſa adiviene alle coſe che non partecipano l'uno . g. 58 . Se l'uno è , e le altre coſe che non partecipano l'uno, non ſono nè tutto , nè parii , nè fimili, nè diffimili , nè le ſteſſe nè diverſe, non ſi movono , non fi fermano , non ſi fanno , non ſi diſtruggono, non ſono , nè maggiori , nè minori , nè eguali , nè vecchie , nè giovani . Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe , cioè fi concepi ſca che le altre coſe non lo partecipano , non vi ſaranno mol ti , perchè ognun de molti è uno ; non vi ſarà numero , o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo , e fa ogni numero uno nella fua fpecie ; non vi ſarà tutto , che è una moltitudine riſtretta in uño ; non vi ſaranno parti , ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno ; non vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe , nè diverſe con l' uno , perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza , ediffimiglianza , comprenderebbono in sè due ſpecie tra loro contrarie , onde non eſſendo partecipi di due , nemme no lo ſarebbono di due contrarj ; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè diverfe , nè moverſi , nè formarſi , nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani , e vecchie , perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono partecipi di nu mero . ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno traſcen dentale , eſſendo inſeparabile dall' ente , è lo ſteſſo tor dalle coſe l' uno , che l'ente , od annullarlo . g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato , coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno , che per ipoteſi ſtabili . Or cangia ipoteſi, e cerca , coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno . Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe , ma ricadono poi nello ſteſso , perchè canto è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è , od eſsere ſi concepiſce , quanto annuliarle ponendo le co ſe , e negando l'uno . SE ( 111 ) 1 SEZIONE QUARTA. B. I. Uando per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte , e tra loro contrarie , poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza pone o in natu ra , o nella mente ; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la grandezza è la non grandezza non è , tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d' un ſoggetto finito , e determinato , l'altra d'un ſoggetro infinito , e indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione , la non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo , non grande il punto , non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all indeterminato ; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino , le due propoſizioni, la grandezza è , la non grandezza non è , ſono con trarie , ſebben l’una , e l'alcra fieno negative . Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non è , il non uno non è , egeneral mente della propoſizione A non è ; non A non è : nella pri ma ſi nega ad A l'eſere , nella ſeconda ad A che fi nega , ga l'effere . Negar ſemplicemente una coſa , e negare la nega zione, ſono coſe tra loro contrarie . La propoſizione all'incon. tro A non è , e l'altra non A è , ſono equivalenti , perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere , nella ſeconda fi afferma , che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che negar la cola ; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è , il non uno è . E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le loro realtà oppofte , la cecità per la vi fione , le tenebre per la luce , non A per A. ſi ne B. 2 . Se l'uno non è , nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce chiaramente e diſtintamente , che l'uno non fia , o li ha fcien za di ciò che s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra , l'uno è . Le privazioni , e negazioni ſi concepiſcono chia ramente , e diſtintamente per le loro realtà oppoſte , dunque il non uno per l' uno ( J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è , è, equivalente all'altra l' uno non è , dunque queſta propoſizione l' uno non è , fi concepiſce chiaramente e diſtintamente , o li ha ſcienza di lei . La propoſizione l'uno non è , è diverſa dall' altra , 3 uno ( 112 ) ! $ 1 1 uno è , e chiaramente , e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità ; dunque nel dir l' uno non è , ſi concepiſce qualche coſa di diverſo . Platone così lo dice : eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente dall'altra , colui che dice uno , aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere , perciocchè non ſi conoſce meno , ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come ſia certa co fa differente dall'altra . Corol. Può dunque predicarſi dell' uno la ſcienza , e la di yerſità . S. 3 . Se non è l'uno, o ſe il non uno è , il non uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano , e non le partecipa . Del non uno è , ſi predica la ſcienza , e la diverſità ( Cor. ant. ) dunque partecipa di queſte coſe, mapoichè egli non è , non aven do eflenza , non può participarle , perchè il non ente non ha pro prietà , dunque non le partecipa ; dunque le partecipa , e non le partecipa . COROL. Così s'eſprime Platone : Il non ente è partecipe di sé , e d'alcuna coſa , e di queſta , e con queſta , e di queſta , e di cut te le coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno , nè le diverſe coſe dell'uno , ne avrebbe egli alcuna coſa , nè alcuna coſa fi chia merebbe , ſe non foſſe partecipe di alcuna , nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno , ſe egli non é , ma niuna cofa vieta , che non ſia partecipe di molte coſe, ed è neceſſario ancora ſe è quello l'uno , e non altro , ma ſe non è , nè l'uno , nè quello non ſarà egli ; non ſi dirà nulla di lui , ed il ragionamento farà d'altra cofa , ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia , è ne ceſſario che ſia partecipe di lui , e di molte altre coſe , . 4 . Se il non uno è , il non uno è ſimile a ſe ſteſſo , e diffimile all'altre coſe, ed al contrario . Il non uno convien col non uno , dunque con ſe ſteſſo ; dunque è ſimile a ſe ſtello . Il non uno è diverſo dall'altre coſe che parte cipano l'uno , dunque è diffimile dall'altre coſe ; ma il non uno non eſſendo , non può aver proprietà d'effer ſimile , nè diffimi le , dunque ec. 8. S. 1 ( 113 ) § . 5 . Se il non uno d , egli è eguale, ed ineguale all' altre coſe , e nel tempo ſteſo eguale , ed ineguale . Gli eguali ſono fimili nella quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha egualita ; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui , dunque è loro ineguale ; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza , cioè di grandezza, edi piccolezza ; dunque l'uno che non è , egli è grande , e piccolo ; ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale , e chi ha grandezza , e piccolezza , pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non è può participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato , che non le partecipa, dunque ec. 5. 6. Se l'uno non è , ha in certo modo l'eſſere , o s'attri buiſcono a lui coſe che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è , ſi ha ſcienza di cid che ſi dice ; nel dir che è , diverſo dall' uno , che è , e dall'alcre coſe ; che è fimile , non fimile ; diſſimile , non diſſimile dall' altre coſe ; eguale , no eguale, fi profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero , ma eſprimendoſi , e pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti , all'uno che non è s' attribuiſcono in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere . B. 70 Queſta propoſizione : il nulla è nulla , il nulla non è nulla , equivale a queſte altre due : il non ente è non ' ente ; il non ente non è non ente . La prima di elle è affirmativa, ed iden , tica , perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda è nega tiva , perchè ſi nega il nulla del nulla , che vuol dir , ſi affer. ma qualche coſa , perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano . Nel dire il non ente , non ente , il non en te vien a participare in un certo modo dell effere , affine di ef ſer non ente .. Nel dire all'incontro il non ente non è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere , vien a partecipar del non eſſere . Così intendo Platone , Tomo II. P allor ( 114 ) 1 allor che dice : il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere , fe dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere , perchè ei non ſia non ente , affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non ſiapartecipe il non ente delléſenza , del non eſſer non ente , ma dell'eſenza dell'eſer non ente , ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è , egli partecipa ; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere , ed il non .ente dell'eſſe re ( $. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è , l'uno é neceffario che ſia par tecipe del non eſſere , affinchè ei non ſia ; dunque appariſce , che l'eſſenza ſia nell' uno , ſe egli non è , e la non effenza ſé egli è . ANNOT. Tutti queſti ſono ſcherzi metafiſici , per dar luogo alle nozioni immaginarie , e quindi alle contraddizioni , che mo ſtrano le coſe impoſſibili ; ben deve oſſervarſi , che facilmente con effe fi cade in quel mirabile , che degenera in puerilità . Platone ſobriamente l' adopra , per dimoſtrare in quali raffina menti sfumavano le dottrine della ſetta Elearica . 9. 9. Se l'uno non è , ha mutamento , e in conſeguenza moto , e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente , e non ente , onde fta così , e non così , dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer ; dunque ha moto . Ma fe l'uno non è , non è in alcun luogo , perchè ogni en té è in qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo all'altro , dunque non percid fi move , per che non ſi traſmuta . . io. ( 115 ) : $ . io . Y Se l'uno non è , non ſi altera , e non alterandoli ne ſi muta , nè ſi move . L'uno non eſſendo , non può mai verſare in quello che non è , dunque non alterarſi , poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo , non ſi ragionerebbe più deil' uno , ma di cer ta altra coſa ; ma ſe non li altera non ſi rivolge in fe fteffo nè fi muta , nè ſi altera ; dunque ec . ļ $. Se l'uno non è , fta e ſi moồe , e fi altera , Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete , e ſi ferma que gli che in quiete ne fta ; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce ſta egli e li move , anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto alcuna coſa ſi move , incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo , ma altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera , e nondimeno non movendoſi in niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare ; dunque in quanto fi move" , ciò che non è uno ſi altera ; ma in quanto non ti move , non fi alce ra , dunque l'uno non eſſendo ſi altera , e non ſi altera . $. 12 Se l'uno non è , egli è diverſo da quel che era prima, non ſi altera ; non fi fa , non ci muore , e di nuovo ſi fa , emuore . Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era prima , ma quel che non fi altera , non ſi fa në muore ; dunque l'uno , non eſſendo mentre fi altera , e ſi fa , e periſce, ma non alterandoſi , non fi fa , nè muore , nè periſce , ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo , li fa , e muore e di nuovo non fi fa , nè muore . §. 13 : Sin ora ha dimoſtrato Platone , che ſe l' uno non è , egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe di altre cole ; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р . 2 ( 116 ) ſi move fteffo , ſimile e diffimile nè ſimile , nè diffimile , eguale , ed ineguale, non eguale , nè ineguale , partecipe d'eſſenza , e non partecipe , ſi muta , e non ſi muta e non ſi mo ve , fi altera , e non fi altera , ft fa , c periſce , e fi fa , e non periſce . Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è ; l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente , ſe non v'è l'uno , nè pur v'è l'ente . OrPente non è , che il poflibile . Annullato dunque il poſſibile reſta l' impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa , ex impoſſibile ſequitur quolibet , perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le contraddizioni . Platone dal conſiderare , che l'uno non ha eſſenza , e non n'è capace , nega tutte le altre relazioni che pud avere . Premetto a ciò che quando diciamo, che alcuna coſa non ſia , nel proferire , queſto non è , fi fignifica ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo , e non eſſendo in niun modo , non è capace in alcun modo di eſſenza ; dunque non potrà eſſere il non ente , ne in alcun modo farſi partecipe di eſsenza . §. 14. Se l'uno non è , non può farſi in alcun modo par tecipe d'eſsenza . Quel che non è , ſignifica ſemplicemente , che non è al tur 10 , in niun modo , o non è ſemplicemente capace di eſsenza , dunque fe l'uno non è , non può mai eſser capace d'eſsenza . . 15 : ne la per Se l'uno non è , non pud farſit , nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza , non la riceve , nè la de . Dunque fe. L'uno non è , non pud nè ricever , nè acqui ftar l'eſsenza , perchè non n ' è capace ; dunque non periſce , nè fi fa . $. 16. Se l'uno nonè , non fi altera , nè fi move , nè ſe ne ſta , non ha grandezza , nè piccolezza , nè parità, né limiglianza, e dia , verlin ( 11 ) 3 onde eſsenza , non può aver ne grandezza , nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe , e a ſe ſteſso , nè gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è , non ſi altera , perchè fi farebbe già , je pe rirebbe potendo queſto ; ſe non ſi alcera , nè men fi move, ſe come non ente , non eſsendo in alcun luogo , non pud ſtar lo ſteſso in alcuna coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza , nè parità, eſser ſimile, o diverſo , o rifpetto all'altre coſe , o a ſe ſteſso, nè le altre coſe potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono , nè fimili , nè diffimili , nèle ſteſse , nè diverſe , nè pud ſtar ſeco , non ha il di lui, o ciò che ſi dice di alcuna coſa , o queſto , o di queſto , o d'altrui, o ad altrui , o alcuna volta , o dopo , o al preſente , o ſcienza, o opinione , o ſenſo , o fer mone, o nome, o qualunque altro degli enti . Annot. Sebben ſi oſserva , Platone al non uno toglie tutto quello che ha dato all'uno , conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione , argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca che delle aſtrazioni della mente , fra miſchiate tallora con le nozioni immaginarie , quali ſono in que fta Sezione , e nel rimanente . Non ci reſta che l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno , che accada all'altre coſe . SEZIONE QUINTA,. $ . 1 . S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è , o è l' uno , o l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero ( almeno nella noſtra im-. maginazione , o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il nulla non ha proprierà . 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il diverſo , poichè l'altro , e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non eſser l'altro , che l'altro d'al tri , ed efser del diverſo diverſo , e che per far le coſe altre dalla uno , vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa , onde fieno per eſser altre , di cui ſaranno altre . 3 Tesni f. 2. ( 118 ) S. 2 .. Se l'uno non è , le coſe altre o diverſe dall'uno , non ſono altre. o diverſe , che per ragion di ſe ſteſse .. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno , vi's include' qual che altra coſa , per cui fieno altre , ma queſta coſa non pud ef ſer l'uno , perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque , poiché non v'è , che l' uno , e l'altre coſe , eſcluſo che altre coſe non fieno . altre per luno ne liegue che ſieno altre per ſe. ftelse , COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono tra se .. , S: 3 Se: l'uno non v'è , le coſe altre dall' uno ſono tali per una moltitudine infinita . Non v'è che uno o i più , dunque le coſe altre o diverſe 1 dall’uno , non potendo eſser altre che l'uno , il quale non v'è per ipoteſi, non ſaranno altre che per i più , cioè per la mol: titudine ; ma il più , o la moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno ,. ſono alore per una: moltitudine infinita .. COROLLAR . Qualunque mala dunque di loro appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che menomilimo pare co. me. Sogno , incontinente in vece di quello che pare uno , ſi fa innangi una moltitudine infinita , e in vece di quella chemenomilimopar ve, apparirebbe grandiſſimo già , ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da lui . Cosi: parla Platone : fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è diviſibile in due , ed inoi in due , e così all'infinito . Della di viſione di cui è capace il tutto , ſono capaci reſpettivamente le parti , nè v'è particella si minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno , poteſſimo vedere con un microſcopio miracolo fo ,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di parti , ma tali che nell' iſtante ſteſso , che noi vedeſſimo la parte , la vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite , e cosi all'in finito ; non è che io dir voglia , che vedremmo l'infinito at tuale , perchè non poſſiamo intenderlo , non che vederlo , nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir nella più minima par 1 ( 119 ) parte di ciò che egli chiama 'materia , un numero attualmente infinito di monadi" ; biſogna prima provare , che noi concepia mo l'infinito attuale - , ed indi che vi ſieno queſte monadi ; ma ſe vi foſsero , il che io non l' ammetto , che come principio di co gnizione , e non di natura, in eſse , come l'eſprime il nome loro , v è un'unità , che è il fondamento di concepir nella monade innumerabili proprietà ; ma quì nell' eſtenlione Platonica , biſo gna rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno ; ' v'è in ciò contraddizione , ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i , l'impoſſibilità di ſeparar l' uno dall'ente . § . 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà il numero , e le proprietà dei numeri , l'eguale , il mag giore , il minore. Tolto l' uno dalla maſsa , ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita , in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine , vi ſi trova il numero ; quindi il pari, e l' impari ; il picciolo , il grande , il piccioliſſimo , il grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse , in cui s'è diviſa la maſsa maggiore , e quindi l'eguale , perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re ſenza paſsar per l'eguale , ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità , di maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero , §. 5. Se non v'è l' uno , ogni maſsa apparente avendo termine appa rente , riſpetto all' altra non ha nè principio, nè mezzo , nè fine riſpetto a fe ftefsa . Si prenda alcuna delle maſse apparenti coll intelligenza , in nanzi al principio , ſe le fa ſempre innanzi altro principio , e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine , e nel mezzo altre coſe ſem pre più interne del mezzo , e ſempre minori , perchè non ſi può ricever in queſta alcun uno , non eſsendo l'uno . Annot. E ' da oſservarſi, che qui Platone dice , prender alcu na coſa con l'intelligenza , cioè aſtrattamente conliderarla í vi ag ( 120 ) aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno , cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con l'intelligenza , che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e queſte in altre , e così all'infinito . S. 6. Se l'uno non è , preſa qualunque maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è un infinito in moltitudine . Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima viſta , e da lungi mirato ci par uno , ma da preſſo , e acutamente vedendolo , tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti . COROL . Se dunque non v'è l'uno , ma l'altre coſe dall' uno , qualunque di eſſe è infinita , e con termine ed uno , e molci . Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno , e ſimili, e diffi mili , e le ſteſſe , e le diverſe , e unire , e ſeparate , e moverſi, fermarſi ; nè potendo noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo , come adombrate da lunge, e patir lo ſteſſo , ed eſſere fimiglianci , mada preſſo molte , e diverſe , e per il fantasma della diverſità diverſe , e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili , e da loro ſteſ ſe , e tra di sè , e le ſteſſe , e diverſe tra loro , e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe , e fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano , e periſcano , e nell' una , e nell' altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra , già dette . S. 7 . Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe non è l' uno , cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno . 1 § . 8. ( 121 ) $. 8. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno , ne molti . Non ſono uno , perchè non v'è l' uno ; non ſono molti perchè i molti preſuppongono l'uno . ital 18. s. Se non v'è l'uno , non vi ſarà nè opinione , nè fantasma , ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto con niuna di quel le che non ſono , nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso ad alcuna dell'altre che ſono ; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non v'è fantasma dell'ente , e quindi dell uno ; ma ſe non v'è l'uno , non effendo poſſibile il penſar a molte coſe fen za r uno , neppur èpoſſibile che ſi penſi che fieno uno , o mol ti le coſe . . 10 . Se non vè l' uno , le coſe non fono nè fimili , nè diffi mili , nè le ſteſſe , nè diverſe , nè ſi toccano , ne & ſeparano Non ſi poſſono concepir le coſe ſenza l'uno ; dunque ſe non vi è l'uno , non ſi poſſono concepire , nè ſimili , nè diffimili nè le fteffe , nè diverſe , nè unite, nd ſeparate . COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è , onde o ſia l' uno , o non fia , ed egli e l'altre coſe ancora ſono , e non ſo no ad ogni modo riſpetto a fe ftelle , e tra di loro , e appajo no , e non appajono . II . Riftringendo in poco tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto , egli è manifefto , che l' uno efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno , non v'è più d'ente , cioè v'è nul. la , ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual Tomo II. q Pla ( 122 ) Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie ; egli ne fa veder i uſo , e moſtra nel tempo ſteſſo , quanto la fan taſia ſia diverſa dall' intelletto , poichè ella ci rappreſenta una coſa , mentre la mente ragionando ce ne fa concepire un'altra . Si conclude dunque , che Placone in queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente , nell' inve ſtigazione dell' idee . 1. Con le negazioni, come fece nel primo capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni dell' idee , del ſenſo , della fantaſia , combinate a quelle della mente. L E T T E R A ALS I G. ABBATE SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO . On dubitate che io ſia mai per dimenticarmi di voi , co N°me alcuni venuti ultimamente di Francia m' accufaro no da voſtra parte ; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea della bontà , e gentilezza voftra , troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il profitto , che io ricavai dalle converſazioni letterarie , che abbiamo fpeſſo avute inſieme , e tra l'altre su l'opere di Platone ; ce ne porgevano il motivo le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier , or su l'ironia di Socrate , or ful carattere de'So fifti , or su la Repubblica , ed or su le Leggi, tutti oggetti delle belle diſſertazioni , che egli diede alla voſtra Accademia . Solo la Iciò egli intatto il Parmenide , o non aveſſe il tempo , o la voglia d' applicarſi a ſviluppare un Dialogo , che è il più malagevole di Platone, o temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere , e filoſofiche , delle quali il Dialogo abbonda . Voi ben ſapete, che per voſtro conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione fin dall'anno 1725. e ne concepii quel fiſtema, di cui állor vi parlai . Venuto in Italia , e diftratto da graviſſimi intereſſi dimeſtici , ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io leggeſſi continuamente Platone ; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di Venere , che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua Franceſe tradotto . Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici , e mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa lione del Platone di Dardi Bembo , che ſtampali in Venezia , con P aggiunta delle note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti . Dalla Differtazione preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia Eleatica così celebre per l'acurezza , e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per la fodezza dell'eſperienze , e l'Ita ( 124 ) 1 1 ľ Italica per la felice combinazione della Geometria , e dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in granparte in queſto Dialogo , in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio poetico adoprato negli altri , e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più preciſa . Nella prima Sef fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli argomenti me tafiſici; il principio di contraddizione, il progreſſo all'infinito , el' annullazione fuppofta di qualche perfezione divina. GliEleatici , che forſe gli inventarono, riconoſceano i limiti dell'intelligenza uma na , e pur era queſta la minor parte della Dialectica loro , la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La quiſtione dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata , e la riſpoſta che so crare diede a Parmenide , su la maggior difficolcà dell' idee , è la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo . Nell'al tre opere s' accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo ; in queſta è cutto il contrario , poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a medicare , e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento . Il Ficino , e il Serano , che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità Teologica non convenevole , l'hanno sfigurato , e colto agli altri il profitto , che avrebbono potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e conforta nè punto inteſa dai due Commentatori , i quali preteſero che in queſto Dialogo chiama to dell'idee , voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate , quan do egli manifeſtamente le rifiuto , tutto riducendo all' Ontolo gia che è la più bella , e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè miſeramente il Carcelio , per averla ab bandonata, eſpregiata ; e non furono dal Leibnizio , ed indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici, ſe non dopo che effi s' affaticarono a dimoſtrare , le nozioni Ontologiche eſſer quelle alle quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione dell'idee, e quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne' concreci, pochi hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in teoria , ed è ſolo riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più vedete in Platone , che io poſſa eſprimere ; in canto vi prego a conſer varmi il voſtro affetto , ed eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. Antonio Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Corti’s French letters – Corti’s Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about whether corpori celesti are inhabited -- l’infinito, self-referential, recursion, anti-sneak, regress, infinite regress in the analysis of communication, calcolo finitesimale, calcolo infinitesimale, Enea stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone – assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Conti (San Miniato). Filosofo. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private; “Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj e ragionamenti. 4. Dialettica dell'arte , o dialettica rappre sentativa . – 5. L'idea è universale , - 6. talchè i parti colari dell'arte non debbono mai ecclissare o escludere l'uni versalità del concetto ; 7. perché , altrimenti , arte bella non c'è . – 8. L ' ordine ideale porge alle immagini formo sità -- 9. eletta , che manifestasi o per cose straordinarie . 10. o per l'eccellenza de'modi , o per tutto ciò ad un tem po , ma ſuggendo le ampollosità . 11. L'ordine ideale si determina ne sezni . 12. onde s' origina l'armonia de'con trapposti. 13. Armonia dell'ordine ideale con la natura , 14. legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció. – 15. Armonia col divino per natura . 16. Conclu . sione. e - CAP. XXVII. Il gusto del Bello ... 19 1. Regola prossima è il gusto . - 2. Sentimento di verità , di bellezza , e di bene . - 3. Che cosa è il gusto ? . 4. Ana logie del gusto intellettivo col gusto sensitivo . – 5. Urficj del gusto ; sanità e infermità ; abiti buoni , o vizinsi . 6 . S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza . 7. Effetto del gusto . 8. Il gusto non può mancare a ' veri artisti , e avvertenze io giudicare il gusto loro dall' opere . 9. Quattro gradi del gusto . - 10. Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza . 11. Stato di sanità o di malattia , cioè buona o rea edu cazione. 12 E empj. 13. Stato d' abiti buoni o vizio . si . 14. Esempj. - 15. Conclusione. 16. Come si può guarire o correggere il gusto falso . CAP. XXVIII. Le leggi del gusto ... 1. Argomento . 2. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo , 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari . 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte . - 8. Il gusto deve 36 454 INDICE DEL VOLUME SECONDO . mostrarci il modo e il quando dell'operare . 9. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza . 11. Esempj. 12. Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea . 13. Gusto de' limiti . 14. Esempj. 15. I limiti massi. mamente ne segni esteriori . 16. Conclusione . CAP. XXIX . I Pedanti e i Licenziosi .... Pag. 53 1. Argomento . 2. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi . 5. Significato più generale di questi vocaboli . 4. Si gnificato più proprio e stretto . 5. Errori contrarj e vizj comuni . - 6. La pedanteria va fuori di natura . 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza . 9. Esempj. 10 . Non comprendono l'universalità i Pedanti . - 11. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi . 13. Esempj. 14. Non hanno vera nobiltà i Pedanti , 15. e la licenza è ignobilità . - 16. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono fama durevole . CAP 70 . XXX. Estro . Leggi dell'ordine immaginato .. 1. Argomento . — 2. Immaginazione . Rinnovazione di fan tasmi , 3. e innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi , spontaneo. pensato , meditato . — 5. Legge univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto . 6. Gradi dell'invenzione immaginativa . Primo ; mutamento di alcune cose percepite . 7. Secondo ; immagini di cose reali non percepite . Terzo ; novità d'imma.ini fra percezioni oscure . 8. Quarto ; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato . 9. Quinto ; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto ; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo ; fantasmi di cose semplici, spirituali , divine. 12. Ultimo ; armonia universale di fantasmi e loro elevazione . 13. Perché l'estro abbia tal nome. - 14. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto , e vero o fecondo . 16. Conclusione . CAP. XXXI. Armonia interna delle Immagini....... 87 1. Argomento . — 2. Sceltezza e vita delle immagini , Scel. tezza rispetto all'arti diverse ; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte ; e rispetto agli argomenti. 4 . Sceltezza per la qualità e per la quantità . 5. Vita delle immagini , 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. -7. Unione del sensibile con l'ideale . Allegoria , e 8 . allegorie speciali , 9. e vizj dell'allegoria . 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera ; e quindi bisogna imma ginar l'opera innanzi di farla . - 11. e che rispondano i par ticolari al lutto , 12. e l'e - trinseco venga dall'intrinseco , e gli accessorj dal principale . 13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti . 15. Relazione specificata delle immagini co' segni . 16. Conclusione . INDICE DEL VOLUME SECONDO . 455 Cap. XXXII . Armonie di verosimiglianza in generale . Pag. 106 1. Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto , e come si rifletta nelle immagini dell'arte. 2 . Questa legge apparisce nella qualità, quantità , tempo e spa zio . 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura . 5. Esempj dell'éra nostra , - 6. Drammatica e lirica 7 . Figure di confronto ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica . 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le . 10. Loro diversità ; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte . 12. Verosimile immaginoso , che differi sce dal reale , benchè gli somigli. 13. Quello trascende . Poesia e architettura . 14. Scultura , pittura , musica , e arti ausiliari . - 15. Com'accade ciò . 16. Conclusione . 124 10 , e Cap . XXXIII. Armonie con la natura corporea . 1. Argomento. -- 2. Legge naturale di simetria . 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i sensibili rap presentati , - 4. Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è universale. -- 5. Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti , - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella . 8. Simetria di quantità nel grado. 9. Simetria di quantità nel numero de' suoni , delle cose visibili . 11. Simetria naturale dello spazio . 12. Simetria nell'arti , quanto a’limiti . 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose . — 14. Simetria di luo ghi . 15. Simetria di tempo misuratore , e di tempo rap presentato. - 16. Conclusione . CAP. XXXIV. Armonie con la natura spirituale .... 1. Gli affetti . 2. Somiglianza loro ; 3. varietà ; 4 . contrapposto . 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza ; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi . - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi . 9. Idem . · 10. Il Materialismo non può spiegarla . 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale ; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose ; 13. ma trasformate dal . l'estro . 14. La personificazione , ritraendo l'uomo , ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro . Grecia , Roma, 15. Italia ; suo scadimento ; letterature straniere . . 16 . Anche nell' altre arti avviene lo stesso . 141 Cap. XXXV. Immaginazioni tragiche e comiche 158 ....... 1. Argomento . 2. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella ? 3. Può il pessimo ? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche . - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più specialmente ? 6. Quando la comica ? 7. Condizioni dell'una , - 8. e dell' altra . - 9. La morte immaginata nell'arte , 10. eidolori del senso , tragica mente ; - 11. 0 comicamente . 12. Deformità fisiche nel 456 INDICE DEL VOLUME SECONDO . rispetto tragico ; 13. e nel comico . - 14. Le mostruosità nell'un rispetto , · 15. e nell'altro , e come in ciò facilmente si trasmodi. 16. Conclusione . CAP. XXXVI. Ordine de' Segni . Stile . Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile . - 3. Nozione meno generica . - 4. Nozione determinata . 5. Ne cessità di meditare lo stile . 6. Idem . 7. Ordine dello stile . Unità . - 8. proprietà , evidenza , 9. vivezza , for . mosità . 10. verosimiglianza. Legge sua universale . - 11 . L'unione di dette qualità forma il decoro . 12. Esempio di essa , - 13. Esempio del contrario . 14. La misura nello stile . 15. Sunto. 16. Conclusione, 193 CAP. XXXVII. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni .. 1. Argomento . - 2.Unità del bello stile . 3. Si riscon tra nell'arte del dire ; ne'proverbj e rispetti , · 4. nelle sentenze , 5. nel periodo , 6. nell'armonia e nell'unione del discorso . 7. Si riscontra nell' arti del disegno ; nel l'architettura , 8. ch'è un discorso anch'essa ; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso ; - 11. e nella inusica ; 12. che ha disegno perfetto , o unione d'armonia e di melodia . - 13. Proprietà de' se gni ; e come segni adoperino l'arte del dire , la musica , 14. l'architettura , e l'arti figurative ; 15. onde viene la proprietà dello stile . 16. Conclusione. CAP. XXXVIII. Armonia dello stile col pensiero .. 1. Argomento . 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero ; 4. e a varietà d'argomenti ; - 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento , proprio , 6. e distinguendolo , per poi bene com porlo . 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione . 8. Vivezza di stile , o moto , 9. nell'arte del dire , 10. nella pittura e scultura , 11. nell'archi tettor3 , 12. nella musica . 13, Formosità , - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità ? 10. Concrusione . 211 CAP. X.XXIX . Armonia dello stile con la natura ..... 228 1. Argomento . 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella degli oggetti . 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e deformità . – 4. Avvi una parte relativa all'artista ; 5. e una parte relativa agli oggetti , e danno armonia . 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem . 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi . 11. Qualità principale di INDICE DEL VOLUME SECONDO , 457 esso è la naluralezza , 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità . 14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. 16. Conclusione . LIBRO QUARTO. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento . — 2. Due generi supremi dell'arte bella , cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati , e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio , e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale ; in arti di figure imitate e di figure naturali . 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza , le quali sono arti secondarie . 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore , 9. e quanto al mondo interio . re . 10. Stato implicito dell'arti : poesia ; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro ; e s'esamina per la poesia , per l'architettura , 13. per l'arti figurative , 14. e per l'arte musicale . Di stinzione di ogni specie in ispecie minori . 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. 266 Cap. XLI . Ordine fra l’ Arti speciali del Bello ...... 1. argomento . 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle . 3. Segni supremamente ideali della poesia . L'ordine loro è una invenzione distinta dall'altra delle im magini . 5. Perfezione suprema de' significati poetici . 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra , e perfezione ideale del suo disegno . 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno . 11. Pit tura e scultura ; disputa di quale fra loro primeggj, antica . - 12. S' esamina quanto a ' segni , 13. e quanto al signi ficato di queste arti . 14. Musica ; in che sta un suo sin golare pregio , 15. da cui procede la potenza musicale ; benche in altro rispetto la musica resti- superata . - 16. Con clusione . A. CONTI . II . 30 458 INDICE DEL VOLUME SECONDO . CAP. XLII. Della Poesia .... Pag. 283 1. Argomento ; definizione della poesia . -2. Come la poe sia somigli la filosofia . 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima . 4. Però l'idea che regola i poeti , si è l'idea dell'uomo interiore , avvivata d'immagibi . Si riscontra ciò ne' sensibili esterni , comuni alla musica e al segno e alla poesia ; – 5 , ne' sensibili esterni , propri solo alle rappresentazioni poetiche ; - 6. ne' sensibili inter ni , che la sola poesia può prendere per oggetto immediato ; - 7. e poi , nelle cose di pura intelligibilità . 8. Tanto è più alta la poesia , quanto più rende viva immagine del . l'uomo interiore ; - 9. e , inoltre , quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere ; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima ; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del mondo ; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo , - 13. e anche ne' poeti scettici , ov'essi han vera poesia ; 14. talché , quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto . 15. E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia . 16. Conclusione . CAP. XLIII . Le specie della Poesia ...... 1. Argomento . 2. Tre modi principali della poesia : espositivo , 3. narrativo , - 4. dialogico . sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale . 6. Si scioglie la difficoltà , distinguendo al . lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem . – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva , 10. o nella narrativa , - 11 . o nella dialogica . 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica . 13. Idem . 14. Diversifica pure l'ori . gine de' tre modi principali di poesia , l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo . • 16. Conclusione. 302 5. La poe 320 CAP. XLIV. Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua , in significato generale , è unità parlata della morale unità d'un popolo ; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate . 6. I Dialetti . - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti . 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua . 11 . Uso di lingua parlata , e uso di lingua scritta ; 12. iden tici nell'essenza , e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova , 14. e come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma . 10. Con clusione . INDICE DEL VOLUME SECONDO . 459 CAP. XLV. Arti del disegno. Pag 338 . 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari. . 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma ; 5. e può risguardarsi per natura , e per l'arti del disegno , quasi accessoria . - 6. La forma ci palesa l'unità ; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose , si per natura e si per arte . 8. Esempj di ciò ; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura , 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare , comprendere i contorni; 12. nè basta vedere , ma bisogna saper vedere o guardare ; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi . - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi . pale per l'arti secondarie . 16. Conclusione. CAP. XLVI. Architettura .... 1. Che cosa è l'architettura . 2. Si originò dal convi . vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza , 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva ; 6 . e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni , 7 . e anche la loro unità ; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa , nel congiungimento delle linee , 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no , quest' arte abbraccia le altre arti del disegno ; – 11 . s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione , — 14. per ogni luogo di es sa ; 15. e si distende a tutta la terra civile , com' efligie inica dell'incivilimento . 16. Conclusione. 357 CAP. XL I. S ulura ..... 376 1. Che cosa è la scultura . - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore , anziché dell'uomo con la natura . -- 4. Indi all'arte sculto . ria il colorito e accidentale , ec . - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo : - 6. è limitata nel figurare animali ; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica e la fisica . 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura , distinguendo tra figura e forma. - 10 . L'unità intera della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e ne' panneggiamenti . 12. Limiti posti dal pudore. 13 . Qual sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria , 14 . E come bisogni evitare ia essa , piucché nella pittura , il freddo 460 INDICE DEL VOLUME SECONDO , ed il generico ; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti , 16. Conclusione . CAP. XLVIII. Pittura .... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore , come rilevasi dal colorito ; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo . - 4 . Magistero essenziale della pittura è il colorito ; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura , 6. nè gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori , 7. nė pe' se goi di vitalità ; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso ; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra , come le cose di natura sogliono . 10. La pittura è visione di fantasia . 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti , e in paesaggj . 12. e ne segni del con • versare umano , 13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi , 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani . 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno . CAP. XLIX. Musica ...... 415 1. Che cosa è la musica . 2. Qual n'è l'idea regolatri ce . Relazione de' suoni col sentimento umano . 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza . 4. E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana . 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é indefinita , 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto . 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti del disegno . 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia . 10 . Però idea suprema e reggitrice della musica è , ch' essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de' componimenti varj. 11 . onde nasce la musicale unità , – 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della musica . Sensisti e Positivisti assoluti , - 15. Sen timentali , Aritmeticanti, Retoricanti . 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello ... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento . 2. Unità d' obbietto , di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello . 3. Perfezionamenti loro successivi , e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà . 5. Prima si perfezionò la poesia ; 6. indi l'architettura ; - 7. poi la scultura , e poi la pittura ; — 8. Apalmente la musica . 9. Aiuto che si porgono l'Arti ; quale la poesia ? – 10. quale l'architettura , 11. l'arti figurative, - 12. la musica ? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro . -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate ; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA.  INDICE DEL VOLUME PRIMO.. INTRODUZIONE CUI SI RACCOMANDA DI LEGGERE ...... Pag . 1-881X LIBRO PRIMO . La Filosofia e i Concetti universali. Cap. I. Idea della Filosofia ...... Pag. 3 1. Che cosa è la Filosofia ? – 2. È scienza del pensiero ; 3. ma del pensiero in atto di vita , e non soltanto delle leggi lo giche astratte ; 4. e però è Scienza della coscienza e dello spirito . - 5. Scienza degli oggetti connaturali al pensiero , e però di Dio , dell'universo e dell'uomo ; - 6. Scienza, per tanto , delle somme cause , dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj ; -- 7. Scienza , poi , della conoscenza , della scienza e della verità. – 8. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia ; - 9. e ivi troviamo la sua più alta verità . 10. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio , del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale ; o , più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine , dunque altresì Scienza dell'ordine universale . - 11. Come in ogni altra Scienza , cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13 . Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri tempi . – 14.Im portanza della Filosofia ; danni d'una Filosofia separativa . — 15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. CAP. II . La Verità .... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità . 2. La verità è sempre entità conosciuta . – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede relazione in relazione. 5. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende , si distingue , 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola , e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici ; - 10. nello Scet ticismo medesimo , e negli errori morali e delle Scienze fisiche . 11. Sicchè l'errore confonde, separa , nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso ; 14. le invenzioni e le scoperte. – 15 . esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali , presupposto da ogni conoscenza . 16. Conclusione. 22 536 INDICE DEL VOLUME PRIMO. 42 - - 64 CAP. III . L'Entità . Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali , - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici , 4. gli attributi metafisici , e le condizioni universali del creato . - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto . - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi , – 7. i Padri, il Medioevo , e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti . 9. Questa idea non può pegarsi. 10. Ma esaminandola , bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce : idea dell'essere comunissimo , - 12. idea d'essenza , - 13. idea d'esistenza ; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità , ch'è di tre specie . - 16. Conclusione. CAP. IV . L'Ordine dell'entità .... t . L'idea d'ordine si distingue nell'idea di relazione , d'atto della relazione e di correlazione . 2. Che cosa è la relazione ? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di relazioni , benchè, quando si tratta di cosa fioita , non essenziali . Ciò si rileva dal concetto d' essere , - 4 . d'essenza e d'esistenza . – 5. La relazione poi è , o intrinseca , - 6. od estrinseca ( cioè ad intra , o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo ; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8 . Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo . Gli Italioti , gl’lonici , Platone; 9. Aristotele ; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio ; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni . Unità e triplicità in ogoi cosa . -- 13. Dottrine aptiche su ciò . - 14. Il Dogma cristiano della Trinità . - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. CAP . V. Il conoscimento dell'Ordine .. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono , distinta la triplice relazione della Verità col l'intelletto , benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità . 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere ; e come li notarono già i Filosofi . - 3. Cose non animate ; 4. cose animate ; 5 . gl'intelletti , ove la presenza dell'entità è manifesta . 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti , cioè intelligibi lità . – 7. Che cosa è la Bellezza , cioè l'ammirabilitd , con trapposta al Vero. Suoi gradi , 8. ne' corpi non animati , Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene , cioè l'amabilità . Suoi gradi , — 10. ne' corpi , negli animali e nella mente , 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali , - 12. e loro convertibilità mutua ; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita , perché il Buono conduce al Vero ed al Bello , - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti . - 16 . Conclusione , e come il Bello morale sia l'accordo del Vero , del Bello e del Buono . 84 INDICE DEL VOLUME PRIMO. 537 CAP. VI. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici , al quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd ; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità ; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi , e l'idea di Dio , non sono correlazioni astratte ; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo ; 9. nè , d'altra parte , sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri ; – 10. nè la parte o il tutto ; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti . – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente , o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo , 14. da' simboli suoi più notevoli , 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII . Idea di Creazione .... 121 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo , cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza ; 4. e si riferisce ad un che , il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza , benchè non quanto alla potenza ; 5. si riferisce , poi , ad un termine distinto essenzialmente dalla cau sa , o ad extra . - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva . 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto , cioè la sostanza , si produce ad estra ; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale assoluta : - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre , e il mondo è arte di Dio ; -11. la quale produce una somigliaoza divina nell'universo , mentre Dio non somiglia i finiti e li trascende . - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla fantasia , - 13 . e dallo sdegoare il mistero , comune ad ogni causalita ; 14 . sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e de' Dottori , 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza , sibilità pura ; - perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII . Idee relative all'Entità della Natura ....... 143 1. Argomento ; le condizioni dell' entità : Prima condizione della natura , per l'essere suo , il quanto ; 2. che si distia . gue nell'unità , 3. nel numero 4. ( che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità . 6. Condizione seconda per l'essenza , il quale; - 7. che si distingue nella varietà , 8. nella contrarietà , 9. e nella somiglianza ; . 10. più notevoli dove la oatura è più alta . - 11. Terza condizione per l'esistenza , il quando ; 12. che si distingue nel momento , -13. nella successione, - 14. e nella durata ; - 15. non predicabili dell' Eternità . 16. Conclusione. C 538 INDICE DEL VOLUME PRIMO. 462 C il pine. - CAP. IX. Idee relative all'Ordine della Natura ....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione , 2. La relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza , - 4. la causa , 5. e l'essenza reale . - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio , 8. il mezzo , 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove , che può essere correlazione ancointellettiva , 11 , e correle zione materiale ; - 12. ossia il punto , - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio , 15, che non può essere infinito , ma è nell'infinito ; 16. e il sublime si origina da cið . Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento ...... 1. Criterio della conoscenza ; ove si riscontrado : l'oggetto ideale , – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile , 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali , e la conoscenza delle cose esteriori , 6. di noi stessi , degli altri uomini , - 7. e di Dio) , - 8. c . il senti mento , in relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto , ed esso medesimo ha questo pome . 9. Forma del bellezza ; - 10. e qui si riscontrano : la cosa formata , 11. l'idea esem plare , 12. e il gusto . - 13. Legge del bene , ove si ri scontra il bene oggettivo , - 14. la felicità , - 15. e l'utilitd . - 16. Conclusione. 182 . 2. a. - LIBRO SECONDO. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. 207 . CAP. XI. L'Enciclopedia .... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia , bisogna ve. dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano , 2. Ordine di formazione , ordine di logica dipendenza. 3. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. 4. Quattro classi di conoscenze : - 5. onde vengono la Teologia positiva , la Filosofia , le Matematiche e la Fisica . 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate . 8. Matematica. - 9. Fisica . - 10. Storia sacra , umana , na turale. – 11. Arti filosofiche , matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia . – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario , le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti : la Dialettica , l' Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. CAP. XII . La Dialettica. 1. Che cosa è la Dialettica . — 2. È quasi un dialogo. – 8. Esemplare unico dell'Arte logica è la natura , - 4. se no 229 INDICE DEL VOLUME PRIMO . 539 - 8. e s'op v'è ignoranza . – 5. L'Arte logica è osservazione di natura , - 6. se oo avvi leggerezza , impazienza e preoccupazione appas sionata . – 7. È imitazione di natura , 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa , pop oggettiva , - 10. se no avvi l'assurdo. - 14 . È per fine di verità , - 12. se no si confondono l ' arti , che per altro s' accordano e s ' aiutano . 13. La Verità , com'oggetto dell'Arte logica , viene deter minata dalle operazioni di questa , - 14. e però è ordine d'en tità ripensato , 15. ragionato , — 16. e significato . CAP. XIII. La Critica interiore vera e la falsa ........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio , che paturale cono scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva ; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva . 4. Esempj dell'una e dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può ; e questa è critica smodata , o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico . 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza ; pone , qualunque sia l'intenzione de' Critici , alla virtù ; 9. è causa di desolazione , - 10. o di misera indifferenza . 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale co noscimento , 12. la forma di questo e la materia ; 15 . cioè la forma naturale in relazione con gli oggetti , - 14. e la realtà degli oggetti stessi , che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero . · 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo. Cap. XIV . Verità connaturali al pensiero umano . 272 1. Tre requisiti delle verità connaturali . – 2. Esistenza di noi stessi . - 5. Errore del Kant e de' Positivisti , - 4. e loro confutazione . 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi . – 6. Notizia del mondo esteriore , – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti , 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio . - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti . 13. Confutazione , 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o spontaneità , - 15.inconvertibililà e insepa rabilità . Da queste notizie di noi , del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza . 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza . CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose . 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti , onde provenga. 3. Apparenza sensibile , - 4. corrispondente agli oggetti percepiti ; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie ; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali , realmente vera . - 540 INDICE DEL VOLUME PRIMO. corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze , che dano'occasione d'inganno , procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali , corrispondenti all'entità e verità delle cose , ue' concetti, - 10. ne giudizi , -11. e oei raziocioj. 12 . Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi , e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo ; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso ; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna ; — 15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. CAP. XVI. I Principj armonici della ragione ... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe , corrispondente agli universali analogici . Per l'entitd si distinguono più principj , riflettendo all ' idee d' essere , 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità , si distinguono , riflettendo all'idee di relazione , 6. di atto della relazione e di correlazione . - 7 . Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono , riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono . – 9. Seconda classe , cor rispondente agli attributi metafisici correlativi . – 10. Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita . Si hanno : Per l'entità di questa , i priocipj di quantild, di qualità e di tempo ; 11. per l'ordine della natura , i principj di derivazione o dipendenza , - 12. di modalità e di confinazione o del dove ; – 13. per il conoscimento dell'or dine , com ' esso è negl' intelletti creati , i principj che risguar dano il criterio della verità , la forma della bellezza e la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15. Due opinioni estreme ed erronee : l' una che li Dega , l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento . - 16. Conclusione . CAP. XVII . L'Osservazione ...... 340 1. Materie da trattarsi . — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale , 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore , cosi per suggerimento di natura , 8. come per la Scienza . 9. Si verifica delle verità intellettuali pure , 10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità , 12. e ipdi vien la Critica , 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem ,-15. Anche nel procedimento della Letteratura . 16. E anche nell'Arte pedagogica. CAP . X III . Metodo che imita la Natura ...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica : parte sostanziale del metodo . 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 361 INDICE DEL VOLUME PRIMO. 541 - secondaria . 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7 . Però non può essere nè solameote analitico , nè solamente sintetico . 8. Difetti del Puno e dell'altro , - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva . 11. Esempio del Gioberti . - 12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze ; 14. nell' Arti del Bello , - 15. e nel ” Arti del vivere civile . . 16. Conclusione. CAP. XIX. L'invenzione dialettica ..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica , o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una definizione nominale ; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione , – 4. con la tési e con l ' antitesi , con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica , che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia , passando alla sintesi , abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse ; oode gli Antichi dis . sero che saper vero è un sapere per le cagioni ; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali , - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio ; 11. s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; 12. Delle Mate matiche, 13. e nella Fisica . 14. Indi si spiega l'inven zione degli stromenti e delle macchine ; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo . - 403 - CAP . XX . Il fine dell' Arte dialettica .... 1. Argomento. 2. Connessione logica . - 3. Che stato der essere quello di chi cerca la verità , 4. e difetti che bisogna evitare . - 5. Si può errare io ciò per leggerezza , 6. o per una preoccupazione. 7. Chiarezza , - 8. e difetti da evitarsi , -9. Errori che procedopo da leggerezza , - 10. e da preoccupazione , prendendo per chiaro ciò che non è . - 14. Certezza ; 12. e difetti evitabili ; 13. badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi -14. e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto , e vice 15. Connessione , chiarezza , certezza , non possono realmente trovarsi che pella verità . 16. Si concbiude : che fine d'ogoi Scienza , e perciò anche della Filosofia , non è di dare a noi , quasi mancanti d'ogni ragionevole conoscenza , un primo conoscimento della verità , si l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità : e poi, che l'Arte dialettica è altresì un abito morale ; e ancora, che l'abito del parlare meditato giova molto all'ordine del pensare ragionato e retto . versa . - 542 INDICE DEL VOLUME PRIMO. LIBRO TERZO. I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. Cap. XXI. L'Evidenza , o il Criterio della Verità ..... Pag. 427 4. Argomento , e qual sia il disegno della Dialettica , e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj ; e dottrina loro semplicissima. -2. Il Criterio è uoa regola , perch'è un segno della verità in relazione con l'intelletto . - 3. Non può negar si , fuorchè negando la conoscenza ; non può travisarsi , fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi ; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio . - 4. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità , 5, ed è universale . - 6. II Criterio , perciò , è l ' evidenza dell' ordine di verild ; – 7 , è quindi uno e moltiplice , ossia è un ordine di Criterj; 8. perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso , e ne' suoi contrassegni universali ; cioè coutrassegni d'amore e di fede , perchè l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. 9. Il Criterio vale altresi nelle cogni. zioni anteriori alla Scienza , 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi , l'evidenza precede il ragionamento , l'accompagna , e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in evi deoza scientifica ; non già perchè si comioci dal dubbio ; anzi non può cominciarsi da esso , perch'è un riconoscimento . – 13 . Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale ; . 14.senza di che quella è fuor di natura . - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine particolare ; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e più ristretto . - 16. Conclusione. - 451 Cap. XXII . L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo .... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria ; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti . 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile , soprannaturale , 5. intelligibile : 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti , e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili , che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi . Teologia positiva, - 10. Filosofia , Matematica , — 11. Fisica , 12. Filosofia della Sto ria , Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico . – 14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa , 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. - - INDICE DEL VOLUME PRIMO. 543 - Cap. XXIII. Sistemi opposti al Criterio della Verità , e pri mieramente il Panteismo.... Pag . 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo , e pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale , 4. pitagorico , - 5. eleatico ed ionico ; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici , - 7. che difendevano il Paganesimo ; 8. de' Reali nel medioevo , – 9. e dell'altre Sètte ; - 10. del Bruno e del Campanella 11. ( sterili , se paragonati al Car tesio ed a Galileo ) , · 12. dello Spinosa ( non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi , 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi , che balenano dal Panteismo ; 16. il quale , bensì , le travisa , e però nega i fatti più sublimi della coscienza. CAP. XXIV. II Dualismo . 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio , e in che meglio del Panteismo ? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora , - 5. di Platone , - 6. d'Aristotele, 7 . degli Stoici . - 8. Dualismo tra certi Filosofi maomettani . 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo ; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici ; - 14. talchè se n'occasionava , ne' tempi della Riforma , up Dualismo nuovo , non antiteistico , macosmologico e antro pologico . – 12. Il Cartesio ; – 15. ed effetti delsuo Dualismo , segnatamente nel Malebranche , - 14. e nel Leibojtz ; 15. o anche nell'Idealismo , nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori . 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj , - talchè rompe ogoi armonia . CAP. XXV. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi . – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti . 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa ; 6. non l'intelletto , essenzialmente diverso dal senso ; - 7. non - 8. non l'idealità ; 9. non la riflessione sopra di noi ; 10. non la religiosità ; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi ; 12. non la Filosofia ; si solamente la Fisica , - 13. ma falsata e con metodi non suoi . - 14. E sono alterate anco le Matematiche , - 15. com' altresi la Sto ria . - 16. Sunto .  INDICE DEL VOLUME SECONDO. - Cap. XXVI. Lo Scetticismo...... Pag . 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci ; - 3. nell'età Socratica e del medioevo ; 4. nell'età moderna . – 5. Eclettici e Mistici , che non riparano allo Scet ticismo , dacchè gli concedono di partire dal dubbio . – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo , 8 . e Positivismo ; – 9. e quindi Scetticismo metafisico , antimetafisico , - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto . – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo . 13. Con seguenze principali di questo . Desolazionee scherno . - 14. Dif ficoltà pelle controversie , o Dommatismo scettico ; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e CAP . XXVII. L'Amore della Verità ... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio ? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità . 2 . Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto . -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto . 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento , l'accompagni e lo assicuri , e perciò bi sogna guardare a quell'impulso , 6. a quella compagnia e a quel riposo ; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali , che di visero l'affetto dall'evideoza ; 8. quanto gli Astratteggian ti , che separarono l'evidenza dall'affetto . 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica . - 10. Ufficio di quello in Filosofia , il quale altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa ; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi , 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13 . e gli affetti religiosi . – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici , storici e teologici . – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi . – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. 500 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 42 - - 63 - salità ; CAP. XXVIII. Il Senso Comune... Pag . 1. Quando la parola serve di Criterio ? - 2. Che cosa è il Seoso Comune ? Due sigoificati di esso , - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false , · 4. Limiti del Senso Co mune : . 5. i principj , 6. le immediate percezioni , 7 . e le immediate conclusioni . 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia ; non cosi nell'altre Scienze , 9 . fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa . - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune , per la contrarietà delle opinioni . – 11. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune , per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no ; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio , qua sichè questo sia credenza , non evidenza ; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza ; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini . . 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura , come le Arti del Bello . CAP . XXIX. Tradizioni e progressi nelle Scienze ... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche . 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza . – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi , i problemi, e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà . -6. Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi , -7. e ne' problemi . – 8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità ; 99.. eppure confermano i teoremi , 10. e son’oc casione di progresso , mostrando i mancamenti della Filosofia , 11. perfezionandone la forma , 12. e alcune dottrine particolari , - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false : cioè i sosteoitori della sola evidenza privata ; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico . - 16. Conclusione. CAP. XXX. Relazioni fra le Scienze e la Religione ..... 1. L'argomento, che ora si tratta , è Glosofico di sua na tura , – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de : che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede ; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza ; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri , o la Teologia nel ragionamento filosofico ; – 7 . che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi . - 8. Nel fatto , l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici ; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede ; 10. Criterio è poi , se corrisponde alla coscienza ; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza , cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore , - 15 . che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica . 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me . ditazione più alta . 16. Sunto. 84 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 501 LIBRO QUARTO. Leggi speciali della Dialettica . oi . - - 6. e Cap. XXXI. Dell'Ordine , come suprema Legge razionale . Pag. 107 1. Legge suprema razionale . 2. Leggi concrete o datu rali , 5. Legge soprema è l'ordine . 4. Unione de' termi 5. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti , pelle operazioni , cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona , 7 . come dell'Arte dialettica . 8. Cercare la somiglianza de' ter mioi, – 9. le loro differenze , - 10. e le loro contrarietà , 11. escludendo i contradittorj. 12. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj . – 15. Errore, deformità , male , sono disor dini . Ogni errore non altro è , che da una parte soltanto risguar dare la verità , segregandola dal resto che le appartiene , e senza cui non è più verità. - 14. Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso . 15. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore . 16. Coo clusione. Cap . XXXII. Ordine dell'idee 127 1. Ripensamento dell'idee. - 2. L'idea , del suo valore intimo , è sempre vera ; - 5. quantuoque altresi per idea s’in . tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega ; e allora l'idea può essere falsa . — 4. Bisogna esaminare il positivo del l'idee ; - 5. nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto , se igooriamo la sua intima essenza , nè possiamo negare l'idea d'un fatto , se ignoriamo il comeavviene il fatto , ec .; -7. e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto , coocepita per mezzo dell' idee . - 8. Idee a priori e a posteriori ? 9. L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto ; 10. talcbè , riflettendo a quello , si formano idee distinle , adequale , chia -A1 . e ci leviamo all'idea perfetta . 12. Bisogna , in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee , 13. la loro estensione e comprensione , 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana . Cap. XXXIII. Ordine della Memoria .. 1. Argomento .– 2. La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee . 3. Associazione dell'idee . 4 . Come possono in unità raccogliersi le varie associazioni , notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al richiamo de' fantasmi e de'segoi . - 6. E anzi , abbraccia tutte le facoltà , concorrenti nella Memoria , 7. e unità naturale del . 8. e l'unità morale del genere umano. — 9. Que st' ordine , ch'è legge della Memoria , diviene regola . È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re , dell' idee , molte cose . ſaomo , 502 INDICE DEL VOLUME SECONDO, - considerare la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil . mente richiamarle. - 11. Inoltre , acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico . 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna , occorre rammemorare il nostro passato . 15. Per unità morale del genere umano poi , occorre la Tradizione , ch'è me moria. – 16. Conclusione . Cap. XXXIV. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento . 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj ; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie , 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina . - 7. Categorie oggettive , o se condo gli Universali ; 8. Categorie soggettive : 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee , giudizj universali , ge nerali , particolari , singolari ; - 10. II . quanto alle relazioni fra l'idee , categorici , ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici , assertori , apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori , - 13. analitici e sintetici ; - 44.III . quanto alla forma de'giudizj , affermativi , negativi , limitativi ; 15. IV . quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti , convertibili , contradittorj , contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario , giudicando , solle varsi all'idea distinta , chiara , adequata , e quindi perfetta , di ciò che meditiamo. Cap. XXXV . Ordine del ragionamento .. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica . – 5. Idea media ; e come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio . - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso . – 7. Induzione dal diverso al simile . - 8. La diffe reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere ? — 9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo , 10. e dell'induttivo ? - 11. Da essa viene la regola . 12. E , per opposto , dal violarla vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento ; - 16. oè la materia di questo dall'ordine suo . C .: P. XXXVI. Utilità del ragionamento . 206 1. Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto ? 5. Che cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento ? 4. Deduzione; 5. in Fisica , in Ma. tematica applicata ; – 6. altre scoperte , – 7. per equipollen za , conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate . – 9. Induzione , é sua certezza . --40 . Induzioni fisiche. 11. Analogia . 12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica . – 14. Due erroriopposti : l'uso di coloro che immaginano la deduzione quasi generazione ; 15. l'al tro di coloro che negano il dedurre. 16. Conclusione . smi ; ISDICE DEL VOLUME SECONDO. 503 216 Car. XXXVII. Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento . 2. La verità , com ' ordine conosciuto , si trasforma in Metodo : può vedersi dalla Storia della filosolia , 3. e delle Scienze fisiche ; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello , e ch'è psicologico ed ontologico insieme , 6. cioè critico . - 7. Faria il Metodo ; ma neile varietà c'è leggi comuoi . 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento , 9 . taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10 . e vba Scienze deduttive , 11. induttive , . 12 , miste ; 13. più sintetiche , o più analitiche . 14. I Metodi , variando secondo la varietà delle cose , diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità , 15. e secondo la mente di co loro , a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. CAP. XXXVIII. Abiti necessarj al ragionamento 1. 11 Metodo è abito , e richiede: abito di virtù , abito in tellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte. – 2. Abito morale , cioè amore della Verità . 5 . Bisogna essere preoccupati solo da questo amore ; 4. unito alle virtù morali , - 5. e come dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. — 6. Abito intellettuale del rac coglimento, – 7. donde nasce il diletto della meditazione , 8. e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine , 9. e di ordinare i proprj studj . 10 . Abito intellettuale dell'Arte , cioè il possesso delle regole . 41. e dell'ordine loro ; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine ; 13. il quale ultimo è importantissimo ; 14. e indi viene il possesso della ragione ; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa ; 16. purchè questa sia conveniente. Cap . XXXIX. L'Esposizione .... 264 1. Iinportanza dell'argomento , 2. Ufbej della parola : interpo e sociale . 5. La parola s’unisce strettamente al pen siero , ma non lo costituisce ; 4. bensi lo determina . 5 . Non bastano i fantasmi, ma ci vuole il segno dell'idea 6 . tanto più che il discorso esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva . – 7. Legge dell'Esposizione si è la legge dialettica ; 8. ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero ; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'ter mioi della proposizione e del raziocinio , e al congiungimento de' termini ; - 9. e poi , la bellezza dello stile dottrinale ac corda il Vero col Buono . 10. Regola perciò è : determinare cop l'ordioe della parola l'ordine del pensiero ; -11 . in con formità dell'idee e dell'idioma , 12. donde si traggono le regole tutte grammaticali , 13. e dello stile . 14. Quindi è impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla pro fondità e dall'ordine del pensiero . – 15. Se non determiniamo con le parole il proprio concetto , - 16. in conformità dell'ig 2 504 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 4. ma timo legame fra i concetti , e in couformità del linguaggic , ven gono gravi errori . Cap. XL. L'Interpretazione .. Pag . 283 1. Argomento. — 2. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero altrui . 5. Relazioni del discorso con la Jingua ; e perciò la sappia , chi vuolesser critico ; tutti sapere ogni liogua , non si può pè giova ; 5. e allora valersi degl'interpreti migliori. – 6. Relazioni del discorso con la mente altrui; e perciò stare al senso letterale , quanto si puo ; – 7. oon interpretare alla leggiera né cop troppo di sot tigliezza : 8. non alterare né i difetti né i prenj ; – 9. ba dare ai fini che il testimone o lo scrittore si proponeva. 10 . Relazioni del discorso con l' animo altrui; e pero guardare alla capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci ; : 11 . nè la capacità negare, preoccupati da un'idea ; 12 . nè , per la veracità , eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. - 15. Relazioni con la Società uma na ; e però con l'incivilimento , 14. con la Religione , 15, con l ' uniune delle prove . 16. Sunto, LIBRO QUINTO . Metodi secondo le varie Discipline. 305 0 Cap . XLI. Metodi speciali ..... 1. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le Discipline va rie ? - 2. Quanti sono i Metodi speciali , - 3. che procedono dalla relazione varia degli oggetti con la mente ? 4. Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su detta rela zione. - 5. Gli errori de' sistemi sul Metodo , esaminati , ren dono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. 6. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero , come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello ; – 7. e chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità ; come nell'Arti Belle , 8. cosi nell'Arte dialettica . 9. Connessione de' Metodi ; . 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello . Hl . Ma la connessione non toglie poi la distinzione , 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici diversifica ; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze diverse ; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto . - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà . Cap . XLII . Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi . – 3. Metodo storico circa i fatti ; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia . 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti , -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi , 8 , e come gli 324 INDICE DEL VOLUME SECONDO. 505 - Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità ; 9 . poi , circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini , ma esclusa sempre la necessità ; - 10. poi ancora , circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de , 11. come nelle Verità misteriose . 12. Unione del Metodo filosofico , dell'interpretativo e dello storico , per le origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13 . per le sue relazioni universali con le Scienze e con l'Arti , 14. con la Civiltà intera , - 15. e con tutti gli altri Culti . 16. Cooclusione . Cap. XLIII . 11 Metodo teologico si distingue dagli altri Me . todi e vi s'accorda .. Pag . 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico , perchè muove dall'autorità , – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente , 4. perchè , quantunque abbia io sè una parte filosofica , non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e filologico , percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6 . Si distingue dal Metodo matematico , perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo fisico ; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi , che non debbono considerare come il mondo è fatio , - 8.6 pe ' Fisici , che non debbono considerare come il moodó fu fatto . 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico ; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento ; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia , che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali . – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica ; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri . 13. S'accorda col matematico , per la severità del ragiona mento , per molti esempj , per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità . – 14. S'accorda col fisi co , perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi , secondo le narrazioni sacre . 16. Sunto . Cap. XLIV. Metodo della Filosofia.... 361 1. Argomento . — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3 . Raccoglimento nella coscienza . 4. Esame de' fatti interni , delle loro leggi e cause . turali ; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti ; 6. e però avvi una parte del Metodo , asceosiva da'fatti agli oggetti stessi , e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7 . Si distingue dal Metodo teologico , e dal critico o filologico : 8. dal matematico , per la natura de' concetti , la natura degli oggetti ; – 10. dal fisico , per la natura de' fat ti , e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro , e leggi e cause , e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per 506 INDICE DEL VOLUME SECONDO . - me della coscienza; 13. col critico o filologico , per lo stu . dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue ; 14. col malematico , per la speculazione di verità con ma teriali ; – 15. col fisico , per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto . CAP. XLV. Metodo della Filosofia Civile .... Pag. 381 1. Argomento . — 2. Proprietà del Metodo nella Filosofia Civile . Questa si fondi sopr'i fatti , – 3. badando alla notizia loro precisa e al collegamento loro . 4. Studio delle cagioni ; ma fuggendo di prendere l'analogie per identità . - 5. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non separabili , ma distinte . - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza : 7. ma senza trascurare l' esteriori . - 8. Si ascende alle leggi o ragio ni . Leggi supreme della Scienza storica , della Politica , della Giurisprudenza , dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà , - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità ; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza . – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria , di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi , che governano le nazioni , non può trascurare il procedimento storico ; ma neppure si può, per questo , trascurare la teorica di quelle . - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti , la Storia e la batura . –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro , 16. e a tutti si upisce . Cap . XLVI . Metodo critico nella Storia . 401 t . Argomento. – 2. Esame de' fatti , — 5. Discipline che aiutano in ciò la Storia : Cronologia e Geografia , – 4. Archeo logia , Diplomatica , Statistica , Archeologia preistorica , Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci pline . - 6. Ipercritica . – 7. Esame delle cagioni ; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè . 8. Cause finali, 9. particolari, generali , 10. psicologiche , A1 . divine . 12. Oggettività della Storia ; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa . – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo ; 15, e vi si accordi . 16 Sunto, CAP. XLVII . Metodo critico nella Linguistica . 420 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli . – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate , e come giovino i testi moni dell'uso . A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli , 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica . – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa , e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente ; – 9. e ciò ne determina i con fini , i modi , 10. e le relazioni ; che sono massimamente due : con la Letteratura , 11. e con la Storia , - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica ; cioè con 4. La INDICE DEL VOLUME SECONDO . 507 ca , la Teologia . 13. con la Filosofia , 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica , sempre distinguendosi da tutto ciò . 16. Sunto. CAP. XLVIII. Metodo matematico ... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea . – 5. Nel che , poi , bisogna di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4 . Si cerchino le ragioni , sgombre da ogo' idea straniera . 5 . Idea dell'Infinito , distinto dall'indefinito matematico . - 6. Il Cavalieri . – 7. Distiozione dal Metodo teologico , - 8. e rela zioni con esso ; 9. dal Metodo filosofico : 10. e accordo con la Logica , 11. onde l'insegnamento della Matematica è razionale , 12. Distinzione dal Metodo critico , segnatamente dal letterario , 13. e accordo . - 14. Relazione col Metodo fisico . 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti , e anche possano dissestarli . . 16 . Sunto. Car. XLIX . Metodo nelle Scienze fisiche..... 459 1. Argomento . Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche , - 2. Prinia d'indurre si comincia dall'Analogia ; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere fonte di errori ; o del troppo generaleggiare , 5. o del poco. – 6 . Essa è di molta difficoltà . 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto . 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause , - 11. alle leggi , 12. e però al . l'ordine . 13. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti . 14. Frantendono allri la luduzione , ch'è legittima e necessa ria , 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune . Suato . Cap. L. Segue del Metodo fisico ; e Ordine fra le Scienze .. 479 classi , 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem . 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze . - 5. Guai , se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia : – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio , e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo ; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie , poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie ; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità . - 12. Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia ; - 14. per le Matema. tiche ; - 15.per la Gritica . 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. - Epoca seconda dell' èra pagana. Ci. viltà degl' Italogreci ; successione dei loro sistemi . . 245 XIV. Scuole italogreche . Epoca quarta dell ' èra pagana. Si stemi grecolatini . - Cicerone . 366 XIX Giureconsulti romani.  EPOCA SECONDA DELL'ÈRA PAGANA. CIVILTÀ DEGL'ITALOGRECI; SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. SOMMARIO . Tre tempi dell'incivilimento ilalogreco ; i l'elasghi, la trasfor mazione loro negli Elleni , le colonie . - Il terzo è più nolo ; quali sono i suoi termini . – Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italogreca : colonie , commerci, viaggi , lingue , tradizioni. Tre opinioni sopr ' esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media . – Dj pendenza non generica nė volgare della filosofia italogreca daʼsistemi orien tali . – La civiltà jtalogreca fiori primamente dove più vive le comunica zioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento . l'ero quest'epoca si chiama orientalitalogreca , o più breve , italogreca . Questa è un'età di passaggio , fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italogreca , religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Mi steri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelas ghi, e sul nome degli dèi posteriori ec ., e conseguenze di ciò . Somi ilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. - Misteri : quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi ; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. – Ciò pur anche ne ' Misteri eleu sini ; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità . Le due anime; anch'in Omero ec . – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo , benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini : cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane . Quanto a'versi orlici , que sli non appartengono a Orfeo ; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico ; adorazione degli astri , massime nel volgo ; teogonie , o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti ; individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia , dunque, prima sacerdotale ; poi sacerdotale e laicale ad un tempo ; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro , come apparenza o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto , anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco ; e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute ; ma va di . slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia . Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso ; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica , infine i sistemi negativi . L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi ( o con qual altro nome 246 PARTE PRIMA. si voglia chiamare que' popoli primitivi) ; della trasforma zione di essi negli Elleni ; delle colonie. L'età de' Pelasghi o degli antichi abitatori di Grecia e d'Italia si perde nella notte de' secoli , ignoto il principio e la durata . È certo bensì, che quegli abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’linguaggi e nelle reliquie dell'arti ; e che i Pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, furono la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religio ni elleniche. (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ .; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité.) Sem braron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i Pelasghi abitarono, fan derivare i Greci la civiltà loro , dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e in Grecia e in Italia un cozzo di popoli : qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi ; ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i Pelasghi si convertirono in Elleni. Viene poi l'età delle colonie ; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un in vadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'Isole, poi nella Calcide, nell'Eu bea , in Sicilia e sulle coste d'Italia, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia , in Tracia, sul Da nubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica ; dell'altre due il più va ingombro di favole ; e la terza cominciò, secondo l'Hofler assai temperato nelle · cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. ( St. Univ .) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lun ghe e ricche preparazioni, si formò la civiltà e filosofia degl'Italogreci; la quale, svolgendosi nelle colonie d’Ita lia e dell'Asia minore, cedè poi nel secolo quarto avanti Cristo al primato d' Atene; onde cominciò un'altra età di filosofia . Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantene LEZIONE DECIMATERZA . 247 vano unite la civiltà orientale e l'italogreca ; colonie , commerci, viaggi, lingue, tradizioni : Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli Arii e de' Persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore ; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra Grecia e Italia e le coste dell'Asia ; i viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de filosofi d'allo ra, come il Ritter non nega quelli di Pitagora, il Ritter ne gatore sì voglioso ; le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino al Creu zer le mitologie italogreche, la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana ; ma poi Ottofredo Müller, il Voss e altri riferirono tutto ad ori gine greca ; il Guignaut ( Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media . E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici e forme generali delle lingue ; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene : ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vi cini orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in Omero . ( N. 1 al Lib. V , Sez. 1. ) Talchè (ponete mente, o si gnori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore av venne dall’undecimo all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'Italia e di Sicilia dall'ottavo al sesto , que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle tradizioni orientali fra gli Elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova degl'Italogreci. Non istarò dunque a disputare com’essa derivi più o meno da’sistemi orien tali, bastandomi ch'ella dipenda per fermo da molte tradizioni d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel 248 PARTE PRIMA. riaccostarsi loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' po poli d'Italia e di Grecia, nazioni antichissimamente ci vili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione spe culativa, giudicatene voi , o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà italogreca ? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia ; non già in Gre cia propriamente detta. Perchè mai, o signori ? La ri sposta non par malagevole ; prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civil . tà ; e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Gre cia , cioè in Italia, perchè ivi più forse ch ' altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan se gno come frequenti e vive fossero le comunicazioni tra le coste italiane e l ' Asia minore. Dico poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in Italia grandi semenze di civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto importanti: prima, che le ta vole d'Eraclea , lette dal Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero dagl'Italioti misure e confina zioni agrarie : seconda, che i Lucani, i Bruzj, i Sanni ti , dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a' monti, ne discesero poi , e le ributtarono ( Hofler ), talchè più non restò in Italia dialetti greci (in Puglia ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non serbavano istituti civili . Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita logreca (italogreca per più brevità) ; greca, perchè filo sofia di colonie greche; italiana, perchè sorse più splen dida in Italia e con tradizioni italiane ( italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la scuola pitagorica e d'Elea) ; orientale, perchè con ori gini e comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci LEZIONE DECIMATERZA. 249 la loro eccellenza ' se notiamo quel ch ' essi appresero ; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bel lezza e compimento ; essi il ricevuto per dieci lo ridus sero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'Ita lia nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’ Aristotile ; l'Italia ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l ' Italia poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli avvenire ; e potè dirsi allora quel che poi disse Plinio : Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci , o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode . E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio ; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre dell'età socratica . Così tra gl' Italogreci, come tra gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale ; ma ora si nasconde ne' Mi steri , e si separa perciò interamente dalle credenze po polari che prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filo sofia dipende dal sistema religioso ; ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici ; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente . E siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da'Mi steri ( Ritter ), che aveano del panteismo orientale, così ell'ebbe del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con ten denze più manifeste alla dialettica che va per distinzioni anzichè per confusioni . Poi , qui come là s' unì la poe sia con la speculazione, ma più altresi se ne distinse ; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj; ed i poemi scientifici d'Elea e d'Agrigento s'accostano alla prosa. E qui come là v'è 250 PARTE PRIMA. incertezze storiche, meno per altro ; giacchè il più delle incertezze cadono su' Misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori . Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in atti nenza con la filosofia la religione e la civiltà degl' Ita logreci . Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India , giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale italogreca si può ricercare in tre modi : per le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle orientali ; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri apparten gono, credo, all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive ( II, 51 , 52 , 53) che da loro non si metteva nome agli dèi ; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i Pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'ora colo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi ; e dice infine che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero ; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com ' Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri ; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente . Erodoto, uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo così famoso ? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute lontana dal politeismo ; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti; terzo , che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un che meno LEZIONE DECIMATERZA. 251 pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli oracoli ; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri ; quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni ; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono ( più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e Acusilao in Strabone ( Ed. Sturz ) ; dicendo che i Cabiri , divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre femmine. ( Creuzer, V , 2. ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi ( II, 5) , ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i simboli esterni . Come si spiegavano essi ? Apollonio di Rodi serbò del vecchio storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia . ( Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori ? Similissimi a quelli dell'India . S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros ; la materia fecondata , Aziokersa, o principio passivo ; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm ? 0 piuttosto ( giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio , rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda ? tanto più che Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Tri 252 PARTE PRIMA . murti. ( Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme ; Creuzer, V , 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia ? E forse su quelle divinità è , innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come dice Pausania ( art. Beozia) e Apollo doro (Argon. I) , e come dimostra il Meursio ( De Festis Græcorum ). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale ( com’ho detto di sopra) , e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima ( forse col ritorno all'essenza divina) , e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale viene indicato da Cicerone ( De Nat. Deor. I, 42), che diceva : come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi . Che vuol egli dire ? Egli accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova, dunque, tale ac cusa , e viene confermato da molt' indizj, che la religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi ; di fatto, che si trattasse d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura esterna ce lo vieta lo stesso Cicerone. Egli scrive nel II de Legibus, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita migliore ; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone ( Fedone) LEZIONE DECIMATERZA. 253 che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi , e dà a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma ( Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai . Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio (cap. 7 e 17) dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane ( Rane, v. 467-462) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole : « Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti ( 7 : ) ett ) , giacchè da loro veniva la perfezione della vita . Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo : credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo ; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone ( dzepov) o anche logo ( 200795) da psi che, e tra'Romani animus da anima. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le appa renze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti ( Odiss. II, c . 217 ) : « D'Ercole mi s'offerse alfin la possa , Anzi il fantasma ; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di Giunone. » 254 PARTE PRIMA. La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto ; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome ( al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha ; perchè Ibico ( in Prisc. VI, 18, 92) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo ; lo rammenta Pindaro ( Pith. IV , 315 ) , anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP ( Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ) ; lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone ( Leg. VIII ; Ione, Convito, Rep . 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo ; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo ; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione , che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi ( Ott . Müller) : e ciò conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia , benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Il Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie ; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti ( VII, 3) . E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ) , e dall'indefinito i due principj , l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia universale ; e LEZIONE DECIMATERZA. 255 tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli d'Ari stofane . Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici , gl'Indiani e l'orgie eleu sine) , in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creu zer, op . cit. , VII, 3. ) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo : Cronos genera i due principj , l'etere e il caos ; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca , ossia quando il germe involuto si svolge nelle sue parti (Op. cit . Nota 12 al L. VII) : queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni . Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici ? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero ; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice il Mullachio ( Fragm . Phil. Græc., ed . Didot. Parisiis, 1860) : Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt ; talchè, considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi . Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale (tomo I) e riferito negli Schiarimenti ( Ed. Tauchnitz, 1832) : « Natura , diva madre universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito ( o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi , in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima, ... comune a tutti , sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai , tutto dài , nodrice e regina di tutto ; feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e ma 256 PARTE PRIMA. dre e nodrice e sostegno. » Le quali ultime parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori , ne' versi orfici ? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia , principio attivo e passivo ; ell’è divina, perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità ; è senza padre, cioè senza principio ; è primonata, cioè generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza ; indi, ella è padre di sè stessa ; infine, si palesa con tre divine opera zioni , genera tutto, sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino ( Stro. V) , in san Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo , in Proclo, in Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo ; e che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. ( Pr. Ev. III, 12.) Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio ( Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm . ec. p.6 ) : « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose . Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli ; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine . Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo corpo re gale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore : contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri ; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi dèi . Son occhi di lui il sole e la luna che LEZIONE DECIMATERZA. 257 corre di contro al sole . In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa ; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio . A lui son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria ; e con veloci e native penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra , madre comune, ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra . Tutte le cose egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina . » Tra le figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo , confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’Italogreci . Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu ; non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi) , bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati : differiscono poco gli uni dagli altri ; escono tutti e rientrano nel Dio unico ( Creuzer, V , 4) . Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore , e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria ; Storia della F lofint. 17 258 PARTE PRIMA. ill 1 ma, veramente , non può chiamarsi un teismo , bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome , dice Erodoto ; e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni ( Ispot 20091) . E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0 : 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia ( forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri , dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio : e che sia così l'attestano Platone ( Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met. IV , VI, IX ). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo ; e si mantenne questo nel detto volgare : Giove che fa ? per dire : che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima ; e indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo ( Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi ( statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste , di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono all'infinito . Però, questa individuazione favoriva il politeismo LEZIONE DECIMATERZA. 259 a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava ; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei , figura sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo ( Winkelman , St. dell'arte ec. ) ; e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati . Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la tradizione ? Ne' Misteri ; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi ? Dicono le memorie antiche , i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti , capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere ; il che apparisce anco nell'In die ; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che ( l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto ; e così , a poco a poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento , dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia ? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico ; poi, nell' età che 260 PARTE PRIMA . > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia , perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra . Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà . Di fatto ; quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda , i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è ; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza , fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte ; ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Ma gna Grecia e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama . Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico ; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite : quant'anni avevi tu quand' il Medo invase ? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ate neo ( L. IX) rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofi sta come Parmenide amava Zenone d'Elea ; quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso . E la filosofia , resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male ; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana ; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro ; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna . LEZIONE DECIMATERZA . 261 Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi ; e bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accet tata . Le congetture dunque son lecite ; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione ? I Greci amando la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso ; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli ; effetto del panteismo. Premesso ciò , rammentate , o signori, che prima dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò l'età delle colonie ; e da esse la più nota civiltà italogreca. Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia ? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche, i Mi steri ; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore ( dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per l'Asia media ? Rammentiamocene, o signori ; erano i tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l' America , ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che ? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare ? A ogni modo, tempi precisi non se n'ha ; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili . La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla 262 PARTE PRIMA. coscienza morale ; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti ; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto : conosci te stesso . Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto ; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali , benchè nascosta in afori smi . Così queste di Foclide : « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori . Non disprezzare i poveri , nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo . » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro ; perchè n'ho prove storiche ( come dirò) , e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità . Dove fiorì ? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori ; e tal peggioramento non si può negare . Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica ? La risposta è facile e il caso è comune ; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò . y Ma la scuola pitagorica o italica, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo mate LEZIONE DECIMATERZA . 263 riale degl' Ionj ? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo ; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi ; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni. 1 ° Quanto a Pitagora, il Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra ; lo crede nato il Lacher al 608 . Come si determina ciò ? Per autorità non salde, e per vie di congetture. Talete poi , secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore perciò a Pitagora ; dáta non senza incertezze. ( Ritter, St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr ( St. Rom . I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di Pitagora e di Numa ; talchè andremmo più oltre che la data di Talete ( 717-679 ) . - 2º Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in Italia Zeleuco e Caronda, legislatori l'uno di Locri e l'altro di Cata nia ; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa Caronda del 668 ; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, il Centofanti, del 730. —3. Quando Pitagora venne in Italia , si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli : il che umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. — 4º Il perso naggio di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagore simo, diventò un simbolo in gran parte ; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. — 5° Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di specula zione ; e ciò indica il passaggio dall' età teologiche alle filosofiche o laicali , che in modo distinto vengono più tardi. — 6. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola italica , il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. – 7. La storia di Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura 264 PARTE PRIMA . di leggenda ; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani ; indi le confusioni dette di sopra. -8° Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in progresso, e ap pena si scorgono negl' lonj. – 9. I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta , o signori, gli usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze accidentali. - 10. Le tavole d' Eraclea, lette dal Mazzocchi ( come accennai già) , mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione alla scienza . E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'Italia recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci , val a dire ch'essi, come dice Ta ziano (Or. contra Greci, § 1 ) prendessero da’ Toscani la plastica. — 41., Il Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xe nofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni del Meiners. Ora , se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro ? 12° Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica e d'Elea vennero d'Ionia ; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, pren dendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'ap parisse il focolare ; seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il ter reno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle me te , in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più rino mato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la . LEZIONE DECIMATERZA. 265 scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, perchè più celebre qui ; dissero i più famosi capi delle scuole itali che, tacendo le lontane e recondite preparazioni. – 13° E ch'elle ci fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone d'Elea : queste opinioni sull'uno co minciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui . ( S0 fista .) Il Brandis ed il Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl' intelletti. Al che ripugna il Cousin e con ragione. Prima, qui si parla storicamente e non teoreticamente ; poi, se volesse allu ( lere a germi naturali e senz' origine, come mai, anzi , parlerebbe Platone di cominciamento anteriore ? ( te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov) - 14. De primi Pitagorici non v'è scritti ; scrissero i più vicini al tempo di Socrate ; e ciò per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali . Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi , probabilmente prose ( Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ) ; il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. 15. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo : più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. 16 ° Recherò infine ( lue singolari testimonianze di Padri greci , d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia . Ermia , dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'im mortalità, sulla divinità e sui principj del mondo ; e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così : egli d'antica nazione ( S 8) . Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è nota bile assai . Eusebio, poi, più espressamente nelle Prepa razioni evangeliche ( lib . X , cap. 4) dice : che Pitagora nacque a Samo o in Toscana o altrove, ma non greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ita 266 PARTE PRIMA. lica succedette la ionica e l'eleatica. Anzi anche Giu seppe Flavio ( Lib. VII) rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui , Ferecide Siro, Pitagora e Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità del Niebuhr, del Cousin, del Gioberti (nel Buono), del Poli (Appendice al Manuale del Tennemann, trad .) e del Centofanti ( Pitagora ), e che non hanno in contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro che il pita goresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole ; poi venga l'eleatica, e come più affine alla pri ma, e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale ; succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua conti nuazione che s'accompagna ( com' accade) con l'altre ; e vengano infine, su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne 267 LEZIONE DECIMAQUARTA. SCUOLE ITALOGRECHE. SOMMARIO . Causa interiore del Vilagoresimo è la necessità d'una riforma morale : da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile , per mezzo della filosofia . - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici . Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi . Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica . - Il Carme aureo i antico .- Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica , suo fine e metodo . — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico ; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o l'armo. nia ; indi il simbolo musicale . Due furono i significati del numero , it simbolico ed il reale . Verità del metodo matematico ; suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto : esempi varj . – Si cercò le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa , ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza . -Questo è l'unità . – L'unità bensi presa , non come parte d’un tutto , ma in senso generale. - A Dio non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso ; Dio è sopruni tà ; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva . Si dimostra co ' do cumenti che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero ed il falso . - L’unità , come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si determina . — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. — Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo , come i contrarj in atto , e ridotti all'armonia da Dio . - L'uni tà generale o la monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec . L'anima è numero , ed è nel corpo come Dio nel mondo ; è l'armonia del corpo . La verità è l'uno e il numero ; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso . — Dio , ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio è il numero per eccellenza , e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla scienza , si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno all'essenza pri ma . --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane : Dio è uno ; sommo potere ; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto ; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa : Dio è il tulto . — Indi segui che il mondo è apparenza . – l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo . Muove dall'idea generale d'essere ; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea . Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa . -- Gli attributi della moralità non più appariscono . – Panteismo materiale de gl'Ionj : nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto , ch'è la materia eterna divina , dotata di pensiero . – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. 268 PARTE PRIMA. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa . – Talete ba dello spirituale anco ra ; la grossolanità materiale viene crescendo . Anassayora vide l'assur dità del panteismo , e prese il dualismo ; ma non détte troppo alla mente . — Idealismo ateo di Protagora ; materialismo di Democrito ; le due forme di scetticismo particolare . Scetticismo universale di Gorgia ec . Misticismo d'Empedocle ; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico . — Due schiere d’uomini ; gli atei e i l'itagorici di quel tempo : interpreta zione storica , e interpretazione fisica della mitologia . Qual è mai, o signori, la causa interna del Pitago resimo ? La necessità d'una riforma morale; necessità pro fondamente sentita da uomini ornati, quanto la Gentilità comportava, di grandi virtù. Il conosci te stesso fu esame di coscienza morale negli istituti pitagorici, e fonda mento altresì di speculazione ; chè, nella coscienza e'tro varono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente della religione, de costumi e della li bertà, al quale s'oppone il Pitagoresimo, e inoltre ( com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e cri. terio a tutto ciò désse la Scienza . Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto ( Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si tentò co’riti e dommi segreti ; la morale con l'opporsi a tre vizi , voluttà, superbia ed ava rizia , ed esercitando anima e corpo nella musica e nella ginnastica ; la civile , domando la licenza con abiti disci plinati ossia con l'autorità ( curos pz) e con la vita co mune. Il discepolato morale preparava così alle specu lazioni , e, preparato, s'elevava l'alunno a gradi più alti e più liberi. ( Centofanti, Pitagora ; Ill . del Giardino Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli ; pare tuttavia che un fondamento storico v’ab bia e ch'egli fosse uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Gre cia e tutte le antichità italiche dopo le conquiste di Ro LEZIONE DECIMAQUARTA . 269 ma, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla ; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano con più certezza Liside, Clinia e Archita cittadini di Taranto in Magna Grecia, Eurite e Filolao o di Taranto o di Crotone. Archita , il più celebre di tutti, capitanò più volte gli eserciti , e non ebbe mai la peggio ; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura . Sul finire del quinto secolo avanti G. Cristo, la scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata ; molti fra gli scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in Italia. Sembra che l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per gli ottimati ; ma chi badi alla se gretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo attizzò le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà che trattasi qui , come per Anassagora e per Socrate, del politeismo vol gare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di Timeo, d'Archita e d'Ocello Lucano sono apocrifi, e i frammenti di Brontino e d'Euri famo; ma non quelli di Filolao (vedili nel libro d'Aug. Boecckh su Filolao, e nel Ritter) ; i quali col Carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola italica, ne dánno contezza . Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme aureo , e's'attribuì a Filolao, a Epicarmo, a Liside, a Empedocle ; da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per Liside; e : mostra, comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo l'usanza di molti critici odierni , neghi l'autenticità pel dubbio di tre" sole parole, che a lui non paiono antiche ; e antiche le dimostra il Mullachio. ( Fragm . Phil. Græc. Didot, 1860. ) . Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli Ales sandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione ; chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non 270 PARTE PRIMA. i 2 7 > I meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone Fliasio (3° secolo av. G. C. ) che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici : « E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il Timeo. » ( Fragm . Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia an tica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani , che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile . Metodo di filosofare fu il matematico ; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo ? quali cagioni gli dettero im pulso ? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici) , perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella fisica ; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti . Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano canali . Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento . Infine, tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo ( onde l'uranismo), e il tempo ( onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci , LEZIONE DECIMAQUARTA. 271 il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di filosofare . I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni ? ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più ? In altre parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico ? No, sicuramente ; Aristotile lo spiega chiaro dicendo : ch'essi stimarono le cose una imitazione de'nu meri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet. I , 6) . Ini tazione, dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose ; e la mente ritrova l'une nell'altre ; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe' Pitagorici, levato il composto ? Restava la monade. E che cos'era la monade ? Forse un'astratta unità , o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di Leucippo ? No ; ma l'essenza ch'è una forza : il concetto di forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito ? Ciò resulta da molti riscontri , ma singolarmente dallo specchio de contrarj ( di cui parleremo) . Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio ; causa è l'anima ; e causa d'ogni armonia è l'unità. ( Frag. di Filolao ; Siriano, Com . Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant. ; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita, vol. 2. ) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè , significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale ; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori , che per la scuola italica eran due i significati del numero ; significato simbolico e reale. È significato reale quando noi diciamo : Dio è uno e le creature sono moltiplici ; e così dicevano essi 272 PARTE PRIMA. che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti ; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature ; così parlavano più spesso i Pitagorici . Al lora si fa come l'algebrista un linguaggio figurativo . assai comune agli Orientali ; e ciò toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità ? Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o d'accidenti o di parti , di gradi o di potenza o di atti ; e tutto, dunque, è capace di numero e di misura . Per altro, le leggi matematiche non hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà contingente ; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita ; del metodo sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristo tile (Met. I) ; le dottrine musicali d'allora fan supporre molti esperimenti ; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più reputati ; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo astratto ebbe il diso pra . Così , rappresentando il principio, il mezzo ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa ; però Filo lao divideva il mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso , perchè si compone sommando i LEZIONE DECIMAQUARTA. 273 suoi quattro numeri primi ? ebbene, dieci i pianeti . Cin que i corpi regolari nella geometria ? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura ; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi . Se i quattro numeri primi , sommati tra loro, fanno il dieci ; e se i quattro numeri pari ( 2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari ( 1 , 3, 5 , 7) , sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose ; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita : minerale, pianta, animale e uomo ; e , ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità , la super ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè . di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell' indefinito ; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù morali , da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità . Quel metodo era (com’ac cennai) : trovare le leggi mentali della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice Filolao che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai ? Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito : che son mai tali principj ? Risponde Aristotile : « I Pitagorici , educati nelle matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » ( Met. I, 5) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza . Or bene, che cos' è la prima cagione ? È il primo principio, per Filolao ; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita : « quam Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » ( Siriano, alla Met. Storia della Filosofi . - 1 . 18 274 PARTE PRIMA. l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo ( Fragm . Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero ? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza ? Vediamolo . Il moltiplice fa supporre l’unità ; e l'unità n'è sem pre il principio ; così abbiamo solido, superficie, linea, punto ; questo è il principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza . ( Aless. Afrod . Comm . alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza . L'unità , idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo ancora : una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione ; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità . Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità ; nel secondo , è la forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne' detti significati ? No ; Dio non è il compo nente della moltiplicità ; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della Trinità son soprannumero. ( S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il moltiplice, nulla più ; e chi confonde l'analogia di tali concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto : la scuola pitagorica usò que' concetti nel signi ficato vero ? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, LEZIONE DECIMAQUARTA. 275 permanente, immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua : « Ante duo principia unam et singulam causam , et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono ? Il Bertini ( Op.cit. , vol. II) va interpretando più benignamente che si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare ; e tuttavia conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del mondo ; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica ? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj . Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza ? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza ; e questo in grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose ( Arist. Met. I ) ; l'essenza delle cose chiamata eterna ( la Filolao ; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia , e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio ; aggiunse, che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi ( e questo val più ), esso legame produce sè stesso . (V.framm . i Filolao nel Ritter . St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo ; contrarj che si distinguono attualmente quando il poten 276 PARTE PRIMA. ziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale ( conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni . Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo . Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari ; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà : noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene ; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale ; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari , finito e infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ) , fatto da qualche Pitagorico ; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. ( Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre , come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità , e così Dio ; che riceveva nome d'ogni numero, unità , diade, triade, quadernario ( o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ) , il quesito della causa pri venne a quest' altro : Come si limiti 1 illimitato ; ossia , pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente : talchè Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa ( το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi : i Pitagorici , com’i pan teisti ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio ; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica , poi, la im plicitezza de' concetti adombrò alte verità ; Dio (per ma LEZIONE DECIMAQUARTA. 277 esempio) , legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza , vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato : però Dio è l'armonia dell'armonie . Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo ? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia . Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero ? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra ? Or bene ; e pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro distinzione; ossia, come ( lice Aristotile, elementi positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e spazio ; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto ; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni . I due elementi , il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per esempio il tre ), fa il dispari . Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra , cioè nel senso non generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio ; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato , illimitato perchè il vuoto e l'intervallo ( o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito . Si diceva per contrapposto che il dispari è limitato, giac 278 PARTE PRIMA. chè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi , riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è ab eterno ; comincia sì , ma quant' al nostro pensiero ( -o iniyocav) , ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti . Nè s'avvidero essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale . Che cos'è l'uomo nell'universo ? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u sepolcro , diceva Filolao. L'anima è numero e armonia ( Plut. De plac. phil. IV , 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma è armonia , combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico ; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na ( V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle emanazioni tutte, il corpo . Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità , così la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia ; talchè come il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi ? Il simile col simile ; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti ( Cic. Tusc. IV , 5 ) ; l'intelletto è di LEZIONE DECIMAQUARTA . 279 vino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura ; il senso è terrestre, e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio ; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti , ma perche Dio è numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. ( V. il Cou sin e lo Stalbaum , ambedue nel commento al Timeo .) Però, avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista ; si credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale ( eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza ; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro ; o anco è sola contingenza. ( V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. ( Arist. Met. I.) Il bene è misura, il male è dismisura : da ciò quel detto pitagorico : « La misura è ottima, pétpov Žpustov . » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche e musicali, così la volontà ; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti ( Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città . . 280 PARTE PRIMA . - am - ( Fragm.di Luc. Ocello. ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ) ; la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro ; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte ( v. 71 : ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος) . Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine ? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale ; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni ? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto : quasichè importi tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad . dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento , e così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto, venne assai tardi ad Elea città di Magna Grecia . L'idealismo suo nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni ; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale ; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali , però Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia , venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico , ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi , e ne resta frammenti, da cui , com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue opinioni . ( Fragm . Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in Elea o Velia ; e visse più che centenne. ( Censorino.) LEZIONE DECIMAQUARTA . 281 Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re . Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente ; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio , Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità ( vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia . Ciò pure affermò Xenofane ; e però Dio, ch'è l'ente , è sommo po tere ( 20 % TELY ) : quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto ; che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità ? In che senso la nega egli Xenofane , e contro chi ? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina con atti successivi ; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato nell'essenza : for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'italiche più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile notò ( come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità , in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore ? No ; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione : Dio non può nascere. Va bene ; ma per chè ? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, Melisso et Gorgia, attribuito ad Aristo tile , non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adun 282 PARTE PRIMA. que : Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere ; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente ; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla ; ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne conchiudeva Xenofane ? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure causalità nessuna ; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. ( ch'è dun que il resto ? o quel che ci pare in continua mutazione ? Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più ; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è illusoria, non è scien za . Però egli disse in un verso : « Queste cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. ( Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne' Psilli. ( Fragm . Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto : che Dio o l'ente è tutto, o intero . ( Fragm . di Xenoph.) Che vuol egli dire ? Cerchiamolo . Che idea vi dà, o signori, l'infinità ? Certo, pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento . Ma tal pienezza significa forse il tutto ? No, chè tutto è idea relativa : tutto, implica parti ; e quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è ; nè numero assoluto si dà ; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità ( come pienezza d'essere) con l'universo . Così accadde agli Eleati ; e però Aristotile scriveva di Xeno fane : « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv) . Che si concludeva mai da questo ? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento : quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza LEZIONE DECIMAQUARTA. 283 creatrice aggiungasi all'infinità . E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio ; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio . È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph .) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati ? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed immutabile ; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in Parmenide, in Zenone ed in Melisso. Parmenide d’Elea nacque probabilmente nella 65a Olimpiade, e fiorì nella 69 ", ossia 504 avanti Gesù Cristo. Dice Plutarco ( Adv. Colot.) ch'egli détte alla patria leggi avute in grande amore. Zenone d'Elea , scolare di Parmenide e nato verso l'Olimpiade 719 , amo di cuore la patria , e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo il supplizio : Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì Parmenide, fu uomo di Stato, e capitano gl'Italioti contro Pericle. Questi gli Eleati più famosi. L'opinioni di Parmenide vi son date assai chiare ne' frammenti del suo poema. ( Fragm . Phil . Græc. Didot. ) E che si trova in quelli fin da princi pio ? I due aspetti, già separati da Xenofane : l'ente, che unico è ; e il non ente o l'apparenza, che non è : non è , o signori, in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scriveva Parmenide, di filo sofare : 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche il Parm . di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega il non ente o l'apparenza ; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli Eleati da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano a considerare il moto delle cose . Ebbene, che concetti ha egli Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è ? Gli stessi di Xenofane : l'ente è conosci 284 PARTE PRIMA . 1 bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto ( cudow ) unigeno, eterno ; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato , perch'è assurdo che l'ente non sia ; non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa ; la dura necessità ( dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario ; necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito ( atedrventov ) , non bisogna di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. ( Framm . e segnatamente v. 66-94.) In che Parmenide differì da Xenofane ? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. ( Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio ? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina : sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia , anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse Parmenide (sem bra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto . Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico ; e quanto a Parme nide, lo notò espresso Aristotile ( ppovaly usy tér vistn512) . Mentrechè il sensista dice : la sensazione è idea e tutto : l'idealista dice : l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova : se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione ? Ep pure, Zenone d'Elea non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare : com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che ( notate, o signori) muove dal l'ente indeterminato come Parmenide, ma lo significa in modo più indeterminato ancora , chiamandolo un qual LEZIONE DECIMAQUARTA. 283 cosa. ( V. Fragm . Phil. Græc. Didot ; De Xenophau Melisso et Gorgia ; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine . ( Fragm . 2. ) E ciò va bene ; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso ; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro ; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. ( Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici agli Eleati . Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari , e Aristotile fa inventore di quella Zenone, che si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità , gli Eleati ne presero la parte ideale ; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men filosofica . In che ci viltà ? Tra'costumi voluttuosi della Ionia , e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati ? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla ; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario . Di Talete stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj , Platone ( Teetete) dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj . Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. ( Fragm . Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è l'assoluto ? La materia del mondo. unica entità , eterna, divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò di comune ; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali . Ma gl' Ionj diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso ; chi, come Talete e Anassimene, Diogene d'Apol lonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico ; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario : cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante ; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti . mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni ; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ) ; benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice ; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata . Questo in genere ; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media ( udtaču puçev ) , e però lo chiama principio (apua) , Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria . Ma, badate, o si gnori , nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità , come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale ; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo Cicerone LEZIONE DECIMAQUARTA. 287 ( Quest. Tusc. I), professò l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed implicato : vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica , già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl' Italioti ; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in cui tutto ritorna è infinito , perchè l'origine o il cominciare non termina mai ( tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov . Fragm . Phil. Græc.; Didot) ; però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci. Anassimene seguitò quella via ; nè altrimenti Eraclito, benchè questi , che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX , e Clem . Alex. Strom . I ), désse alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla ragione prima. Qual è la ragione del conoscere ? questa, che il principio conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale gl'Ionj ne parlassero poco ; e ciò sta col materialismo loro ; Eraclito bensì pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della patria ; Achelao nega ogni legge necessaria ; e il giusto e l'ingiusto fa nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè materiale e salvo poche verità , una fisica buona. All'assurdità del panteismo volle rimediare Anas sagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra , però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice ; sicchè s'apprese al dualismo ; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. ( Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava : Tutte le cose erano insieme ; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert. II, 6.) E così distinse Dio, o la mente ( vojv) , dalla natura ; e 288 PARTE PRIMA . + 1 questa pose in particelle simili , omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi di mano in mano ( 2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì , ma peggiorando ; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili ordinatrice la mente ; ma questa non va esente di materialità ( Fragm . Phil. Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori, alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo ? La negazione degli scettici , particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni de' Pitagorici e d'Elea, ben chè non anco terminate ( come va sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui , non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra . Il principio d’un suo libro cominciava : Degli dèi non so nulla ; e Timone Fliasio scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli , osservò la legge ossia le cerimo nie legali ( Fragm . Phil. Græc.) : nella osservanza della legge i sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj : tutto si muta ; e con gli Eleati : tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra ; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza . Vedete, o signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò : se tutto muta , nulla è in sè stesso ; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera ; vere l'apparenze contrarie , veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri ( Condillac, Kant), e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza : qui è il sostanziale dell'arte sofistica . Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi : tutto è vero quel che si pensa ? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo LEZIONE DECIMAQUARTA . 289 è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470 ; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni ; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi . Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati , perchè muove dal concetto dell'ente ; e dice : unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno ; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità ; e poiche il simile si conosce col simile ( τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi ; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito ? Compiacendo alle plebi , egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte ; vero ateismo. ( Fragm . Phil. Græc. Di dot .) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500 ; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse : affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza ; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, ſu Gorgia di Leonzio ( V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi) ; perchè scrisse un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si conosce non può significarsi . Con Protagora e Gorgia v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano costo ro ? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero ? In età di corruzione . Che frutto recarono ? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù ; benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi ( V. Tavole del Storia della Filosofia . - I. 19 290 PARTE PRIMA. Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi ? Empedocle. Con che ? col misticismo a cui s'ac compagna ( come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. ( Fragm . Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema ( népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico solamente ; Dio per lui è mente santa incor porea : e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche : e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi : che cos'è dunque ? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi : alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi ; egli pone la mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa ( come dice il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle ; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti ; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia . Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora ; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia : gli dèi furono uomini indiati, non altro . La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente : gli dèi son le forze uniche della natura  EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE . 011 SCU pre SOMMARIO . Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa , sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del . l'epoche , e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio , le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue ; 1º negli eruditi ; 2 ' negli scettici ; 3 ne ' sistemi grecoasiatici : tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori . La seconda classe , o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė , cioè l'epoca quarta . È un'epoca nuova , per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri . Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo , – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani . Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica . I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca , declinando, avea lasciato salve ben poche verità , e perché Roma cadde in servitù . Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina . Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci , di comporle in ordine chiaro , d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci , ma pensò di suo . Non pare da distinguere i suoi libri ( com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali . Libri logici , fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia : la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari , tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici , a' Peripatetici, agli Stoici , agli Accademici : rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico , ma per un ordine di principj ; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi ; e da tale studio inferi tre verità , che gli furono regolatrici : 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose ; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio . Talche delini la filosofia : scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste ( off .) : l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei , naturali , universali della ragione : ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi , ei potè co gliere poche verità ; queste affermò, nel resto sospende il giudizio . Esem pio, il finale de natura Deorum . Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà ; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre ; ossia , egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo . — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima ; legge naturale, eterna ; Dio n'è la fonte ; re . - . 0 LEZIONE DECIMOTTAVA. 367 chi non ammette Dio , non può ammettere la legge . — Il dovere. Gradi degli officj . Quel ch'è giusto in sè stesso . Utile apparente, e utile vero ; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale ; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone . Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi grecolatini. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa , troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici . Taluno le piglia tutte insieme (e vi com prende gli Alessandrini del terzo e quarto secolo) come una sequela de sistemigreci anteriori ; e così non pone ad esse un'epoca distinta . E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi , mancherebbe la ragione del porle da sè , o del farne più classi . La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente : la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata , par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti ; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa ; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta , benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano : tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione ; le quali non iscopersero nulla , nè rinnovarono nulla ; gli Stoici eruditi ; i Platonici eruditi, com ' Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro ; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristo tile, come Alessandro d'Afrodisio ; i Medici, eruditi an 365 PARTE PRIMA. ch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora , mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di Roma, vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degli Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico , già comin ciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato , Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessan dria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l ' avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gli Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova ? No, perchè i metodi sono affatto del: l'età socratica, e i principj gli stessi ; lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è ; proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali ; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gli Ales sandrini facciano un'età da sè ; ma più attenta consi derazione m'ha condotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o Latina . Introdotte le scuole di Grecia in Roma circa il mezzo del secondo secolo avanti l ' èra nostra, cominciò ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni italiche e per la civiltà di Roma ; talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi grecolatini ; nuova per le riforme tentate da Cicerone e per la novità dei iureconsulti, ch'ebbero efficacia sì viva e univer sale nella civiltà europea ; e anco perchè Cicerone servi LEZIONE DECIMOTTAVA. 369 più che i Greci alla filosofia cristiana de' Padri latini e dei Dottori, i quali per via di lui , piucchè in modo im mediato, seppero l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla ; degli scettici dissi già nella passata Lezione; de'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana , perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi grecolatini, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in Roma nascesse tardi la letteratura e la filosofia. Nascono l'una e l'altra, quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto ; la letteratura rende concreto l'ideale con la fantasia e con gli affetti. Ma quando un popolo, come il romano, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre este riori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie ( come gli ac cennò Tito Livio ), ma non ti possono dare nè letteratura nè filosofia ; in que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura interiore dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fanno il poeta ed il filosofo . Indi la rozzezza de’Romani; talchè narra Tito Livio, che lo storico più antico fu Fabio Pittore a' tempi d'Annibale. Ma quando Roma ebb’esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora il Romano non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini , e le contese del Foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di Roma si appresentò in relazione con tutta l'Italia e l ' Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' Romani si dila tava ; si allargò fuori del cerchio de' fatti particolari; il Quirita si sentì più chiaramente e figlio di Roma, e italiano, e uomo ; tanto più che a poco a poco la cit tadinanza romana si estese a tutta Italia . A’tempi di Storia della Filosofia . – 1 . e alle 24 370 PARTE PRIMA. 2 as 2 Cicerone non rimaneva quasi più possedimento in Italia non assegnato a'cittadini per via di colonie ; il qual fatto, unito all'altro che già notai) de'primitivi abita tori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di Puglia non sono gli antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie romane, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formarono così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione ; nazio , nalità naturale determinata da'naturali confini del no stro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dia letti , o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre ; ma lasciando a’municipj un'im magine di Roma, consoli, senato e popolo com'a Firenze ( R. Malespini e G. Villani) , e concedendo a que mu nicipj amministrazione lor propria ; indi vennero i no stri Comuni del medio evo. Roma e l'Italia , considerate in relazione col mondo , formarono nelle menti romane com'un archetipo di per fezione. Il vecchio Plinio ( giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia : « Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa ; una cunctarum gentium in toto orbe patria. » E Virgilio , lodando magnificamente l'Italia nel secondo delle Georgiche ( 135-136), non si ristringe a Roma, e dice : « Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem , Volcosque verutos Extulite .......... » M 22 14 e finisce con quell'alte parole : Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum ..... » Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per l'arte del bello e per la filosofia ; non lo stringono più le ne LEZIONE DECIMOTTAVA. 371 cessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze , considera la natura dell'uomo e delle cose . Questo svol gimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'Italia . Qui, più ch'altrove nell'antichità , fu sacro il connubio ; e gli affetti di famiglia v’ ebbero consistenza per molti secoli : la stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigettava le nefandezze de' simboli elleni . Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se Virgilio, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che gover nano il poema ; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a ' Romani; poi , nel concetto di patria ch' è Roma ; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto , come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo con sanguinee ( schiatta italica) , ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da Roma ( nazionalità politica ): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine ; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano preparò la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio mancò un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe pas sioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà ; le quali, per altro , s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ra gunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili ; ebbe accanto la Magna Grecia e l'Etruria, e le tante città de' Sabini e del Lazio. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi ? Numa vien detto alunno di Pitagora ; ' e l'ante riorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice Cicerone : « Romuli 372 PARTE PRIMA . autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus » ( De rep .) : e sant'Agostino scrive nella Città di Dio che Romolo era venuto non « redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis. » Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma ; i Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue ; Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti . ( Cantù, St. Univ . III, 24. ) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia ( tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera pro babilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ebbe dal gius onorario, mi capacito che nel seno di Roma cresceva un germe di civiltà e però di lettere e di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offe risse la occasione. E questa occasione ( testimonio la storia ) è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Ro mani venne da Greci conquistati; ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilo nese al sesto secolo di Roma, 155 anni avanti Gesù Cri sto . Catone si sforzò di cacciare le sette greche ; invano, il terreno era preparato, e la pianta fiorì. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non durò a lungo, ma proseguì a fecondare il diritto : la qual brevità ebbe due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la forma logicale della filosofia , quant'alla materia poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo ; talchè si richie deva uno sforzo più che umano a rilevarla : poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza . Quindi, o rimaneva solo a far opera d'eruditi e d'accoz zatori, come gli ecclettici d'allora ; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non dava soggetto a co piose speculazioni. In secondo luogo, allorchè Roma venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che iste rili la letteratura e la scienza. Quindi i sistemi greco latini si riducono il più alla filosofia di Cicerone, e alle LEZIONE DECIMOTTAVA . 373 scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a Cicerone seguirono i Greci pressochè interamente ; Lucrezio, per esempio, ripetè quasi le dottrine d'Epicuro ; ma nondi meno egli mostrò la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur contò fra gli elementi co stitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima : nobilis illa Vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus. » ( De Nat. III, 273.) e quando stabilì negli elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà ; e quando celebrò la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio . Seneca non si partì dagli Stoici , benchè faccia profes sione di non ispregiare nessuna scuola ; Marco Aurelio, com ' Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordi namento di scienza . Cicerone, al contrario, istituì spe culazioni proprie, che certo ebbero forza nell'universa lità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlerò di Cicerone oggi ; de' Giureconsulti in altra Le zione. Fin d'ora io dico , che Cicerone si proponeva di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata e pub blica, e ch'elle conferissero all'eloquenza . Questa filosofia di Cicerone suol chiamarsi ecclettica ; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi; ma direbbe male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno po trà negare, che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ra gunavano nella memoria, ma non componevano nel pen siero ; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè Cicerone li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di lui 374 PARTE PRIMA. II 11 10 su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto ; e sant'Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nel libro terzo delle Confessioni ( cap . 4) : « Hic liber ( cioè la lettura dell'Or tensio ) mutuvit affectum meum , et ad te ipsum , Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia . » Pare che Cicerone traesse la schiatta da quel Tullo Azio, che regnò gloriosamente su'Volsci ( Plut. in Cic .); e quegli se lo teneva per certo , sicchè dice ne' libri Tu scolani, che Ferecide era antico, fuit cnim meo regnante gentili ( 1, 12) : indi la smania di comparire tra gli otti mati . Lasciate le scuole de' giovinetti, udì Filone acca demico ; ma insieme praticava Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, impa rando da lui scienza di leggi ; e militò con Silla tra ' Marsi. ( Plut.) Sentì anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene seguitò Antioco accademico, e non trascurò Ze none l'epicureo. Andò poi in Asia, e si fermò a Rodi , per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Giovine, favellava con tal passione e con voce si concitata, che gli recava danno alla salute. In Sicilia fu pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, Catone stesso chiamò Cicerone Padre della Patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di Clodio, vi rien trò poi come in trionfo ; gli furon trionfo tutte le vie d'Italia , per le quali egli passò. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di Cesare e la tirannia d’An tonio. Questi lo mandò a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada. ( Plut.) Amò la famiglia con tenerezza . Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Com'egl' intendesse la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fra tello . Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità , e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Vicino a morire, scrisse a Peto : « Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso , se non che i miei cit I. 14 LEZIONE DECIMOTTAVA. - 375 tadini sien salvi e liberi . Non lascio opportunità d'am monire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui , che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita , stimerò di aver finito preclaramente. » ( Ad fam . IX, 24.) Non peccò d'orgoglio, ma di vanità ; si lodava spes so, e questo aizzava gl'invidiosi, e a lui diminuiva ri spetto . Faceto, mordeva non di rado altrui, e, senza vo lere, s'accattava nemici ; ma in lodare i meriti veri abbondava con allegrezza e con liberalità d'uomo sin cero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prese due mogli, ripu diando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta ; lodò e invidiò gli uccisori di Cesare ; lodò prima Cesare troppo, ma non l'opere mai. Dice il Capponi ( Archivio Storico, tomo IX, parte 2) : « Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente cominciasse la sua vita d'oratore e la compiesse glorio samente. Giovane, assalse nella difesa di Roscio d'Ame lia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare Silla medesimo; vecchio e principe nella città e guida e anima del Senato, combattè Antonio e incontrò la morte. » Oratore, accusò sempre gli scellerati , difese qualche volta i non innocenti . Filosofo, stette per lo più dalla parte del vero ; bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' ti ranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità ne' gio vani, e la schiavitù . Scrittore e uomo di stato , cercò troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria . Scrisse d'eloquenza, e fu oratore sommo : scrisse di filosofia morale, e fu uomo dabbene; scrisse di cose civili , e fu gran cittadino . Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano la filosofia di Cicerone. È impossibile non vedere in lui tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia ; e' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle , ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro . ( V. le Lettere scritte in esilio. ) Udì tutte le scuole, e però raccoglieva il meglio ; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed 376 PARTE PRIMA. , T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, se guì , più che non facessero le scuole greche, il precetto so cratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come faceva Cicerone. Badando al bene, odiò la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prese il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, con gli Epicurei non volle mai pace. Un po' vano, pompeggiò assai nelle parole ; il che gli scema vigore qua e là ; ma nelle lettere e negli scritti filosofici va semplice e spe dito . Uomo universale, senatore e console di Roma, cercò l'universalità negli scritti ; e questi dettero a 'Romani l'idea di tutto il sapere greco. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori po polari, combatte nel libro della Divinazione le falsità pa gane, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio degli Stoici, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni , ri morso da coscienza non confessata, dirò io , e lo credo. Taluno da quelle parole di Cicerone ad Attico : ATÓMp492 sunt ; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo ( Ad Att. , XII, 52) ; ha dedotto ch'esso i libri filosofici traducesse dal greco, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso , in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali At tico e Bruto, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin . 1, 3) : « Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine no stro di scrivere ; e che dice altrove ( De off. I, 2) : « Ora seguiremo e in tal soggetto gli Stoici principal mente, non come interpreti (non ut interpretes ); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudi zio e arbitrio nostro ci parrà : » allora, io affermo, che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco : « Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco » an 10 1 :. bi lice . li 1 tes LEZIONE DECIMOTTAVA . 377 ( In Cic. ) ; e così un greco antico, più che i moderni non greci, distingueva bene i libri tradotti come il Ti meo) da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue il Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra ; sì scorgo chiara la distinzione de’dialoghi spe culativi , come i libri accademici , dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale ? E s'egli rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usava da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divinità. Mi pare, poi , manifesta la distinzione, e più princi pale : tra i libri fisici ( De natura Deorum , De divina tione ), i logici Academicorum , Topica, De inventione, De oratore etc. ), i morali ( Tusculanorum , De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica , De fato); quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già di vise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'prin cipj e al fondamento del sapere. Quegli , come questi, si trovò in mezzo a una confusione di sistemi, e, come So crate, chiamò i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipo tesi vane e il principio della sapienza vera . Quand' io dico che Cicerone imito Socrate, già non lo paragono a lui , nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo ; dico bensì , che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino ; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epo ca propria. E se Cicerone non riuscì a tanto come So crate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo ca devano, e sempre più Cicerone le trovò quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che Cicerone, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Amò con grand' amore la filosofia, 2 378 PARTE PRIMA 1 . ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scriveva lodi magnifiche in ogni suo libro ; anzi l' Ortensio fu composto da lui per esortazione a filoso fare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sentiva le strane opinioni di tante sette, esclamava : « Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. » ( De div . II, 38. ) Ammoniva per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arro gans : De div. II, 1 ) . Ripeteva il precetto che stava sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum , e diceva : « Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell ' uomo inte riore da quelli che voglion conoscere sè stessi , madre loro e educatrice è la sapienza. (De off. I, 23, 24.) Egli invitava a fermar l'occhio in questa evidenza in teriore, dove tante verità si veggono chiare ( quæ inesse in homine perspiciuntur.) In questa coscienza di noi stessi , Cicerone come So crate, più di Socrate forse perchè romano, sentiva l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse ; e però egli in culcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off. I e II, passim ); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo ( ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani ( I, 12) adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana ; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici : « Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. >> ( Proem .) E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tra dizioni universali de filosofi e le divine : « Inoltre, d'ot time autorità intorno a tal sentenza ( cioè l'immortalità dell'anima) possiamo far uso ; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 LEZIONE DECIMOTTAVA. 379 stioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus cau sis et debet et solet valere plurimum ): e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ); la quale, quanto più era presso all'origine divina ( ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » ( Tusc . I, 12. ) E tra filosofi, ch'egli cita, preferisce appunto Ferecide, co me antico, antiquus sane ; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici ; il nome de'quali , egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16) . E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia fu un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi : « Philosophia vero omnium mater artium , quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum , ut ego , inventio deorum ? » ( $ 26. ) Nel che s'accenna il prin cipio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansò gli eccessi d'ogni maniera. Gli Stoici , per esempio, la cui morale severità egli approva e segue, dicevano, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne facevano un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù ; e però gli Stoici , se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come Bruto morente. Cicerone al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù , che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. ( De amic., 5. ) Lo Stoico credeva , indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tentò Varrone per testimonianza di sant'Agostino, Città di Dio ) ; ma Cicerone le derideva . ( De nat. Deor . III, 15. ) Menava buono a Platone, a' Pe ripatetici e agli Stoici , che la più alta felicità dell'in tellettuale natura sia la contemplazione ( Hort. in S. Agost. De Trinit. XIV, 9) ; ma in questa vita, ei dice, la con templazione senza la pratica delle virtù private e pub bliche è nulla ( De off. I, 43) ; e quindi censura Platone che scrisse : Il savio non essere obbligato a civili negozi . ( De off. I, 9. ) Gli Stoici , per alterezza di ragione, spre giavano il corpo e i beni corporei ; ma Cicerone diceva : 380 PARTE PRIMA . 11 he COL iti be 111 15 :-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura e noi siam anima e corpo, non possiamo spregiarlo, nè si dee imitare que'fi losofi , che accorti d'un che superiore a'sensi ne spre giano la testimonianza . Con che l'accoccava pure agli Accademici. ( De fin . IV, 15.) Gli Stoici , negavano l'ef ficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svilivano ogni piacere ; Tullio invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen . 14, De fin . V , 26. ) Gli Stoici, concependo la virtù con altezzosa rigidità , stimavano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene ; Cicerone confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è man care a posta, altro è nell'impeto di passione. ( De off. I, 8 e altrove.) Se nella morale ei tenne dagli Stoici, rigettate le loro esagerazioni, in logica stette per gli Accademici, giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare pa gano cominciò sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza ; perchè, dove gli Accade mici ( a quello che ne sappiamo) negavano ogni verità e certezza nel percepire le cose e ammettevano solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni ; M. Tullio invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li sti mava probabili , non ugualmente, sì con varietà di gradi ; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole : « Vorrei che fosse ben chiaro il no stro pensare ; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori , e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del dispu tare , ma del vivere altresì ? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi , diciamo probabili alcune e alcune improbabili. ( De off. II, 2. ) Qui si scorge, che il dub bio di Cicerone non cadeva punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul dommatismo EL LE 11. ki LEZIONE DECIMOTTAVA . 381 fisico e morale degli Stoici . E nel libro delle Leggi dice ( 1, 13) : « Preghiamo poi , che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sem brano ordinate e composte con assai aggiustatezza, re cherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso . » La qual conclusione mostra, ch'ei non rigettava in tutto i dubbj accademici, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagli Accademici allor chè dice : « Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è , che quel che è . » ( De nat. Deor. I, 21.) Nel vivere nostro, e mas sime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni e senza il lume del Cristianesimo, non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è ; significa sapere che Dio non è come noi, che Dio e l'animo nostro non sono corpi, che il fine dell'uomo non è la voluttà ; negazioni pregne d'af fermazione, implicita si ma certa . E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di Cicerone, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari (non mai nella legge suprema), pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica , l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile ; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro Parroganza de' sofisti : io so di non sapere, merita pur lode il nostro Cicerone d'averlo imitato in tanta corru zione di filosofia e di costumi . E quindi ei non ha dubbiezze contro gli Epicurei. Dice a loro : che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato ; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin . II, 4, e passim .) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso ; il piacere stesso non cato per sè, ma per noi ( De fin . V , 11 ) : il dovere ha da cercarsi per sè stesso ( ivi, II, 22) ; e la dottrina degli Epicurei, se consentanea a sè , non lascia luogo al dorere. ( De off. I, 2. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01 382 PARTE PRIMA . Jo ( dine interno di principj si faceva ? Già ho detto, che Ci cerone ritornò al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato , che ivi egli trovava l'uomo non solitario, ma in relazione con Dio, con gli altri uomini e col mondo; però esclama : « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e cono scimento della natura, o dèi immortali, oh quanto co noscerà sè stesso l ' uomo ; il che c'impose Apollo Pizio ! » ( De off. I, 23.) Per via della coscienza, s'accorse Cice rone in modo chiarissimo di tre verità : prima, che l'u0 mo sta sopra l'altre cose ; poi , che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra Dio con le sue leggi . Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2) : scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste ; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani ( V. 3) , dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringeva la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato di Dio e dell'uomo e de’sommi principj. Egli capiva, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva : « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto . » ( Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi ; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose ; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, na turali, evidenti, universali ; questi fa d'uopo seguire ; ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù . « Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. » (Opi nionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat ; De nat. Deor .) Ma questi giudizi erano avvi luppati in una moltitudine di sistemi; però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco . Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza ? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del ch 1 7 LEZIONE DECIMOTTAVA. 383 1 quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma; le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immorta lità dell'anima umana . ( Ritter .) Quanto alla divinità , egli non ne dubitava punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg. II, 7 ) ; ma intorno alla natura di Dio non af fermò gran cosa. Del metodo di lui , su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum . Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'ac cademico nega il dio animale degli Stoici, e termina di cendo : « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà . » Lo stoico poi combatte l ' epicureo . Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude ? E' dice : la disputazione di Cotta ( Accademico) sembrò a Velleio ( Epicureo) più vera ; a me l'altra di Balbo ( Stoico), più verosimile. Ci cerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando di Dio. Pur tuttavia non sa nulla giu dicare assolutamente sulla natura di Dio stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divinità (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ) , la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Cri sippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente ( De fato) ; le opinioni verosimili si hanno ne' libri fisici, dove apparisce dubbj sulla natura di Dio e dell'ani ma, e sulle relazioni di Dio con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente ; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta , beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche il Kant pose superio re la certezza dell'argomento morale ad ogni altra cer 384 PARTE PRIMA. tezza ; ma il Kant celebrò quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione; Cicerone, al contrario, non la negò mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Ci cerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza ; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglian za. In ciò solo fu accademico ; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la ne cessità della materia alla libertà divina ; e che cadesse nel semipanteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole : « Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mor tale ; ma l'animo è generato da Dio » ( De off. I, 8) , e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone Dio, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte Dio all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'af fermare in quello ut opinor ; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo ! Quant'alla teorica del conoscimento, egli distingueva l'intelletto dal senso ; lo distingueva tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine di Dio nella mente nostra, la identificava con esso . Anzi nel testimo nio de' sensi non poneva più autorità ch ' una verisimi glianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale Dio e la mente son divisi dal resto . E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare ; perchè ivi recò Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza ; e vi recò quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spat se verità con un principio più alto. Qual principio ? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la ve rità , è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna LEZIONE DECIMOTTAVA. 385 seguire, ei dice con gli Stoici , la natura, non l ' arbitrio delle passioni; ma la natura nostra è ragionevole ; dun que ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. ( De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene . « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario . (De leg. I, 6. ) Questa legge è nata da tutti i secoli , primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istitui ta . » ( 1, 6. ) Questa legge viene da Dio, perch' ell ' è di vina ; e chi non ammette Dio, non può ammettere la legge eterna e naturale. ( 1, 7.) La legge è la ragione divina partecipata a noi ; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati con Dio. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini , noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » ( parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti Deo. I, 7) . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia di Dio, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual Dio adorare, pur non sappia che ve n'è uno . ( I, 8. ) Noi dunque siam nati alla giu stizia ; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. » Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale . » ( I, 10. ) Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off. III, 33. ) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi , nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia . 25 386 PARTE PRIMA. se pattuisci con altrui ; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio ; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » ( De off. 1, 2.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù , se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso ( De off. I, 4) ; sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj ; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno ; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » ( De off. I, 45. ) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria . ( De off. I, 45. ) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù : ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà ; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta . (De off. II, 4 ; 111, 7 e passim .) L'utilità è l'effet to, non il fine della virtù . ( De amicitia, 9.) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse : « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off. I, 4.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza : « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo ( De off. I, 27) ; e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura . » ( Ib . 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026 , il solo buono è bello, così Cicerone ( come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice : quod honestum sit, id solum bonum esse : onorabile è solamente ciò ch ' è buono. ( Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù . nascono le leggi positive ; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi ( habes legis proemium , De leg. 11, 4-7 ) . « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro gli LEZIONE DECIMOTTAVA . 387 1 Epicurei) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che ? dunque, anco le leggi de'tiranni ? ... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire : e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità , trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito , da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico , quello delle genti e il privato ; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra , sui trattati . sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana : dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi , aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò ; e quindi esclama : jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli . De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep. ) Che fece adunque la filosofia di Cicerone ? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza ; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci , eletti e temperati; que' libri rettorici , che sono un codice dell'arte per comune giudizio ; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi . Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero . 388 PARTE PRIMA. LEZIONE DECIMANONA. GIURECONSULTI ROMANI. SOMMARIO . La giurisprudenza è scienza filosofica , perché riguarda gli alti umani o personali. - La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale . Si cerca , quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche , e quanto alla materia. - Quattro età del gius romano . Prima età : consuetudini . È difficile deter minare qual parte avesse la civiltà , e quindi la scienza , in que'primi germi del diritto ; ma vestigi di sapienza ve n'ba . Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole . La materia di esse certo è romana ; probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio . Seconda età : si pubblica il segreto delle azioni . – La giurisprudenza , perciò, viene alla gioventù dalla puerizia ; ma crebbe in modo segnalato allorché , sul cadere del sesto secolo di Roma, si propagò ivi la filosofia greca . — Il settimo se colo è quello di Cicerone : si prova con l'autorità di lui, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia . — Allora si concepi l'idea d'un codice ; idea che vuol abito filosofico delle universali tå. Terza età : la signoria de ' Romani , dilatandosi a tutta Italia , fa pos sibili le scienze. - Cittadinanza romana a tutti gl ' Italiani ; gius italico che då il dominio quiritario , e il diritto de ' comizj anche per deputati ec .; co lonie romane per tutta Italia ; si determina bene il concetto del paese ita lico . – Gius equo e buono . Altra cagione della fiorente giurisprudenza ; giureconsulti , per lo più , non sono causidici. - Un'altra ; l'emulazione in filosofia e in lettere con gli oratori . Cenno su'principali giureconsul ti ; loro virtù . - Com'apparisca dagli autori , ch ' essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne ' poeti , negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que ' giure consulti a'matematici per tre ragioni ; vigore delle conseguenze , cura nel l'evitare contraddizioni , metodo induttivo e deduttivo. – L'efficacia della filosofia non si ristrinse alla forma logica, passò alla materia . – Tale influs so non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e ( salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale . – Distinguevano la scienza del diritto dall'arte . – Però s'elevarono al concetto della filosofia vera , rigettando gli eccessi : la speculazione de ' giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. – Distinzione del diritto in jus naturale , gentium et civile : si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de ' diritti naturali . Non accettabile, quanto alla servitù , la nozione del gius civile ; ma i giureconsulti dissero la servitù non secondo il gius naturale , e riconobbero un fatto. Come la parola Jus non esclude l'idea d'un diritto eterno ; e si distingue da legge ; poi , si ha ne ' giureconsulti l'idea precisa del diritto eterno e del diritto natura le . - L'efficacia della filosofia si mostrò nella giurisprudenza per via del diritto onorario. E per via del diritto ricevuto . – E per l'interpreta zione de ' giureconsulti . — Molte novilà introdotte dal gius ricevuto . La virtù e la vera filosofia de'giureconsulti si fa sentire per fino nel loro stile . – Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. — Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cercò la comprensione finale . Parlato di Cicerone, è da parlare de' Giureconsulti romani. La giurisprudenza, come dissi già nella prima LEZIONE DECIMANONA. 389 Lezione, è una scienza filosofica : perchè risguarda gli atti umani o personali. Procede dalla morale, che ab braccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali ; e la giurisprudenza positiva non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili ge neralità del diritto eterno. Però, se la filosofia entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giu dizj, entra poi nella giurisprudenza, non solo com'or dine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svol gimento della giurisprudenza romana, per l'impulso della filosofia, nel doppio aspetto delle forme logiche e della materia. La storia di quella fu distinta bene dall' Hugo in quattro età ( Hist. du Droit Rom ., Intr .); la prima dall'origine di Roma fino alle dodici tavole, cioè fino al terzo secolo della città ; l'altra fino a Cicerone, o alla metà del settimo secolo ; la terza fino ad Alessandro Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare ; la quarta fino a Giustiniano : età di fanciullezza, di gioventù , di virilità e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna ( Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma ne' primi tempi si reggeva senza leggi nè diritti stabiliti; cioè per consuetudini. La con suetudine formò , dice il Forti ( Ist. Civili, 1, 3, $ 3 ), il diritto privato con l'autorità degli esempi , cioè de' fatti ripetuti , e formò con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto de padri , de' mariti e de' padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per consuetudinario, ed anche l'uso delle clientele ( ivi, $ 4) . Quanta parte avesse la civiltà , e con la civiltà la scien za, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scrit ture, perchè le serbò con la lingua loro la stirpe greca ; ma de ' Latini prischi e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote, perchè ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è , tuttavia, che 390 PARTE PRIMA. almeno gli Etruschi erano molto civili ; e sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma; benchè l'Hugo lo neghi. Ma Lucio Floro. parlando della guerra sociale, dice chiaro : « Quantunque la chiamiamo guerra sociale a diminuirne l'odiosità . pure, se stiamo al vero, quella fu guerra civile ; giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gli Etru schi, i Latini e i Sabini, e traendo da tutti un sangue solo (unum ex omnibus sanguinem ducat), è di più mem bri un corpo e di tutti è una unità. » ( Rer. Rom . III, 18. ) Il Lerminier ( Phil. du Droit, III, 1 ) riscontra con molto acume in Virgilio la prima origine de' tre po poli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche ; dov'egli, lodando l'agricoltura, dice : « Questa vita ten nero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello ; così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fece la bellis sima di tutti gl'imperi Roma ; e una, si circondò d'un muro i sette colli . » (Georg. 11, 532.) Fatto è che a taluno par vedere i tre popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio, i Rannesi o Latini, i Tarsi o Sabini, i Luceri o Etruschi. ( Warnkoenig, Hist. du Droit Rom .) Il Monsen ( St. Romana ), recentemente ha negato tal mescolanza, ma non ha detto le prove. Pro babile, a ogni modo, che quel nuovo Comune di Roma. sorto fra ’Comuni vicini , si mescolasse pure di genti vi cine. O si conceda dunque col Niebuhr la preminenza agli Etruschi, o concedasi a' Latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi ; e ciò spie ga, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio si possedesse un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io diceva per mo strare che le prime consuetudini ed istituzioni ebbero qualche ragione di civiltà , e riuscirono buon fonda mento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magi strati (magistratus populi romani) che stabilivano il di ritto, da' giudici ( judex, arbiter ) che giudicavano del fatto ( Hugo, 1, § 146) ; distinzione che a poco a poco LEZIONE DECIMANONA. 391 détte occasione al gius onorario, di cui parlerò in breve . È noto che il reggimento di Roma sott'i re e più ne' principj della repubblica era degli ottimati, cioè aristocratico. Indi la opposizione civile della plebe co’pa trizi per avere un gius equo ; opposizione che, divenuta incivile o violenta nel settimo secolo, rovinò la repub blica, come la prima ne formò la grandezza. Il popolo dimandò leggi scritte per contenere l'arbitrio de' patrizi , e si promulgò la legge delle dodici tavole. Narra il giu reconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d' esse l'efesio Ermodoro. ( Fr. 4, D. De Orig. Juris.) Certamente Plinio il vecchio (Hist. Nat.) ram mentò come serbata fino a lui la statua fatta per de creto ad Ermodoro ; talchè la tradizione non pare fa volosa in tutto : ma è certo altresì che nelle dodici tavole ( per quanto ne conosciamo) non si ha traccia del diritto greco : l'essenziale, giudizj, patria potestà e connu bio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro, son cosa tutta romana, come diceva già il Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri . (Warn koenig, $ 10, 11.) Ma io credo abbisognasse l'opera di quel Greco erudito per meditare le vecchie consuetudini, e ridurle a concetti determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata ; nè ciò avrebber saputo i Romani, dati all'armi , anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta da Ermodoro, traeva in ammirazione Tullio. Egli scriveva ne' libri De Oratore : « Se ne adirino pur tutti , io dirò quel che sento : a me, il solo libricciuolo delle dodici tavole, par superi ( se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità . Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, inten derà facile chi le nostre leggi paragoni a quelle di Li curgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant' ogni altro diritto civile, salvo il nostro , sia in colto e quasi ridicolo . » ( De Or. I, 44. ) Le quali parole 392 PARTE PRIMA. attestano tre cose ; l'antichissima civiltà di quelle genti che formarono Roma, e che vi recarono le proprie tra dizioni, benchè si dessero poi a vita guerriera ed agre ste ; la falsità che il gius civile romano procedesse ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolgesse da principj non rozzi ne poco pensati. I Romani dettero la sostanza, i Greci pro babilmente la forma, cioè ordinamento di codice. Dalle dodici tavole nacque la necessità d'interpretarle per di sputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio ( loc. cit. 4, 5, 6) , vennero il diritto civile non scritto o l'au torità dei prudenti, e le azioni delle leggi ( legis actio nes); ma tutto ciò era un segreto de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giu risprudenza passò dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai, o signori , accadde tal cosa in modo più segnalato ? Voi sapete che sul cadere del sesto se colo di Roma si propagò là il filosofare greco, e che il secolo posteriore è appunto il secolo di Cicerone. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente nel se colo sesto, crebbe nel settimo rapidamente ; e allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degli atti umani in sè e nell' esteriori atti nenze . Scriveva Cicerone la Topica, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di Trebazio, come si ha dal proemio di quel libro, ov'è scritto : « Non potrei, adunque, con te , che me ne pregavi spesso , benchè timoroso di noiarmi (come scorgevo facile), stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto.... Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrissi a memoria nella mia navigazione, e dopo il viag gio ti ho mandate. » Il qual libro è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giuri sprudenza. E di Servio Sulpicio ( primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori ) , ecco che scrive Cicerone, amico di LEZIONE DECIMANONA. 393 >> lui : « Si stima, o Bruto, che grand'uso del gius civile s'avesse da Scevola e da molt' altri , ma l'arte da que st' unico ( cioè da Sulpizio) ; al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le in terpretazioni l'oscure ; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque recò tal arte (mas sima di tutte l'arti ) , quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. ( De CI. Orat. 41. ) Con le quali parole mostrò Cicerone la forma di scienza che si prese dal Diritto in virtù della logica . E la forma scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, levò le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo ; che al termine dell'età seconda , cioè sul fiorire della filosofia e delle lettere a Roma, Cesare e Pompeo ebber disegno d'un codice ; disegno, che mostra l ' uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo generi e spe cie ; giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento per classi . Pare che Servio Sulpicio ef fettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Ci cerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi ( 111 ) mostrò un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato . Nè qui entrerò in disputa fra due scuole alemanne, l'una che col Savigny sostiene il danno de' codici, l'altra che ne difende l'uti lità ; dirò a ogni modo ( nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche ; però l'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero . Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia preparò il campo alle lettere ed alla filosofia ; perchè i Romani, senten 394 PARTE PRIMA. dosi non più solo Romani, ma Italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta . Dopo la guerra sociale, per le leggi Plauzia e Giulia de civitate sociorum ( anno 664 e 65 di Ro ma) , fu data , come notò l'Haubold ( Tav . cronol. per servire alla St. del Dir .), a tutte le città italiche citta dinanza romana, eccetto i Lucani e i Sanniti ; e nel l'anno 705 conseguirono la cittadinanza i Galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani ; la ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina . ( Framm . L. de Gallia Cisal pina .) In tal modo, come scrive il Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano. ( St. del Dir. rom : I, 2.) E il gius italico dava dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi ), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati ; talchè l'Italia , a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano soci o confederati. E questo accadde perchè i Romani aveano già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de' sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva il Forti ) , nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Ita lia . ( Ist. Civ . 1, 3, § 25. ) L'Italia, dice l’Hugo, non si considerò mai una provincia ; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite. ( Hist. du Dr. Rom. , § 164.) I Romani, allora. si levarono con la mente all'unità naturale del territo rio, come vediamo ne' Digesti . Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto : « Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia ( cisalpina ) ; ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto : Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Ita liæ junctæ sunt, ut puta Galliam : sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur » ( Ulpiano). E al Fr. 9 , D. de LEZIONE DECIMANONA . 395 Judiciis et ubi etc. , si dice : « Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia : Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie . » A questo concetto sì pieno vennero i Romani tra gli ultimi tempi della re pubblica e i primi dell'impero, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza . Si aggiunga poi, che le sevizie de' Cesari cadevano in Roma su'patrizi più sospetti , ma quel reggimento tem peravano istituti repubblicani e ordini civili equi ; se no, come dice il Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come Alessandro Severo avesse un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, Fabio cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri . ( Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1 , § 1-5 . ) E tanto è vero , che la notizia del Gius equo e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provin cie ( finita la guerra civile) non era punto legale, anzi contr' alle leggi ; perchè, secondo le costituzioni come dice il Warnkoenig ), le provincie stavano bene, le impo ste erano lievi , lo Stato pacifico, molto dell'amministra zione in mano di quelle ( il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e Senato li minacciavano con le leggi repetundarum , tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom. , $ 16.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale; e ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da inte ressi particolari, progredisse continuamente. ( Cic . , De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incitò questi a gareggiare in isplendore di lettere e di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una di 396 PARTE PRIMA. sputa tra l'oratore Crasso (contemporaneo al padre di Cicerone) e Muzio Scevola giureconsulto sull'interpre tare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso , ripresa dal Forti, ma (e forse meglio ) approvata dal Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetu dini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale stoica, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza ; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nominerò dapprima Quin to Muzio Scevola assassinato a’tempi di Mario . Dice Pomponio che Muzio costituì primo il decreto civile , disponendolo per capi di materie ( generatim ) in diciotto libri . Servio Sulpizio ridusse il diritto a stato di scienza ; fu prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fece Muzio Scevola d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio ; sostenne la repubblica ; avversò i Triumviri ; la repubblica gli alzò una statua. Abbiamo di que' tempi Alfeno Varo e Ofelio disce poli di Servio, e Trebazio (a cui la Logica di Cicerone) e un altro Muzio Scevola e Cascellio . Muzio non accettava da Ottaviano il consolato ; Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri ; e a chi lo consi gliava si temperasse rispondeva : son vecchio e senza figliuoli. Labeone, il cui padre era morto a Filippi, ri fiutò il consolato da Ottaviano anch'egli, e serbò spiriti antichi. Dice Pomponio : « Egli si détte moltissimo agli studj, e divise l'anno in modo che stava sei mesi a Ro ma co' discepoli (cum studiosis), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lasciò quaranta volumi, che i più s'usano ancora. Ateio Capitone ( segue Pomponio) per severava nell'antico ; ma Labeone, che molto aveva me ditato nell'altre parti della sapienza ( qui et in cæteris LEZIONE DECIMANONA. 397 sapientiæ operam dederat), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina cominciò a innovare molto. » ( Fr. 39-47, D. De Or. Jur. ) I cinque giureconsulti più cele bri e più recenti ( lasciando gli altri) sono Emilio Papi niano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino . Papiniano, fami liare di Settimio Severo e principale nel governo, stette per Geta contro Caracalla ; e volendo costui una difesa legale del fratricidio , Papiniano la negò e venne ucciso. Scriveva : « i fatti che ledono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli. » ( Fr. 15, D. De servis exportandis etc.) Gli altri quattro illustravano, come dissi , il consiglio di Alessandro Severo . I giureconsulti, massime della terza età, levarono (com' avvertii) a stato di scienza le loro discipline ; e ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filoso fia, ma eziandio in lettere ; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci ; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto fu , come notai de' tempi di Cicerone, che la giurisprudenza prese forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico (dice l' Hugo) la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nes suno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni ; cioè per vigore di conseguenze da prin cipj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni, che Gaio dimandava inelegantia juris, e pel metodo di stintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tem po ; distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto ; compositivo e deduttivo traendone con bre vità ed evidenza le illazioni . Il gran Leibnitz, insigne così giureconsulto come filosofo e matematico, scriveva nell' Epist, 119 : « Io ammiro l'opera de Digesti , o me glio i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa : ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici : 0 che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire . » 398 PARTE PRIMA. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giac chè, com'avvertii , materia della giurisprudenza son gli atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale ; quindi , coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o degli Stoici o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gli eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dagli Stoici l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, la sottile dialettica che conviene al Foro , e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile : ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e (salvo qualch'errore de' tempi) così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili , come si ha dal codice Napoleone : e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti . E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giure consulti, guardiamo la nozione, ch'e'si facevano della giurisprudenza e della filosofia . Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive (pr. e fr. 1 ) : « Dand' opera al gius, oc corre prima sapere onde ne venga il nome. Gius è chia mato da giustizia; perchè ( come Celso lo definì elegan temente) il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati con ragione sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo ; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie ; desiderosi di far buoni gli uomini , non solo per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori (se non m'inganno) di vera e non simulata filosofia. » Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a ri gore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filoso fia morale : ma se badiamo al concetto che avevano di LEZIONE DECIMANONA. 399 questa gli antichi, e al generarsi la scienza del Diritto dall'altra del Dovere, ci formeremo idea chiara del co me intimamente fosse filosofica la giurisprudenza romana. Ho mostrato altrove ( Lez. XVII) che, secondo i sistemi greci, sommità di perfezione umana è lo Stato ; talchè la morale s' ordinò alla politica ; concetto vero per l'attinen ze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia, o signori, se i giureconsulti romani definivano il gius civile come la morale ; lo de finivano così, perchè, a sentimento di tutti gli antichi, le due scienze si mescolavano in una . Noi con più ra gione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo ; dimenticanza ignota agli antichi, che però svolgevano razionalmente il diritto e non lo maneggia vano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita : « Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto : » e se la giurispru denza è definita ; « Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1 , Inst. De just. et jure), » si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra ; e noterò col Cuiacio, che in tal luogo la giu risprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com ' abito della volontà, secondo l'antica filo sofia . E la filosofia la pensavano essi , non senz'alta spe culazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'e ternità del diritto (come osserva il Vico, Sc. Nuova, IV) allorchè dissero : Il tempo non muta nè scioglie i di ritti (tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris ) ; e quando discernevano il diritto naturale dal positivo : ma nello stesso tempo rigettarono gli eccessi dello stoicismo, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze , l' ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così abbiam sen tito Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla ma scherata ; e nel Fr. 6 , § 7 , D. al Tit. De his quæ in 400 PARTE PRIMA . testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1 , § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc. , dove si stabilisce gli onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, van tando di spregiare le mercedi, n'andavano a caccia. I giureconsulti poi mostrarono tre specie di diritti : jus naturale, gentium, et civile ; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile ; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione pratica mette divario tra leggi proprie di Roma ( jus ci vile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico ( jus gentium vel naturale) ; l'altra è distinzione più specula tiva e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura in segnò a tutti gli animali, come la procreazione de'fi gliuoli ; in diritto delle genti, del quale tra gli animali hann' uso gli uomini soli , come la religione verso Dio, l ' obbedire a' genitori e alla patria : in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'è accusato Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità ; ' e sì che il Piccolomini da qualche secolo fa , come il Warnkoenig oggi , notava che qui , se condo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale , quelli che vengono dalla razionale, e gli altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che le bestie ( dette da' giureconsulti cose, non persone) abbian di ritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti , come li gene rano le potenze razionali . Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità . È da confessare invece, che il diritto civile si definisce per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti ; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tut tavia meritan lode i giureconsulti, che se non condan · LEZIONE DECIMANONA. 401 narono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile . Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale viene istituito dalla divina Provvidenza, come insegnavan gli Stoici ( De Jur. Nat. Gen. et Cir ., fr. 2 , § ult. ); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti . Poi, essi definiscono il gius civile qual era in fatto allora . Osserverò di passaggio, che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni allo Stahl ( St. della Filosofia del Diritto, Torino 1855) opina con altri , che i Romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da jubeo, co mandare ; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensò forse al come definisce la parola Jus il Forcellini ( Voc. ad V.) : « Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali , o divine, o delle genti o ci vili ( jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc.). Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. » Sicchè i Romani chiamavano Jus un che costituito da una legge qua lunque ; così distinguevano la legge da ciò che ne pro cede, e ch ' è l'effetto del suo comando : e Cicerone ( Rep. et De Leg. passim ) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de Romani già citato : « il tempo non muta nè scioglie i diritti ; conobbero, dunque, i Romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento as soluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingueva dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza originò il diritto onorario, di cui parla il Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati . E io ritrarrò in breve la sentenza di lui , e n'uscirà la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dirò; che il gius onorario conteneva gli editti del Storia della Filosofia . – I. 26 402 PARTE PRIMA. pretore urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie (edictum provin ciale). Pare che il gius predetto, almeno in modo se gnalato, principiasse verso la metà del secolo VII, per chè Cicerone nella seconda Verrina dice : « postea quam jus prætorium constitutum est . » L'Hugo dimostra, con tro l’Heinneccio, che tal diritto ebbe forza di legge ; poichè ( tra gli altri argomenti ) Cicerone non contrasta nelle Verrine che l' Editto di Verre sia legge da te nere, ma lo accusa di averlo infranto egli stesso, o con formato non secondo ragione. ( Hugo, Hist. etc. , $ 178, 179. ) Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili ne gozi , gli edili per le convenzioni de' mercati e per la po lizia della città ; e tanto gli uni che gli altri, quando pi gliavano i magistrati, mandavan fuori un editto , ove stabilivano le forme del giudizio e le massime: ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutavano il gius, ne determinavano l'applicazione. Eccone gli esempi : In primo luogo, salva la forma legale, si supponga che i contraenti abbiano pattuito o per inganno, o per er rore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti . Quindi i pretori statuiron massime per l'efficacia civile della moralità negli atti , scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali, perchè queste massime d'equità si recassero ad effetto . I codici moderni han composto di tali massime le lor leggi universali . Allora, dice il Forti, gli editti de' magi strati « erano uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili . » Sicchè (quant'alla moralità degli atti) trovarono i magistrati l'eccezioni perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza ; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ri petere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In se condo luogo, le leggi , definito il diritto e ordinatane la sanzione, lasciavano a'magistrati ilmodo d'effettuarli. Per esempio, le leggi stabilivano i modi d'acquistare la pro LEZIONE DECIMANONA . 403 prietà, ma non i modi della sua difesa ; che più tornò necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio ; onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziavano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo. ( Ist. Civ., L. I. S. 1 , € . 3, § 31.) Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius, cioè il diritto ricevuto ljus receptum ). Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costrin sero i magistrati a giudicare di que'contratti, non se condo le nude parole della legge, sì a lume di naturale onestà ; come le clausale, si lodate da Cicerone, uti ne propter te , fidemre tuam captus, fraudatusne sim ; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione. ( De Off. III, 17. ) I giureconsulti si davano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o gli atti della volontà umana , così la filosofia di que'sapienti gli aiuto all’un five con le spiegazioni delle parole e con la de. finizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa : gli aiutò all ' altro fine co giudizi sulla moralità degli atti , e con le regole per interpre tare l'altrui volontà. Il Gravina così accenna le novità del gius ricevuto : * Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprez za delle leggi, son venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi , l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili , perchè procedono dall’equa e utile in terpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore Aquilio giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la re gola catoniana , la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi ver 404 PARTE PRIMA. nero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto. ( De ortu et progr. I, Civ. , C. 43. ) Tale acume di riflessione disciplinata recò i giurecon sulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agli alimenti (come si vede Fr. 68 D. Ad Legem Falcidiam ); cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti . La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sen tiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampol losità di Seneca e degli altri si tien semplice e puro .. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' com pilatori greci e de' copisti ; ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità . Terminerò, o signori, recando un saggio di tal sa pienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius. dall' ultimo titolo de' Digesti : « I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile ( Fr. 8) . Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno ( 2) . Sta in na tura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare ( 29) . Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato : però l ' ob bligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso ( 35) . Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima . vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza ( 48) . Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha ( 54) . Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne ( 57) . L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto ( 59) . È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false (65 ). Quante volte un di scorso rende due sensi, prendasi quello ch'è più adatto LEZIONE DECIMANONA. 405 al da fare ( 69) . Non si dà benefizio per forza ( 69) . Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno ( 75) . In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equi tà (90 ). Ne’discorsi ambigui è il più da guardare all'in tendimento di chi li fa (96) . Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso ( 114) . Il timore vano non è buona scusa ( 184) . Per l'impossi bile non c'è obbligo che tenga ( 185) . Le cose proibite da natura, non sono convalidate da legge nessuna ( 188, § 1 ) . Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui (206) . Per gius civile i servi si sti mano nulla ; non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali » ( 32) . Quando l'impero si foggiò all'orientale, la giurispru denza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno « La indigesta mole de' Digesti >> e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia grecolatina di Cicerone e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gli eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari (mi sembra) che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tende vano i Romani alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta del tempo pagano e della filosofia . Or noi passeremo al l'èra cristiana . Augusto Conti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” – The Swimming-Pool Library.

 

Contri (Cazzano di Tramigna). Filosofo. Grice: “I like Contri – he reminds me of my days at Rossall! Of course Contri is interested in Hegel – “a la ricerca del segreto sofisma di Hegel” – and attempts to reveal it as Stirling never could! But Contri is also interested in ‘il bello’ – being an Italian! – The interesting thing is that he goes back to Italy – Aquino! He has a good exploration on ‘verum’ in Aquino, too, which reminds me of Bristol, Revisited!” Allievo di Zamboni, elabora una minuziosa critica alla logica di Hegel di cui mise in rilievo le incongruenze gnoseologiche e metodologiche che portano alla errata concezione hegeliana della realtà come vita dell'idea. Rovesciando l'immanentismo hegeliano, scopre un mondo di realtà sviluppando una concezione di filosofia della storia che denomina “storiosofia”.  Studia a Verona. Si laureò a Padova. Discepolo fervente di Zamboni, di cui accolse e sostenne la dottrina della gnoseologia pura. In alcune occasioni si descrisse come elaboratore in contemporanea al suo maestro Zamboni di alcune teorie, collegate all’estetica ma non solo. Insegna a Bologna. Zamboni fu espulso dall'Università Cattolica con la motivazione di allontanamento dalla ortodossia tomistica e con accusa di non conformità al Magistero della Dottrina Cattolica Romana. Contrì definì la posizione della Cattolica con il termine da lui coniato di “archeo-scolastica”. La posizione “archeo-scolastica” della Cattolica di Milano, di una conoscenza indimostrata, a priori, dell’essere e degl’esseri era bersaglio di critiche da parte di filosofi cristiani e non che la ritenevano inadeguata nell’ambito del pensiero moderno. Contri sostenne che la dimostrazione della conoscenza dell’essere e degl’esseri data dalla Gnoseologia Pura di Zamboni superava definitivamente tali critiche e ridava certezza dimostrata della conoscenza e dell’esistenza di Dio. Accusa di plagio Gemelli per aver pubblicato nella monografia Il mio contributo alla filosofia neoscolastica (Milano) pagine già scritte da Desiré Mercier e da Morice De Wulf, senza indicare le citazioni. Gemelli diede le dimissioni da Rettore della Università Cattolica ma rimase in carica. Insegna Bologna. Il prof. Ferdinando Napoli, Generale dei Barnabiti, cultore di scienze naturali, venne depennato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, allora presieduta dal Gemelli. Venne dato ordine di non pubblicare articoli a firma di Contri. Continuando la difesa della dottrina di Zamboni, fondò la rivista quadrimestrale di polemica e di dottrina neoscolastica “Criterion”. Il confronto con l’Università Cattolica di Milano continuò negli anni successivi con relazioni a numerosi congressi di cui Contri diede resoconto sulla rivista. Insegna a Ivrea. Sulla rivista Criterion apparvero intanto i primi Saggi del Contri sui suoi studi hegeliani che prelusero all'opera definitiva dLa Genesi fenomenologica della Logica hegeliana. Partecipa attivamente agli organi culturali del fascismo. Sscrisse su giornali quali Il Secolo Fascista, Quadrivio, Il Regime Fascista, Il meridiano di Roma e La Crociata Italica. Contri si avvalse della tribuna offerta da queste testate per promuovere i suoi studi filosofici e critica filosoficamente l’ ebraismo di Spinoza, di Durkheim e di Bergson. Insegna a Milano e tenne conferenze su studi hegeliani. Sorse una disputa con Zamboni in seguito all'articolo Il campo della gnoseologia, il campo della storiosofia, in risposta alla pubblicazione del Contri Dallo storicismo alla storiosofia.  Prese parte attiva a congressi tomistici internazionali e a congressi rosminiani.  Partecipa attivamente alla “Missione di Milano”, lanciata dall’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini.  Come riconoscimenti ai suoi studi conseguì alcuni premi fra i quali uno indetto dall'Angelicum sul tema “Quid est veritas”, e una segnalazione all'Accademia dei Lincei per l'opera: Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, Milano, LSU. Fu discepolo e geniale continuatore di Zamboni. Così potrebbe definire la situazione filosofica di oggi. Il mondo del pensiero, perduta la bussola non teologica d'orientamento, è costituito da una miriade di metafisiche che cozzano le une contro le altre tanto da definirsi che heghelianicamente come il divenire in sè, che è puro fenomenismo. A tale fenomenismo corrispondono molteplici fenomenologie. Per esempio quella di  Heidegger, afferma che il reale è un solo, una totalità onniafferrante (Hegel direbbe begriff), tanto come essere quanto come niente. Anche Hidegger poi tenta la via della salvezza ammettendo la realtà del mondo esterno come di un che, che resiste al soggetto, ponendosi nel solco del pensiero di Zamboni. In questo modo Hidegger tocca il problema che si volle e che si vuole eludere: la realtà del mondo esterno. Esistono queste realtà, come la mia realtà, indipendentemente dal pensarle? Per dare risposta a questo interrogativo cruciale, è necessaria la gnoseologia pura. La gnoseologia secondo Contri, scoprì la risoluzione definitiva del problema della certezza della conoscenza umana. Essa permise di risolvere il problema dell'esistenza di Dio, riavvalorando criticamente le cinque vie della dimostrazione Aquino. Sono meriti del metodo filosofico di Zamboni il poter affermare la sostanzialità del mio “io” personale, la mia realtà individua e dimostrare l'esistenza di Dio, trascendente, personale. Il metodo zamboniano distingue gli elementi della conoscenza umana tra la sensazione, che e sempre oggettiva, e lo stato d'animo e tra questi "quello stato d'animo che è anche atto: l'attenzione". Ogno stato d'animo e sempre soggettivo. La gnoseology riesce a cogliere la realtà del proprio “io”, nei suoi atti e stati. Essi sono reali, per­ché immediatamente presenti all'”io”, e se sono reali gli accidenti dell'io, perché essi sono modo di essere dell'io, reale è l'io, come sostanza, cui essi ineriscono. Perciò dall'immediata certezza della realtà degli accidenti di un ente si giunge alla certezza della realtà sostanziale dell'io." La critica alla posizione della neoscolastica di Gemelli, Olgiati e Masnovo sulla conoscenza indimostrata dell'ente e la soluzione tramite la gnoseologia pura. Rispetto alla dimostrazione della realtà dell'ente, si fonda così nell'esperienza immediata ed integrale il concetto di essere e ‘esseri’ che non è più necessario assumere acriticamente, come qualcosa di razionalmente immediato, pena l'impossibilità di una logica razionale. L'assunzione acritica del concetto di essere ed esseri è propria del neotomismo dell'Università Cattolica, che in un suo autore, Masnovo, perviene alla sua massima teorizzazione nel "mio hic et nunc diveniente atto di pensiero". Ma con questo l'essere e gli esseri è solo pensato e ammesso acriticamente come pensiero, è un presupposto, mentre nella gnoseologia zamboniana è il risultato di un processo di astrazione, che deriva da una realtà immediatamente presente all'autocoscienza dell'io, che non ha la natura del pensiero, non è pensiero essa stessa, ma qualcosa di diverso. Si può pertanto uscire dalla formula logica della ragion sufficiente, che è sempre e comunque razionalista e riduce al razionalismo anche il neotomismo. Nell'ambito dell'esperienza immediata ed integrale si scopre invece non la ragion sufficiente, ma la sufficienza ad esistere o no. E la fondazione ed il ripensamento delle prove dell'esistenza di Dio, e in particolare della terza via tomistica, diventano inoppugnabili. Nessuno più può dubitare dell'esistenza del sufficiente ad esistere, che è Dio."  Secondo Peretti la fondazione gnoseologica della metafisica è il più grande merito di Zamboni.  L'ambiente filosofico dell'Università Cattolica non accetta la gnoseologia zamboniana e fonda la metafisica sul concetto di ente, assunto acriticamente, come un presupposto indimostrabile. Esso finì per identificarsi con l'ente di ragione (ens rationis), non sfuggendo all'insidia hegeliana, che lo aveva dialettizzato sia come essenza che come esistenza. La dialettica negativa di Hegel produsse ben presto nella corrente neotomista di Milano (ma anche in altre università cattoliche) i suoi effetti devastanti. Aveva messo in guardia i neotomisti dalla fraus hegeliana, che si svela nell'antitesi (contra-posizione) come negazione. Seguendo la metodologia gnoseologica, Contri affronta Hegel, il "padre del fenomenismo" compiendo una minuziosa e sistematica analisi della fenomenologia hegeliana. Dopo averle individuate ha messo in rilievo le incongruenze gnoseologiche e perciò metodologiche che sfocia nella concezione della realtà come vita dell'idea, presentandola come uno svolgimento dialettico del ‘begriff’, come qualche cosa che non mai in sé, ma diviene eternamente in sé e per sé. Contri resa evidente questa impostazione, anima del fenomenismo, e scoperta nella deficienza gnoseologica e pertanto metodologica, derivata dall'impostazione razionalista ed empirista che al fondo dello stesso criticismo, rovescia l'immanentismo hegeliano, che si gli scopre non più come mondo di idee, ma di realtà, di cui ognuna è altro del suo altro, in un ordito cosmologico, di cui la storia dell'uomo rappresenta l'essenza. Ed ecco la storiosofia, che reclama, al posto dell'immanentismo gnoseologicamente insostenibile, la trascendenza della trama di questo ordito, che a questo punto in sé e per sé non può più essere spiegato (si ricordi che l'anima della spiegazione hegeliana è la "negazione"!). Tale trascendenza prova l'esistenza di un Dio trascendente, che ha concepito la trama creando le realtà ordito di questa trama, di realtà in reciproca relazione, in cui non c'è membro che sia fermo. In questo ordine si risolvono in modo nuovo i rapporti tra le realtà, che per esempio tra l'anima e il corpo, superando così gli scogli di una spinosa questione di eredità aristotelica, di grande importanza anche oggi, in cui le realtà terrene e spirituali non trovano la sintesi equilibratrice.  La storiosofia rappresenta uno sviluppo del metodo di Zamboni, considerandolo la via per rinnovare tutta la filosofia poiché esso non è storicismo filosofico, non è naturalismo, è avanti positivistico, non è speculazione, ma metodo appunto, (metodo) che da secoli la filosofia europea ha cercato, perdendolo oggi nella disperazione del momento." Opere: “Il concetto aristotelico della verità in Aquino” (Torino, SEI); “Gnoseologia” (Bologna, L.Cappelli); “Il concetto d’armonia” (Bologna); “Il tomismo e il pensiero moderno secondo le recenti parole del Pontefice, Bologna, Coop. tipografica Azzoguidi): “Del bello” (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina); “La filosofia scolastica in Italia nell' era presente” (Bologna, Cuppini); “L’essere e gl’esseri” (Bologna, C. Galleri); Un confronto istruttivo: Mercier, Gemelli, De Wulf ed altri ancora, Bologna, C. Galleri); “Pane al pane: riassunto d'una situazione, Bologna, Costantino Gallera. “Neo-scolastici e archeo-scolastici” (palaeo-scholastici) sulla rivista Italia letteraria; “Il segreto sofisma di Hegel” (Bologna, La Grafolita), “Mussoliniana: il discorso del duce” (Bologna, La Diana scolastica); “Gnoseologia pura di A. Hilckmann; Il segreto di Hegel di S. Contri, Bologna, Stabilimento Tipografico Felsineo); “Hegel, Ivrea, ed. Criterion); “La genesi fenomenologica della logica hegeliana” (Bologna, ed.Criterion; Ambrogino o della neoscolastica, dialogo filosofico,  Bologna); “La soluzione del nodo centrale della filosofia della storia, Bologna, Criterion); “Complementi di storiosofia, Bologna, Criterion); “Punti di storiosofia, Bologna, Criterion; Lettera a S.S. Pio XII sulla filosofia della storia, Bologna, Criterion; Il Reiner Begriff (=concetto puro) hegeliano ed una recensione gesuitica, Bologna, Criterion; Dallo storicismo alla storiosofia. Lettura prima, Verona, Albarelli; I tre chiasmi della storia del pensiero filosofico.  Inquadratura unitotale della controversia sulla storiosofia, Milano, ed. Criterion); “Rosmini” (Domodossola, La cartografica C. Antonioli); Ispirazione da dei” divina della S. Scrittura secondo l'interpretazione storiosofica” (Milano, Criterion); “La sapienza di Salomone, Milano, ed. Criterion; “La riforma della metafisica” (Milano, ed. Criterion); Filosofia medioevale.  Raggiungere la forma nuova, Fiera Letteraria; Punti di trascendenza nell'immanentismo hegeliano, alla luce della momentalità storiosofica” (Milano, Libreria Editrice Scientifico Universitaria); “Rosmini” (Milano, Centro di cultura religiosa); “Posizioni dello spiritualismo Cristiano: La dottrina della poieticita in un quadro rosminiano” (Domodossola, Tip. La cartografica C. Antonioli); “Assiologia ed estetica”, Theorein; Posizione dello spiritualismo cristiano. La dottrina della poieticità, in un quadro rosminiano, Rivista rosminiana; Heidegger in una luce rosminiana: la favola di Igino e il sentimento fondamentale, Domodossola, La cartografica); Missione di Milano. Chiosa storico-filosofica, Ragguaglio); “Heidegger in una luce rosminiana, Rivista rosminiana); La coscienza infelice nella filosofia hegeliana” (Palermo, Manfredi); “Husserl edito e Husserl inedito” (Palermo, Manfredi); “Kierkegaard: profeta laico dell'interiorità umana”; “Saggio di una poetica vichiana” (Milano, Il ragguaglio librario); La fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Rivista rosminiana; L'unità del pensiero filosofico, Sapienza; Il pluralismo filosofico nell'ambito di una concezione cristiana, Sapienza; In margine al centenario dantesco, Sapienza; La negazione come principio metodologico di unificazione speculativa, Theorein; Vita e pensiero di Hegel, Rivista rosminiana; Possibilità di un accordo tra la dottrina rosminiana del sentimento fondamentale e le concezioni moderne  sull'inconscio, Rivista  rosminiana; Morale e religione nella Fenomenologia dello spirito di G. Hegel, Palermo); “Parallelo tra Hegel e Rosmini, Palermo, Mori); “Metafisica e storia, Palermo, Mori); “Il sofisma di Hegel” (Milano, Jaca book). “Il caso Contri”; “Gnoseologia”; noseologia, storiosofia; Contri, Note mazziane; La propedeutica metafisica hegeliana al problema del pensare e la lettura rosminiana di S. Contri, Contri tra gnoseologia e storiosofia, Punti di trascendenza in S. Contri, in Sophia, Crociata Italica, Fascismo e religione nella Repubblica di Salò, L'Estetica di Benedetto Croce. Certi gestiscriveva la Vanni Rovighiche gli furono rimproverati come acquiescenza al potere politico fascista (e furono ben pochi in confronto a quelli di molti altri) furono dettati dalla preoccupazione di difendere la sua Università dalla minaccia di chiusura da parte del potere politico, minaccia tutt’altro che immaginaria. E forse fu il timore di fronte alle obiezioni di un’altra autorità, quella ecclesiastica, che gli premeva ben più di quella politica, a indurlo ad allontanare dall’Università un uomo di grande ingegno e di purezza adamantina: Zamboni, un gesto che non può non essergli rimproverato e che lasciò anche a noi allora studenti dell’amaro in bocca. Contri, (Circa il volume di Croce 'La storia come pensiero e come azione. Siro Contri Presidente dell' Istituto di Cultura Fascista...».  Siro Contri, «Il regime fascista» Siro Contri. Contri. Keywords: del bello, il bello, assiologia, poetica vichiana, Mussolini, discorso, duce, logica di Hegel, filosofia dell’essere, l’essere e gli esseri, Hegel contraddetto, il bello, pulchrum, archeo-scolastici, paleo-scolastici, Aquino, aristotele, il vero, l’errore di Croce, l’equivoco di Croce, percezione del bello, l’armonia e il bello, del storicismo alla storiosofia, storiosofia o filosofia della storia, interpretazione dommatica di Aquino, la negazione di hegel, il concetto puro di Hegel, la negazione come metodo in Hegel, nihilismo e negazione in Hegel, l’errore di Hegel, il sofisma di Hegel, Gentile e il bello. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Contri” – The Swimming-Pool Library.

 

Corbellini (Cadeo). Filosofo. Grice: “I like Corbellini; of course he has to defend science versus what he calls – alla Popper? – ‘pseudoscenza’ in Italy, which he calls ‘il paese della pseudoscenza’ – I thought that was Oxford!” I sui interessi riguardano la grammatical del vivente, la storia della medicina e la bioetica. Insegna Roma. Si laurea con “L’epistemologia evoluzionistica”.I suoi interessi di studio hanno riguardato la storia e la filosofia della biologia evoluzionistica, delle immunoscienze e delle neuroscienze, per includere poi anche lo studio della storia della malaria e della malariologia in Italia, delle ricadute della genetica molecolare, delle implicazioni dell’evoluzione e l'evoluzione. L'approccio storico-epistemologico all'evoluzione trovato una sintesi nella ricostruzione della storia delle idee di “salute” e malattia e delle trasformazioni metodologiche a cui è andata incontro la ricerca delle spiegazione causale della salute. La sua ricerca si è orientata anche verso l'esame delle radici delle controversie bioetiche. Difende un'idea non confessionale della bioetica, che ha radici filosofiche in uno scetticismo morale radicale, naturalistico e non relativista (Bioetica per perplessi. Una guida ragionata, Mondadori).  Coltiva anche un interesse per la percezione sociale e il ruolo della scienza nella costruzione del valore civile. Sostiene che l'invenzione e l'espansione del metodo scientifico hanno consentito e favorito l'evoluzione del libero mercato e della stato di diritto, ovvero che la scienza ha funzionano come catalizzatore nella costruzione e manutenzione dei valori critico-cognitivi e morali che rendono possibile il funzionamento del sistema liberal-democratico.  Altre opere: “Nel Paese della Pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà” (Milano, Feltrinelli); “Cavie? Sperimentazione e diritti animali” (Bologna, Il Mulino); “Tutta colpa del cervello: un'introduzione alla neuro-etica” (Milano, Mondadori Università, ; Scienza, Torino, Bollati Boringhieri); “Dalla cura alla scienza” (Milano, Encyclomedia Publishers); “Scienza, quindi democrazia, Torino, Einaudi); “Perché gli scienziati non sono pericolosi” (Milano, Longanesi); “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia (con Giovanni Jervis), Torino, Bollati Boringhieri, EBM); “Medicina basata sull'evoluzione” (Roma-Bari, Laterza); “Bi(blio)etica” (Torino, Einaudi); “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Roma, Carocci); “La grammatica del vivente. Storia della biologia e della medicina molecolare” (Roma-Bari, Laterza); “L'evoluzione del pensiero immunologico” (Bollati Boringhieri, Torino). L’errore di Darwin. Introduzione; 1. Dall’etica medica alla bioetica; 2. Il senso morale umano e le controversie bioetiche; 3. Sperimentazione sull’uomo e consenso informato; 4. Scelte di fine vita; 5. Scelte di inizio vita; 6. Medicina genetica; 7. Sperimentazione animale; 8. Medicina dei trapianti e definizione di morte; 9. Etica della ricerca responsabile; 10. Medicina rigenerativa e staminali; 11. Neuroetica; 12. Etica ambientale e OGM; 13. Etica della comunicazione scientifica, della percezione della scienza e del «gender»; Indice dei box; Indice analitico; Indice dei nomi. Come nota Gilberto Corbellini nella prefazione all’edizione italiana del libro di Ru- bin, il tentativo di applicare l’approccio evoluzionistico alla (filosofia) politica spesso rischia di venire frainteso. Il frain- tendimento più comune e pericoloso deriva dalla mancata distinzione tra il “darwinismo politicizzato” e la “politica darwiniana”: il primo è costituito, come è accaduto nel caso del socialdarwinismo di fine Ottocento, dall’«interpretazio- ne strumentale e priva di coerenza logica o di basi scientifi- che delle idee darwiniane per difendere qualche particolare ideologia politica»; la seconda, invece, consiste nell’«uso delle conoscenze evoluzionistiche sulla natura umana per meglio comprendere le origini delle preferenze politiche in- dividuali, la loro distribuzione sociale e le dissonanze tra gli adattamenti ancestrali e l’ambiente attuale».58 Ridley si mostra ben consapevole del rischio di trasformare la politi- ca darwiniana in ideologia. Questo, tuttavia, non gli impe- disce di avanzare alcuni suggerimenti di politica economica 54. Cfr. Skyrms, The Evolution of Social Contract, pp. 108-109 e Festa “Teoria dei giochi, metodo delle scienze sociali e filosofia della politica”, Prefazione a de Jasay, Scelta, contratto, consenso, pp. 8-9). Alcune immani tragedie che hanno segnato la storia degli ultimi due secoli sembrano dovute, almeno in parte, all’ignoranza – e, talvolta, alla ne- gazione – di alcune caratteristiche essenziali della natura umana. Per esempio, Ridley (p. 322) osserva che «Karl Marx vagheggiava un sistema sociale che avrebbe funzionato solo se fossimo stati degli angeli, ed è fallito perché siamo invece degli animali». 55. Peter Singer, Una sinistra dawiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Torino, Edizioni di Comunità, 2000 (1999). 56. Larry Arnhart, Darwinian Conservatism, Exeter (UK), Imprint Academic, 2005. 57. Rubin, La politica secondo Darwin. 58. Gilberto Corbellini, “Politica darwiniana vs darwinismo politicizzato”, prefazione a Rubin, La politica secondo Darwin, p. 9. 31 Ridley.Origini.Virtu.indd Le origini della virtù – si vedano soprattutto gli ultimi tre capitoli del libro – che gli sembrano compatibili con le nostre tendenze evolutive. La prospettiva filosofico-politica che ne emerge è un libe- ralismo con tendenze anarchiche, che non sarebbe inappro- priato chiamare “anarco-liberalismo”.59 Tale prospettiva, ispirata dalla grande fiducia di Ridley negli istinti coopera- tivi e altruistici degli esseri umani, sfocia infatti nella difesa di un ordine politico-economico nel quale il ruolo del gover- no e dell’intervento pubblico è ridotto ai minimi termini: Recuperiamo la visione di Kropotkin, che immaginava un mondo di liberi individui. [...] Non sono così ingenuo da pensare che ciò possa accadere da un giorno all’altro, o che qualche forma di governo non sia necessaria. Ma metto se- riamente in dubbio la necessità di uno Stato che decide ogni minimo dettaglio della nostra vita e si attacca come una gigantesca pulce alla schiena della nazione.60 D’altra parte, Ridley si rende conto che, mentre le solu- zioni politico-economiche da lui favorite si accordano con alcune tendenze evolutive umane, confliggono però con al- tre. Per esempio, egli osserva che certe istituzioni economi- camente adeguate nella società moderna, come la proprietà privata, possono entrare in tensione con le tendenze primi- tive all’egualitarismo, alla redistribuzione e al rifiuto dell’accumulazione di ricchezza.61 L’analisi dei conflitti tra le moderne istituzioni politico-economiche e le nostre ten- denze primitive è uno degli argomenti centrali del già citato libro di Rubin.Le “Imperfezioni umane” di Pani e Corbellini Di Valeria Covato | 06/06/2016 - Mailing Le “Imperfezioni umane” di Pani e Corbellini Fornire un punto di vista innovativo, cioè evoluzionistico, di tutto quello che riguarda la salute e le disfunzioni comportamentali, e suggerire qualche punto di vista originale sul perché nonostante le dissonanze evolutive, la condizione umana è globalmente migliorata. È questo l’obiettivo del libro dal titolo “Imperfezioni umane. Cervello e dissonanze evolutive: malattie e salute tra biologia e cultura” (Rubbettino), scritto da Luca Pani e Gilberto Corbellini, che sarà presentato domani, martedì 7 giugno, alle ore 16.30 a Roma presso il Centro studi americani (Via Caetani, 32).  CHI CI SARÀ  Dopo i saluti di Paolo Messa, direttore Centro studi americani, interverranno alla presentazione moderata da Micaela Palmieri (Tg1) monsignor Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, Alberto Mingardi, direttore generale Istituto Bruno Leoni, Benedetto Ippolito, professore di storia della Filosofia presso l’università Roma tre.  IL VOLUME  “Negli ultimi vent’anni una nuova ipotesi di lavoro si è fatta strada in ambito medico sanitario, definita nel mondo anglosassone «evolutionary mismatch» (dissonanza evoluzionistica) – raccontano gli autori -. Questa teoria assume, in pratica, che l’ambiente nel quale la nostra specie ha acquisito i suoi tratti adattativi sia drammaticamente cambiato in un tempo troppo breve perché predisposizioni o tratti genetici e fenotipici dell’organismo fossero in grado di adeguarsi, per selezione naturale, alle novità”. Le conseguenze di queste dissonanze? “Disfunzioni o disturbi o rischi che richiedono un approccio medico”.  “Il libro è diviso in tre parti – spiegano Pani e Corbellini – Si inizia con un’illustrazione dei presupposti di qualunque strategia motivazionale, cioè dei meccanismi che sono alla base del piacere e delle ricompense, e da cui deriva – in ultima istanza – la possibilità di acquisire nuove conoscenze che consentono di affrontare le incertezze psicologiche che si accompagnano a qualunque comportamento esplorativo. La riflessione prosegue con esemplificazioni di risposte comportamentali che in particolari (o mutate) condizioni si manifestano come malattie. Il terzo capitolo è dedicato in modo specifico al comportamento alimentare e discute l’esempio più eclatante di dissonanza evoluzionistica: il mismatch metabolico. Gli ultimi due capitoli affrontano una serie d’imperfezioni e predisposizioni comportamentali umane che scaturiscono da compromessi evolutivi, e che risultavano vantaggiose o meno nel contesto dell’adattamento evolutivo, mentre i cambiamenti ambientali determinati dall’evoluzione culturale hanno generato, a loro volta, ulteriori fenomeni disadattativi”.   QUALI DISSONANZE  Nel dettaglio gli autori descrivono le dissonanze create dai nuovi contesti di vita per quanto riguarda cicli del sonno, accesso al cibo, comunicazione, cooperazione ovvero isolamento sociale, oppure di comportamenti più complessi come la rabbia aggressiva o l’altruismo; ma anche le preferenze politiche o l’intelligenza. Negli ultimi capitoli del volume emergono anche idee e ipotesi relative a scoperte cognitive e innovazioni che hanno migliorato la condizione umana, o reso possibili cambiamenti comportamentali incredibili.Il concetto di libero arbitrio implica che sussista nelle persone, dato un certo grado di sviluppo cognitivo e morale, la capacità di decidere e di agire, scegliendo tra diverse alternative disponibili, senza essere condizionati da fattori fisici o biologici di qualunque genere. Si assume, in altri termini, che le persone maturino una cosiddetta “agenticità”, cioè una capacità di agire e decidere in un quadro di consapevolezza degli effetti prodotti, che non è riducibile o spiegabile sulla base dei processi neurobiologici che hanno luogo nel cervello e/o alle leggi fisiche che li governano. Di libero arbitrio si può parlare, comunque, in molti modi e da diverse prospettive: filosofica, metafisica, giuridica, psicologica, etc.   Nel corso dell’evoluzione della specie, abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali  Negli ultimi decenni le neuroscienze cognitive e comportamentali hanno profondamente messo in dubbio, con una quantità crescente di prove, la visione classica di “libero arbitrio”, aprendo un dibattito scientifico ancora in corso.  Qual è la sua posizione all’interno del dibattito?  La mia posizione è che il libero arbitrio è una credenza senza senso, come aveva spiegato bene, molto prima delle neuroscienze, il filosofo Spinoza. Se ci fosse qualcosa come il “libero arbitrio”, allora davvero potrebbe esserci qualsiasi cosa ci possiamo immaginare.  Tuttavia, è vero che,nel corso dell’evoluzione della specie,abbiamo sviluppato strutture cerebrali che ci fanno appunto “credere” di essere liberi e poter decidere in completa autonomia, e su questa finzione abbiamo costruito il nostro straordinario successo di animali sociali. Il libero arbitrio è un’illusione, ma un’illusione molto produttiva.  L’intuizione di ritenersi liberi, in un senso vago o indefinito, è una forma di autoinganno, come tante altre che sono prodotte dalla nostra coscienza, che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità, con tutte le conseguenze che ne derivano anche per l’organizzazione di un ordine sociale efficiente sulla base di un sistema di obblighi.  Ovviamente questa strategia è modulata da specifiche condizioni ecologiche e sociali, per cui in alcuni contesti questa illusione si può espandere e diventare la base di sistemi anche molto progrediti per qualità di vita, come quelli occidentali, mentre in altri ambienti di vita sarà più adattativo che tale intuizione e illusione non maturi neppure, o maturi in forme che sono funzionali a all’accettazione di un comportamento consapevolmente eterodiretto.   L’intuizione di ritenersi liberi è una forma di autoinganno che nel tempo è stata socialmente addomesticata per inventare un altro autoinganno, cioè un senso individuale di responsabilità  Quali sono i rapporti fra emozioni e pensiero razionale? Con quali modalità le due componenti guidano il comportamento umano?  In che misura siamo (o possiamo essere) consapevoli di queste influenze?   Non è del tutto chiaro nei dettagli come interagiscano le strutture del cervello che controllano le emozioni o le reazioni impulsive, e quelle che controllano la pianificazione di azioni calcolate. Quello che si sa è che alcune condizioni, come trovarsi di fronte un’altra persona preferibilmente con le proprie stesse caratteristiche somatiche o un parente, induca l’inibizione di un comportamento utilitaristico, cioè volto a massimizzare qualche beneficio in generale a prescindere dai danni che si possono arrecare alle persone; ovvero che induca un comportamento di accudimento o altruistico, di carattere parentale o reciproco.  Mentre situazioni contrarie all’ordine morale appreso socialmente e attraverso l’educazione scatenano quasi automaticamente reazioni di disgusto o qualche altra avversione emotiva (ad esempio, rabbia o disprezzo).  Se non ci sono di mezzo contatti fisici, o rapporti parentali con altre persone, o impulsi emotivi avversi, le persone possono applicare un calcolo razionale e quindi scegliere un’azione in base all’utilità percepita o calcolata.  Comunque esistono diverse teorie su come emozioni e ragione entrano in gioco nelle scelte in generale, e in quelle morali in particolare. Quello che si sta sottovalutando, penso, è il ruolo che le emozioni, che mediano i valori morali, possono giocare nell’apprendimento di comportamenti, che a loro volta retroagiscono sui valori, cioè che possono cambiare nel tempo le predisposizioni delle persone nel rispondere a situazioni identiche o diverse. In altre parole, le emozioni servono direttamente alla sopravvivenza ed entrano in azione quando è minacciata l’omeostasi funzionale a qualche livello, e quindi servono a premiare o punire i comportamenti appresi sulla base della funzionalità che manifestano. Ma questi nuovi comportamenti possono far scoprire nuovi valori, cioè trovare premianti strategie diverse da quelle prevalenti nella società, e quindi modulare le emozioni originarie, evitando che gli impulsi emotivi inducano risposte non calcolate e che potrebbero essere deleterie.  In fondo, dato che noi occidentali sul piano genetico siamo praticamente uguali agli altri gruppi umani, qualcosa del genere potrebbe spiegare come ci siamo affrancati moralmente e politicamente da schemi decisionali tribali od oppressivi.   Credits to Unsplash.com Parliamo del legame tra violenza ed evoluzione: qual è il ruolo ricoperto dall’aggressività nell’evoluzione della specie, e quali sono le possibili determinanti genetiche del comportamento aggressivo?   L’aggressività, come la cooperazione, è stata un fattore chiave per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie. Come tutti i tratti, l’aggressività è polimorfica e quindi ci sono persone geneticamente più predispostedi altre all’aggressività.  È verosimile che la selezione sociale abbia col tempo reso più vantaggiosi i geni della cooperazione in alcuni contesti ecologici, e quindi favorito il processo socio-culturale che nell’età moderna ha ridotto drammaticamente la violenza sul pianeta, e soprattutto nel mondo che ha inventato la scienza e ha abbracciato lo stato di diritto. I governi occidentali continuano giustamente la lotta contro la criminalità e la violenza, ma nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi. Steven Pinker ha dimostrato questo fatto in un dettagliatissimo e acuto libro, “Il declino della violenza”.   Nella storia del pianeta non c’è mai stata così poca violenza e aggressività, non solo in occidente ma nel mondo in generale, rispetto a oggi  E per quanto riguarda la differenza di genere? Cosa sappiamo dei rapporti tra cervello maschile, cervello femminile e comportamento aggressivo?     Le differenze di genere nel comportamento aggressivo esistono. Studiando complessivamente l’aggressività di bambini e bambine si è visto che i due generi sono egualmente aggressivi verbalmente, mentre i bambini lo sono di più fisicamente rispetto alle bambine. Nel complesso i bambini sono più aggressivi delle bambine sul piano dell’aggressione diretta. Mentre le bambine sono indirettamente aggressive anche più dei bambini.     Queste differenze, come altre, dipendono verosimilmente da stimoli ormonali nel corso dello sviluppo e rispondono a strategie adattative selettivamente vantaggiose nell’ambiente dell’evoluzione. Il modo in cui maturano il cervello maschile e femminile dipende molto dai contesti e si conoscono diversi fattori ambientali e culturali che influenzano, ad esempio, la violenza a carico delle donne. Ci sono prove concrete del fatto che il patriarcato e la sua istituzione giuridica sono fattori importanti per la persistenza della violenza maschile ai danni delle donne, e del fatto che ridurre il dominio maschile attraverso delle adeguate politiche sociali riduce la violenza maschile e che la cooperazione tra donne riduce la violenza maschile sia contro le donne sia contro altri uomini.        Parliamo ora delle differenze individuali nel controllo degli impulsi…     Non ci sono moltissimi dati, ma uno studio di qualche anno fa ha esaminato cosa avviene nel cervello quando si fanno scelte impulsive, che svalutano una ricompensa ritardata, ovvero come viene rappresentata dinamicamente nel cervello la svalutazione del ritardo quando si sta aspettando e anticipando una ricompensapossibile che è stata desiderata e scelta.     La corteccia prefrontale ventromedialemanifesta uno schema caratteristico di attività durante il periodo di ritardo nel ricevere la ricompensa, oltre a esercitare un’attività modulatoria durante la scelta, che è coerente con la codificazione del tempo durante il quale avviene una svalutazione del valore soggettivo. Lostriato ventrale esibisce a sua volta uno schema di attività simile, ma preferenzialmente negli individui impulsivi. Un profilo contrastante di attività collegata al ritardo e alla scelta è stata osservata nella corteccia prefrontale anteriore, ma selettivamente in persone pazienti, cioè non impulsive. Quindi corteccia prefrontale ventromediale e corteccia prefrontale anteriore esercitano – sebbene ciò sia ancora da chiarire come – influenze modulatorie ma opposte rispetto all’attivazione dello striato ventrale. Ovvero quell’esperimento ci dice che il comportamento impulsivo e l’autocontrollo sono collegati a rappresentazioni neurali del valore di future ricompense, non solo durante la scelta, ma anche nelle fasi di ritardo post-scelta.  Cosa può voler dire tutto questo per il nostro discorso? Mi lasci citare ancora Spinoza, per il quale è «libera quella cosa che esiste e agisce unicamente in virtù della necessità della sua natura». La vera libertà, è autonomia e indipendenza, non arbitrio o scelta indeterminata. Quindi si è tanto più liberi e non soggetti a impulsi, quanto più alcune strutture del nostro cervello, altamente connesse e addestrate dall’esperienza, lo rendono autonomo e meno soggetto o costrizioni esterne.   Credits to Unsplash.com Quali sono le possibili influenze delle disfunzioni cognitive e dei fattori ambientali sulla capacità decisionale (anche ai fini dell’imputazione penale)? Può condividere con noi qualche caso di studio?   Casi di studio ce ne sono diversi, ma quelli al momento più esemplari riguardano gli effetti delle varianti alleliche del gene della monoaminossidasi A (MAOA), detto anche “gene del guerriero”, in quanto collegato all’aggressività su basi osservazionali mirate. In sostanza le persone con la variante che produce meno MAOA rispondono in modi più aggressivi e violenti, rispetto a chi esprime livelli più alti.  Il fatto interessante è che se queste persone predisposte all’aggressività sono state allevate in ambienti accoglienti, esprimono un’aggressività minore rispetto a omologhi genetici cresciuti in famiglie disagiate. Anche dati sperimentali in ambito psicologico e di economia comportamentale dimostrano che le aggressioni hanno luogo con maggiore intensità e frequenza, quando provocate in un contesto sperimentale, soprattutto in soggetti con una bassa attività di MAOA (MAOA-L). Gli studi sperimentali mostrano anche che il MAOA è meno associato con la comparsa dell’aggressione in una condizione di bassa provocazione, ma predice più significativamente il comportamento aggressivo in una situazione molto provocatoria.  Esiste ormai una letteratura sterminata anche sui casi di persone con anomalie morfologiche e funzionali dell’amigdala che regolarmente esprimono un profilo sociopatico, ovvero che non provano emozioni negative quando provocano sofferenze in altri individui. Si conoscono inoltre casi di tumori cerebrali o lesioni neurologiche che alterano la personalità individuale, e non poche persone hanno commesso crimini in quanto un tumore cerebrale ha alterato le loro capacità decisionali.     La memoria del testimone: in particolare, come si accerta l’attendibilità della testimonianza e quali sono i principali metodi di verifica?  Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria: interrogatorio/confronto, testimonianze, ricordo dei giurati al momento di discutere il verdetto. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Gli stati emotivi influenzano la qualità della memoria. La nostra storia personale influenza il modo in cui ricordiamo. Gli psicologi e gli esperti studiano soprattutto il problema della testimonianza oculare, perché in ben tre casi su cinque le identificazioni si rivelano sbagliate.  Esistono diversi metodi di controllo/verifica e volti a ridurre gli errori nelle testimonianze. Uno di questi analizza per esempio l’accuratezzadella testimonianza oculare e delle modalità di interrogatorio del testimone, per arrivare a una probabilità relativa al caso.   Il sistema giudiziario si fonda sulla memoria. Ma la memoria umana è falsata: il cervello non è una videocamera né un computer. Siamo suscettibili a false memorie.  Esiste anche un diritto alla riservatezza per i nostri ricordi. Nel senso che se io non intendo comunicare a qualcuno un ricordo, ho diritto a tenerlo per me. Un giudice deve avere forti ragioni per forzare l’accesso alla mia memoria, ed è comunque tenuto a rispettare i miei diritti fondamentali se ci prova. Se davvero si riuscirà a costruire affidabili brain lie detector, macchine della verità con accesso alle memorie cerebrali, si configurerà un problema sul fronte di normare i limiti del diritto di un giudice far rilevare impronte mnestiche del nostro cervello, i ai fini di un’indagine processuale. Non tanto per la riservatezza del dato di interesse, cioè se un imputato o un testimone mentono o dico la verità nel caso in specie, ma per il fatto che quell’accesso può rendere noti dei fatti che non hanno rilevanza con l’indagine e che potrebbero danneggiare la persona.  Inoltre, alcuni farmaci e tecnologie possono potenziare la memoria individuale. Ebbene, sarebbe lecito consentire a o incentivare alcuni attori del procedimento giudiziario (giudici e giurati) a potenziare le loro memorie ai fini di un più efficiente funzionamento del sistema?     La morale ha, o potrebbe avere, un fondamento biologico?  La morale ha un fondamento biologico. La morale serve a tenere insieme i gruppi umani sociali, e ha creato le premesse sociobiologiche per l’affermarsi della religiosità quale sistema di controllo incorporato nelle persone e alimentato socialmente per garantire che i valori morali adattativi in società meno complesse delle nostre siano mantenuti e trasmessi.     In prospettiva: quali sono a suo avviso i possibili intrecci tra acquisizioni neuroscientifiche e diritto penale? Quale impatto potrebbero avere sugli attuali meccanismi di attribuzione della responsabilità e di applicazione della pena?  Su questo punto la penso come chi ha detto che con l’arrivo delle neuroscienze, nel diritto, “cambia tutto e non cambia niente”[1].  Vale a dire che il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali. Mentre si potrebbe affermare un concetto consequenzialista(utilitarista) della concezione della pena, più vicino al diritto positivo.   Il concetto di libero arbitrio e quello intuitivo di giustizia come retribuzione (caratteristico del diritto naturale) sono destinati a essere abbandonati, perché privi di basi teorico-fattuali  In Italia, come vengono accolte dalla magistratura le evidenze neuroscientifiche? E a livello internazionale?      L’Italia è all’avanguardia, se così si può dire, nell’uso di prove neuroscientifiche in tribunale. Due sentenze in particolare, Trieste 2009 e Como 2011, riconobbero il ruolo causale di tratti neurogenetici nel comportamento delittuoso, e di conseguenza attribuirono uno sconto di pena.  Le sentenze italiane sono state accolte con allarme in diversi contesti internazionali. Ma c’è poco da fare: se queste conoscenze e tecnologie acquisiranno una base sperimentalmente solida e consentiranno di prevedere con buona attendibilità le predisposizioni a commettere reati, è inevitabile che entreranno a far parte dello strumentario di lavoro dei giudici.  Tuttavia, esiste un’ambivalenza in Italia, come in altri paesi, verso l’uso delle prove neuroscientifiche. Intanto in Italia non tutti i giudici hanno ancora chiaro cosa sia una perizia neuroscientifica e ignorano criteriepistemologicamente validi e formalmente definiti per scegliere periti che apportino davvero prove scientifiche e controllate nel contesto di un dibattimento processuale. Ciò sebbene la Cassazione abbia in sentenze recenti fatto proprio lo Standard Daubert, che elenca regole di ammissibilità delle prove nei processi statunitensi.  Inoltre, si tratta comunque di definire cosa implica una diminuita imputabilità per colui che commette un reato, in quanto le sue azioni e decisioni dipendevano dal modo di funzionare del cervello e dalla sua dotazione genetica. Questo individuo è meno libero di altri e quindi anche meno responsabile, e quindi le sanzioni dovrebbero essere volte a ridurre al minimo le probabilità di reiterazione del o dei reati.  [1] Il riferimento è al noto scritto di J. Greene, J. Cohen, For the law, neuroscience changes nothing and everything, in Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci, 359, 2004, pp. 1775 ss. Gilberto Corbellini. Keywords: Dawkins’ selfish gene – read selfish gene – medicina in Roma antica -- evoluzione, emergentismo, biologia filosofica, grammatical del vivente, cooperazione, altruismo, razionalita, utilitarismo, darwinismo sociale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corbellini” – The Swimming-Pool Library.

 

Cordeschi (L’Aquila). Filosofo. Grice: “Cordeschi is fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo.  Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma: Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando); “Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e “selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli; “Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca, SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. CVecchi problemi filosofici per la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale” (Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e macchine intorno alla cibernetica. Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone, E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il Novecento,  3, Milano: Garzanti); Somenzi, V., La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine); Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti,  5, Milano: Marzorati, Turing. In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti,  5, Milano: Marzorati: Significato e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale: Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente, linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Margaret Boden. L’evoluzione dei calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno Internazionale di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del concetto: il neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della Filosofia Italiana; La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”. Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della psicologia, 2. Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi N. (1980), a cura di. Gli studi di psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Editori Riuniti); Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz: esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana); Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente, quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali (la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni, una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione. La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita (impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e  il concetto piu generale di segno in IA classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel 1999). 12 Detto in breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità, ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una introduzione all’argomento, si veda (Di Francesco 2002). 13 Per pattern si intende, come sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica, che può essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica, registrazione, cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse reazioni (si vedano i volumi 17 e 18 di Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo  sistema che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie. Processi tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per esempio, nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni “relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system (che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego- larità dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen, che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso, i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da tale interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono rappresentazioni interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non banale: l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli, i quali sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori che evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica. Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche? denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del ro- bot. Per quanto diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica- elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione funziona- le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali con il mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria, l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte” intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più “basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore, nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co- gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik, che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle  Simon e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente. Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica, molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso, le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva. L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi, rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”, o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione “di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”. In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni, regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze, aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea, non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi elementi, i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento, la formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie, nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson (1986) sono invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente “direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente” viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’ evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell 1980).  aspettative pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i propri pre- concetti” (Simon 1973: 199). Di norma, dunque, l’informazione considerata dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative, generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione (la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno, ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar- mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare, la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a sinistra”. Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi, dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede- re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente. Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’ tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, [...] una rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords: Croce, sperimentalismo italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale, filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library.

 

Corleo (Salemi). Filosofo. Grice: “Corleo is a genius --  His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”.  Durante la spedizione dei mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di Salemi.  Altre opere: “Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo (S non e P), giudizio condizionale (Si p, q), giudizio tetico (S e P), giudizio ipotetico (Si p, q), giudizio disgiuntivo (p o q), e via via ; poichè ,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto (S e P) o negare un predicato ad un soggetto (S non e P), e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale (S e P); onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di “triangolo” e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra di lor , senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i particolari si presentano con caratteri di necessità , empirico se si presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come Porfirio e Boezio, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici , conchiudendo dal generale al particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second , si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto particolare e gli altri dello stesso genere , alla loro totale identità. Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente, perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali ad altre parziali, o peggio, ad altre total , senza assicurarne la totale identità . rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse, non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni, non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica, e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea, come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio . Nello stesso modo, un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gli errori di esperimento si correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne occupano. Gli errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità : così soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli che non convengono ; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo ; ed in ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica , duce il Locke, aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee , all'oggetto di non ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza , necessità , universalità ed assolutezza , con cui s'impongono. La disposizione che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante la regola della doppia identità parziale e totale . Onde il vero metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità , e se non mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare , senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee . Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde , in vece della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee , diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime , e sopra tutto delle idee morali , col preteso stato naturale e col contratto sociale . Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi , le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti , visto l'inte lice esito dell'esame , son tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione , sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune) ; sia supponendole forme assolute del pensiero  quidquid recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ) ; sia riputandole innate e facienti parte del nostro intel letto , almeno in una prima idea fondamentale , quella dell'essere (*scuola rosminiana*) ; sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart) ; sia credendole comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*) , o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia ( scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni , o a dogmi , per dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse , nei loro attuali elementi costitutivi , adducendo a prova della impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici , i quali ebbero bensì il buon volere , ed anche la presunzione dell'esame , senza mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze . Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, =  uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’ simile, 1 identico, ^ identico parziale, ? dubbio, 000 connesso, (II) in contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico, ?- non dubbio cioè riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso, percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A :, ovvero secondo chè sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due formole: 10 AA ? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B ? A A ? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1 -?- ; 2º Aja ?, l'elemento a fa parte dell'idea a _ ?. o della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde ? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^( )( )( ). Con le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $ 56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici? Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due, o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò, lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione, anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec . Vi sono poi delle parti di percezioni che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’ “onore”,  il “dovere”, ec . Cosi anche e il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec . É in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno, particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice (“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa, come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”, “amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio (di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo nella sintesi,  nell’analisi e nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti. Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione, fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al linguaggio , e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico , e porrò così il quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò , essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta. Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile: nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”), il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio  non mi credo autorizzato a dare una soluzione diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori, e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente, naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --, quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico, assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare* (transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato, segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti. Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’) i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta (l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare, i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale --  che costituisee la communicazione e la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo “o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna, signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene , e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo bisogni , la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti , debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere , il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente , quindi è che tutte le parole indicanti modd lità , quantità e relazi ni, conie gli avverbii , le preposizioni , le congiunzioni, gli aggettivi , ec . non sono riduttibili al solo verbo essere , nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè , ed han continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi, si è appunto questa , che quando si annunziano ad altri cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante maniere sa  metterle in relazione fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione) , è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’) , a cui mano mano un emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente, quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che propriamente esprima ciascuno dei segni , che essi adoperano per indicarle . Ma il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni , e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso . Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità, perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni (perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza scientifica , ma quanto sono rigorose , tanto son più fredde , poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione sostanziale, l'azione sostanziale stessa , ed il suo oggetto, non van sempre in ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema: l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro , i quali adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Simone Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione adulto-bambino, il vocative “o” emesso sense intent communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.

 

Cornelio (Rovito). Filosofo. Grice: “I love Cornelio – he has a gift for titling his treatises: gyymnasma!” “My favourite of his gymnasmata is the one on what he calls the ‘generation’ of ‘man’ – in Roman, ‘homo’ is said to come from mud, humus – and this is strange because Prometeo created man out of mud – In Rome, the more Catholic your philosophy is, the more ‘Aquinate’, as it were, the less Hegelian and Platonic – so trust an Italian philosopher to believe in the Graeco-Roman myth of the ‘generation of man’ than the story of Adam’s spare rib, etc.!” Si forma alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche diTelesio, molto studiato nei salotti. Studia a Roma, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane. Conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo tutore Severino. Insegna a Napoli, portando la filosofia di Cartesio e di Gassendi. Nel “Pro-gymnasmata physica” sono esposte la sua teoria filosofiche. Altre opere: “Pro-gymnasmata physica”; “Epistola ad illustriss. marchionem Marcellum Crescentium”; “De cognatione aëris et aquae”; “Epistola Ad Marcum Aurelium Severinum”. Dizionario biografico degli italiani. INDEX EORVM, Quæ in hoc volumine continentur animalium conformatio ex inspectione er ex aque, ac terre expira ouorum percipi facile patest  tionibus ætheri permiftis con animalium ex semine conformatio de stituitur scribitur aer ob vsum respirationis recentari de animalium pars primigenia non iecur neque cor, neque fanguis ter præter modum diſtraktus aut com animantes exſectis teftibus quandoque preffus vite animalium & ignis con filios generant. fernationi inutilis antiquorum varix de.rerum initijs opi aer nisi vaporibus aqueis permiſtus re niones spiritioni inutilis apoplecticorum & ftrangulatorum aer infra aquam demerſus à fuperftan mitis est exitus tis aqua pondere comprimitur Aqua frigore concreta rarefcit, & in ma. Aeris in reſpiratione quis vſus. iorem molem ampliatur. aeris per neceſitas tum ad vitam ani aqua quomodo in vapores foluatur malium tum ad ignem conferuan in glaciem concreſcat dum Aqua fenfu iudice neque contrahi,neque Aeris grauitas diftrahi potest Aeris color caeruleus onde aqua triformis Arris , Aquarum pondus fub eifdem Aquis ineſſe non poteſtnotabilis quanti demerſi curnon ſentiamus. tas aeris Akris compreffio ,ea diſtractio nifi æthere Archimedes ingenj doctrinæque prin admiſſo nequit explicari ceps Aeris ex aqua generatio Ariſtoteles animaduertit in generatione Aztheris ſubſtantia omnino admitten diuiparorum fieri .conceptus ouifor da Alibilis fuccusad cor confluit Aristoteles ab attico platonico philo animalia amphibia cur sub aquis distid fopho notatus si le ſine spiritu viuant Aristoteles cur priuationem inter prin Animalia pulmonibus prædita cur niſi cipia numerauerit reſpiraverint citiffimemoriuntur Aristotelis de loco fententia improba animalia , quæ interclufo fpiritu fiiffa 46 cantur dexterum cordis ventriculum , Ariſtotelis principia diffentanea . pulmones babent multo fanguine Ariftotelis quàm galena doctrina de ge refertos. neratione animalium fanior ar mes tur arteriæin vteros prezrintinm perti mentuan mentes frequentiores , “ ampliores Calor omnis animalium eflà Janguine fiunt Aiteris non moventur à ri pulſifica eiſ- calor nonnunquam diſſimilis nature cor dem à corde communicata, fid ab im pore congregat pulfu fanguinis Calore corpora non femperrarefiunt, Arteriæ omnes eoderntemporis puncto Calore cur omnia diffoluantur, atque li. ab impulſu fanguinis mouentur , tam queſcant que cordis proximefunt, quam quæ à Caloris naturaex Platone explicatur corde longiſſimèabfunt . 129 Cauernæ in quibushomines fuffocantur , arteriarum venarumqueplexus, atque ignisextinguithi' implicatio ibi eße folet vbi fit aliqua Chyli in ſanguinem mutatio quomodo ſecretio fiat. Aſtrologia conieéturalis vanitas Cloylus ad inteſtina de aplies duobus li quoribuspermiſcetur attractioni vulgo tributi motus re vera chylum ounem per lacteas venas trana. pendent à circumpulſione refulſo prodideruntiuniorcs Auftifichs ſuccusper membranas, a Chymix cognitio ad Thyſiologiam illis neruos in partes diffunditur ſirandam perutilis Auftificus fuccus ab Arabibus obfer- chymici magnam cladem galenicæ fa Uatus,fedperperam iudicatus. &tioni attulere cibaria non eo quo ingeruntur ordine Ilis à fanguine in iecinore fecerni B permanentin ventriculo tur cibi pars e ventriculo fiatim elabitur Bilis nõ eſt fanguinisexcrementun antequam integra maſa confefta fue Bilis nutritiumfuccum diluit, & fluxum reddit ciborum concoétionem auctores diuerſa Bilis vtilitas rationeexplicant Brahaus illuftris Aftronomus à predi- cibus in ventriculo quomodo conficia Etionibus aftrologicis abstinuit  Bruni de mundanorum innumerabilitate cibus non à folo calore conficitur sententia refellitur cibus in ventriculo fermentarur Brunus voluminibus ſuis nugas inferuit . Cibus in ventriculo coctus non femper albicat Cibus non detinetur in ventriculo donec Alidorum halituum magna vis in totusfuerit confectus exterendis duris corporibus Cola piſcis cur amphibiorum more diu Calor cæleftis est eiufdem nature , atque tule fub aquis viuere potuerit elemenearis Conceptus omnes viviparorum ouifor culor innatus eftmedicorum inane com mes ſunt Con rit . tur . с Copernicus ab Italis mundani systematis FFelleus, Gʻaqueus humor cuit Condenſatio, et rarefaétiofine tenuiſſima quod ob defluxum bydrargyri inane ætheris fubftantia explicari non po videtur teft F Elle nullum animal caret . notitiam arripuit quibus Copernicus maximus astronomus prædi. chylus diluitur,iterato fæpius circuitu &tiones aſtrologicas improbauit ad inteftina reuoluuntur cor motum non habet à cerebro, fed inſe Fermentatio quid ſit ex Platone, ip, o cietur, cpalpitat Fermenti vis à calore excitatur . ibid . Cordis motus fit ab balitibusin eiuſdem Firmicus reprehenditur lofibras influentibus flamma cur fine pastu permanere ne Cordis motus nõ excitatur àferuorefan queat guinis , vt Ariftoteli, Carteſio pla- Flamma cur faſtigietur in conum , ibid. Fæmina ſubminiſtrat materiam omnem Corpora je inuicem propellere poffunt , ex qua fætuscorporatur non autem attrahere Fæminæ genitura non carent D Feminarumgenitura an aliquid conferat Ifferentis inter conceptus ouip.rros, adgenerationem Fætus vita non pendet à vita matris Dɔny Volumen de natura hominis fætus cum propria tum parentis vi ab utero excluditur E Frigore nonnunquam diſſimilis nature Lectrum quomodofeſtucasattrahat. corpora ſegregantur experimenta ludicra quatuor primum Alenus ab Ariſtotele maximis de orbiculorum in aqua alternatim a rebus diſſentit frendentium , defcendentium Galenus Platonis fententiam de circum secundum orbiculorum in tubo dque pulſione non eſt affecutus pleno fuerfum deorſumque recurrena Galeni experimentum de fistula in arte. - tium ad nutum eius , qui tubi oftium riam immiſa oſtendit arterias ab im digito obturat pulſie fanguinis moueri tertium orbiculorum in tubo retorto Galeni Secta cæpit deficere aſcendentium defcendentium pro Galenice fattioni magna clades d chy paria tubi inclinatione micis eſt illata quartum orbiculorum ex imo furfum galenice medicine summa aſcendentium propter diſtractionein Galilæus de atomis, inani aliter vidé aeris in eiſdem conclufi tur decernere, ac Democritus & Epi Experimentum quo Verulamius probat curus aquam comprimipole eſt fallax Galileus omnium primus physiologiam experimentum Torricelli de spario, com Geometria iugauie Ga Gevens ifotelemaximisde Galilcus aſtronomicarum rerum peritif Hippocratimulta tribuuntur, quecom . fimus improbauit aſtrologicas prædi mentitia funt ctiones" Hobbes fententia de ſubſtantia inter al Galilei Carteſi aliorumque iuniorum rem & aquam media. doctrina phyſicapræftantior quam homo à teneris annisita potefl educari, antiquorum vt amphibiorum more ſub aquisdiu Genituraquid ,vnde prodeato tius viuat Genitura non fit in teftibus Homo incerto gignitur fpatio Genitura in procreatione animalium ef- Hominis genitura non est eiufdem ratio ficientis tantum caufa vim habet. nis cum femine ſtirpium Genitura non eſt pars , feu materia con Hornunculorum generatio à Paracelſo fituendi conceptus : propoſita commentitia eft Genituræ craffamentum oua, & conte Humanusfætus recens formatusmaiu ptus minimè ingreditur Sculæ formica magnitudinem vix fum Geniturepars, quæ efficiendi vim habet , perat oculorum fugit aciem Geniture vis per occultum agit corpora quantumuis denfa penetrat Sanguinefecernere. Ecinorisprecipuum munusest bilen Geometrie Paradoxa nonſemper plyſInanenihil eft . cis diſquiſitionibus aptantur so Ingenia ad philofophandum idonea que Glandulg cur maiores & frequentiores nam fint. in tenellis , & pinguibusanimalibus, Initia rerum naturalium abftrufa. quam in ſenioribus , &macilentis, in omni motu fit reciproca corporum  dla translatio Glandule fecernunt auctificum ſuccum Iuniores multa fulicius inuenere quam à reliquo fanguine Priſci . 4 Glandularum vtilitas . ibid . K Græci curdoctrine ſudijs cæteris natio nibuspræcelluerint probauit aftrologicas predi&tio Grauiora corpora etiam à leuioribus ju . perftantibus premuntur L Grauitas quid L Ac quibus vis feratur' ad mam H mas Hanimalium accuratiſſima. Aruei obſeruationes degeneratione lacervberibus virorum , &virginum frequenti fuetu prolicitur Harueius in obferuando diligētior, qaam Lace papillisrecens natorum extillans .. in iudicando Hippocratis de calore Paradoxum . lac in ventriculo pueri coagulatur Hippocratesanimaduertitfetum in man ' Latte columbs-nutriunt pullos ſuosprin tris vtero alimentum exfugere mis diebus Laa nes Luuleirum venarum nonnulla cum me. Saraicis coniunguntur medicina praua quadam conſuetudina Lamine complanatæ mutuo contactu co . hominibus infimæfortis tractanda re hærentes cur niſi magno conatu diuelli linquitur nequeant Medicina rationalis ſuper falſis hypothe. Lansbergius' excellens Aftronomus à fibus hactenus fuit ſuperstructa predi& tionibus aſtrologicis abſtinuit . Medicina Græcorum continet inanes conie turas & fallaces præceptiones , Lien per flexuojam arteriam craffioren fanguinem excipit Medicina inconftantia, Seftarum va Lien craffiorē & impuriorem ſuccum ex rietas. cibireliquisſecretum ſuſcipit Medicinam pauciffimi Romanorum fa Lienis vtilitas, Arụctura Etitarunt Lumennon eft in rebus, fed fit in ipfo  Membranarum vtilitas, dentis oculo Motus ad fugam vacui vulgo relati pen Luminis naturaexplicatur dent à circumpulſionefuperftantis ae. ris maseratica vis diſimilis elektrick : Mund for printeriplexdifferentia mini . Men Maßarias iuniorum gloriæ infenſus  Mundi magnitudo incomprehenſa. ibid. Materia exqua fætus corporatur eſt al N bugineus lentor ſinailis ouorum albus Aturæ ratio ex ipſa potiusrerum Mathematicæ diſciplinæ fummam inge paranda stü aciem defiderant Naturalis historie cognitio ad Phyſiolo Mathematicarum disciplinarum notabile giam malde necellaria incrementum O Medici latina verba importunèeffutiunt, Bferuatio noua deforaminibus in vt imperitorum plaaſum aucupen . interiorem pentriculi tunicam . : tur biantibus . Medici periculofus, &ancipites morbo- obſeruatio noua de pensatorum ventri. rum curationes inftituunt , culis. Medici perperam diuidunt partes in ſper. Obferuatio noua lenti humoris in ventri maticas,atque fanguineas', culo exiſtentis Medici rationales quam profitentur' , Obſeruatio viarum, que nouum alimentū. ſcientiam omnino ignorant ex ventricnli fundo excipient Medicis familiare eft mutuainter fe ia . Oetimestris partus non minus pitalis Etare conuicia quam ſeptimeſtris Medicorum improbitas Ouiformis conceptus in viviparis habet Medicorum inſcitia reprehenditur, vcram ſeminis rationem Ouum gr Pusega Perguedus nouisobfervationibusfretus R Frisvarijoeleis queriamlitar $ Strguis I i Ouum fæcundum b.abet rationem femi- Ptolemai Copernici, &Brahei mundan nis in ouiparis Systematis pofitiones manca im perfecte Ancreatis ductus vtilitas Pueri cur facilius mathematici effe pof fant,quàm phyſici ,aut politici. 36 Paracelſus d plerifque propter obſcurita- Pulli ex quo generatio defcribitur tem deſertus R opinion Erum natura vix alibi quàm in li Pecquetus obferuationibus quæriſolita bematofin tribuit cordi, non iecinori. Refpiratione cordis æſlum temperari fal sò creditum est Pestilentix confideratio philosophandi ratio inſtituta à noftri fæ Anguis non eſt ſuceus ſimplex , nec culi auctoribus laudatur . tamen continet quatuor decantatos Philoſophia noftris temporibus in liber humores tatem vindicata eft Sanguis in omne corpus per arterias dif Philosophia Cartesii quails funditur Ploilofophiæ ftudium à pleriſque peruer- Sanguis per arterias in membra influen's titur vitalitatem magis , quam nutrimen Philoſoplrorum in definiendis rerum ini. tum infert tijs conſenſus sanguis non calore, motuue liquefcit, fed Phyſiologia parum hactenus adoleuit permiftione tenaifimihalitus pbyſiologia plurimarum rerum cognitio nem , & experientiam requirit Sanguis non fuapte natura caliduseſt , Phyſiologia onde ordienda nec calorem accipit à corde, fed motu, Phyſiologia poteft ex falfis hypotheſibus atque agitatione incalefcit veras naturalium rerumaffectiones Sanguis non in iecinore, nec in corde, vel concludere alio certo viſcere conficitur Phyſiologie obſcuritas onde proficifca . Sanguinis duapartes altera viuifica tera auctifica Phyſiologiæ perfetta cognitio cur defpe- Sanguinis natura admirabilis Eius randa potior pars aciem fugit Phyſiologiam noftre etatis fcriptores Sanguinis motusà corde a præclaris inuentis illuſtrarunt Sanguinis circulationem ab Harueio de Phyſiologiam nemo Geometriæ ignarus fcriptam indicauerant,ante Pizulus Mis aſequitur Sarpa , &Anstress Cefalpinus. Planetarum corpora ad ætheris liquidif- Sanguinem fal coire, &denfere noir par ſui motum circumferripoflunt titur Plato materiam voluit eſſe locum Sapientia illa quam in ætatibus habet ſe weêtus nostræ potius cetati, quins pria e feq . tør . ſeis fcis temporibus debetur Vacuipropugnatores corporis naturam à Semen animalium quidnam fit cx Aris tałtu determinant Stotele P'ene lactea non deferuntomnem fuc Senfus non ea omnia percipit, qua in na. cum alibilem jura exiſtunt Venis la &teis animantesquædam carere Senſu quæcumquepercipiuntur falsò ta videntur lia iudicantur qualia videntur. ibid . Venarum lymphaticarum progreffus, ego Soli nibilſimiliusquamflamma vſus leg. Solem igneum esſe tactus & oculorum Vene meſaraica fuccum nutritium ex teftimonio probat Cleanthes inteſtinis ad iecur Stelliole Encyclopedia Vens meſaraicæ non ſunt deſtinate nú Stelliola nouitate verborum abſtruſe do . tricationi inteftinorum & alui Etrina caliginem offudit Vene vmbilicales maiores ampliorefque Stirpium ex ſemine propagatio compre funt coniugibusarterijs. 88 hendi facile poteſi Ventriculi,& inteftinorum motus  Stoicis materia corpuseffe videtur Vermes in iecinorè, liene,corde,pulmoni Sympathia Antipathiæ & Antiperiſia bus & cerebro animaliū fis inania commenta Verulamius opes ætatemque inter expe rimenta conſumpſit Elefius putauit poße ſpatiumma Vix quibus humores d corpore per aluum gna vi conatuque pacuum fieri . expurgantur Vita hominis in continuata fanguinis Telefiusveteresphilofophos, é precipuè. motione conſiſtit Ariſtotelem exercuit Vitalis halitus in ſanguine existensquo Testes priuerfo corpori robur conferunt . modo percipiatur Vitri denſitatem penetrat hydrargyrus Theologi Hegyptü Deos omnes ex ouo prognatos eſetradiderunt Vniuerſum vnum indiuiduum , atque im Tyndaridæ ex ouo editi mobile Torricelli Paradoxum geometricum Vrina per quas vias in renes, &veficam profunditur . Acuum experimento Torricelli Vvirjungiani ductus vtilitas Vacuum neque mouere corpora poteſt ne Enonis de natura geniture fenten que ne moueantur inbibere Ztia. Grice: “It’s best to represent Cornelio as representing Cartesio – yes, the Cartesio that Ryle attacked! But Italy never had a Ryle, so that’s good!” Tommaso Cornelio. Cornelio. Keywords: pro-gymnasmaton, gymnasmaton, gymnasta, gymnasium, ginnasio, ginnasiale, nudo romano, nudita romana, corpo nudo, snudare, atleta, atletismo, lotta ginnastica, competizione ginnastica, implicatura ginnastica, l’implicatura ginnastica di Socrate, Socrate al ginnasio, implicatura ginnasiale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cornelio” – The Swimming-Pool Library.

 

Corrado (Oria). Filosofo. Grice: “I like Corrado; of course we have the beefsteak, the English do; but Corrado philosophised on the near ‘cibo pitagorico’ a Crotone and produced a philosophical cookbook for the noblemen!” --  Uomo di grande cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il '700 e l'800 nelle corti nobiliari di Napoli, simbolo del suo tempo nella variegata realtà partenopea. Fu il primo cuoco che mette per iscritto la "cucina mediterranea", il primo, a valorizzare la grande cucina regionale italiana.  Scrisse “Il cuoco galante”, definito all'epoca un libro di alta cucina, testo richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell'epoca, e ristampato per ordini del principe per ben 6 volte.  Preparava elegantissimi banchetti in principio alla corte di Don Michele Imperiali Principe di Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, dove coordinava un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi e preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata.  Figlio di Domenico e di Maddalena Carbone. Rimasto orfano per la morte del padre, ancora adolescente, divenne paggio alla corte di Michele Imperiali che era Principe di Modena e Francavilla Fontana, Marchese di Oria e Gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie, che lo condusse a Napoli dove risedette per diversi anni. Appena maggiorenne, entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini nel convento di Oria.  Dopo l'anno di noviziato, fu chiamato dal Superiore Generale De Leo nella residenza napoletana di San Piero in Maiella, dove si specializzò negli studi di filosofia. Dallo stesso padre generale fu avviato, anche, allo studio delle scienze naturali e dell'arte culinaria, per la quale divenne famoso. Non diventò mai sacerdote per cui, dopo la soppressione degli ordini religiosi si stabilì a Napoli, ove risedette per oltre cinquant'anni, insegnando la lingua francese ai figli delle famiglie aristocratiche della città, pubblicando contemporaneamente molte sue opere che gli diedero successo e notorietà. Per i molti impegni che ebbe a Napoli, non tornò più ad Oria, anche se non mancarono momenti di nostalgia per la lontananza dalla sua famiglia e dalla sua città natale.  Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di "Capo dei Servizi di Bocca" (antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all'organizzazione dei banchetti) di Palazzo Cellamare, sito sulla collina delle Mortelle prospiciente il golfo di Napoli e della famiglia del Principe, poiché molti illustri personaggi di un certo livello e rango, che venivano a Napoli, invitati a mensa poterono constatare la fama di questa opulenta ospitalità più spagnolesca e tipicamente partenopea che era in uso al tempo.  Parlando del suo lavoro Vincenzo Corrado così si esprimeva:  «L'abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini d'arte, saggi e probi. Questa mastodontica organizzazione, era guidata proprio da lui. Alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, di dissodare e di trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi, rispettando la gerarchia allora in uso, lavorava secondo la propria specializzazione (oggi le grandi cucine dei Ristoranti hanno i cuochi di rango) : vi era il cuoco friggitorie, quello per le insalate, il pasticciere, il bottigliere e il ripostiere. Tutti questi erano aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a seconda degli ospiti del Principe preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata. Egli stesso ci descrive queste splendide composizioni con pregevole gusto e raffinatezza, lasciando, anche, delle visioni grafiche. Gli elementi decorativi della tavola erano affidati al maestro ripostiere che usava gusto artistico e genialità: grandi vasi in porcellana ricolmi di fiori variopinti, alzate di cristallo e argento a tre o quattro piani colmi di dessert o frutta o fiori o ortaggi, bianchi gruppi di porcellana raffiguranti scene arcadiche o bucoliche; puttini d'argento; gabbiette dorate con piccoli uccellini cinguettanti; coppe di cristallo di varie fogge in cui guizzavano pesciolini tra foglie di rose ed altri fiori. Il centro veniva racchiuso da una cornice di frutta, di fiori freschi e di ortaggi, secondo la stagione variante, disposti, intervallati da piccole spalliere di agrumi in porcellana con ortolani nell'atto di raccoglierli. La composizione era la sintesi di un artista di provata esperienza, di raffinata fantasia e di vivace estro, capace di accoppiare tanti svariati elementi fondendoli insieme a formare uno spettacolo di gran gusto e di particolare gradevolezza. Il valore del tavolo di gala completato dal vasellame, cristalleria e argenteria di grande pregio era inestimabile. Questo senso artistico, anche, nell'arte culinaria Corrado lo aveva ereditato da un suo antenato letterato di mestiere. Ma per quanto dotato di una cultura autodidatta, di vivacità d'ingegno, di originalità e di una particolare facilità nell'insegnamento, se non avesse avuto la fortuna di conoscere Don Michele Imperiali, che ne coltivò le particolari doti incoraggiandolo a scrivere della sua specifica arte per tramandarla ai posteri, probabilmente sarebbe rimasto un ottimo organizzatore, un appassionato gastronomo, ma la sua fama si sarebbe estinta con lui.  Le opere “Il cuoco galante’. Il primo libro vegetariano della nostra storia. il credenziere: colui che si prendeva cura della credenza. L'opera fu sottoposta a ben 7 ristampe. Prodotta in 7500 copie, Dalla dedica si ricava il leitmotiv dello scritto nonché la filosofia in cui credeva l'autore, che è di questo tenore: il “buon gusto nella tavola” inteso come “sano pensare”. Di questo trattato di gastronomia, il successo fu istantaneo e inaspettato, in quanto la precedente opera gastronomica, La lucerna dei cortigiani, stampata presso Napoli e dedicata a Ferdinando II duca di Toscana, non era riuscita ad attirare l'interesse del pubblico che la trascurò ignorandola.  Invece grande successo ottenne la prima edizione del "Cuoco Galante" che si esaurì rapidamente, tanto che il Principe ne ordinò una seconda edizione che ebbe eguale successo. Intanto Vincenzo Corrado migliorò e ampliò il testo di questa opera e ne preparò una terza edizione.  La fama del libro superò i confini del Regno di Napoli e dell'Italia; infatti dall'estero giunsero richieste da tutti quegli stranieri che avevano conosciuto ed apprezzato il Corrado alla corte degli Imperiali, per cui si pervenne ad una quarta edizione, seguita dalla quinta e infine la sesta pubblicata. Assolute novità introdotte dall'autore erano allora la patata, il pomodoro, il caffè e la cioccolata.  Altre opere Incoraggiato dal successo del Cuoco Galante, il Principe spinse l'autore a pubblicare nel 1778 un Credenziere del buon gusto, del bello, del soave e del dilettevole per soddisfare gli uomini di sapere e di gusto. Egli scrisse e pubblicò inoltre “Il cibo Pitagorico”, “Trattato sulle patate”, “Manovre del cioccolato” e “Manovra del caffè”; “Trattato sull'agricoltura e la pastorizia ed infine, “Poesie baccanali per commensali”. -- è il faro della cucina moderna della nobiltà a cavallo del periodo della rivoluzione francese. Egli privilegia i personaggi di rango in visita alla mensa del principe con opulenta ospitalità. Orbene in questo contesto di sfarzo godereccio, di lusso e di differenze sociali abissali, rimase fin abbagliato dalla nobiltà, la gente ricca e potente, verso la quale nutre sempre sentimenti di grande reverenza se non addirittura di venerazione. Proprio per riconoscenza al Principe, dando alle stampe i suoi due libri, confessa. “Questi due libri che del buon gusto trattano, con la guida e norma scrissi, e pur mercé la tua generosità mandai alle stampe, e tu di propria mano ne *segnasti* il titolo “Il Cuoco Galante” -- l'uno e “Il credenziere del buon gusto” l'altro, tutti e due a te li porgo come frutto di un albero dalla mano piantato. Mio Scopo egli è di richiamare alla memoria dei nobili uomini dei quali tu fosti la gloria l'ornamento alla memoria e la lode. Ah? Ma qual Tu fosti non basterebbe di dire di cento e mille lingue, per cui io stimo meglio il tacere e con il silenzio benedire gli anni che ti fu appresso.  L'organizzazione dei magnifici banchetti e delle cene lussuose gli diedero l'appellativo di “il cuoco galante”. La cosa straordinaria è che dietro gli scenari di un favoloso pranzo o cena vi era una preparazione, quasi orchestrale della quale il direttore era il filosofo. Alle sue dipendenze vi era una vera e propria squadra di addetti alle cucine formata da precettori cuochi e servienti. La presentazione estetica, oltre al gusto, acquista la sua importanza in cucina, ed dedica grande spazio alle decorazioni e al modo di imbandire le tavole dei banchetti. Nell'opera sono anche presentati i sorbetti, in vari gusti, ed il caffè, che, a differenza dall'attuale espresso, veniva bollito in apposite caffettiere.  Precettori un precettore di alloggio e sistemazione posti per gli invitati, un precettore di preparazione dei cibi, un precettore abile con utensili domestici, che aveva la mansione di far provviste e comperare il necessario al mercato per le mense, di dissodare e di affettare ogni tipo di carne o pesce. Chef e Cuochi “Il cuoco friggitore”, il cuoco per le insalate, il pasticciere, il bottigliere, il ripostiere. Serventi lavapiatti, camerieri, maggiordomi, domestici, volteggianti e giullari che intervenivano non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate.  Non era solo una semplice cena, era un vero e proprio spettacolo, fuori dall'immaginato. A volte comprendeva l'utilizzo di 100 persone per altrettanti o più invitati.  I banchetti o le cene con caratteristiche e assortimenti di piatti erano accoppiate con tanta inventiva e particolari astuzie architettoniche ed eleganti al fine di plasmare una scenografia sfarzosa e affinata.  Egli stesso nelle sue opere e nei suoi diari ci descrive queste splendide composizioni culinarie come opere d'arte, quasi uno spreco consumarle. Bicchieri e coppe di cristallo, posate in argento intagliate, tovaglie di pizzo fiorentino, buche e composizioni floreali, piatti in porcellana di Capodimonte  Termini culinari "Il Cuoco Galante", proprio nella terza edizione, alfine di una maggiore comprensione, spiega alcuni termini "cucinarj" usati per la preparazione delle varie pietanze, ne riportiamo un esempio:  Bianchire: Far per poco bollire in acqua quel che si vuole; Passare: Far soffriggere cosa in qualsiasi grasso; Barda: Fetta di lardo; Inviluppare: Involgere cosa in quel che si dirà; Arrossare: Ungere con uova sbattute cosa; Stagionare: Far ben soffrigere le carni o altro; Piccare: Trapassar esteriormente con fini lardelli carne; Farsa: Pastume di carne, uova, grasso ecc.; Farcire: Riempire cosa con la sarsa; Adobare: Condire con sughi acidi, erbette, ed aromi; Bucché: Mazzetto d'erbe aromatiche che si fa bollire nelle vivande; Salza: Brodo alterato con aromi, con erbe, o con sughi acidi; Colì: Denso brodo estratto dalla sostanza delle carni; Purè: Condimento che si estrae dai legumi, o d'altro; Sapore: La polpa della frutta condita, e ridotta in un denso liquido; Entrées: Vivande di primo servizio; Hors-dœuvres: Vivande di tramezzo a quelle di primo servizio; Entremets: Vivande di secondo servizio; Rilevé: Vivande di muta alle zuppe, potaggi, o d'altro.  Pitagora nell’atto, che dalla cattedra nella nostra italica scuola dettava sistemi, che riguardavano quanto mai fosse fuori di esso lui, e di noi per pascere l’animo e l'intelletto, non trascure di sistemare peranche ciò che meglio, e piu opportunamente al nutrimento ed alla conservazione del meccanico nostro vivere conducesse. E però dettando il canone o la legge, come dir si voglia, per la cucina delli suoi mentati, non di *carni* di animali ei ditte quadrupedi, o volatili, o di pelei imbandite vengano le mente di quanti han voglia di più lungamente, e più lanamente vivere, ma soltanto di vegetabili erbe, di radici, di foglie, di fiori. Ebbe cotesso filosofante la somma disgrazia di non essere da ogni filosofo inteso, come sovente la savia donna stobeo sua moglie e espose li g luf'J\ l&- r menti: e com’egli la tras-migrazione dell’anime avesse ingegnata, così dalli silenziari scolari suoi, e da parecchi altri prevenuti da quel di lui fatto sistema si divieta del cibo animalesco, e la preferizione del solo cibo erbaceo furon pref nel sinistro senso di una supertiziosa venerazione , cK egli aveffe per l’animale, nella macchina del quale l’anima dell’uomo dopo la morte fojfcro tras-migrate. Ma ’ che chefané di ciò, egli è indubitata cosa , che il cibo erbaceo fallo più confacenti all’verno, per cui vedef la più parte dei Naturalifi a quella opinione indicimata, che l'uomo naturalmente non è carnivoro. E se noi ponghiamo mente al parlare dell’antica filosofia, rilevaremo con tutta chiarezza che le frutta della terra defluiate vennero al nutrimento dell'uomo, e che sopra del pesce, dell’animale terrestre, e del volatile n eh he lo fie[fio uomo soltanto il domini ; Jlcchè l efifierfii poi dati alcuni uomini ad alimentarsi di animali j'offe fiata una necessità di alcuni luoghi, oppure un lusso! Non senza ragione quindi la italiana gente, ansi avvedutamente oggi più che in altro tempo la legge pitagorica ha ripigliata ad oficrvare con tutto impegno nella cucina del filosofo galante, e nelle mensa: e le nazioni anche più culte, che da Italia sono lontane, han preso il gufo di dare al corpo nutrimento più sano, gusiosso, e facile per mezzo dell’erba. Ed ecco perciò tutta la scuola cucinaria pofia in movimento per inventar un nuovo modo a poter preparare e condire l’erba per mezzo di altri fingili vegetabili, onde non solamente grato al palato si renda il semplice pitagorico cibo, ma eziandio pofia sioddisfarsii al lusso nell' imbandire laute Menfie da filmili siempìicità compofie. E quesio è il fine della mia filosofia, difiefio , ed a comune uso e utilità. Vero egli è, che non tutti li vegetabili dei quali ferie preferìve qui la preparazione filano li più perfetti, e giovevoli ai nutrimento nostro. Ma ciò ha dovuto farsi per accomodarsì af gufo comune, ed alla moda presiente della tavola fu ,di che qualunque Aristarco non avrà che opporre. Nella mia filosofia volendosi imitare la filmile semplicittà della materia del soggetto, con sempiice e chiaro discorso si da la pratica come ogni erba italiana dando il suo proporzionato condimento con fughi di carne, con latte Animali, e di fórni, con butirro, con olio, con uova , e con altr’erbe odorifere e gusiofe debano preparar f . E intanto per a et tare, ad ogni articolo alcuna cosa verrà premefi , che rifguarda la natura, e le virtù del vegetabile di cui fe ne voglidn preparare la vivanda. E già qui fiegue in prima, la maniera di far i brodi, i  coli e le buri neceJTarj pel condimento: ed in secondo luogo h nòta del vegetabile del quale nella mia filosofia fe ne preferivo il modo di prepararli: avendo io in ciò fare procurato di mettere in J'alvo anche il Injjo nell' imbandire con simili generi una mensa di formalità e gala, e nel tempo Jìeffo di soddisfare il gusto delicato dei nobili, e di provvedere alla conservazione dell’utterato . INDICE: Velli Brodi, Coli , e Purè p. I Velli Coli a Velie Purè i tutta la c minarla prepa- ragione de’ vegetabili, Lattuca, Spinaci, Cavolo Cappuccio , Selleri, Zucca, Zucca lunga ia Delle Zucche Vernine ivi Cavai fiore Finocchi Iudivia Cardoni Cavoli Torgi Carciofi Broccoli Boraggine Senape Cipolle ivi Rape Ravanelli CicoriaPetronciane Pafiinacbe Pomidoro Cedriuoli Peparoli Pifelli Sparaci Raperortzpli Velli Ceci Fave Faggioli 3^ De//** I-enfe 39 Funghi Tartufi Erba per condiment, Maggiorana, Targone, Pimpinella, Santa Maria Crefcione Origano Timo Acetofa Salvia Menta Cerfoglio Porcellana Bafiltco Ruta Sambuco Rosmarino Tralci Vite Zafferano Anafi Cappari Scalogne Dettagli Rafano o Ramolaccio Bettonica Idea dell'ufo delle frutta ivi. Grice: “My favourite chapter from ‘Il cuoco galante’ is the philosophical one, on Pythagoras! I vitto pitagorico consiste l’erba fresca, la radice, il fiore, la frutta, il seme, e tutto cid che dalla terra produce per nostro nutrimento. Vien detto pittagorico poiche Pitagora, com’ è tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso. Pitagora mangia l’erba semplice e naturale, ma gli uomini de’ nostri di li vogliono conditi, e manovrari; ed io nel voler conversare con distinzione dell’erba procuro eseguire l’uno, e soddisfare l’altro, con escludere le carni, e di servirmi del condimento, anche pitagorico, com'è il ſugo di carne, il lasase, le uova, l’olio , ed il burirro per compiacere qualche particolar palato, servirmi pure delle parti più delicate degli animali. Grice: “Oddly, my mother was keen on Mrs. Beeton, I’m keen on Signore Corrado!”  La cucina e la credenza, ad esami parlando, son sorelle gemelle, poichè le due appartengono al buon gusto del cibo, e le due nacquero, cresceron , e s’ingrandirono nello stesso temp , e nella nostra Italia che in altri luoghi, sotto i fastosi e dominanti romani, e divennero tutte e due arti d’ingegno, di piacere, e di utile; ed il cuoco ed il credenziere debbono esser d'accordo nel loro, quantunque dissimile, lavoro. Della estesa ed elevata cucina se n’è discorso abbastanza. Dico abbastanza ma non già al fine; e compimento, poichè ciò accade quando non vi saranno più uomini al mondo. Ora vengo a trattare di quanto la credenza include, e di quanto un credenziere dee esser fornito. E se nel dar l’istruzione per la cucina pensai e scrissi da cuoco, ura collo stesso metodo filosofo da credenziere. Come tale intendo ragionare al dilettante. Procuro di aggiugnere quanto di bello, di buono, e di dilettevole mi ha potuto suggerire la fantasia. Gradisci dunque , o cortese mentato, questa mia fatica, e sappi, ch’io resto soprabondevolmente pagato col piacere di avervi servito. Vivi felice. Vincenzo Corrado. Corrado. Keywords: il cibo pitagorico, il concetto di conversazione galante, gala --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corrado” – The Swimming-Pool Library.

 

Corsini (Fellicarolo). Filosofo. Grice: “I like Corsini; if we at Oxford had a sublime history as they do in Italy, we surely would be philosophising about it! Corsini taught philosophy at Pisa and spent most of his efforts in deciphering what the Romans felt interesting about Greek philosophy!” Grice: “Corsini also explored the roots of Roman philosophy from the earliest times – ab urbe condita,’ as the Italians put it!” Studia nel Collegio dei padri scolopi fananesi, dove in seguito entra quale novizio e  si trasferì nel Noviziato di Firenze.  Le sue capacità lo portarono a diventare docente di filosofia a soli vent'anni presso la stessa scuola. Si trasferì quindi a Pisa dove insegna. Eletto Superiore Generale e dovette trasferirsi a Roma.  I principali campi di studio ai quali si applica furono: la filosofia, la cronologia, l'epigrafia, la filologia e la numismatica ma si interessò anche di matematica, di logica, di fisica, di idraulica, di didattica, di storia e di lettere antiche e moderne. Altre opere: “Illustrazione relativa alle recensioni su De Minnisari e Dubia de Minnisari pubblicate ne gli Acta Eruditorum; “Illustrazione relativa all'Epistola ad Paulum M. Paciaudum, pubblicata negli Acta Eruditorum”; “Ragionamento istorico sopra la Valdichiana” (Firenze); “Index notarum Graecarum quae in aereis ac marmoreis Graecorum tabulis observantur” (Firenze); “De Minnisari aliorumque Armeniae regum nummis et Arsacidarum epocha dissertation” (Firenze); A. Fabbroni, Vitae Italorum...,  Pisis  E. de Tipaldo, Biografie degli italiani illustri,  X, Venezia); Dizionario biografico degli italiani. Elogio di Corsini (con lettere di Fananese a Rondelli). Fanani nianae, quod in ditione est oppidum Ducum provinciae AteftinorumFri, III. Non . Octobris anno MDCCII. natus eft Eduardus Corsinius (Silvestro Corsini) optimis quidem parentibus, honestissimaque familia, quippe quae jamdiu civitate Mutinensi donata fuerat. Is ubi primum adolevit Sodalitatem hominum Scholarum Piarum, quos praeceptores puer in patria habuerat, ingressus est. Multa diligentia, multoque labore in humaniorum litterarum [cf. Grice, Lit. Hum.], philosophiae ac theologiae studiis Florentiae se exercuit apud suos; & cum omnes condiscipulos gloria anteiret, ab omnibus tamen in deliciis habebatur. Erat enim bonitate suavitateque morum prope singulari; & cum plurimuin faceret non solum in excolendis studiis, sed etiam in officiis omnibus religiosi hominis obeundis, minimum tamen ipse de se loquebatur. Vix ferre poterat Eduardus peripateticos quofadam horridos, durosque oratione & moribus, quibuscum versari cogebatur; intelle xeratque jam falsos hujusmodi sapientiae magistros de veritate jugulanda potius, quam de fendenda assidue certantes, philosophiam artem fecisse subtiliter & laboriose infaniendi. Relictis igitur disputandi spinis, ad Academiam se convertit, cujus ratio inquirendi verum libero folutoque judicio, & fine ulla contentio ne & pertinacia non poterat non magnope re probari homini natura leniſſimo. Nec forum in philosophorum libris corum dogmata, quae disputationibus huc & illuc trahuntur, ut ipse per se perpenderet, inveſtigavit Corsii, sed etiam philosophiae adminicula & an ſas, qualem Xenocrates geometriam appellabat, in Euclide, Apollonio & Archimede quae sivit. Quo in itinere felicem adeo habuit exitum, ut fervore quodam aetatis impulsus, břevi condere potuerit libellum de circulo quadrando, quem ad Guidam Grandium mi fit. Novit in eo Grandius eximium & admirabile adolescentis ingenium, eumdemque hortatus est, ut pergeret porro in eo studio, quod ceteris & studiis & artibus antecede ret, & in quo ipse futurus effet excellens. At Corsini praeſertim trahebatur ad humaniores litteras, quibus a puero mirifice dedicus fuerat, quaſque vel in sublimiorum disciplinarum occupationibus, ne obsoleſcerent, legendo renovaverat. Itaque moleste tulit demandatam fibi a majoribus fuisse an MDCCXXIII provinciam tradendi publice Florentiae philosophiam, quasi ad ea detru deretur, quae sui non essent ingenii. Principio sequi coactus est Goudinium, cui brėvi substituit Hamelium. Atque hos auctores sic interpretatus est, ut facile intelligeretur non eſſe ex illorum doctorum numero , pud quos tantuin opinio praejudicata poteſt, ut etiam fine ratione valeat auctoritas eo rum , quos ſequi ſe profitentur . Poftremo · ad ſcholae fuae utilitatem & ornamentum maxime pertinere exiſtimavit , fi e multis , quae ſunt in philoſophia & gravia & utilia a recentioribus praefertiin philoſophis tracta ta , quantum quoque modo videretur deli geret, in quo adoleſcentes exerceret . Sa pienter etiam faciebat, quod ipſos non ſolum quibus luminibus ab illa omnium laudanda rum artium procreatrice Philoſophia petitis a mentem illuſtrare , fed etiam quibus virtuti bus omnem vitam tueri deberent fedulo e rudiebat . Quare minime eſt mirandum fi in tantam claritudinem brevi pervenerit, ut fuis & Florentinis vehementer carus , quibuſdam vero hominibus nudari ſubfellia ſua , & cor nicum oculos configi dolentibus eſſet invim diofifſimus. Fuerunt & nonnulli ( tantum in vidia , aut inſcitia potuit ) qui apud eos , quorum munus eſt providere , ne quid er roris in religionem moreſque irrepat , Corſi nium accufarunt , multa illum tradere , in exponendis praeſertim Gaffendi & Cartefii ſententiis , a recta religione abhorrentia . Stomachatus eft homo religiofiflimus , caftif fimuſque obtrectatorum temeritatem . Hos ve ro ut falſae & iniquae inſimulationis publi ce convinceret , utque ab omni metu diſci pulos fuos liberaret , ftatuit in lucem profer re , quae in ſchola & domi iiſdem expoſue rat . Quod cum praeftitiffet , id evenit, ut alteros reprehendiſſe poeniteret , alteri fe di diciſſe gauderent . Inſcripfit opus : Inſtitutio nes philoſophicae ad ufum Scholarum Piarum , & illud in quinque volumina diſtribuit si ma mum continet hiſtoriam philoſophiae & lo gicam ; ſecundum verfatur in indagandis prin cipiis , & tanquam feminibus unde corpora funt orta & concreta , horumque proprieta tibus & qualitatibus ; agit tertium de cor poribus inanimatis , quae caelo , aere , ri & terra continentur ; examinat quartum animata corpora , multipliceſque eorum fpe cies, & elementa metaphyſicae tradit ; quia tum denique morum doctrinam complectitur. Nec folum in conficiendis his libris res no vas inveſtigavit Corfinius , fed etiam eas , quae funt ab antiquis traditae , quarum co gnitionem eo utiliorem putavit , quod faepe. philoſophos nova proferre judicamus , cum pervetera proferant . Praeter quam quod in ea erat opinione Corſinius, illi , fitum eſt veritatem invenire , fingulas nofcen das effe diſciplinas , ut ex omnibus , quod probabile videri poſſit , eliciat , praeſertim cum doceamur a ſapientiffimis viris , nullam fectam fuiffe tam deviam , neque philoſopho rum quemquam tam delirantem , qui non vi derit aliquid ex vero . Nec modo quid fibi probaretur , fed aliorum etiam fententias , & quid cui propo quid in quamque ſententiam dici poſſet, pera fecutus eſt, quod ea modeſtia praeſtitit , ut : non vincere maluiſſe , quam vinci oſtende- . rid . Hanc opinionum varietatem ex fuis fone tibus fincere deductam , ut potentius in die fcipuloruin animos influeret, non modo ora , vine diſpoſuit ., ſed etiam claritate & nitore, Latini ſermonis illuſtravit . Praeclare enjin , Cicero : mandare quemquam litteris cogitationes fitas , qui eas nec difponere poffit , nec illuftra-: re , nec delectationé. aliqua lectorem allicere , hominis est. intemperanter abitentis otio & like cris . Sunt nonnulli qui in hiſce. Insitus, rionibus dum pleniflimo ore laudant ima menſam prope eruditionis copiam ,, politio remque elegantiam , quibus ornantur, defide; rare videntur abditiorem 'reconditioremque tractationem earum rerum, quae primum ii) phyſica tenent locum , quales ex. gr. ſunt Trotus., Newtoniana' attractia , harumque lo ges, non tam .ut ceteros, quam ut ſe ipſum , qui nunquam adduci potuit , ut Newtoni fententiae affentiretur, convinceret . Sed ii meminiſſe debent quibus ſcripſerit:Corfiniusi, hribuſque temporibus ſcripferit. Quoniam ve Tom . VIII to plurima ſunt in phyfica , quae fine 'gea metriae ope tractari non poffunt , hoc quo que adjumențum a fe afferri oportere diſci pulis ſuis putavit . Itaque Philoſophicis Ma thematicas Institutiones adjecit , in quibus fi ordinem excipias ( initium enim facit a pro portionibus , quas nemo ignorat difficillimam effe geometriae partem ) cetera ſatis belle procedunt. Neque multo poft retexuit hoe ipſum opus , in quo eo elaboravit attentius , quod fperabat aditum fibi facturum ad mu nus tradendi mathematicas diſciplinas in Ly ceo Florentino . Acceptum illud cum plauſu fuit propter dilucidam brevitatem atque ele gantiam , licet in eo acutiores peritioreſque geometrae pauca quaedam jure ac merito teprehenderint. Praeſtantiam , quam conſe cutus fuerat Corſinius in rebus geometricis, yoluit ad hydroſtaticam transferre; cumque fedulo evolviffet quae in ea facultate ſcris ptis mandaverant poft Galilaeum Torricellius, Michelinius , Guglielminius , Grandius , alii. que pauci , in ſcenam prodire non dubitavie fuftinens perſonam non modo conſiliarii & arbitri de dirigendis avertendiſque aquis , ſed etiam ſcriptoris. Etenim ex ejus officina prow diit liber , qui infcriptus eft : Ragionamenti intorno allo stato del Fiume Arno e dell' acque della Valdinievole , quique editus fuit fum ptibus. Marchionis Ferronii , cujus cauffam praeſertim defendebat . Spe dejectus Eduar dus perveniendi in Lycei Florentini docto rum numerum , qui praeter modum iis tem- . poribus. creverat , animum ad Academiam Piſanam convertit , petiitque dari ſibi va cuum eo tempore logicae interpretis locum . Celeriter quod optabat impetravit , propte rea quod Joannes Gaſto Magnus Etruriae Dux eximiam illius ſcientiam in omni re philo ſophica cognoverat .. Vir non tam doctrina praeſtans, quam docendo prudens ( etenim quaedam etiam ars , eſt docendi ) magno erat emolumento ſtudiofis adoleſcentibus , qui non uſitata frequentia fcholam illius celebrabant . Cum vero de fchola in otium folitudinem que ſe conferret , tempus potiffimum conſu mebat in augendis . perficiendiſque ſuis Phi lofophicis Institutionibus , abſolvendoque , quod inſtituerat , opere de Practica Geometria . Ins ter haec magna fuit amnis Arni inundatio , F 2 84 EDUARD US ut fi inundationes excipias , quae annis MCCCXXXIII. & MDLVII. acciderunt, nul lam unquam majorem fuiſſe conſtaret . Pere vaſerat opinio per animos Florentinorum huic luctuofae calamitati cauſſam praefertim dediffe Clanis aquas in Arnum deductas , & quae ad eaſdem moderandas aquas facta fue rant opera . Hunc errorem ut eriperet Edu. ardus , utque perſuaderet eadem opera fuiſſe utiliffima ac faluberrima , libro expoſuit qua lis fuiſſet , & quis eſſet ſtatus Claniae val lis , quidque conſultum & actum ab anno MDXXV. ad fua uſque tempora , ut peſti lentiſſima regio convaleſcere aliquando & fa nari poſſeti, utque controverſiae inter finia timos Principes de dirigendis aquis ejuſdem regionis tollerentur . Piſis erat Corfinio con tubernium cum Alexandro Polito , qui hum maniores litteras profitebatur , cujuſque vi tam ſupra explicavimus . Hominis Graecis & Latinis litteris eruditiffimi exemplum & vo . ces , ſelectiſſimorumque librorum copia , qua is abundabat , Corſinium per fe jam flagran tem vehementiffime incenderunt ad eas ar tes , quibus ab ineunte aetate deditus fuer GO RS IN I UŚ. 85 rat , celebrandas . Sciebat Graece , cujus ſermonis elementa juvenis Florentiae acce perat a ſodali ſuo Franciſco Maria Baleſtrio , fed non luculenter . Itaque multo ſudore ac labore in arte grammatica primum ſe exer euit , poftea Graeca multa convertit in La tinum , Graecorumque libros & eos pracſer tim , qui res geſtas & orationes ſcripſe runt , utilitatem aliquam ad dicendum aucu- | pans, ftudiofiffime legebat . Cum vero ei eſſet perſuaſum ingentes ac prope immenſos cam pos illi proponi , qui eloquentiae ceterife que humanioribus litteris vacare cupit , acom mico hac de re aliquando ſciſcitanti reſpon dit: percipiendam ei effe omnem antiquitatem , co gnoſcendam hiſtoriam , omnium bonarum artium ſcriptores & doctores & legendos & pervolu tandos , & exercitationis cauſa laudan.los , in terpretandos, corrigendos , refellendos ; diſputan dumque de omni re in contrarias partes, & quid quid erit in quaque re , quod probabile videre poffit , eliciendum atque dicendum . Hujuſmodi exercitationes, quas diu incluſas habuit, Core finius in veritatis lucem tandem proferre ſe poffe putavit , cum Faſtos Atticos illustrandos fuſcepiſſet ; magnum ſane opus & prae clarum , quod omnem fere Athenienfium hi ftoriam complecti debebat , cum qua philo fophiae , omniumque laudatarum artium hi ſtoria arctiſfime eſt conjuncta . Diviſit illud ipſum opus in partes duas , quarum prio rem veluti apparatum Faftorum effe voluit, quod in illa fuſe lateque ea exponerentur , quae commode in ipfis Faftis , ad quos ta men pertinebant , 'exponi haud poffe vide bantur . Agit itaque de Archontum inſtitu tione , numero , varietate , muneribus & re rie , de Archontico anno , atque ordine men fium Athenienfium . Cum vero Archontigiis annus non in menſes ſolum , ſed in Pryta nias etiam diviſus eſſet , ac Tribuum Athe nienfium fingulae aequali temporis , annique parte Prytaniae munere fungerentur , de ie pſarum Tribuum ac Prytaniarum numero , ordine ac ſerie , deque Atticae populis , ex quibus illae conſtabant , eruditiſſime differit . Neque ab his ſeparandam putavit tractatio nem de Athenienſium Senatu & Ecclefiis , dcque Proedrorum , ac Epiſtatum numero , diſtinctione & officiis. Tranſit inde ad contexendam Archontum ſeriem diſtinguens eponymos a pseudeponymis . Quam diſtinctio nem licet nonnulli agnoverint , nemo tamen exſtitit , qui Pſeudeponymorum Archontum feriem illuftrandae Atticae hiſtoriae maxime neceffariam recenſere tentaverit . Agit de mum de civilibus Graecarum gentium annis, ipfarumque menfibus, cyclis atque periodo, cum antea declaraſſet tempus , verumque di em , quo varia Athenienſium feſta peragi & redire confueverant . Id facere neceſſe fuit propterea quod eadem fefta , veluti perſpi cuae certaeque temporis notae, rerum gefta rum memoriaé ſaepiffimè a ſcriptoribus adji ciuntur . Haec quidem in priori operis par te . In fecunda vero Fafti exponuntur a pri ma Olympiade , qua Coroebus palman retus lit , uſque ad Olympiadein cccxvi. Cauffa fuit juſta Corſinio praetereundi antiquiora tempora , quod iſta laterent craſſis occultata tenebris , & circumfuſa fabulis . Ne tamen primam Athenienfis imperii formam deſpice. re videretur (nam Athenis initio Reges , inde perpetui Archontes, mox decennales , tandemque annui imperarunt) qui Reges & Archontes perpetui , & qua aetate fuerint in Prolegomenis perſecutus eft. Ceterum Fa. ftos fic contexuit Corfinius, ut nullum ad nos pervenerit nomen Archontum , Olympioni čarum & Pythionicarum , nulla lex , neque pax , neque bellum , neque caſus neque res illuſtris & memoranda populi Athenien fis , quae in iis ſuo tempore non fit notata . Interdum etiam attigit Spartanorum , Phoceli fium , Thebañoruin , aliorumque Graecorum gefta , conſilia , pugnas , diſcrimina , quod ca maxime ſint Atticae hiſtoriae conjuncta . Grae Cos vero philoſophos , poetas, oratores , cete roſque tum pacis, tum inilitiae artibus claros viros ita commemoravit, ut quibus Olympicis annis, & quo loco in lucem fint editi , vitam que ' finierin't intelligi poffit. Atque haec o Innia capitulatim ſunt dicta . Etenim nimis lon gus effem fi praecipua, & nova vellem deſcri bere , quae in his Faftis continentur . Nihil poſuit in iis Corſinius fine locuplete auctori täte & teſte, aut faltem ſine probabili conje: ctura ; quodque difficillimum fuit, fcriptorum Graecoruin loca aut vitiata aut minime intel lecta, aut mutilata'ſic reſtituit , illuſtravit, fupplevitque, ut dubitari poffe videatur plus ne jis reddiderit luminis , quam ab iiſdem aco ceperit . Neque minori perſpicientia Athe nienfium nummos vidit , ex quibus non pau . ca quidem in rein ſuam hauſit ; ſed multo plura e marmoreis monumentis fumpfit, ta li modo dirimens controverſiam , quae ex fufcitata fuerat a ſummis viris Spanhemio , & Gudio , nummis ne , an inſcriptionibus princeps locus dandus effet in explicandis ri tibus , feſtis , Numinibus , ludis, magiſtrati bus , rebuſque geſtis Athenienfium . Inter nobiliores inſcriptiones , quas refert Corfi nius , & miro prorſus acumine atque eru ditione explicat , & interdum etiam fupplet, eft Florentina quaedam apud Riccardios ile luſtrandis Athenienfium Tribubus maxime idonea. Sed haec mirifice corrupta erat , au gebatque corruptelam collocatio . Etenim cum ex tribus fragmentis conſtaret , imperi tus artifex fic illa in pariete diſpoſuerat, ut media pars primae , finiſtra mediae , dextera vero omnium poftremae partis locum Occu paret. Vidit haec mala Corſinius , qui 2 tutiſſime indagabat omcia , iifque remedia goadhibuit . At puduit Joannem Lamium ſe non adeo lynceum fuiffe , cum ufus effet sadem inſcriptione in ſuis ad Meurfium Scholiis , & ex pudore orta eſt invidia . Ex quo intelligi poteſt quare is debitas mun quam tribuerit laudes operi , quod omnium judicio longe multumque ſuperat quidquid in hoc rerum Atticarum genere ſcripſerunt Sigonius , Scaliger , Petavius , Petitus , Spo nius , & vel ipfi Meurfius , & Dodwellus , quorum errorés dum faepe corrigit Corfini, us, & dum minime ab iis animadverſa pro fert , fatis declarat iiſdem detrahere voluiffe Haerentem capiti multa cum laude coro nam . Rumor erat ea parare Lamium , quibus fpe rabat hominibus fe probaturum , Corfinium in emendanda illuſtrandaque Riccardiana in fcriptione ſurripuiffe fibi fegetem & mate riem gloriae ſuae . Porro Lamius poft edi tas Corſinii emendationes fupponere cogita verat in locum impreſſae jam paginae in I. Meurſii operum volumine , quae prae fe fe rebat inſcriptionem corruptam , aliam pagi nam , in qua emendatior inſcriptio legebatur ; CORSINIUS: 1 bancque mutationem , omnibus occultari pof ſe putaverat , quod Meurſii liber nondum efe ſet in vulgus editus . Non latuit certe Core finium , in cujus manus pervenit etiam pria mum impreffa pagina , qua omnem a fe prow pulſare poterat injuriam . Id ut audivit Lami mius aliam rationem iniit perficiendi confi lii ſui . Dedit ad Angelum Bandiniun litte ras plenas iracundiae ac minarum, ſpecie qui dem ut ea, quae jamdiu ſepoſuerat ad Ric cardianum marmor explanandum , aliquando proferret ; re autem ipſa ut quae a Corſinio didicerat , perpaucis additis aut mutatis , le ctori aut occupato aut indiligenti vendita Yet pro ſuis . Atque id utrumque ſcriptorem conferenti luce clarius eft . Quare mirari ſa tis non poffum hominis frontem , qui furti Corfinium infimulet in eo loco, in quo ipfo cum re aliena , atque etiam cum telo eſt de prehenſus. Atque haec an. MDCCXLv. ſunt geſta , cum Fafti Attici anno ſuperiori lu cem vidiſſent . Sed tamen res defenſionem apud multitudinem potuit habere uſque ad cum annum , quo Meurſii opera cum Lamii animadverſionibus vulgata funt fimul universa . Is fuit an . MDCCLXIII. Tum enini primum jejuna illa marmoris interpretatio, quam ante annos xxII . Lamius in l . operum volumen intulerat , lecta eft pag . 258. : ad calcem vero ejus voluminis ſecundae Aucto ris curae in eum lapidem , & quaſi retra Statio quaedam ante dictorum edita eſt . Qua in mantiſſa bina extant indicia Corſinii cauffam mire tuentia , alterum quod nihil hoc in loco proponatur , ' quod non ille in Faſtorum libro occupaverit ; alterum quod mantiſſae characteres ab ejuſdem voluminis characteribus forma et figura longe abſunt , teſtanturque non niſi poſt annos multos quam liber fuerat impreſſus , diſtractis jam aut obſoletis formis illis prioribus , additam eſſe appendicem , de qua meminimus . Sed jam fatis multa de homine meo quidem judicio paucis comparando , niſi regnum in litteris, quod Florentiae perdiu tenuit , malis inter dum artibus & clarorum virorum vexatione confirmandum putaſſet. Quamvis in Fa. Hujus rei narrationen pluribus etiam verbis exa pofitam vide in libello cujus eſt infcriptio : Paffatem po Autuntile , quo in libcllo Si quis est qui dictum in se ir clemencius Exis. Atis Articis elaborare Corfinio maxime glorio fum fuerit , non minorem tamen laudem rea portavit ex Agoniſticis Differtationibus, de qui bus Ludovicus Muratorius , intelligens ſane. judex , dicere folebat , poſſe eas per ſe ſo las aeternum nomen Auctori comparare . His Diſſertationibus oftendere voluit Eduardus, quo tempore Graeci celebrare conſueverunt ludos Olympicos , Pythicos , Nemeaeos , & Iſthmiacos, quod tempus eatenus fuerat vel incompertum , vel faltem obſcurum . In hoc autem non mediocrem utilitatem chronolo giae & hiſtoriae ſe allaturum putavit , quod iiſdem ludis fcriptores uterentur ad notanda deſignandaque rerum geſtarum tempora . Ab Olympicis exordiens , qui ceteros fplendore & frequentia ſuperabant , breviter cos percurrit, quos ab Hercule primum inſti tutos Trojano bello deſiiſſe , moxque ab . Iphito reftitutos iterum intermiffos fuiffe fcriptores narrant . Etenim illud caput eſſe videbatur , ut de Olympiade illa quaereret , qua Coroe bus palmam accepit , & quae prima dicitur , omnes Exiflimayit ele , fit exiſtimet Reſponſum , 11011 d.ctum effe, qu'a lacris prior , 6 94 EDUARD V $ quod ab illa ceterarum Olympiadum ordo & feries incipiat . Hanc celebratam fuiſſe putat an . periodi Julianae MMMDCCCCXXXVIII. circiter folftitium aeſtivum , plenilunii tempo re , qui mos ſemper manſit non folum anti quioribus , quibus civiles Graecorum anni lunares erant , fed recentioribus etiam , qui bus ſolares anni a Romanis ad Graecos tran . fierunt . Primus is erat anni menſis , in quem incidiffent Olympici ludi . Quinque diebus eorum certamina abſolvebantur , inter quae curſus , quo, uno certatum eſt ad Olympia dein uſque XVIII, primas tenebat . Neque. in Aelide folum , fed & in aliis Graeciae ur bibus fumma cum populi frequentia ac faca. crorum caeremonia Olympici celebraba ntur, donec v . ineunte reparatae falutis faeculo , jidem cum Pyticis. ſublati fuerunt . , Pyticos primum inftituit Apollo , eofque jamdiu in-. termiffos, confecto. Criſſenfi bello , Olympiade. XXXXVIH . Amphictyones revocarunt. Ii- . dem Olympicorum inſtar pentaéterici erant ; neque ſecundis annis, aut quartis , ut Peta vius & Dodwellus, exiſtimarunt , ſed tertiis , hiſque exeuntibus circa Elaphebalionis menfis finem , tum Delphis , tum in aliis Grae- : ciae urbibus peragi confueverunt , Proxime poft Pythia Olympiade ſcilicet Lill. inſtaura ta fuerunt Nemea , quorum origo reperitur a ſeptem Argivis ducibus , qui ad lenien dum defiderium pueruli Archemori a ſerpen te occiſi funebres hoſcę agones CCCCLXXV. annis ante Olympiadem primam prope Ne meaeum nemus inftituerunt . At Nemeadem illam , ex qua veluti cardine ceterae infe quentes numerari coeperunt , in annum IV. Olympiadis LxxII . poft Marathoniam pu gnam incidiffe fatis probabiliter Eduardus af firmat . Nemeades aeſtivae aliae, aliae hibere nae , omnes vero trietericae fuerunt; eaeque alternis annis ita peragebantur , ut hibernae quidem in medios ſecundos , aeſtivae vero in quartos ineuntes Olympiadum annos in currerent . Cum Nemeis ludis quaedam erat Iſthmicis a Theſeo , ut ferțur , conſtitutis fia militudo . Funebres erant ambo , ambo trie terici , & qui utrolibet in certamine viciſſent apio coronabantur , Ithmici quoque alii em rant aeſtivi, non tamen alii hiberni , ut qui dem Dodyellus putabat , fed verni brabantur illi primis Olympiadum annis Hea catombeone menſe , hi Thargelione , exeun te fere tertio Olympico anno . Sic definivit Corſinius tempora quatuor illuſtrium Graea ciae ludorum , patefaciens obſcura & ignota vel ipſis chronologiae luminibus Scaligero Petavio , & Dodwello , quorum auctoritate abreptus ipfe in primo Faſtorum Atticorum libro Pythiades ſecundis Olympicis annis cona cefferat . Agoniſticis hiſce Differtationibus , veluti faftigium operis , idem adjecit feriem Hieronicarum alphabetico , ut dicitur , ordi ne diſpoſitam , & Dodwelliana longe ube riorem accuratioremque . Nam feptuaginta. ſupra centum vitores recenſuit , qui Dod weilum prorſus fugerant ; fonteſque indic cavit ( in quo Dodwelli diligentia ſaepiffi , me deſiderabatur ) unde uniuſcujufque vin ctoris nomen , aud patria , aut aetas , aut tertaminis genus , quo viciffet, hauriebatur . Hoc opus vehementer adeo Auctori fuo pro batum erat , ut vir modeftiffimus in eo quo daininodo gloriari videretur . Etenim , ut At rico fcripfit Cicero , fua cuique Sponfa ,fuus quiqua 2007. Quoniam autein tumuin his Agoniſticis Diſſertationibus , tum in Faltis ſcribendis faepe uſus eſt Corſinius ſubſidio marmoreorum monumentorum , in quibus multae occurrunt notae , quarum neque fa cilis, neque prompta fuit explicatio , fepara tum opus. a ſe expectare putavit Graecarum antiquitatum ftudiofos , quo in opere non ſolum ex marmoreis , fed etiam ex aereis Graecorum tabulis: varias eorum notas colli geret , haſque explicaret atque illuſtraret . Quae dum animo verſaret , fcriptionique jam manum admoviffet , ecce in lucem prodit Scipionis Maffeii liber de Graecorum figlis l.z pidariis, in quo trecenta fere vocum com pendia ingeniofe: feliciterque enodantur.. Cum Eduardus ab amico librum accepiſſet , ei epi ſtolam fcripfit ( relata haec fuit in IV. vo lumen . diarii Litteratorum . Florentiae editi ) in qua ſummas tribuit Maffejo laudes , quod primus ex omnibus materiem hanc ſeorſim tractandam füfceperit ,, magnam in illam con ferens.eruditionis copiam , & acre: prudenſ que judicium .. Non, propterea tamen: ſpar tam , quam fibi ſumpſerat , ille deſeruit , quia , ut ait Auſonius, is crat campus , in quo alius alio plura invenire poteft , nemo om. nia . Et plura certe Corſinius invenit , cum mille fere notas , aut numerorum vocum que compendia uno volumine colligere po tuerit & explicare illo ſuo acutiffimo inge nio , cui inquirenti & contemplanti omnia occurrere ſe ſeque oftendere videbantur . Ut vero delectatione aliqua alliceret adoleſcen tes , quibus inſuavis fortaſſe & aſperior via deri poterat ſiglarum inveſtigatio , poftquam multa eruditiſſime praefatus effet de notarum origine , vi , utilitateque , opportune ſparſit in toto libro non pauca ad hiftoriam , geos graphiam , chronologiam , ac mythologiam ſpectantia . Ex quibus aliiſque diſciplinis ube riora etiam hauſit , ut ornaret Diſſertatio nes ſex , quas , abſoluta univerſa notarum ſerie , confecit, ut eſſent operis corollarium . Explicant illae inſignes quaſdam Chriſtianac & profanae antiquitatis inſcriptiones , ficque explicant , ut facile exiſtimari queat , eum qui non comprehenderit rerum plurimarum ſci entiam , quique judicio certo & ſubtili non fit praeditus , in his antiquitatis ftudiis ſatis callide verſari & perite non poſſe . Inſcriptit Corfinius hoc ſuum opus : Norse Graecorum five vocum & numerorum compendia , quae in gereis atque marmoreis Graecorum, tabulis obſer vantur , dedicavitque Cardinali Quirinio , a quo pecuniam ad illud ipſum evulgandum dono accepit . Etenim his temporibus haud illi magna res erat, quae vix fatis efle vide batur ad vitam ſuſtentandam , neceſſarioſque. libros emendos . Praepoſitus an MDCCXXXV. dialecticae ſcholae, nihil aliud annui ſtipendii obtinuit nifi octingentos denarios . Hoc eſia fatum videtur nobiliilimae. quidein diſcipli nae , ut pote quae per omnes diſciplinas ma: nat ac funditur , ut qui illam profitentur me: diocribus afficiantur praemiis . Vel ipſi Grae. ci , quamvis ellent aequi liberalium artium aeftimatores , minam , eſſe voluerunt inerce dem Dialecticorum. Coin.nodiori in ftatu res Corſinii eſſe coeperunt cum traductus fuit (id accidit an. MDCCXLVI.) ad metaphyſi cam atque ethicam docendam .. Tunc eniin ipfius ftipendium erat bis millenorum & am plius denariorum , poſteaque illud ipſum ad quatuor. mille ducentos quinquaginta uſque pervenit , cum proſperae. res multae confecutae fuiſſent . Satis ſuperque id erat homi ni temperato ad vitam beatiſſimam ; videba turque libi ſuperare Craffum divitiis . Quan tum vero ſorte ſua contentụs , quantiſque a moris vinculis Academiae Piſanae obftrictus effet , ex eo conjici poteſt, quod mortuo Lu dovico Muratorio Mutinenfis Ducis bibliothe cae praefecto in illius locum fuccedere recu favit, quamvis liberaliſſime ipfius Ducis ver bis invitaretur . Quo cognito ab Emmanue le Comite Richecourtio , qui Franciſci I. Cae faris nomine res Etruriae adminiſtrabat, ipſe fingularibus verbis ei gratias agendas cenſuit, eidemque prolixe de ſua non modo , fed & Cae aris voluntate pollicitus eſt . Id non potuit Corfinio non fumme eſſe jucundum ; utque viro de fe & de Sodalitate ſua bene ſemper merito gratum fe oftenderet dedica vit illi Plutarchi opus de Placitis Philoſopho. tum a ſe Latinum factum , vitaque Scripto ris , fcholiis , & diſſertationibus ornatum . Cauſſam ſuſcipiendae novae interpretationis ei dem dederunt naevi quidam , quibus maçı lantur Budaei , Xylandri , & Crụſerii honi num ceteroquin doctiſſimorum interpretationes ; ſuſceptam vero ita perfecit , ut ver bu pro verbo reddiderit , multaque etiam attulerit de fuo , quae funt diverfo chara ctere notata , ne attenuata nimis diligentia perſpicuitati officeret , & ne res ipfa omni Latinae orationis dignitate cultuque deſtitu ta ſordeſceret . In limine operis Plutarchi vi tam ex illius aliorumque veterum ſcriptis a ſe diligentiſſime colletam , & feriem philo ſophorum , quorum placita a Plutarcho pro feruntur , aetatemque , in qua vixerunt , ex . poſuit . Singulis vero operis capitibus brevia adjecit commentaria , quae aut mutilos & hiulcos Plutarchi locos ſupplent , aut de pravatos emendant , aut obſcuros atque per plexos , opportune allatis aliorum philoſo phorum ſententiis , illuſtrant . Siquando au tem longioris eſſe orationis putavit Corſi nius lucem aliquam afferre rebus obſcuriſſi mis , cum non Heraclitus ſolum , ſed & quiſ que fere antiquitatis philofophorum , quo rum ſententias coarctavit & peranguſte re ferſit Plutarchus , Exotélv8 cognomen me reatur , hujuſmodi illuſtrationes ad finem li bri rejecit . Quo in loco voluit etiam recenfere illuſtriores ſententias , quae propriae di cuntur recentiorum philoſophorum , cum ea rum tamen manifeſta appareant veſtigia in Plutarchi libro , quod profecto ad veterum gioriam amplificandam plurimum valet . Ta les ſunt attractionis leges , vireſque , ut di cuntur , centripeta & centrifuga, Charteſia ni vortices , lunae phaſes , maculae , quod que haec fit terra multarum urbium & mone tium , converfio folis , planetarum , fiderum que certa quadam celeritate ac periodo cir ca axes ſuos , natura , coſtans motus , rever lioque cometarum , telluris motus , quodque ex eo cauſſa ' maris aelus repetenda fit jegew’ewe explicatio , aliaque hujuſmodi mul ta tum ad corporum , tum ad animi na turam pertinentia . Profecto nihil dulcius erat Corfinio quam per abdita remotioris antiqui• tatis permeare , & inde nova & inexpecta ta deferre , quae hominibus contemplanda bono in lumine exhiberet . Nam , ut Ari ſtoteles inquit, fuo quiſque artifex ftudio atque opera impenſius delectatur . Cum igi tur accepiffet ab Antonio Franciſco Gorio amiciſſimo ſuo graphidem eximii cujųſdam anaglyphi , quod Romae viſitur in Aedibus Farneſianis , non magnopere hortandus fuit, ut in illo exponendo elaboraret . Exhibet hoc ſuperiori in parte Herculem cuin Eų. ropa , Hebe , Satyriſque quieri , voluptati que poſt exantlatos labores indulgentem, in inferiori vero tripodem Apollini ſacrum , Ar givae Junonis Sacerdotem , atque alatam Virginem , & Herculem demum ipſum ſe ſe expiantem , ut purus ad Deorum conci lium afcenderet . Hinc & illinc anaglyphum ornant binae columnae cum Graeca inſcrie ptione, quae multis verſuum decadibus Her culis geſta commemorat : in ſupremo tan dein anaglyphi loco octodecim hexametra car mina exculpta ſunt, quibus Herculis labores & certamina declarantur . Praeclariſſimi hujus monumenti explicationem Eduardus libello quem ad Scipionem Maffejum inſtituit, com plexus eſt ; ex eoque judicari poteft , vehe mens afiiduumque ftudium ipfi copiam eru ditionis dediſſe , naturam vero tribuiſſe in genium ad conjiciendum divinandumque fa ctum . Et fane divinationis cujuſdam vide illum potuiſſe laceras ac depravatas multorum verſuum lacinias feliciſſime corri gere atque ſupplere. Magnae antiquitatis ar gumentum praebere ſuſpicatus eſt Doricam dialectum , qua exarata eſt inſcriptio , ne- ! que ipfe affirmare. dubitat opus paullo poſt Alexandri tempora' , antequam Q. Flaminius priſtinam Graecis libertatem redderet, perfe &um fuiſſe . Sed aliter alii ſentiunt ( 1) qui bus nunc plerique affentiri videntur . Hoc ipſo ferme tempore Corſinius ejuſdem Gorii poſtulationibus Diſſertationes quatuor con ceſſit , quae impreſſae funt ab illo in vi. vo lumine Symbolarum litterariarum . Extricat pri ma epigraphen ſculptam in labro interiori cujuſdam crateris ahenei Mithridatis Eupa toris, qui crater in muſeo Capitolino, Vide Winkelman, Monumenti antichi inediti Trel. Prelim . p . LXXIX . Idem quaedam alia notat in quibus deceptum fuiſſe Corfinium arbitratur p. 39. (2 ) Sic interpretatur Corfinius mire involutam in. ſcriptionem : Regis Mithridatis Eupatoris Regni anno 54. Eupatoriftts Gymnaſii ( hoc eft civibus Eupatoriae , qui in Gymnafio certarunt ) ſenectutem conſeival , quod erat ad laudem vini , quo plenus crater vi &ori con cedebatur . Alii aliter interpretanda extrema pracſertim inſcriptionis verba exiſtimarunt , quorum fententiam plerique nunc fequuntur affervatur . Secunda patefacit obſcuros igno ratoſque dies natalem & fupremum Plato nis , qua occafione aliorum etiam virorum illuſtrium Archytae , Philolai, Iſocratis , Ly fiae, Dionis , & Socratis aetates & tempora perſequitur . Explicat tertia adverſam par tem numiſmatis Antonini Caeſaris , in qua Prometheus humanum corpus ex luto fin gens , & Pallas capiti mentem , papilionis imagine expreſſam , inſerens confpiciuntur . Curioſa ſunt quae excogitavit Corfinius , ut perſuaderet hominibus morem repraeſentandi humanam mentem ſub papilionis imagine non ex miris hujus volucris affectionibus & natura , non ex ipſa animi immortalitate , circuitu , aut tranſmigratione, non ex Chal daicae , Graecaeque fapientiae fontibus , non ex arcanis amoris myſteriis, fed ex fola ar tificum imperitia profluxiſſe . Cum enim unum idemque nomen pſyches papilionem & ani nium deſignet, rudis artifex , qui primus ani mum exprimendum ſuſcepit , non putavit hu jus ideam poffe melius excitari , quam obje eta imagine illius rei , quacum is commune nomen habet . Quarta Diſſertatio demum in 106 EDUARDUS eo verſatur , ut oftendat mentitam & falfam effe Latinam quamdam inſcriptionem , quae Piſis vilitur in Scortianis aedibus . Summi labores , quos Corſinius impendit in conficien dis , quos retulimus , libris , magna compen ſati fuerunt gloria , ut unus e multis , qui illuſtrandae Graecae praefertim antiquitati ſe ſe dederunt , excellere judicaretur . Cujus de praeſtanti in hoc rerum genere doctrina tan ta etiam judicia fecit Scipio Maffejus , quan ta de nullo ; cujus teſtimonii auctoritas ma xima reputari debet non folum quod ab hox mine prudentiſſimo proficifcitur , fed etiam quia figulus invidens figulo , faber fabro , ut eſt Heſiodi dictum , alterius laudi & gloriae | minime favere ſoleat . Ex mutua opinione doctrinae , fimilitudineque ftudiorum orta eft inter cos jucundiffima amicitia , cujus tanta vis fuit , ut Corſinius aeſtate an. MDCCLI. quamvis non bene valens, Veronam venerit aliquot menſes commoraturus apud amicum . Quo tempore inter eos fuit familiariſſima focietas , & communicatio ftudiorum . Dono accepit Corſinius a Maffejo tercentum fere Graecas inſcriptiones ( has Edmundus Chici1 shullius collegerat, & fecundae Afiaticarum antiquitatum parti reſervaverat ) ea conditio ; ne , ut eas Latine redderet atque illuſtraret , Satisfecit ille aliqua ex parte promiffo ſuo , cum anno inſequenti edidiſſet eas inſcriptio . nes , quae ad Athenas ſpectabant ; eaſdem que iterum cum commentariis edidit quam driennio poft , ut eſſent ornamento quarto Faftorum volumini . Nono menſe poftquam in Etruriam rediit Eduardus , moritur Ale- ' xander Politus , quocum ille ita vixit , uit. quem pauci ferre poterant propter difficilli mam naturam , hujus fine offenfione ad fum . mam fenectutem retinuerit benevolentiam . Mortuo autem Polito neque inquirendum neque conſultandum fuit quis illi ſucceſſor in Academia Piſana daretur , cum omnium oculi ftatim in Corſinium conjecti fuiſſent . Ita hic exeuntė anno MDCCLII . poftquam octodecim fere annos philoſophiam tradidif ſet , munus docendi humaniores litteras li bentiſſimo animo ſuſcepit . Initio propoſuit fibi (nam muneris ratio , & adolefcentium utilitas ab eo poftulabant, ut cum Graecis Latina conjungeret ) explanare Plutarchi parallelas Graecorum , Romanorumque vitas , ut inde occaſionem ſumeret utriuſque populi leges inter ſe conferendi . Memoriter dicebat e ſuperiori loco , quod ad praeceptoris & ſcholae dignitatem plurimum tum conferre putabatur ; & quae tradebat inſignita e rant luminibus ingenii , & conſperſa erudi tionis ſententiarumque flore . Genus dicen di erat quiétum & lene, purum & elegans, ut maxime teneret eos qui audiebant , & non folum delectaret, fed etiam fine fatieta te delectaret. Nulli diſcipulorum aditum ſermonem , congreſſumque fuum denegabat , quin immo eos bis in hebdomada domum ſuam invitabat , ut in ftudiis exerceret Grae carum , Romanarumque antiquitatum . Domi etiam tradebat metaphyſicam , quo onere non placuit Academiae Moderatoribus illum libe rare niſi anno MDCCLIV. quo quidem tem pore Venetiis evulgavit ſuas Inſtitutiones Me taphyficas. In his adornandis illud unum pro pofitum fibi fuit , ut in animis adoleſcentium rectas de animae immortalitate , arbitrii li bertate , Dei exiſtentia , ceteriſque naturalis theologiae dogmatibus notiones infereret, quibus in gravioribus aliis diſciplinis veluti praeſidiis uti pofſent , quibuſque caverent a peſte quadam hominum non tam religioni , quam reipublicae infeſta , quae rationem per vertendo ubique venenatas opiniones diffe minare non veretur . Subaccuſent aliqui, fi lubet, Corſinium , quod nimis, parcus fuerit in pertractandis quibuſdam rebus , quae in ca , in qua nunc ſumus , luce ignorari mi nime poſſe videntur ; omnes profecto uno ore fateri debent tales effe hafce Inſtitutio nes , ut cupidi metaphyſicae nullibi poffint refrigerari ſalubrius atque jucundius. Poftre mum hoc operum fuit , quae Corfinius Phi loſophiae dicavit , nifi dicere velimus , eti am cum minime videretur tum maxime ila lum philofophari conſueviſſe, Quod declarant ejus Latinae orationes ad Academicos Piſanos refertae Philoſophorum fententiis , faluberri ma praecepta , quibus adoleſcentes ad omne officii munus inftruebat , doctiflimoruin Phi loſophorum familiaritates , quibus ſemper flo ruit , & ars illa diſtinguendi vera a falſis , colligendi ſparſa , eaque inter ſe conferendi, diligenter examinandi omnium rerum verbocum rumque pondera, nihilque afferendi fine evi denti ratione , aut faltein probabili conjectu ra in qua arte quantum inter omnes un Aus excelleret , praeſertim oftendebat , in vetuftatis monumenta inquireret . Hujus inquiſitionis uber fane fructus fuit Diſſertatia illa de Minniſari, aliorumque. Armeniae Regim nummis , Et. Arſacidarum epocha , quam idem in lucem extulit an . MDCCLIV. Difficulta tis maximae fuit oftendere Minniſari num mum , quem praecipue illuſtrandum Corſi nius ſuſceperat , ad illum fpectare Maniſarum Armeniae & Meſopotamiae. Regem , de quo Dio Caffius in libro Romanae hiftoriae LXVIII. mentionem fecit, & Arſacidarum epocham uon in Parthiae. folum , fed etiam in: Arme niae regum nummis inſcriptam fuiffe , eam . que ab anno Urbis conditae Dxxv. initium duxiſſe . Antea quidem doctiſſimorum viro rum Uſſerii, Petavii , Noriſii , Spanhemii , Vaillantii, & Froelichij fententia fuerat , ſe rius. Arſacidarum imperium incepiſſe , adver ſus quam ſententiam Eduardus ita pugnavit, ut veritas non minus quam modeſtia eluxe rit . Quoniam vero in antiquitatis ftudio multae res inter fe ita nexae & jugatae funt , ut , inventa una , aliae , quae prius latebant , ſe ſe contemplandas offerant, ean ob rem Corfinius in Minniſari regis num mo explicando varia ſcriptorum loca corri gere & ſupplere , verum Darii genus expo nere , Tiridatem alterum , Arfamem , aliof que Armeniae Reges Vaillantio prorſus in cognitos proferre potuit . Res in hac Differ tatione contentae , non fine laude oppugnatae fuerunt a Jeſuitis Froelichio & Zacharia , reſponditque ad ea , quae objecta fuerunt , ſine iracundia Corfinius . Eteniin veritatis unice amans alios a fe diffentire haud ini quo ferebat animo, ſemperque deteſtatus eſt eos , qui ſuis ſententiis quaſi addicti & con . fecrati etiam ea , quae plane probare non poſſent , conſtantiae, non veritatis cauſſa de. fenderent . Propugnationem quoque Corſinii libello (*) ſuſcepit ejus convictor & fodalis (*) Huic titulus eſt . Lettere critiche di un Pafton r Arcade ad un Accademico Erruſco nelle quali ſi ſciola gono le difficoltà fane contro un'opera del Reverendiſſia mo Padre Corſini nel Tom . IX. della Storia leveraria of lialia &e, in Pisa 1957. in Carolus Antoniolius , qui quidem non me . diocria adjumenta illi praebuit , cum pluri mum valeret in omni genere ftudiorum quae ipſe excolebat . Magni quoque Acade miae fuit Antoniolii opera in Graecis littea ris tradendis toto illo ſexennio , quo Corfi nius , coactus capeſſere, ſummum Sodalitatis fuae magiſtratum , bona Principis cum ve nia , & fine ulla ſtipendiorum jactura Piſis abfuit . Hic Romam venit menſe. Aprili an. MDCCLIV, ardens. defiderio indicia veteris memoriae , quibus mirabiliter urbs. illa abun dat ( quacumque enim quis ingreditur in aliquam hiſtoriam veftigium ponit ) cogno ſcendi . Sed raro ei poteſtas dabatur huic ſuo . deſiderio, fatisfaciendi, cum podagrae dolori bus ſaepiſſime vexaretur , & munus ſuum diligentiſſime exequi vellet . Quanta vero pru dentia ac dexteritate fuerit in tractandis ne. gotiis , quanta aequitate in conſtituendis , temperandiſque, ſi res pofcebat, conſtitutis jam legibus , quanta humanitate erga omnes , quantaque vigilantia ac providentia in con fulendo rebus. praeſentibus , praecavendoque futuras , fatis praedicari non poteft . Cum autem nihil ſine aliorum conſilio agere ei mos eſſet , & facilitate ſumma uteretur in füos adjutores procuratoreſque , inde norza nulli materiem ſumpſerunt falſae criminatio nis , quod ad aliorum magis quam ad ſuun arbitrium res Familiae adminiftraret . Omnino totum fe tradidit Eduardus Sodalitati , to tamque fic rexit , ut oblitus commodorum ſuorum omnibus proſpexerit . Non eſt credi bile quanto animi dolore angeretur , fi ali quis ſuorum in crimen vocabatur . Horrebar enim homo innocentiſſimus vel ipfam pecca ti ſuſpicionem . Sed non propterea fontibus iraſcebatur, hofque clementia magis atque manſuetudine , quam animadverſione & ca ftigatione ad frugem revocare ſtudebat . Cum vero feveritatem , fine qua reſpublica adıni niftrari non poteſt , adhibere cogebatur, similis, ut praeclare admonet Cicero , legum erat , quae ad puniendum non iracundia , fed aequitate ducuntur . In his occupationi bus muneris ſui, ne plane ceſſäre a fcriben do videretur , extare voluit explicationem đuarum Graecarum inſcriptionum , quae mus ſeum ornant Bernardi Nanii Veneti Senatoris.quam feliciter id praeftiterit , perſcrutata prius litterarum priſcarum , quibus illae con fcriptae ſunt , forma atque vi , facile judica bunt ii , qui ſunt harum deliciarum amato Tes . Tentaverat eamdem rem Franciſcus Za nettus, ſed longiſſime aberravit a vero ejus interpretatio . Ipſe Eduardus cum Anconae effet ineunte anno MDCCLVI. eoque prae ſente cum multis aliis detecta fuiſſent atque agnita corpora Sanctorum Cyriaci , Marcelli ni & Liberii, quos ſingulari obfequio ea dem civitas venerațur, incitatus fuit, ut ali quid laboris impertiret illorum Sanctorum illuſtrandae hiſtoriae , definiendoque praeſer tim tempori , quo tranſata eorumdem cor pora fuerunt in eum , ubi nunc jacent , lo cum , & quo Anconae coli coeperunt . Haec Corfinius , edito commentariolo , accidiffe - ftendit exeunte faeculo XI. , & ex ipfis an tiquitatis monumentis quibus ſententiam ſuam confirmavit , quatuor Anconitanorum Epiſcoporum nomina in lucem protulit , quaç uſque ad id tempus fuerant incognita , Per pauca in hoc commentariolo attigit de S, Liberio , quod ejus hiſtoriam involutam tenebris & fabulis exiſtimabat , Mox cum ei aliquid luminis affulfiſſet , & monumentorum ope , & mirabili illa ſua conjiciendi arte pa tefacere potuit Liberium fuiſſe unum ex fo ciis S. Gaudentii Abfarenſis Epiſcopi , qui circiter an. MxXxx. Anconam venit , fo litariam vitam acturus in ſuburbano mona ſterio Portus Novi . Harum rerum inventio multis laudibus. celebrata fuit a Scriptoribus annalium Camaldulenſium (*) : pergrata quo que fuit. Benedicto XIV. pro ejus. fingulari ftudio in Anconitanam Ecclefiam . Hic cum ſaepe ad congreffum colloquiumque ſuum invitaret Eduardum , quod ejus ſummum in genium , fuaviffimos. mores , atque eximiam probitatem & nofſet & diligeret , ſaepe quo que ipſum hortabatur ,, ut ea pergeret man dare litteris , quae abdita Chriſtianae anti quitatis patefacerent . Sed fuerunt juftae ca uffae quare. Corſinius amantiffimis. Pontificis M. conſiliis minime obtemperavit ; & quid quid fubciſivorum temporum incurrebat, quae perire non patiebatur, libentiffime concede-. ( * Vid . Tom . III ., bat ſuis priſtinis ftudiis . Ruſticabar cum eo in Tuſculano, quando epiſtolam ſcripſit ad Paullum Mariam Paciaudium , in qua plura de Gotarzis eximio nummo , ejuſque , Bar danis , & Artabani Parthiae Regum hiſtoria perſecutus eſt, & pro jure noftrae amicitiae ab ipſo poftulabam , ut in otio , quod raro da batur , & peroptato illi dabatur, ceffaret a libris & a ftilo . Verum cuin is eſſet ut fi ne his ftudiis vitam inſuavem duceret, di cere folebat hujuſmodi ſcriptiones non pre mere , ſed relaxare animum . Et relaxatione certę aliqua ille indigebat , cui grave adeo erat , quod multi appetunt , ceteros regendi munus , ut onus Aetna majus ſibi ſụſtinere videretur . Poterat quidein illi eſſe lovaniens to recordatio multorum benefactorum , inas ter quae maximum illud reputari debet quod eo ſexennio , quo ad Sodalitatis gum . bernaculum ſedit , viginti domus , five cole legia conſtituta ſunt . Interim advenit tem pus , quo magiſtratu fe abdicare , & extre mos auctoritatis fuae fructus capere debe bat in provehendo digno viro , qui fibi fuc cederet . Verum minime illi : contigit , ut funt ancipites variique caſus comitiorum , quem optabat, exitus. Peractis comitiis, fine mora rediit ad Academiam Piſanam & ad il lamºquietam in rerum contemplatione & co gnitione maxime poſitam degendae vitae rae tionem, qua qui frueretur, negabat ei aliquid deeffe ad beatė vivenduin . Liber de Praefe . ctis Urbis ei erat in manibus ; Graecas in fcriptiones in Aſia repertas , quas , ut ſupra retulimus , a Scipione Maffejo dono accepe rat , quafque jampridem Latinas fecerat, co pioſis commentariis explicabat ; aderat diſci pulis ſuis ; veniebat frequens in Academiam , afferebat res multum & diu cogitatas, facie batque fibi audientiam hominis erudita, com pta & mitis oratio . Idem efflagitatu & coae tu amicorum inftituta. hoc tempore opera abrupit , ut explicationem lucubraret cujuf dam nummi recens in Auſtria reperti , in quo erat nomen & imago Sulpiciae Dryan tillae Auguſtae. Conjecit ille feminam hanc libertam fuiſſe, libertatémque accepiffe a Sul picio quodam , ab eoque in Sulpiciam ģen tem receptam ; nupfiffe demum Carinó fcea leftiffimo Imperatori. Haec porro incerta. Illud unuin ſine ulla dubitatione colligi pof fe videtur ex nummi fabrica, characterum forma, feminaeque ornatu , illum ipſum num mum cuſum fuiſſe inter Elagabali & Diocle tiani imperium , proptereaque Dryantillam ad aliquem Imperatorum , qui illo intervallo re gnarunt, pertinere. Neque his contentus Edu ardus voluit etiam excutere hiſtoricorum & rei nummariae interpretum mire inter fe dif ſidentes opiniones de Aureliani ac Vaballa thi imperio atque aetate , ac poftremo ſuam ſententiam proferre . Fuit haec , Aurelianum exeunte Julio , vel ineunte Auguſto anno CCLXX. imperium ſuſcepiſſe , eaque multis & gravibus confirmatur argumentis . Ad ex vero diluenda , quae contra dici poterant ex illorum ſententia , qui praeſertim niti vide bantur lege quadam data a Claudio VII. Kal. Novembris Antiochiano & Orfito Con ſulibus , ut ſerius Aurelianum inchoaffe im perium perſuaderent, diſtinguit Conſules or dinarios a ſuffectis . Hac autem conſtabilita diſtinctione , quae maxime apta erat non fo lum ad id , quod requirebat , ſed etiam ad expediendos alios , quos vel ipſe Scaliger in diffolubiles in Chronologia exiſtimaverat now dos , concludit eamdem legem editam fuiffe anno cclxix. vel CCLXVIII. quando An tiochianus & Orfitus ſuffecti Conſules erant, minime vero anno cclxx. iiſdem Confuli bus ordinariis . Nec minor difficultas erat o ſtendere , qui fieri potuerit , ut Aurelianus ad vil. Imperii annum perveniffe dicatur , & explicare locum Euſebii , qui tradit in ejuſdem tempora incidiffe in . Antiochenam Synodum : exploratnm eft enim hanc Sya nodum anno cclxix. incoeptam & abſolu tam fuiſſe . Feliciter haec praeftitit Corſi nius , cum probaſſet Aurelianum anno & ultra antequam a legionibus poft mortem Claudii Imperator fieret , ab ipfo Claudio deſtinatum ſibi fuiſſe ſucceſſoreni , adeoque ampla poteſtate donatum ut ab hoc tema pore nonnulli ejus Imperii initium ſumere potuerint . Quae vero de Vaballatho diſream ruit Corſinius haec ferme ſunt . Illum Ze nobia procreavit ex Athena priori viro , ejuf demque nomine ab anno ccLXXVI. uſque dum Claudius in Gothicum bellum uni ce intentus vixit , Orientis imperium te H4 ut nuit . Ex quo factum eſt , ut quae hoc tem pore cuſa funt Vaballathi numiſmata , Impe. satorem Caefarem Auguftum illum nominent . Poftquam vero ille deſciviſſet a matre , Aureliano adhaereret, huic quidem conjun octus in nummis repraefentari voluit, minime vero paludamento , radiata corona , fplendi doque Augufti nomine decoratus, ſolo Im peratoris contentus . Praetereo alia multa Scitu digniſſima in hac Diſſertatione conten ta , ne , cum nimis longus in recenfendis ſcriptis operibus fuerim , videar oblitus con ſuetudinis & inſtituti mei . Hujus libelli ( cil ra liberatus Corfinius totus in eo fuit, ut ab Solveret ſeriem Praefectorum Urbis ab Urbe con dita ad annum afque MCCCLIII. five a Chri fto nato DC. Etenim poſteriora tempora mi nime inquirenda putavit , quibus , penitus fere exſtincto Urbanae Praefecturae fplendo re ac dignitate , nonniſi tenue nomen , ac leviſſima priſtinae majeſtatis umbra ſuperfuit ; ex quo fiebat, ut nihil inde lucis facra & profana ſperare poffet hiſtoria , cum contra uberrimam fplendidiffimamque utraque acci. peret ex veterum Praefectorum ferie , horumque aetate rite conſtituta . Ut vero non utilitate ſolum , ſed etiam jucunditate lecto res invitaret Corſinius , operi varia opportu ne admifcuit , quae marmora & ſcriptores , quorum teftimoniis ubique fere utitur , cor rigunt & illuſtrant , interpretumque falſas opiniones atque errores emendant . Non ego ſum neſcius multos anteceſſiſſe Corſinium in hujuſmodi pertractando argumento ; ex qui bus omnibus , ac praefertim Jacobo Gotho fredo ac Tillemontio plurima in rem ſuam tranftulit . Sed ii exiguis finibus operam fuam continuerunt , fi unum excipias Feli cem Contelorium , qui contextam a Panvi . nio Praefectorum ſeriem ad annum uſque MDCXXXI. traduxit . Tale tamen non fuit Contelorii opus , quin eadem de re aliquid politius , copiofius , perfectiuſque proferri a Corſinio potuerit . Et protuliffe certe ipſum oportet , cum magna fuorum laborum prac conia ab intelligentibus viris reportaverit . Mi rari hi tantummodo viſi ſunt quod aut is in gnoraverit hac ipſa in re plurimum quoque elaboraſſe Almeloveenium , aut quod hujus fcripta conſulere praetermiſerit. Id profecto & praeſtitiſfet abundantius & copiofius pro poſitae fibi rei ſatisfacere potuiſſet , neque poftea ventofiffimi homines triftem fuftinuif fent notam calumniatorum , qui nullo in pre tio ob pauca quaedam a Corſinio praetermif ſa hujus opus habendum inflatis buccis clamitarunt . Ne hi verbofis fibi famam ad quirerent ſtrophis vel apud imperitam mul titudinem, factum eſt diligentia Cajetani Mari nii, qui librum Bononiae an. MDCCLXXII. edidit, quo non folum eorum obftitit injuriis, verum etiam nova a ſe inſcriptionum ope detecta Praefectorum Urbis nomina in lucem protulit . Sed ad Corſinium revertor , qui dum fine intermiſſione obſequebatur ftudiis ſuis & adoleſcentium utilitati, oblitus vide batur fe jam fenem factum ( quando enim typis mandavit librum de Praefectis Urbanis ſexageſimum primum aetatis annum agebat ) & infirma aegraque valetudine effe . Sed ac Hujus eſt inſcriptio : Difefa per la ſerie de' Pree fetti di Roma del Ch . P. Corfini contro la cenſura farie . le nelle offervazioni ſul Giornale Piſano , in cui le della Serie si suppliſce anche in affai luoghi e le emenda . In Bon logna e S. Tommaſo d'Aquino in 4. Vide Pilanas Ephcm meridcs vol. VIII. p. 179 eidit miſerabilis caſus , qui repente ipſi onga nem ſpem non folum litteris , ſed etiam na : turae vivendi praecidit . Erat haec conſuetu . do Academiae Piſanae, ut qui humaniores lite teras profitebantur , Kalendis Novembris , quo tempore inftaurari ftudia folebant, Latinam om rationem haberent ad vehementius inflamman dam cupidam doctrinarum juventutem . Di cebat eo ipſo die Eduardus ( vertebat tunc annus tertius fupra fexageſimum hujus fae tuli ) de viris , qui & ſcriptis editis , in ventiſque rebus in Academia maxime florue runt , eaque erat oratio , ut nunquam is di xiſſe melius judicaretur . Cum eo pervenirſet, ut exultaret in immenſo Galilaei laudum campo , repente apoplexis ipſum perculit , ac ſemivivum reliquit . Dolore hujus caſus o ſtenſum eft quantum ille Academiae eſſet ac ceptus . Aegre domum deductus , ibi quatri duo cum morte conflictatus eſt. Quinto die, multis adhibitis remediis , levari coepit , ac praeter ſpem paullatim convaluit . Ut arden ter deſideraret priſtinas recuperare vires , efficiebat ille fuus ſingularis amor in Aca demiam , cui majus ſe non poſſe munus afferre videbat , quam fi inſtitutum juſſu Prin cipis biennio fere ante opus de ejuſdem Academiae ortu , progreſſu ac vicibus ad umbilicum perduceret . Plurima collegerat at que vulgaverat ad hanc hiſtoriam pertinen tia vir diligentiſſimus Stephanus Maria Fa bruccius Juris civilis in eadem Academia do ctor , quae quidem ampla & bella materies effe poterant ad novum aedificandum opus . Hoc igitur ſubſidio inſtructus Eduardus , ala cer ſe ſe ad rem accinxit . Et primo qui dem illuftrium Italicorum Gymnafiorum ori ginem ſubtexuit , diſſerenfque quatuor prio ribus capitibus de prima Gymnaſii Piſani in- : ſtitutione, neque ab xi. neque a xiv. Chris fti faeculo , ut multi ſcripſerunt , fed ab ine unte XIII. vel exeunte xii . illam repeten dam effe exiſtimavit . Ex hoc tempore ad annum uſque MCCCXXXIX. , quo anno Fa bruccius contendit coepiſſe Academiam Piſa nam , hanc fi nullam dicere nolumus , mi nimain certe fuiſſe oportet . Conſecutae des inceps yices multae , ut ipſa modo langues ſcere , modo ad interitum properare , vires vitamque modo recuperare , ac faepe etiam veluti extorris ſedem mutare viſa fuerit , Quae omnia octo conſeqılentibus capitibus perſecutus eft Eduardus . Cum vero Acade miae res , imperante Coſmo I. ceteriſque.non solum Mediceis, sed etiam Lotharingis Principibus , feliciflime proceſſiſſent , quibus ab his beneficiis, ſplendore atque gloria aucta, quibuſque gubernata legibus consuetudinibusque, variis interdum pro temporum varietate, exposuit in quatuordecim capitibus , quo rum nonnulla adumbrata magis quam de fçripta videntur . Haec omnia primam ope ris partem conficere debebant , cum refer vafſet alteram, quam tamen minime attigit, Doctorum vitis. Dum haec scripta legebam videbatur mihi pofſe ab Auctore defiderari major rerum copia , magiſque apta ac preſ fa oratio. Inest quidem in omnibus Corsinii scriptis luxuries quaedam , quae , ut in herbis ruſtici ſolent , depaſcenda erat; quod fi eft vitium in omni oratione , maximum tamen eſt in hiſtoria , in qua pura & illu fțris brevitas expetitur . Eodem tempore, quo Eduardus in Academiae historiam incumbebat, ne plane superioris aetatis Audia de servisse videretur, epistolam fcripfit ad ami cum & collegam fuum Franciſcum Albi zium , in qua de Auſonii Burdigalensi consulatu egit, Desperaverant vel ipsi chronologiae Patres Panvinius & Pagius, computationem quamdam annorum ah. Auſonio factam in e pigrammate, ad Proculum , in quo, ab Urbe condita ad consulatum suum CXVIII. an nos enumeravit, conciliari posse, cum Varroniana epocha , ideoque, novam excogitarunt epocham XIII. annis Varroniana pofte riorem , qua non solum Ausonium, sed etiam Arnobium usos fuisse scripserunt. Horum aliorumque Auſonii interpretum errorem ut corrigeret Eduardus, probare debuit. Auſonium non Romanum, modo, fed & Bur digalenſem geffiffe consulatum, & Romanorum & Burdigalenfium Consulum fastos conscripsisse . Qua distinctione constabilita , facile fuit oftendere eumdem Aufonium in ea pigrammate , quod ad Heſperium filium ini fit cum Romanis faſtis, de Romano, a ſe ges: ſto consulatu, in epigrammate autem illo, quod est ad Proculum, de patrio, municipali, quinquennali (etenim in municipis omnibus majores magiſtratus quinquennales eſſe ſolebant) de Burdigalenſi nimirum con. ſulatu locutum fuisse. Hanc epistolam secuata est altera ad Joannem Chrysostomum Trom . bellium Canonicum Regularem , in qua do nummo quodam ab Athenienſibus Livia Augustae dicato, illiuſque aetate differens, feminam illam non ſupremis tabulis , ſed matrimonii jure a marito nomen Auguſtae accepiſſe pluribus monumentis comprobat. Quae quidem aliaque ex abditiſſima antiqui. tate deprompta , quae fparfit Corfinius in hac epiſtola , ut jucunda lectoribus , ita iif dem plena moeroris fore arbitror , quae in extrema pagina ejuſdem epifolae Trombel lius adnotavit. Scribit enim ille : Dum extre mam hujus epiſtolae partem edimus , monemur , eodem fere tempore , quo Brixiae egregius Maza zuchellius , inclytum Corfinium noftrum Pisis apoplexi repente ereptum . Eheu litterae aflicłae ! o amicos incomparabiles ! o annum vere calami 10fum & peffimum ! Dies , quo illum apople xis iterum invafit , fuit v. ante Kal. De cemb. anno MDCCLXV. poft quem caſum tribus ferme diebus vixit fine ſenſu , Sepultanta tus eft in Aede S. Euphraſiae totius Acade miae luctu , quae hanc calamitatem acerbif fime doluit , doletque adhuc reminiſcens ſe orbatam homine, in quo plurimae erant lit terae eaeque interiores , divinum ingenium , ac induſtria fumma ; fruebatur vero nominis celebritate, ut hac fola muneris fui fplendorem tueri potuiſſet. Atque haec vi tae decorabat dignitas & integritas . Quan tả gravitas mixta comitati in yultu & moribus ! quantum pondus in verbis ! ut nihil inconſideratum exibat ex ore ! quam diligen ter inquirebat in fè ſe, atque ipſe ſe ſe ob Servabat I Oinnino tantus erat in ipso ordo, conſtantia, & moderatio dictorum omnium atque factorum , ut probitatem & religio nem prae se ferret , & ad omne virtutis de cits natus videretur. Quidquid come loquens, & omnia dulcia dicens mirabiliter ad se diligendum omnium ani mos alliciebat; si vero in familiari sermo ne a quopiam dissentiret , contentiones disputationesque vitabat, quod non tam na turae quam virtutis erat. Etenim iracun diae aculeos aliquando sentiebat, sed hos perpetuus cupiditatum domitor frangebat, pla neque occultabat . Secum ipſe vivens animi triftitiam frequenter patiebatur , praeſertim si contemplaretur misera, in quae incidimus, tempora, quibus corrumpere, & corrumpi saeculum vocatur. Quod vero nonnulli per verſe adeo abuterentur philofophia, ac prae ſertim metaphyſica , ut ea animos a religio ne avocarent , tanto illum perfundebat horrore , ut vehementer poenitere eum non nunquam videretur industriae suae , quam in erudienda juventute ad recentiorum philoſo phorum dogmata inſumpſerat . Quae quidem poenitentia injurioſa mihi videtur; omnium artium parenti philosophiae, quasi ejus culpa, quae deflebat mala Eduardus, accidif ſent. Etenim ſunt unicuique ſcientiae : certi fines ac termini ab omnium rerum modera tore Deo constituti, quos qui tranfilit, nae ille devius in praecipitem locum ruat necese est . Sed ad Corfinium revertor, de cujus laudibus non eft tacendum ſummae illum bonitati ingenuitatique ſummam dexterita tem , ſi oportuiſſet, conjűxisse. Liberalis minimeque cupidus pecuniae hanc facile a se extorqueri patiebatur. Virorum litteris illus ftrium amicitias ftudiofillime coluit, amavitque in primis Trombellium & Paciaudium , quo rum mentionem fupra fecimus, quorumque conſuetudinis magnum cepit fructum eo prae sertim tempore, quo Romae fuit. Dolui in pſum combufliffe, quas ab amicis accipere solebat, epistolas , quia ſciebam in iis erudita multa contineri: eae quidem mihi non me diocri subsidio futurae fuiſſent huic explican dae vitae . De qua fatis erit dictum , fi hoc unum addam , eumdem ineditas reliquiffe bi nas Dissertationes de S. Petro Igneo , & B. Joanne delle Celle; librum de civitatibus, quarum mentio sit in graecis nummis , ſex que Latinas orationes habitas in Academia Piſana , ex quibus lenitas ejus fine nervis cognoſci potest. Opere: “Instıutiones philosophicae, ac Mathemaricae ad ufum Scholarum Piarum : Tomus I. Florentiae typis Bernardi Paperini, continens physicam generalem, continens libros de coelo Es mundo, continens tractarum de anima, E metaphysicam  continens ethicam vel moralem continens institutiones mathematicas Editae iterum fucrunt hae institutiones in V. mos diſtributae Bononiac ex ty pograghia Laclii a Vulpe cum hoc titulo Cl. Reg: Scholarum Piarum, & in Pisana Academia Philosophiae Professoris Institutiones Philosophicae ad un fum scholarum Piarum edirio altera auctior & emendarior; Ragionamenti intorno allo fato del fiume Arno, dell acque della Valdinievole, In Colania appresso Heng Werergroot, in 4. “Elementi di Matiemasica, ne' quali sono con migliori ardine e nikovo metodo dimostrare le più nobili e necesaria proposizioni di Euclide, Apollonio, e Archimede, Ch . Reg. delle Scuole Pie : in Firenze . nella Stamperia di S. A. R. per li Tartini, e Frasa ahi in 8 . Hace elementa mathematica edita secundo fuerunt Year I 2 1 netiis apud Antonium Perlinum , in qua edie tione quaedam mutata ſunt , emendatufque error, quo cao ptus fuerat Auctor, dum in priori editione exposuit propoíitionem XXXV. Libri XI. Venetae huic editioni a djc&us est ejusdem Auctoris liber della Geometria Pranica; Ragionamento Istorico Sopra la Valdichiana, in cui si descrive la antica e presente suo stato” (Firenze nella Stamperia di Franceſco Moucke in 4); “Faſii Anici in quibus Archonium Athenienfium sea ries , Philosophorum, aliorumque illustrium Virorum deras arque praecipua Acicae historiae capita per Olympicos annos disposita describuntur, novisque observationibus illustrantur: ACl. Reg. Scholarum Piarum in Pisana Academia Philosophiae Professore, Florentiae, ex typographia. Jo . Pauli Giovannelli ad insigne Palmae in Platea S. Eliſabeth . Tom .II. prodiic. ex eadem typo graphia . Tom . III. prodiit anno 1751. ex eadem typographia . Tom . IV . prodiit ex Imperiali typographia Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acadeo mia Pisana Philosophiae Profeſoris Differtationes. IV Agonisticae, quibus Olympiorum, Phychiorum, Nemeurum, ale que Isthmorum lempus inquiriiur ac demonftrarur: Aco redit Hieronicarum catalogus eduis longe uberior Es accurarior. Florenciae ex typographia Imperiali. In cxtrema pagina hujus libri öxhibetur integra feries menfium Macedonicorum, Atticorum , & Romanorum ad de mondirandun veruna corum ficum ac connexionem ; quam ſeriem hoc quoque in loco nos exponemus , quia rem gratam antiquitatis ſtudioſis facturos arbitramur. Series enim a Corfinio contexta differt nonnullis in nienſibus ab ca quam Scaliger, Uſterius, Petavius, Dodwellus, aliique descripferunt, i Macedonici Atrici Romani Lous Gorpiaeus Hyperbercraeus Dlus Apellaeus Audynaeus Peritius Dystrus Xanthicus Artemisius Daiſius Panemus Hecatombeeon Meragirnion Boedromion Pyanepſion Maemacterion Pofideon Gamelion Anthefterion Elaphebolion Murychion Thargelion Scirrhophorion Julius Augustus September October November December Januarius Februarius Marrius Aprilis Majus Junius Lettere intorno all' opera del Marchese Scipione Maffei intitolata: Graecorum Siglae lapidariae. Extat in tom. 4 . par. 3. del Giornale de’ Letterati pubblicaro in Firenze notae graecorum , five vocum Ex numerorum compen dia , quae in aereis atque marmoreis Graecoruin rabulis ob. fervantur . Collegii, recenſuit, explicavit, eaſdemque cabu las opportune riluftravia Eduardus Corſinus Cl. Reg. Scholas) rum Piarum in academik Piſina Philoſophiae Profesor . Accedunt Differtationes ſex , quibus marmora quaedam rum facra cum profana exponuntur ac emendantur. Florentine Tographio Imperiali in fol. Plutarchi de Placitis Philofophorum libri V. Larine reddidit , recenſuir , adnotationibus , variantibus lectionibus , diferrationibus illuſtravit Eduardus Corfinius Cl. Reg. Schoe laruan Piarum in Pisana Acad. Philosophia Professor Flo. seniige ex Imp. Typographio, Disertationes IV quibus antiqua quaedam insignia moc sumente illuſtrantur . Vide eas, Symbolarara litercriarum Antonii Francisci Gorii. Herculis quies & expiatio in eximio Farnesiano mere more expresa : in fol. Inscriptiones Articae nunc primum ex Cl. Maffeii Schea dis in lucem editae latina interpretatione brevibusque observationibus illuſtratae Cler. Regul. Schole sunr Puarum in Academia Pisana Philosophiae Professore. Florenciae ansio ex typographio Jo. Pauli Giovannel li in 4 . Solecta ex Graeciae Scriptoribus in usum ſtudiosae Juvent. sutis , Florentiae ex Imperiali rypographio ir 8 . Inſtitutiones Metaphyſicae in ufus Academicos auctore Eduardo Corfi:n0 Clericorum Regularium Scholarum Piaruz in Academia Pifana . Philoſophiae Profeſore . Vesieriis ex Typographia Balleoniana in 12 Eduardi Corſini Cl. Reg. Scholarum Piarum in Acco demia Piſana humaniorum litterarum Profeſſoris de Minni fari aliorumque Armeniac Regum nummis , & Arſacidarum Epocha Differtario Liburni typis Antonii Santini & Sociorum in 4. Spiegazione di due antichiſſime inſcriçroni Greche indie ricare al Reverendiffimo Padre Anton Franceſco Vezzofi, Prepoſto Generale de Cherici Regolari , Lettore nella Seo pienza Romana , ed Eſaminatore de' Vefcovi da Edoardo Corfini Ch . Reg. delle Scuole Pie. In Roma, nella Stamperia di Giovanni Zempel in 4 . Relazione dello scuoprimento e ricognizione fatta in Ancona dei Sacri Corpi di S. Ciriaco , Marcellino, e Lia berio Proiettori della Circà ; e Riflefroni ſopra la translazione, ed il culto di queſte Sanci . In Roma, nellu Stampe ria di Giovanni Zempel in 4. Eduardi Corfini Cler. Regul. Scholarum Piarum, En in Academia Piſana humaniorum literarum Profeffuris Dis Seseario , in qua dubia adverſus Minniſari Regis nummum , & novam Arſacidarum epocham a Cl. Erasmo Froelichio s. J. proposita diluuntur. Romae ex typographio Palla dis in 4. Eduardi Corſini Cler. Regul. Scholarum Piarum & in Academia Pisana humaniorum lirerarum Profeſoris ad Cles riflimam virum Paulum Mariam Paciaudium Epiſtola , ir qua Gotarzis Parthiae Regis nummus hactenus ineditos expli Catur , & plura Parthicae hiſtoriae capita illustrantur . Romae, in Typographio Palladis . Excudebant Nicolaus & Marcus Palearini ir 4 .Cl. Reg. Scholarum Piarum in Pifar:& Academia humaniorum litterarum Profeſoris Epiftolae rres , quibus Sulpiciae. Dryantillae, Aureliani ac Vaballathi Avea guſtorum nummi explicantur & illuſtrantur. Liburni apud Jo. Paullus Fanthechiam ad fignum Verit. in 4 . Series Praefeciorum Urbis ab Urbe condira ad annum uſque MCCCLIII. sive a Chriſto naro DC. collegit , rem cenſuit , illuſtravir Eduardus Corſinus Cler. Reg. Scholarum Piarum in Academia Piſana humaniorum liuerarum Professor Pisis excudebar Joh . Paulus Giovane nelius Academiae Pifunae Typographus cum Sociis in 4. Notizie Iſtoriche intorno a S. Liberio ſepolto e venera 10 nella Cattedrale della città di Ancona all' Eminentiffimo Signor Cardinale Acciajuoli Veſcovo di detta città . In Are cona nella Sramperia Bellelli in 4.  Cl. Reg. Scholarum Piarum , in Academia Piſana humaniorum litterarum Profeſoris Epiſtola de Burdigalenfi Aufonii Confulatu . Piſis Exe cudehar Joh. Paulus Giovannellius Academiae Pifanae inyo pographus cum Sociis in 4. Clericor. Regular. Scholarum Pia rum Ex- generalis , & in Pifana Univerſitare Primarii Les coris ed Joannem Chryſostomum Trombellium canonicorum Regularium Congregationis S. Salvatoris Ex-generalem & S. Salvatoris Bononiae Abbatem Epistola, Bunoniae,  ex typographia Longhi in 4; Disertazione sopra S. Pietro Ignes, sopra il B. Giovanni delle Celle; De Civitatibus, quarum mentio sit in Graecis nummis, Pars I. Historiae Academiae Pisenae, Latinae Orationes VI, Ad Academicos Pisanes. Odoardo Corsini. Edoardo Corsini. Silvestro Corsini. Corsini. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corsini” – The Swimming-Pool Library.

 

Cortese (Milano). Filosofo e alpinista. Grice: “I love Cortese; first he wrote on Frege, whose views on ‘aber’ are very much like mine on ‘but’! – But then he also wrote on ‘irony,’ alla Socrates – as per Kierkegaard’s example, “He’s a fine fellow! => He’s a scouncrel --, and most ‘theoretically,’ as the Italians put it – on the ‘principle of meaning’ – significato – which had me thinking – I very freely speak of the principle of conversational helpfulness, but somehow, principle of ‘signification’ sounds obtuse! Signification seems too natural to require a principle! If helpfulness and benevolence are evolutionary traits, they are certainly NOT ‘instituted’ as principles, even if they are requirements for trust and the ‘institution of decisions’!” “I am anything but a contractualist, and principle has to be taken with a pinch of salt!” If I speak of a rational constraint, the idea of a principle evaporates: it’s conversation as rational cooperation – as I put it – as different from and stronger than ‘conversation as mere cooperation’ – but this slogan frees us from a commitment to the existence of a ‘principle’ to which we might want later to provide with some sort of ‘psycho-logical’ validation!” Di una famiglia originaria di Sant’Angelo Lodigiano. Si laurea a Trieste e Milano sotto Bontadini e Noce. Insegna a Trieste. Studia Kierkegaard, Gioberti. Italianismi in Kierkegaard. Altre opere: “Kirkegaardiana” (Milano); “Esistenzialismo e fenomenologia” SEI, Torino); “Protologia e temporalità, Gregoriana, Roma); “Kierkegaard” (Milan); “Del principio di creazione o del significato” Liviana, Padova, Kierkegaard” (La scuola, Brescia); “Ironia” (Marietti, Genova); La Creazione: Un'apologia accidentale della filosofia” (Marietti, Genova); “Il negozio del sapone, Liviana, Padova); “Enten-Eller ([Victor Eremita” (Adelphi, Milano); “L'attrice” (Antilia, Treviso); “Un discorso edificante” (Marietti, Genova); Il naturale e il sovra-naturale (Padova); Ermeneutica” (Lint, Trieste), “Il responsabile” – “Eden” – “Introduzione all’introduzione” del Gioberti – “Frege: signare il concetto”; “Liberalismo” -- Grice: Can a sign have a different meaning for utterer and recipient? – If so, why do we keep calling communication – signare seems to be still good enough! -- Alessandro Cortese. Cortese. Keywords: Kierkegaard, soap, sapone, actress, attrice, edifying discourse, discorso edificante, naturale/sopra-naturale/preter-naturale, Paul Carus, hyperphysical. Those spots means she has the devil inside her. Praeter-natural implicatura, supra-natural implicature, non-natural implicature, natural implicature. “Del significato”, ironia socratica, sapone, Savona, signare il concetto, sovrannaturale, liberalismo, il responsabile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cortese” – The Swimming-Pool Library.

 

Corvaglia (Melissano). Filosofo. Grice: “I love Corvaglia – or corvus in diluvio, as he called himself! – a very Italian philosopher and thus interested in the history of Italian philosophy, especially Vannini – the fact that he wrote plays on philosophical subjects – La casa di Seneca – helps!”  Opera nel campo della filosofia del rinascimento. Tra gli studi filosofico-scientifici si distinguono per vastità e profondità i volumi Le opere di Vanini e le loro fonti, e Vanini Edizioni e plagi, risposta polemica condotta contro le veementi critiche ricevute Porzio.  Pubblica il romanzo Finibusterre, trasfigurazione quasi sacra della sua amata terra e del popolo del Basso Salento, ch'egli incitava con ogni mezzo, anche se spesso travisato e intralciato e persino calunniato a crescere, per migliorare materialmente e moralmente. Il romanzo fu ben accolto dalla critica. Benedetto Croce, a cui Corvaglia lo aveva dedicato, rimarcò "lo sfondo storico rappresentato in modo assai vigoroso" e il "trattamento dei caratteri e degli effetti". Con maggiore puntualità Annibale Pastore (già suo professore all'Torino) gli confidava di sentire emergere nella sua mente, attraverso figure e temi del romanzo, ricordi sepolti, "struggente malinconia", un mondo molto simile a quello del Manzoni, "anch'esso celato alla superficie, soffuso d'ironia-limite", e tuttavia turbato da altri affascinanti caratteri, quali: "il sorprendente realismo, la perfetta armonia, l'effusione poetica, l'occhio acuto e sicuro, che scruta l'animo umano fin nelle più remote pieghe".  Si dedica totalmente alla filosofia del Rinascimento, animato dal bisogno di trarre alla luce obliterate sorgive  e percorrendo il movimento spesso alquanto sconosciuto della filosofia, che dal Rinascimento risale fino al Medio Evo.  S'apre nella sua vita uno spiraglio di fiducia verso gli uomini impegnati, e si prestadoverosamente secondo la sua fede politica all'attività politica, accogliendo e votandosi alla cultura mazziniana, cui rimane Fedele.. È di questo periodo la pubblicazione, tra l'altro, dei Quaderni Mazziniani: “Noi Mazziniani”, “Mazzini ed il Partito di Azione”, “L'Acherontico retaggio”, “Il Partito Repubblicano italiano”, il discorso Ai giovani, la conferenza (edita da Laterza) su Giuseppe Mazzini. Dopo la proclamazione della Repubblica, però, si allontana da ogni azione politica, ritenendola del tutto estranea e lontana dall'ideale da lui vagheggiato e sperato. Si trasferisce a Roma, nell'ambiente culturale a lui più consono, ritornando agli studi tra i suoi libri, dove soltanto sente di vivere senza alcun compromesso, in assoluta libertà.  Cascata di S.M. di Leuca. Scaligero, un saggio di "speleologia". Saggio su Cardano. Su iniziativa del comune di Melissano, è stato avviato un "Biennio di Studio su Corvaglia", al fine di approfondirne e divulgarne la conoscenza. Alla realizzazione del progetto collaborano, come protagonisti, anche l'Amministrazione Provinciale di Lecce, l'Università degli Studi del Salento e l'Istituto Comprensivo Statale di Melissano, che chiuderanno il biennio dei lavori, organizzando un Convegno su Corvaglia", al fine di dibattere argomenti di particolare interesse presenti nella sua opera. A tale riguardo si sta già operando non solo sul piano della ricerca specialistica e accademica, ma anche sulla promozione d'iniziative, che coinvolgano biblioteche e settori culturali degli enti locali, creando opportunità per sviluppare in maniera articolata e organica la ricognizione e la valorizzazione del patrimonio culturale salentino in generale e melissanese in particolare, lasciato in eredità da Corvaglia.   La casa di Seneca- Commedia di L. Corvaglia. Altre opere: “La casa di Seneca” (Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Rondini (dedicata "Al mio povero innocente Nova, fuggevole visione di un Infinito", che avvampa e dilegua in vicenda amara di avventi senza natale"; Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce); “Tantalo” Tipografia Fratelli Carra, Matino (Lecce), Santa Teresa e Aldonzo (L. Cappelli Editore, Bologna); Rondini- Commedia; “Romanzo Finibusterre, Editrice Dante Alighieri, Milano); “Le fonti della filosofia di Vanini” (Anphitheatrum Aeternae Providentiae, Società Dante Alighieri, Milano); “Introduzione semi-seria dialogata per il lettore Vanini” (Edizioni e plagi, Tipografia Carra di Casarano); “Ricognizione delle opere di G.C. Vanini, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana”; La poetica di Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in "Giornale Critico della Filosofia Italiana", Quaderni Mazziniani; “Noi Mazziniani” Tipografica di Matino (Lecce), “Mazzini e il partito d' azione (critica), Tipografica di Matino (Lecce), “ L'acherontico retaggio (con l'elogio della vita comune), Tipografica di Matino (Lecce), Quaderni Mazziniani n° 4. Il partito repubblicano italiano, Tipografica di Matino (Lecce). Discorso tenuto a Lecce nel Teatro Paisiello il 21 gennaio 1945. Giuseppe Mazzini, Discorso commemorativo tenuto a Lecce nel Teatro Apollo, Laterza, Bari,"Rinascenza salentina", Un Paese del Sud. Melissano. Storia e tradizioni popolari, Tipografia di Matino. Meridionalista e Polemista, La Poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, Musicaos Editore, Sulla Poetica di G.C. Scaligero. Convegno sy Corvaglia. Il pensiero politico di Corvaglia. Popolo Sacralità Religiosità. Luigi Corvaglia. Corvaglia. Keywords. Refs.: Vanini, Bordon, poetica, Mazzini, Pomponazzi, Cardano --. Luigi Speranza, “Grice e Corvaglia” – The Swimming-Pool Library.

 

Cosi (Firenze). Filosofo. Grice: “I love Cosi; my favourite of his philosophical essays on justice is the one on ‘l’accordo,’ for this is what my principle of conversational helpfulness or co-operation is all about!”  Giovanni Cosi. Si laurea a Firenze. Insegna a Firenza, Sassari, Siena. Altre opere: “La liberazione artificiale: l’uomo e il diritto di fronte a la droga” (Milano: Giuffrè); "Religiosità e teoria critica" (Giuffre); "Secolarizzazione e ri-sacralizzazioni" (Giuffre); "Il sacro e giusto: itinerario di archetipologia” (FrancoAngeli). Dopo aver compiuto ricerche sull'espressione del dissenso in forma non rivoluzionaria negli ordinamenti liberal-democratici, pubblica per la Giuffrè Editore il volume "Saggio sulla disobbedienza civile"; "Il traviato”, “il filosofo traviato: il filosofo come gentiluomo (Giuntina); “La  obbedienza civile, la disobbedienza civile: il consenso, il dissenso, la aristocracia, la plutocracia, la democrazia, la repubblica (Milano: Giuffrè). Il giurista perduto: avvocati e identità professionale” (Giuntina), “Logos e dialettica” (Giappichelli, Torino); “Il filosofo risponsabile” (Giappichelli,Torino); “Lo spazio della mediazione, -- il terzo escluso – chi media nella diada? (Giuffrè). “Invece di giudicare” (Giuffrè); “Il spazio della mediazione nel conflitto della diada conversazionale” (Giappichelli Torino); “Legge, Diritto, Giustizia” (Giappichelli, Torino). “Giudicare, o Fare giustizia. – vendetta – il concetto filosofico” (Giuffré Editore, Milano). La liberazione artificiale: l'uomo e il diritto di fronte alla droga, Giuffrè, Milano; Saggio sulla disobbedienza civile: storia e critica del dissenso in democrazia, Giuffrè, Milano; Il giurista perduto: avvocati e identità professionale, Giuntina, Firenze; Il sacro e il giusto: itinerari di archetipologia giuridica, Franco Angeli, Milano; Il Logos del diritto, Giappichelli, Torino; La responsabilità del giurista: etica e professione legale, Giappichelli, Torino; Società, diritto, culture: introduzione all'esperienza giuridica, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze); La professione legale tra patologia e prevenzione: materiali di etica professionale, dispense di Sociologia del Diritto, Firenze; Per una politica del diritto del fenomeno droga: problemi e prospettive", Archivio Giuridico; Il diritto e la droga" e "Per una comprensione culturale dell'uso di droghe", Testimonianze; "Religiosità e Teoria Critica: la teologia negativa di Max Horkheimer", Rivista di Filosofia Neo-scolastica, "Secolarizzazione e risacralizzazioni: le sopravalutazioni post-illuministiche dell'immanentismo", in L. Lombardi Vallauri - G. Dilcher (eds.), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Giuffrè - Nomos Verlag, Milano - Baden-Baden);  "Sulla 'naturalità' dei diritti civili", Testimonianze; "L'Uno o i Molti? Il 'nuovo politeismo' di Miller e Hillman", Testimonianze; "Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale", Jus; "Iniziazione e tossicomania: intorno a un libro di Luigi Zoja", Testimonianze; "Le aporie del pacifismo: critica della pace come ideologia", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "L'immagine sofferente della legge", L'Immaginale; "Diritto e morale in tema di aborto", Testimonianze; "Professionalità e personalità: riflessioni sul ruolo dell'avvocato nella società", Sociologia del Diritto; "L'avvocato e il suo cliente: appunti storici e sociologici sulla professione legale", Materiali per una storia della cultura giuridica; "La coscienza, gli dei, la legge", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto;  "Il diritto del mondo I", Anima; "Un anniversario dimenticato: Il Bill del 1689 e la sua eredità", Sociologia del Diritto; "Vecchio e nuovo nelle crisi di identità degli avvocati", in Storia del diritto e teoria politica, Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Macerata; "Verso il paese di Inanna", Anima;"Avvocato o giurista?", comunicazione al VI Convegno nazionale di studio dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Firenze, Iustitia, "Tutela del mondo e normatività naturale", in L. Lombardi Vallauri (ed.), Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano); "Tutela del mondo e strumenti giuridici", Testimonianze; "La professione legale tra etica e deontologia", Etica degli Affari e delle professione; "Diritto e realizzazione: un'introduzione alla fenomenologia del logos giuridico", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "La legge e le origini della coscienza", Per  la filosofia; "Naturalità del diritto e universali giuridici", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto,"Naturalità del diritto e universali giuridici", in F. D'AGOSTINO (ed.), Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, Torino); "Etica secondo il ruolo", Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto; "Purezza e olocausto: un'interpretazione psicologico-culturale", Per  la Filosofia; "Logos giuridico e archetipi normativi", in L. LOMBARDI VALLAURI (ed.), Logos dell'essere, Logos della norma, Adriatica, Bari); “Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto e tecniche di mediazione”, in F. MOLINARI e A. AMOROSO (ed.), Teoria e pratica della mediazione, FrancoAngeli, Milano); “Le forme dell’informale”, comunicazione al XXI Congresso Nazionale della Società di Filosofia Giuridica e Politica, Trieste, Ora in Giustizia e procedure, Atti del suddetto Convegno, Giuffrè, Milano); “L’idea di professione”, Dirigenti Scuola, “Controllare la professione”, Dirigenti Scuola, “Professione, patologia e prevenzione”, Dirigenti Scuola. Grice: “Italians are afraid of the ‘sacro’ because since the fall of the Roman Empire, it means the evil Pope! – unless otherwise stated by people like Evola, etc.” – Grice: “Hart should have spent more time analysing the implicatures of ‘disobey,’ as Cosi does -- to realise how wrong his theory is!” Grice: “Austin, who taught morals at Oxford, should have examined, as Cosi does, what we mean by ‘responsible philosopher’ before opening his mouth!” – Grice: “My idea of helpfulness does not quite include that of ‘mediation’ but it should – the space of mediation in the conflict in the conversational dyad! I owe this to Cosi.” Grice: “I decided to use ‘judicative’ versus ‘volitive’ after Cosi. – His ‘giudicare’ is a gem!” -- Giovanni Cosi. Keywords: il secolare/il sacro; profane/sacro – secolare; archetipo, il filosofo come gentiluomo, l’obbediente, il disobbediente, il consensus, il disensus, to obey, conflitto, mediazione, diritto (right), giure, giurato – legatum, vendetta, giudicare, fare giustizia, vendetta conversazionale, natura, naturalita, non-naturale, legge naturale gius naturale, giusnaturalismo, fenomenologia del giurato; normato naturale? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosi” – The Swimming-Pool Library.

 

Cosmacini (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cosmacini; for one he wrote on THREE areas of my concern: ‘cuore’, as when we say that two conversationalists reach an ‘accord’! – on ‘empatia’ – a Hellenism, and most importantly, on ‘compassione,’ which is at the root of my principle of conversational benevolence. -- Giorgio Cosmacini (Milano), filosofo. Studia a Milano e Pavia.la “convenzione della mutua” o INAM(Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie) e apre un ambulatorio mutualistico Fare bene il mestiere di “medico della mutua” non significa gestire un certo numero di “mutuanti”; voleva inoltre dire aver cura di una comunità di persone, ciascuna delle quali con esigenze proprie. raggiungendo in quel periodo circa trecento mutuanti. Quando i suoi mutuanti erano circa millecinquecento, decise di realizzare un suo sogno: la libera docenza. è autore di numerose opere d'argomento filosofico-medico. Altre opere: la mutua, medico della mutua, mutuante, mutuanti, ambulatorio mutualistico. “Scienza medica e giacobinismo in Italia: l'impresa politico-culturale di Rasori (Collana La società, Milano, Franco Angeli); Röntgen. Il "fotografo dell'invisibile", lo scienziato che scoprì i raggi x, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Gemelli. Il Machiavelli di Dio, Collana Biografie, Milano, Rizzoli); “Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale. Gius. Laterza & Figli); “Medicina e Sanità in Italia nel Ventesimo secolo. Dalla 'Spagnola' alla 2ª Guerra Mondiale, Roma-Bari, Laterza); “La medicina e la sua storia. Da Carlo V al Re Sole, Collana Osservatorio italiano, Milano, Rizzoli); “Una dinastia di medici. La saga dei Cavacciuti-Moruzzi, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli); Storia della medicina e della Sanità nell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, G. Cosmacini-Cristina Cenedella, I vecchi e la cura. Storia del Pio Albergo Trivulzio, Roma-Bari, Laterza); “La qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Roma-Bari, Laterza); “Medici nella storia d'Italia, Roma-Bari, Laterza, L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il medico ciarlatano. Vita inimitabile di un europeo del Seicento, Laterza); “Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina, La Ca' Granda dei milanesi. Storia dell'Ospedale Maggiore, Roma-Bari, Laterza); “Il mestiere di medico. Storia di una professione, Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Introduzione alla medicina, Roma-Bari, Laterza, Biografia della Ca' Granda. Uomini e idee dell'Ospedale Maggiore di Milano, Laterza, Medicina e mondo ebraico. Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Il male del secolo. Per una storia del cancro, Roma-Bari, Laterza); “La stagione di una fine, Terziaria); “Il medico giacobino. La vita e i tempi di Giovanni Rasori, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Salute e bioetica, Torino, Einaudi, G. Cosmacini-Roberto Satolli, Lettera a un medico sulla cura degli uomini, Roma-Bari, Laterza, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza, Una vita qualunque, viennepierre edizioni, Il medico materialista. Vita e pensiero di Jakob Moleschott, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza «La mia baracca». Storia della fondazione Don Gnocchi, Presentazione del Cardinale Dionigi Tettamanzi, Laterza); “La peste bianca. Milano e la lotta antitubercolare, Milano, Franco Angeli); “L'arte lunga. Storia della medicina dall'antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza); “Il romanzo di un medico, viennepierre edizioni, L'Islam a La Thuile nel Medioevo. Un «tuillèn» alla terza crociata: andata, ritorno, morte misteriosa, KC Edizioni, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “La religiosità della medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “L'anello di Asclepio. L'età dell'oro”; “La peste, passato e presente, Milano, Editrice San Raffaele); “La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base” (Collana Scienze e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Il medico saltimbanco. Vita e avventure di Buonafede Vitali, giramondo instancabile, chimico di talento, istrione di buona creanza” (Roma-Bari, Laterza); “Prima lezione di medicina, Collana Universale.Prime lezioni, Roma-Bari, Laterza); “Il medico e il cardinale, Milano, Editrice San Raffaele); “Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Bologna, Il Mulino); “Politica per amore” (Milano, Franco Angeli); “Guerra e medicina. Dall'antichità a oggi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Compassione” (Bologna, Il Mulino); “La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione, Milano, Raffaello Cortina); “Camillo De Lellis. Il santo dei malati, Roma-Bari, Laterza); “Il medico delle mummie. Vita e avventure di Augustus Bozzi Granville, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza); “Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “Tanatologia della vita e stetoscopio. Bichat, Laënnec e la "nascita della clinica", AlboVersorio, . Medicina e rivoluzione. La rivoluzione francese della medicina e il nostro tempo” (Collana Scienza e Idee, Milano, Raffaello Cortina); “Un triennio cruciale. Como, il lago, la montagna, NodoLibri); “La forza dell'idea. Medici socialisti e compagni di strada a Milano. L'Ornitorinco,  Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina tra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco,  Medicina Narrata, Sedizioni); “Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute” (Milano, Franco Angeli); “La chimica della vita” -- e microscopio. Pasteur e la microbiologia, AlboVersorio); “Per una scienza medica non neutrale. Tre maestri della medicina in Italia fra Ottocento e Novecento, L'Ornitorinco); “Il tempo della cura. Malati, medici, medicine, NodoLibri); “Elogio della Materia” -- Per una storia ideologica della medicina, Edra edizioni); “L'Infinito di Leopardi. Un impossibile congedo” (Sedizioni, . Memorie dal lago e ricordi dal confine. Como, il lago, la montagna, NodoLibri,  Salute e medicina a Milano. Sette secoli all'avanguardia, L'Ornitorinco); “La medicina dei papi, Collana Storia e Società, Roma-Bari, Laterza); “Medici e medicina durante il fascismo” (Pantarei); “Il viaggio di un ragazzo attraverso il fascismo, Pantarei); Historia cordis, Ass. Gianmario Beretta, . Curatele Dizionario di storia della salute, G. Cosmacini, Giuseppe Gaudenzi, Roberto Satolli, Collana Saggi, Torino, Einaudi.  “mutua gratia” - Practicis nostris , Muri LAPIDES , sine inscriptione , apud nus, gadinca, vel Hnoc . Non liquet, “don mutual” – mutual gift -- Charta ann . 1326. in Chartul . Hygenum de Limitibus constituendis. inquit Somnerus. (Mutinæ carnes , in Con thesaur. S. Germ. Prat. fol. 12. rº.: Dicta. mutuum, Exactio nomine mului, Charta suet. MSS. Eccl . Colon . e Bibl . Eccl. Atre- Ysabellis exhibuit dicto thesaurario quasdam Rogerii 1. Reg. Sicil. ann. 1129. apud Mu bat, eædem quæ vervecinæ. Vide Multo, litteras mutuæ gratiæ dudum confectas inter ralor. tom . 6. col. 623 Nulla angaria , par I mutio , id est, Patuus. Vocabul . dictam Ysabellam et prædictum defunctum angaria, echioma, gabella,Muruum, extorsio utriusque Juris . dum vivebat , et constante legitimo matrimo- jaciatur, imponatur. Chron. Parmense ad mutis, Truncus, stirps . Pactum inter nio inter ipsos. ann. 1996. apud eumdem tom . 9. col . 834 : Humb. dalph. et episc. Gratianopol. ann. “mutuare”, Mutuum, seu exactionem ec impositum fuit per commune Parma 1343. in Reg: 134. Chartoph. reg. ch. 34 : nomine mutui impositam solvere. Vide unum mutuum octo millium librarum impe recte tendendo ad pedem cujusdam margassii mutuum . rialium per episcopatum , et quinque millium seu claperii in quo margassio seu cleppe. Mutuatim, pro mutuo, in Vita Anti- per civitatem . Et mutuum clericis fuit im rio sunt duæ mutes arborum . dii Archiep. Bisonticensis cap. 5 : Bene- positum duo millium librarum, etc. Chron . Åwwvíz , in Gloss . Græc. Lat. dictionis ergo dono mutuatim dato , etc. Mutin . ibid . tom. II. col. 122 : Tria Mu [Mirac. S. Bernhardi Episc. tom. 5. Julii (mutuatio, pro mutatio, in Consuet. tua extorsit.] Historia Cortusiorum lib. 3 . p.112, Eoque quippiam petere volente, MSS. Auscior. art. 3 : Fiat autem mutua cap. 14, Teutonici cruciabant Paduanos verbis in ore reclusis, subito mulus effectus tio consulum annuatim in festo S. Joan. *mutuis* el daciis. Infra: *mutual* imposuit et est; qui a plerisque tentatus, an videlicet Baptistæ. datias. Lib. 7. cap. 1 : V'exabantur Muluis astu Muritatem simularet , et tandem certa ex Ital . Mutola , Muta . Oc- et daliis. Albertinus Mussalus lib. 12. de loquendi impotentia comprobatur. Occurrit currit in Vita B. Justinæ de Aretio n. 9 . Reb . gest. Italic . pag. 86 : Communes da præterea toin . 2.Sanctorum Apr. pag. 429.] , Idem quod Expeditatus, riæ , exactionesque et Mutua publica el priMuronagium . Vide in Charta Forestæ cap. 9. forte pro múti- vata etc. Charta R. Abbatis Monasterii Ka Mullo . latus. Locum vide in Mastinus. roffensis in Pictonib . ann. 1308. ex ( Ovis, Massiliensibus Mous, Nudus , glaber. Regesto Philippi Pulcri Regis Franc. Tabu tonfede. Charta ann . 1390 : Quilibet Mu- Gloss. Lat . Græc. MSS. Sangerman . larii Regii n . 11 : Non recipiemus ibi Mu tofeda solvat xvi. denarios. * Castigat . in utrumque Glossar. forte tuum, nisi gratis mutuare voluerint habitan Lugdunensibus , Feye. Vide supra Menlulosus, ead'ns , ex Vulc. tes. Ita in Liberlatib. Novæ Bastidæ in Oc Lex Ripuar. lit. 6o. S 4: Si citania ann. 1298. in alio Regesto ejusdem xudovicv, Malum colo- autem ibidem infra terminationem aliqua in- Regis ann. 1299. n. 16. Vide Credentia , neum . Supplem . Antiquarii et Gloss. MSS. dicia sua arte , vel butinæ ,aut Lat. Græc. Sangerm . Aliud itidem Gloss. : extiterint, ad sacramentum non admittatur, *mutuum coactum* exactio , quæ a Mutonium , Tepábeuo , Additio. etc. Ubi mutuli, videntur esse aggeres ter- dominis in urgentibus negotiis suis ac ne 1., quos Motes nostri vocant : aut forte cessitatibus fiebat super subditos, vassallos, equilatus , quod sic describit Jovius Hist. lapides ii quosMuros vocant Agrimensores,ac tenentes cum restitutionis conditione ac lib . 14: Mutpharachæ admirabili virtute i. sine inscriptione, vice terminorum po- pollicitatione : a qua quidem exactione præstantes , toto orbe conquisiti, ea condi- siti. Vide Bonna 2 . exempta pleraque oppida, quibus concessæ tione militant, ut quos velint Deos , impune KF Errat Cangius , si fides Eccardo , libertates , leguntur. Charla libertatum colant, præsentique tantum Imperatori ope- in Notis ad Legem citatam , quam ad cal- Aquarum Mortuarum ann . 1246 : Omnes ram navent. Hæc post Carolum de Aquino cem Legis Salicæ edidit . Mútuli enim sunt habitatores loci illius sint liberi et immunes in Lex. milit . machinaliones clandestinæ , vel seditiones ab omnibus questis , talliis , et toltis , et clam excitatæ , a veteri German .Meulen , tuo coucto , et omni ademptu coacto. Con capitis tegumentum , quod monachi cap. | clandestine agere , unde Meutmacher, Fla- suetudines Monspelienses MSS. cap. 56: paronem vocabant. Gall . Christ. tom. 4. bellum seditionis, Gall. Mutin. Hæc vir Toltam nec quistam , vel Mutuum coactum , col uti. Mutrellis 782 : Statuimus in dormitorio , quod liceat fratribus eruditus ; quæ tameninmeam fidem reci. vel aliquam exactionem coactam non habet ; . Vide Mitræ . necunquam habuit dominus Montispessulani I Vide Morth . I Gall . Mouton . in hominibus Montispessulani. Eædem ver *, ut supra Muramen. Charta ann. 1307. exArchivis Massil. : naculæ , totas inquistas , ni prest forsat , o Terrear.villæ de Busseul ex Cod . reg. 6017. Item super co quod petebantdicti parerii alcuna action destrecha , etc. Libertates fol. 47. vº. : Item unum Pariziensem Mut -I quartam partem Murunorum , astorium et concessæ oppidis Castelli Amorosi et Va CANGII CLOSS. – T. IV. 2 . Feda 2 . pere nolim. 75 594 etc. lentiæ, in diæcesiAginnepsi, ab Edwardo I Eodem significatu , De S. 6 : L. FURPANIO L. Lib. PuILOSTORGO Mr. I. Rege Angliæ ex Regesto Constabulariæ Juvenate Episc. tom . 1. Maii pag. 399 : ROBRECHARIO VIX ann. LIJTI. Purpuria L. Burdegalensis fol. 55. 140 : Nec recipiemus Episcopus Narniensis ex suo palatio , ialari L. OLYMPUSA PECIT.  in ibi Muruum , nisi gratis nobis mutuare velint reste indutus , racheto et Muzzeta. Vide Inscript. ccxcix . 3. Vide Martin Lex. in habitantes. Eadem habent libertales Rio. Mozzetta. hac voce . magi in Arvernis. vocatur letri rudoris in . Fantasia , miratores. Pa Mutuum VIOLENTUM , in Charta liberta- quietudo terrena. Ita Apuleius de Muudo. pias. tum Jasseropis, apud Guicheponum in A Græco nimium púxw , Mugio , reboo. Vide Ma Histor. Bressensi pag. 106. Roga coacta , in I Piscis genus, qui alius zer. Charta Ludovici Comitis Blesensis et Cla- videtur ab eo quem Spelmannus piscem. in Statutis Mon romontens. ann. 1197. pro Creduliensi viridem vocat . Computus ann. 1425. apud tis Regal. fol. 318 : Debeat solvere emptori villa : Omnes homines Credulio marentes Kennett. in Antiquit. Ambrosden. pag. gabellæ piscium , solidos quatuor pro quoli taliam mihi debentes , el eorum hæredes, a 575 : Et in 111. copulis viridis piscis ... Et bet rubo piscium , et intelligatur detracta talia , ablatione, impruntato et Roga coacta inxv. copulisde Myllewellminorissortisx: Myrta et cestis ac funibus. de cælero penitus quilos et immunes esse sol. vi. d . et in xx. Myllewell majoris sortis Eadem notione, usurpant Cat concedo. Exslat Statutum Philippi VI. Re- Xit, sol. ( * Vide Mulsellus.] lius Aurelianus , Celsus, et Apicius. Vide gis Frane. 3. Febr. ann. 1343. quo vMoniales, ex Anglo -Sa- Murta. in posterum fieri ullum Mutuum coactum xop. myn'e'cen'e , vel minicene, hodie Graviter, com super subditos suos : quod scilicet paulo Anglis Minneken et minnekenlasse. Copeil. posite ambulare. Chron. Ditm . Mersburz. anie exegisse docet Diploma anni 1342. Ænbamiense in Anglia ann. 1009. cap. 1 : l'episc. tom . 10. Collect. Histor. Frane. pag. 28. Junii, sed et Philippum Pulerum Re- Episcopi et abbates , monachi et Mynecenæ , 131 : Henricus Dei gratia res inclytus à se. gem aliud ann . 1309. in 12. Regesto Char- canonici et nonne , natoribus duodecim vallatus , quorum ser tophyl. Reg. Ch. 15. et in 36. Regest. apud Ausonium in rasi barba ,alii prolixa Mystace incedebant Ch. 48. lemmate Epigrammatis 30. Cantharus po- cum buculis , etc. Laudatum Philippi VI. Statutum torius Scaligero , qui a similitudine muris I Sacerdotum præposi frustra quæsitum in Regestis publicis testa- et barbæ , quæ in conum desinit, Myobar- tus; titulus honorarius Archiep. Toletani , tur D. de Lauriere tom . 2. Ordinat. Reg. bum voce ibrida dietum existimat . Turne- ex Hierolex. Macri. Franc. prg. 234. Undeexistimat D. Cangium bus vero Advers. lib. 3. cap. 19. putat ver- lapsum memoria art. 4. et 5. Statuti ejusd . | bum compositum mure et barbo, quod |  , Mysteriorum per. Regis ann. 1345. 15. non3. Febr.spectasse, mensuram , liquidorum sescunciam penitus , vel princeps. Prudent. Peristeph. 2. quo vetat Philippus Rex in posterum a dentem sonat, ut sit tamquam muris cya- 349 : Bene est , quod ipse ex omnibus My subditis suis exigi equos, currus, ele. nisi thus. Quidam le ; emendat Lil . Gyraldus  Epist, *mutuum violatum* Exactio nomine xobarbaru , quod non placet. Vide Cupe. Zachariæ PP. ann.748. tom. 1. Rer. Mo *mutui*, quæ a subditis exigitur. Charta rum in Harpocrate pag . 78. gunt. pag . 255, Officium , sacra Li mutuum violatum, velmessionem bajuli vel turgia . Pelagius Episcop. Ovetensis in Fer servientum . [** Leg. Violentum ut, supra.) ctum ... Si autem Myocepha aur ypopius fuerit,dinando Rege Hispan.: Tunc Alfonsus Rez mutuum ebraldum. Charta Henrici Co- post inunctionem ligabis oculos aut linteo in velociter Romam nuntios misi ad Papam mitis Portugalliæ tom . 3. Monarchiæ Lusi- aqua infuso frigida , aut spongia in ipsa Aldebrandum cognomento septimus Grego tanæ p.282, Non introducam *mutuum* aqua infusa. rius. Ideo hoc fecit , quia Romanum Vyste Ebraldum Colimbriam . 9piratici genus arium habere voluit in omni Regno. Infra : mutuum, stipendium datum in ante- , ut placet Tur Confirmarit itaque Romanum Mysterium in cessum . Lit. ann . 1408. tom . 9. Ordinat. nebo lib . 3. Adversar. cap. 1 . nomen omne regnum Regis Adefonsi æra 1113. ( Chr. reg . Franc. pag. 363, art. 1 : Ordinamus adepti . Melius Scaliger, a forma qevūves, 1088. ) per senescallos, receptores, thesaurarios, ... hoc est , angusta et oblonga, dictum ira- Missæ sacrifi tum nobilibus quam innobilibus, cum ex dit. cium. Acta S. Gratil. tom. 3. Aug. pag. parte nostra mandati fuerint ut ad guerras Hist. Franc. Sfortiæ ad ann. 1427. 1728. col. 2 : Indutus est ( Gratilianus ) ve nostras accedant, *mutuum* fieri priusquam apud Murator. tom . 31. Script. Ital.col.stimentis a. Grice: “The grammar of ‘mutuality’ can be extraordinarily complicated. But I’m sure Schiffer’s ‘A and B mutually know that p’ doesn’t make sense as an analysandum.” Grice: “You can trade (L mutate both ways) or exchange *information* -- The grammar is: A and B are in love – implicated: ‘mutual’ --  A and B are friends – implicated: mutual. Dickens, who never attended Oxford, would never catch the subtlety of his biggest solecism, “Our mutual friend”! – Grice: “But I’m surprised from Schiffer, who did attend the varsity!” -- Giorgio Cosmacini. Cosmacini. Keywords: compassione, salute, mens sana in corpore sano, storia della medicina, Foucault, l’anello di Asclepio, la medicina nella Roma antica, giacobinismo, fascismo, giacobinismo in Italia, medici fascisti, medicina fascista, la medicina non e una scienza, tanatologia, bio-chemica, la chemical della vita, bio-chemistry –Grice on life, the philosophy of life, cooperation and compassion. Imperativo conversazionale, compassione conversazionale, imperative della mutualita conversazionale – mutualita conversazionale – imperative of conversational mutuality, mutuality, mutual, the depth grammar of mutuality – Grice against Schiffer – Grice scared by ‘mutual knowledge’ – and using it in scare quotes (“Such monsters as Schiffer’s ‘mutual knowledge’ have been proposed to replace my regress when there’s nothing wrong with stopping it elsewise!”  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmacini” – The Swimming-Pool Library.

 

Cosmi (Casteltermini). Filosofo. Grice: “I love Cosmi – for one he uses the very exact phrase I do, ‘the general principles of discourse,’ and he also finds them to have a rational (‘razionale’) basis – they involve those desiderata for helpful communication, a co-operative principle – concerning most constraints I refer to: the necessity to avoid superfluity (supperfluita) and to maximize clarity (chiarezza) – so that’s genial!” – Grice: “Cosmi actually has two treatise, a more theoretical one, “General principles of discourse,” and an applied tract, “Metodo’ – of the “general principles of discourse’ – he had already elaborated on all the figures of rhetoric, so he knew what he was talking about and where he was leading --.” Grice: “The fact that he like me also loved Locke – and perhaps was more of a ‘sensista’ than I am, makes him great, too!” Fu un'imponente filosofo, no italiano, ma siciliano (Grice: “Sicily is not considered part of the ‘peninsola italiana’). Formatosi nel Seminario dei Chierici di Agrigento, ricopre la carica di rettore a Catania. Riceve dal re Ferdinando l'incarico di redigere il piano regolatore della filosofia siciliana. Da un rilevante contributo all'innovazione del illuministimo. Fu un grande filosofo, il primo e il più geniale del regno meridionale e uno dei primi e più geniali del Settecento italiano. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Principi generali del discorso, e della ortografia italiana ad uso delle regie scuole normali di Sicilia by Giovanni Agostino De Cosmi( Book )  1 edition published in 1984 in Italian and held by 2 WorldCat member libraries worldwide. E primo forne il D2 Cosmi. Questo e un aureo libretto dei "Principi Generali del discorso" – i. e. un principio comune a ogni discorso. Questo affinchè il filosofo a una nozione direttrice, non superflue. In questo trattato invano cercheresti quella immensa farragine di precetti disordinati, e quelle infinite minuterie non necessarie, con cui si sostitoleva confondere e stancare la prattica conversazionale del giovanetto. Si spone un solo principio generale e fondamentale, sintetizzato nell'antico ma verissimo motto: precetto uno. Il resto e uso. Questa mia preziosa filosofia è un sapientissimo essamine pel filosofo che vuole adoperare il "metodo conversazionale." Quivi si ricorda dapprimà quanto in occasione di filosofare sulla maniera di dare la prima istruzione conversazionale al ragazzo, in caso la necessita. Si ricorda come puo potè attuare la mia prammatica conversazionale, mettendo in esecuzione un maniobra chiara, spedita, uniforme per ogni topico conversazionale adattata alla maniera del civil conversare --  è cosa necessaria il sapere la semantica e le implicature conversazionale del volgare linguaggio. Il pirincipio della conversazionale e un principio di chiarezza (perspicuita) -- e un principio di aggiustatezza (approprio_ -- e un principio di mezzana eleganza (stilo estetico), e un principio senza oscurità, e un principio con univoci e senza cattive equivoci (un buon aequi-voce e accettable)– sensa non sunt multiplicanda praeter necessitatem --, e un principio senza superfluità (economia dello sforzo conversazionale, fortitudine conversazionale, candore conversazionale -- e un principio senza barbarismi -- imperciochè la perfezione e efficenza del volgare linguaggio guidato dalla semantica formale e il segno del reale. E vuole che al giovane si da un principio generale e fondamentale -- e un principio generale della conversazione, esposto con metodo ragionabile e calculable e con chiarezza. Un solo principio o imperativo categorico, un principio di efficenza communicative -- un principio soggetto il meno che si può all'eccezione o la violazione involuntaria si non a la splotazione retorica -- e un principio stesso ben capito e ben esercitato, chi forma il  corpo di ogni parte della filosofia. Ebbe un giorno a scrivere di Marco Tullio Cicerone, che questo ingegno eminente prende a gradi la sua maturità e si perfezionava coll’uso, colla riflessione e col maneggio dei grandi affair. Or quello che osservo su Cicerone, intervenne proprio me medesimo, i cui Elementi di filologia, non prometto continuazione; ma osservazioni su l'uso dei Principj del Discorso, e qualche riflessione su i primi pensieri, da cui era partito nell'immaginar il mio metodo, gli somministrarono la materia di un secondo, e anche di un terzo volume di preziose nozioni di metodica prammatica.  Il secondo volume  e come il primo, è diviso in due parti.  La prima parte ha per titolo, “Principj generali del Discorso applicati alla lingua volgare”, per la quale avverto che, sebbene nelle parti già pubblicate dei “Principj generalie del discorso” siesi detto ciò che basta per l'istruzione della prima età; la sperienza mi ha fatto conoscere, che, volendosi col metodo intrapreso tirare innanzi il cammino, per la piena intelligenza,  1 G. A. De Cosmi, Elem. di filol. ecc., tomo I, pag. 231.  • LO STESSO, Elem. di filol, ital. e latina, tomo II, Palermo; pag. III   ed imitazione dei classici principalmente italiani, era necessario ad entrare in qualche più esteso rischiarimento, *non per multiplicare l’imperativo conversazionale, ma per agevolarne l'uso, senza di cui inutili sempre la massima conversazionale universalisable si rimarranno. Dietro di che, in cinque paragrafi, filosofo, con la solita competenza, “Del Pro-nome in generale”, “Del Pro-nome ed dell’Articolo”; “Del pronomi e del verbo che ne dipendono; Della Preposizione, detta “segnacasi”, e “Della Costruzione irregolare”. I quali cinque paragrafi, con la giunta delle prime due parti dei Principj Generali del Discorso già stampati a riprese. Egli fece riunire in separato volumetto per uso degli scolari 3  Io non mi stancherei, dirò col Mollica Di Blasi, di riportare varie altre sentenze, che oggi pajono roba fresca, e pure da presso a un secolo il nostro l'aveva annunziato con tanta chiarezza da farla scorgere anco ai ciechi ; ed è per tanto che riferisco qualche altro criterio, che dovrebbe aver nell'animo e nella coscienza ognuno, che si dà all'educazione specialmente elementare:  Invece di sorprendere, cosi il De Cosmi, l'età fanciullesca coll' apparenza dottrinale di parole incognite, ingegnerassi il maestro a far vedere, che ciò che s'insegna di nuovo, è presso a poco quanto sapeva il fanciullo o quanto avrebbe potuto agevolmente sapere con un poco di riflessione 5.  Anzi che ad un giuoco di memoria desiderava che lo studio fosse diretto allo sviluppo dell'intendimento ; inculcava lo studio dell' aritmetica fatto a norma delle regole predette, e indi tornava a ribadire che:  Per mantenere sempre desta l'attività nella mente degli allievi, è di somma importanza il non sgomentarli giammai coll'apparenza di gravi difficoltà nelle operazioni che loro si propongono; anzi colla frequenza degli esempi il far loro osservare, che avrebbero da se sciolto le domande, se avessero fatto riflessione alle cose sa pute 6.  E poi seguiva cosi :  Che se alle volte occorrerà di dovere insegnare delle cose difficili, allora il maestro procurerà di scemare la difficoltà colla curiosità della ricerca , perchè il piacere della scoverta l'incoraggisca al tedio dell'operazione. Ma qualora la curiosità non è infiammata, il fanciullo non sente altro che la fatica, e la fatica sola da se ributta 7.  Poi chiedeva a se stesso :  É necessario il rappresentare al naturale lo stato presente della educazione ncstra letteraria? Lo farò con coraggio. Si è caricata la nostra memoria; perciò è rimasto senza energia e senza originalità l'intelletto. La nostra filosofia, in vece   1 G. A. De Cosmi, Metodo dei principj generali del Discorso, Palermo, 1792, p. 1-6.   . Lo stesso, Metodo cit., p. 5.  3 Lo stesso, Op. cit., p. 8.  * GAETANO MOLLIGA DE BLABI, Note storiche di G. A. De Cosmi; Palermo, 1883, p. 18.  • G. A. De Cosmi, Metodo ecc., p. 8-9.   . Lo stesso, Op. cit., p. 14.   . Lo stesso, Op. cit., p. 15.   d'essere l'arte di pensare, è stata l'arte di parlare di ciò che non s'intende; la nostra rettɔrica, l'arte di csaggerare con parole, e di parlare a controsen 30. Gran servigio, gran servigio, ridico, si presta al pubblico da chi indirizza per la strada regia del sipere la presente gioventù, da chi coltiva la loro ragione e il loro cuore.  Era tempo oramai di aprirsi a tutti la strada alla coltura delle scienze e delle arti; di venire nella comune estimazione le cognizioni realmente utili all'umanità, di siudiarsi la Natura nei suoi varj regni e nel suo vero prospetto. Era già il tempo ce la pubblica e la privata utilità fossero rico 103ciute ch.n: la misar di calcolare l'importanza delle cognizioni; che la Religione s'impari nella sua storia, nei suoi Dogmi, nella sua Morale, mi senza il pru:ito della costroversia ; che nelle lingue doite si cerchi il gusto, ma senza pedanteria; che le matematiche, e l'analisi ci servano di guida nelle cognizioni astratte; che nelle scienze naturali si cerchino i mezzi per accrescere, o conservare la sanità dei nostri corpi, o per influire ne la ricchezza nazionale, coltivando e migliorando i prodotti dell'arte e della natura; e che finalmente la volgare e popolare lingua, vero termometro della coltura nazionale, si perfezioni; che non pud perfezionarsi, senza che si eserciti la ragione nello stesso tempo '.  [ocr errors] IV.  A questa stupenda Direzione pei maestri, il De Cosmi unì la prima parte dei Principj Generali del Discor30, che già aveva stampato a solo sin. dal 1790 ; cui fece seguire ora dalla parte secondo, che delle proposizioni, dei verbi, dei pronomi, delle congiunzioni s'intertiene, chiudendola con alcune regole primarie ad illustrazione delle altre, messe in fine della prima parte; e terminando l'aureo librettino con un capitolo sulla Scelta dei libri necessari allo studio della lingua italiana; dove vuole che siano preferiti i libri del Trecento; additando per libro di prima lettura il Fiore di virtù o il Volgarizzamento dei Gradi di S. Girolamo, 'od anche gli Ammaestra. minti degli antichi di frate Bartolomeo da San Concordio; e per la seconda classe, il Trattato del Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini 5.  A sintesi di tutto il libretto il De Cosmi conchiude così:  Ciò che i maestri debbono inculcar continuamente alle tenere orecchie degli scolari sarà la necessità delle regole e dell'uso; perchè l'uso e le regole sono i veri arbitri di ogni lingua. Nulla contro le regole, nissuna parola fuori dell'uso",  Questo pregevole volumetto incontrò l'applauso di tutti i letterati; e un di essi, che si volle occultare sotto le iniziali 0. G. R. P., ne fece una bellissima ed estesa rivista nelle Notizie Letterarie di Cesena-agosto 1792 “.   1 G. A. De Cosmi, Op. cit., p. 17-18.  . Vedi sopra pag. 166.  • G. A. De Cosat, Metodo ecc., p. 56-57."  • Lo stesso, Op. cit., p. 60-61.  * Pag. 55 e seg.   L'articolo dell' O. G. R. P. venne riprodotto da Giov. D'Angelo nelle 840 Memorie per servire alla Storia letteraria di Sicilia; vol. III, Ms. della Biblioteca Comunale Cosmi. V. Cosmi. Giovanni Agostino De Cosmi. Giovanni Cosmi. R Cosmi. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cosmi” – The Swimming-Pool Library.

 

Cossottini (Figline Valdarno). Filosofo. Grice: “Cosotini considers ‘Home, sweet home,’ in terms of linearity – surely Miss X can ‘improve’ on the score! Especially if she did visit Payne’s little cottage by the sea – in Easthampton, and shed a tear!”. Si laurea a Firenze con “Fenomenologia”. Fonda GRIM, Gruppo per la Reserccia dell’Improvisazione Musicale. GRICE Gruppo por la research dell’Improvisazione conversazione espressiva. Insegna Improvvisazione Musicale. Le Fanfole, canzoni composte su testi del poemetto meta-semantico di Fosco Maraini Gnosi delle Fanfole. Linearità e Nonlinearita in semiotica – sintagma lineare, sintagma soprasegmentale – the volume of a sound – a ‘natural’ expression of pain – the higher the volume, the higher the pine --. Grice on stress, intonation and implicature. I KNOW it. I KNOW it (you don’t have to tell me). SMITH paid the bill. Due conversazionaliste si muovono pacatamente per le loro vie, variando direzioni e anche versi, ascoltandosi sempre, ma con dialoghi liberi e mai serrati. “La musica dei matti” creazione dialogica di suoni del tutto libera e interamente legata all'istante, tale da produrre mozzione conversazionale dallo sviluppo verticale. Improvvisare la verità. Il concetto di ‘improvvisare’ improvissato – cf. English ‘improved’. Improvisation – improvised. Musica e Filosofia. Realizza la partitura grafica Dettagliper tre esecutori, che consiste di una mappa e ottantuno carte con segni grafici codificati (la mappa e le carte sono i “veicoli” e il modo in cui si legge la grafia genera molteplici possibilità di implicature. “wordless novel”. I suoi studi si concentrano sulla filosofia della musica e sull’improvvisazione musicale, scrivendo numerosi saggi per riviste specializzate come Musica Domani, Perspectives of New Music, Aisthesis, Musicheria e la rivista online De Musica.  Inoltre pubblica un saggio sul silenzio e sulle sue potenzialità performative. Metodologia dell'Improvvisazione Musicale. Tra Linearità e Nonlinearità, un libro di metodologia dell’improvvisazione musicale nel quale Cosottini teorizza la dicotomia tra Linearità e Nonlineairtà come strumento per l’analisi dell’improvvisazione musicale.  Non-linearita EDT, il silenzio in contesto non lineare, Filosofia della Musica. Non-linearità.  Metodi non lineari. EDT Non linearità. EDT Ascolto creativo e scrittura creativa di un’improvvisazione musicale. Metodologia dell’improvvisazione musicale. Tra Linearità e Nonlinearità Edizioni ETS, L’estetica dell’improvvisazione tra suono e silenzio in Musica Domani, improvisation-research-center--musica-e-filosofia. Do You Need A Sign. Mirio Cosottini. Cossotini. Grice: “I am sure that a suprasegmental or non-linear segment adds to what a conversationalist means – he means THAT Smith did not pay the bill, and that somebody else did” – By stressing on LOVE he means that he likes her AND that he loves her.” Keywords: prosodia, Hjelmslev, Hockett, fonema, tratto sopra-segmentale, stress – Grice’s examples: “Smith kicked the cat” – “Smith didn’t pay the bill. Nowell did.” “Smith didn’t pay the bill”. “I knew it” “I love her” -- segno, nonlinearita, codice, soprasegmento. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cossottini” – The Swimming-Pool Library.

 

Costa (Torre del Greco). Filosofo. Grice: “I love Costa; if I have to chose three of my favourite essays of his, those would be, “Le passioni,” “L’uomo fuori di se: l’esternalissazione’ and above all, his sublime, “l’estetica della communicazione,’ which is what my philosophy is all about!” --  Mario Costa (Torre del Greco), filosofo. È conosciuto, in particolare, per aver studiato le conseguenze, nell’arte e nell’estetica, delle nuove tecnologie, introducendo nel dibattito filosofico una nuova prospettiva teorica, attraverso concetti come "estetica della comunicazione", "sublime tecnologico", "blocco comunicante", "estetica del flusso".   È stato Professore di Estetica all'Salerno e, come professore incaricato di Metodologia e storia della critica letteraria e di Etica ed estetica della comunicazione, ha contemporaneamente insegnato per molti anni nelle Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e di Nizza (Sophia-Antipolis). A Salerno ha fondato e diretto, daArtmedia, Laboratorio permanente dedicato al rapporto tra tecno-scienza, filosofia ed estetica, organizzando su queste tematiche decine di iniziative di studio, mostre e convegni internazionali. L'estetica dei media ha ottenuto il Premio Nazionale "Diego Fabbri". Pubblicato una trentina di libri; alcuni di essi e numerosi suoi saggi sono tradotti e pubblicati in Europa e in America. Il suo lavoro teorico si è svolto in due momenti successivi ed ha seguito due fondamentali direzioni di ricerca: l'interpretazione socio-politica e filosofica delle avanguardie artistiche, e l'elaborazione di una filosofia della tecnica costruita soprattutto attraverso l'analisi dei cambiamenti che la nuova situazione tecno-antropologica ha indotto nell'arte e nell'estetico.  Per quanto riguarda la prima delle due direzioni indicate, ha fornito un complesso di interpretazioni filosofiche ed estetiche di numerosi movimenti dell'avanguardia artistica e letteraria. Momenti di particolare rilievo in questo ambito di ricerca possono essere considerati i suoi lavori su Duchamp e sulle funzioni della moderna critica d'arte, nonché i suoi studi sul "lettrismo" e sullo "schematismo", movimenti artistici di grande importanza, anche estetologica, ma, all'epoca, pressoché ignoti in Italia. Per quanto riguarda la seconda delle direzioni indicate, il suo pensiero si è a sua volta sviluppato secondo due assi fondamentali: uno riguardante le conseguenze sociali ed etiche della comunicazione tecnologica, riassunte soprattutto nel libro La televisione e le passioni che analizza gli effetti disgreganti e distruttivi della televisione, e poi nel più recente La disumanizzazione tecnologica, e l'altro, dominante rispetto al primo, consistente in un ripensamento del senso che l'"estetico" e l'"artistico" vanno assumendo nella fase attuale delle nuove tecnologie elettro-elettroniche e digitali della scrittura, dell'immagine, della spazialità, del suono e della comunicazione, ciò che lo ha condotto ad una radicale ed originale reimpostazione teoretica di tutto il campo investigato. Negli ultimi suoi lavori (Ontologia dei media, e Dopo la tecnica) la prospettiva teoretica si è andata ulteriormente approfondendo dando luogo ad una compiuta filosofia dei media e della tecnica in quanto tale. Alcune opere rappresentative L'estetica dei media può considerarsi, per i contenuti trattati e per la inedita metodologia di indagine instaurata e seguita, un libro che apre un nuovo campo di ricerca, prima del tutto ignorato ed inesplorato dalle discipline estetologiche, quello appunto della "estetica dei media", da non confondere, ad esempio, con l'estetica della fotografia o con quella del cinema, alle quali ha comunque dedicato altri suoi importanti lavori. Il libro in questione segue ai diversi contributi teorici relativi all'estetica della comunicazione le cui identificazione, nominazione e formulazione teorica risalgono al 1983, e che è ora rappresentata, nella sola Italia, da numerose Cattedre e indirizzi universitari. Il sublime tecnologico è considerato il lavoro più noto e più innovativo di tutta la sua produzione teorica; è in esso che, considerando le conseguenze indotte nel campo dell'arte e dell'estetico dalla nuova situazione tecno-antropologica, si parla dell'oltrepassamento della dimensione dell'arte e delle categorie ad essa connesse, nella direzione di una nuova forma di sublime, quella appunto del sublime tecnologico, con tutto quello che questo concetto implica e comporta. La nozione del sublime tecnologico è stata diffusamente accolta e seguita sul piano internazionale della teoria estetica ed ha sollecitato un incalcolabile numero di sperimentazioni da parte di artisti di tutto il mondo. Arte contemporanea ed estetica del flusso traccia le linee di una nuova estetica e della sperimentazione artistica che da essa può scaturire. Si tratta da una parte di un violento e argomentato pamphlet contro l'arte contemporanea, ritenuta “una congerie più o meno sgradevole di nullità mercantili”, e dall'altra della tematizzazione ed elaborazione del concetto di “flusso estetico tecnologico”, considerato come ultima e residua possibilità di sperimentazione per gli artisti e come chiave per comprendere alcuni aspetti dell'ontologia contemporanea. Dopo la tecnica () ripercorre la storia delle varie epoche della tecnica sottolineandone la discontinuità e la capacità di agire configurando, ogni volta in maniera diversa, l'organizzazione antropologica di chi da esse è abitato. Sulla base di questi presupposti, si mostra come la tecnica, una volta connessa e dipendente dai bisogni umani, si va rendendo incondizionatamente autonoma forzando l'uomo a vivere dentro di essa, ad appartenerle e a favorire il suo sviluppo. Altre opere: “Arte come soprastruttura”, Napoli, CIDED, Teoria e Sociologia dell'arte, Napoli, Guida Editori, Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, M.Ricciardi Editore, Il ‘lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina posteriore, Roma, Carucci Editore, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell'immagine nella società contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Il sublime tecnologico, Salerno, Edisud, L'estetica dei media. Tecnologie e produzione artistica, Lecce, Capone Editore, Il ‘lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Napoli, Morra, La televisione e le passioni, Napoli, A.Guida, 1Lo ‘schematismo'. Avanguardia e psicologia, Napoli, Morra, Lo ‘schématisme parisien'.Tra post-informale ed estetica della comunicazione, Fondazione G.E.Ghirardi, Piazzola sul Brenta (Padova), Sentimento del sublime e strategie del simbolico, Salerno, Edisud, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto tecnologico, Genova/Milano, Costa & Nolan, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvecchi, Tecnologie e costruzione del testo, Napoli, L'Orientale, L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi, L'estetica della comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull'uso estetico della simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi, Dall'estetica dell'ornamento alla computerart, Napoli, Tempo Lungo, Internet e globalizzazione estetica, Napoli, Tempo Lungo, New Technologies, Artmedia-Museo del Sannio, oDimenticare l'arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica, Milano, Franco Angeli, L'oggetto estetico e la critica, Salerno, Edisud, La disumanizzazione tecnologica. Il destino dell'arte nell'epoca delle nuove tecnologie, Milano, Costa & Nolan, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell'oggetto estetico tecnologico, Milano, Costa & Nolan, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Vercelli, Mercurio Edizioni,  Ontologia dei media, Milano, Post media books,  Dopo la tecnica. Dal chopper alle similcose, Napoli, Liguori Editore. Il lavoro teorico di Costa teso, tra l'altro, a definire la nuova epoca dell'estetico connessa alle neo-tecnologie elettro-elettroniche e digitali, e a fare in modo che questa si andasse ben configurando e definendo, si è, per ciò stesso, sempre accompagnato ad un'intensa attività di promozione estetico-culturale:  agli inizi degli anni ottanta organizza a Napoli, col supporto della RAI-TV, una grande esposizione di videoarte (Differenzavideo); per sollecitare una riflessione sugli effetti estetico-antropologici indotti dalle tecnologie della comunicazione, co-organizza (conPerniola) presso l'Salerno, il Convegno Estetica e antropologia i cui Atti sono, in parte, pubblicati sulla Rivista di estetica di Torino, necrea, con l'artista francese Fred Forest, il movimento internazionale dell'Estetica della comunicazione che presenta in vari contesti  (Electra di Frank Popper, al Centre Pompidou a La Revue parlée di Blaise Gautier, ialla Sorbonne, al Séminaire de Philosophie de l'art di Olivier Revault D'Allonnes); nei mesi di marzo-aprile del 1984 dà luogo al primo evento/rassegna di estetica della comunicazione (L'immaginario tecnologico, Benevento, Museo del Sannio); a partire dal 1985 concepisce e dirige, presso l'Salerno, Artmedia, Convegno Internazionale di Estetica dei Media e della Comunicazione; organizza presso l'Salerno un Convegno Internazionale su estetica e tecnologia; nel febbraio 1989 organizza presso la stessa Università il Convegno "Il suono da lontano". Eventi sonori e tecnologie della comunicazione"; realizza, per la RAI-TV (Dipartimento Scuola e Educazione) la trasmissione televisiva in tre puntate: Un'estetica per i media; fa svolgere, presso la settecentesca Villa Bruno (S.GiorgioNapoli) Technettronica. Laboratorio di Estetica dei Media e della Comunicazione; nel 1990 presenta per la prima volta in Italia presso l'Salerno due videoplays di Samuel Beckett; nel 1995 fonda e dirige, la Rivista Internazionale Multilingue Epipháneia. Ricerca estetica e tecnologie, fonda e dirige, presso le Edizioni Tempo Lungo di Napoli, Vertici, una «Collana di Estetica e Poetiche» aperta alle questioni estetologiche connesse ai nuovi media (testi di Francesco Piselli, Anne Cauquelin, Theodor W. Adorno, Costa, Marie-Claude Vettraino-Solulard, Dorfles);  co-organizza a Parigi la VIII Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2003 co-organizza presso l'Salerno il Convegno Internazionale Tecnologie e forme nell'arte e nella scienza; organizza presso il Museo del Sannio di Benevento la Mostra New Technologies (Roy Ascott, Maurizio Bolognini, Fred Forest, Richard Kriesche, Mit Mitropoulos); norganizza presso l'Salerno la IX Edizione di Artmedia; nco-organizza a Parigi la X Edizione di Artmedia; nell'ottobre 2009 organizza presso l'Salerno un seminario conclusivo di Artmedia dal titolo "L'oggetto estetico dell'avvenire". Sulle funzioni della critica d'arte e una messa a punto a proposito di Marcel Duchamp, Napoli, Ricciardi Editore, 1976; Mario Costa, L'oggetto estetico e la critica, Edisud, Salerno. Mario Costa, Il 'lettrismo' di Isidore Isou. Creatività e Soggetto nell'avanguardia artistica parigina, Carucci Editore, Roma,Il 'lettrismo'. Storia e Senso di un'avanguardia, Morra, Napoli, Si veda anche Signe, forme, schéma, ornement, in "Schéma et schématisation", 57, Parigi 2002,  L'estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Castelvecchi, Roma, Mario Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, Arte contemporanea ed estetica del flusso, Mercurio, Vercelli . Inoltre: Technology, Artistic Production and the "Aesthetics of communication", in "Leonardo", Tecnologie e costruzione del testo, L'Orientale, Napoli, Reti e destino della scrittura. Sulla diffusione e la rilevanza del suo pensiero, si vedano tra gli altri: Philippe Bootz, The thesis of Walter Benjamin and Mario Costa, in Philippe Bootz, Sandy Baldwin, Regards Croisés, West Virginia University Press, Alberto Abruzzese, Il compiersi della pubblicità dal manifesto metropolitano ai linguaggi elettronici del presente: pretesti, testi e questioni, in  (Riccardo Lattuada), Nuove tendenze ed esperienze nella comunicazione e nell'estetico, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Derrick de Kerckhove, L'estetica dei media e la sensibilità spaziale. Riflessioni su un libro di Mario Costa, in "Mass Media",Frank Popper, L'art à l'âge électronique, Paris, Hazan, Mario Costa, professore di estetica, in MCmicrocomputer, n. 208, Roma, Pluricom. Grice: “Costa uses words in ways we don’t allow at Oxford: a sign by which nobody signs; and so on.Mario Costa. Keywords: blocco comunicante, communicazione sine contenuto, communicazione fatica, semiotica, estetica della comunicazione, significante sine significato – segno sine segnato – autoreferenzialita – asemanticita – sintassi – retorica – codice – intenzione communicative, medio, messaggio, recursivita, self-reference, meta-linguaggio – linguaggio come metalinguaggio -- - Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.

 

Costa (Ravenna). Filosofo. Grice: “My favourite keyword for Costa is ‘contrassegnare’!” – Grice: ““I love Costa; for one, he improves on Locke; on the composition of ideas and how to ‘countersignal’ them with ‘vocaboli precisi’ – I explored that a little in my ‘Prejudices and Predilections,’ when I attack minimalism and extensionalism, and provide a way which is meant to resemble Locke’s way of words, or rather Locke’s way of ‘complex’ words, or ‘composite’ (Costa’s ‘comporre’) out of ‘simple’ ones – as in Quine’s worn-out ‘bachelor’ unmarried male that I play with with Strawson in “In defense of a dogma.” In this respect, it is interesting to see that Costa also wrote on ‘ellocution’ and ‘sintesi’ versus ‘analisi’!” Figlio di Domenico e Lucrezia Ricciarelli, studia a Ravenna e Padova. Insegna a Treviso e Bologna, a Villa Costa, Bologna -- è costretto a riparare a Corfù perché sospettato di essere affiliato alla Carboneria. Può rientrare a Bologna. Altre opere: “I trattati della elocuzione e del modo di esprimere l’idea e di segnarla con una espressione precisa a fine di ben ragionare” – Colla profferenza, “Fa fredo,” Costa segna che fa freddo. Il trattato filosofico della sintesi e dell'analisi; i quattro sermoni dell'arte poetica, un commento alla Divina Commedia, la Vita di Dante, il Dizionario della lingua italiana, poesie (Laocoonte), lettere e traduzioni.  Letterato neo-classico e dunque tipicamente italiano e anti-romantico, ammira i corregionali Monti e Giordani e sostenitore del purismo e del “sensismo” lucreziano in filosofia. Nella lettera a Ranalli di introduzione al Della sintesi e dell'analisi così riassume le sue concezioni filosofiche. È necessario, per togliere la infinita confusione che è nelle scienze ideologiche, di dare all’espressione un determinato valore. Sostengo che questo non si può ottenere, come crede Locke, colla de-finizione (horismos) (la quale e una scomposizioni di una idea o di piu idee), se prima la idea non sia stata ben composta. Sostengo che questa non si puo compor bene, se prima non si conosce quale ne sieno gli elementi semplici – soggetto e predicato, il S e P -- Sostengo che un elemento semplice e una reminiscenza relative a una sensazione, e che la idea si compone di almenno due di sì fatti elementi – il S e P – la proposizione, ‘segno che p’ -- e del sentimento del rapporto di una reminiscenza e dell’altra, cioè dei proposizione – nel indicativo o imperative – il giudizio – il giudicato – e la volizione – il volute. Da ciò conséguita che l'esperienza (se l'esperienza vale ciò che si sente mediante l'attenzione) è il fondamento della scienza umana. I kantisti ed altri filosofi distinguono una idea in una idea soggettiva e in una idea oggettiva, ed attribuiscono un'origine a posteriori e sintetico alla una ed un'origine a priori e analitico all’ltra. Questa distinzione può esser buona, ma non è buona l'ammettere che abbiano origini di natura diversa: a posteriori/sintetico, dal senso – e a priori/analitico – dall’intelleto – nihil est in intellectus quod prior non fuerit in sensu.  Ogni idea ha un stesso origine. e questo si fa palese per un solo esempio. Da una idea soggettiva puo nascere sue  proposizioni. Una proposizione: "La reminiscenza S1 e la reminicenza S2 sono in me”. Altra proposizione: “La reminiscenza S si associa con la reminiscenza P”. Qual è l'origine dell’idea dalla quale deriva sì fatta proposizione? Il sentimento. Dire che la reminiscenza del color di rosa è in me, è dire che sento che è in me, e dico: “Vedo una macchia rosa”. Così direte dell'altra proposizione. Dall’idea oggettiva puo nascere una proposizione e altra proposizione. Il corpo pesa. La rosa manda odore. Da che nasce la proposizione? Dal sentimento (senso). Perciocché dire che questo corpo pesa è lo stesso che dire che sento il peso di questo corpo; giu-dico, ovvero, sento che la cagione (causante, causans) della mia sensazione tattile del senso del tattoo è in questo corpo. Così dire che la rose manda odore è lo stesso che dire che sento l'odore della rosa, giu-dico, ovvero, sento che l'odore dela rosa ha una delle cagioni in cose fuori, cioè che non sono in me. Fra una idea soggettiva e una idea oggettiva non vi è altra differenza, se non che nella che si suppone oggetiva  sento che la cagione (causans) è nella nostra persona. Nell’idea che si suppone oggetiva sento che la cagione (causans) è in me (o noi entrambi – nella diada --), nell’idea soggetiva nella cosa (il reale). fuori. Ma come sentiamo noi che vi sia una cosa (il reale) fuori? Questo è il gran problema dagl'ideologi non ancora solute. Ma l'ignoranza in che siamo non dà facoltà legittima alla scuola trascendentali di concludere che il giudizio dell’idea soggetiva non dipende dal sentire. Il giudicio è un sentimento, cioè, un rapporto sentito fra una sensazione e altre sensazione, una reminicenza (il S) e altra reminiscenza (il P); ché se tale non fosse, nessuno potrebbe dire che l'idea che abiamo di una rosa p.e. ha la sue cagioni fuori di noi entrambi, perciocché una sì fatta proposizione suppone che l'uomo che proferisce questa proposizione o explicatura (spiegato) abbia o la sensazione S e la sensazione P, o le reminiscenza S e la reminiscenza P in relazione alla sensazione prodotte dalla rosa, e l'idea del sentente. Voi vedete chiaramente, che nell'uno e nell'altro degli addotti esempii la modificazione che chiamamo ‘idea,’ e il sentimento dei loro rapporti sono nella nostre anime ambidue, e che quindi si esprimono falsamente coloro, che dicono che sentiamo il corpo fuori di noi. Dovrebbero dire, strettamente, che sentiamo che la cagione (causans) del nostro sentire (sentito) non è in noi entrambe. Coi fondamenti da me posti si può stabilire una dottrina, se il buon desiderio non mi acceca, per la quale vadano a terra le opinioni di coloro che disprezzano il sensismo, e che con odiosa espressione la chiamano dottrina de' “sensuali”. Con che danno a divedere, che essi mattamente opinano che il materiale organo del senso (i cinque organi, i cinque sensi) senta e percepisca, senza accorgersi che se gli occhi (visum) e le orecchie (auditum) e il naso (odore) sentissero ciascuno separatamente, non potrebbe giammai nascere giudizio alcuno circa la qualità della sensazione  di natura diversa. L’uomo non potrebbe mai dire che l’odore della rosa mi diletta più del colore della rosa, e così via discorrendo. Il sentimento di un solo centro, nostre anime ambidue: e nostre anima ambidue senteno in sé mesima, e non fuori di sé. Puo parere che questa dottrina del sensismo sia la stessa che quella dell'idealista irlandese Bercleio; ma essa è diversa, poiché ammette che oltre la idea vi sieno fuori dell'uomo la cagione (causans) di essa idea. Di questa cagione (causans) – il reale, il noumeno -- noi conosciamo l'esistenza, e nulla più. Che cosa e un corpo in se stesso? A questa interrogazione non si può rispondere se non dicendo che e ignota la cagione della nostra sensazione condivisa. Sappiamo che esiste, sappiamo che si modifica, e tutto ciò sappiamo, perché fa della mutazione nell'animo nostro ambedue o nell’anima nostra ambedue. Dal che si deduce ciò che dianzi vi dissi, che ogni idea ha per loro due primitivi elementi (il S e P) la sensazione, la reminiscenza, il sentimento che e nelle nostre anime ambidue, e non fuori di lei. Così la pensa il filosofo chiamato per beffa dal cattolico romano col nome di sensualista e di materialista. Materialista a buona ragione si puo chiamare i nostri avversario, o almeno materialista per metà, giacché ammette che il sentimento del corpo percepiscano, e giudichino relativamente alla qualità del reale, della cosa esterna. Leggete le lettere filosofiche di Galluppi stampate non è guari in Firenze. In Galluppi troverete chiaramente esposte la dottrine sensista, quelle di Hume circa la cagione, e segnatamente quelle di Kant. Se dalle mie teoriche si possono ricavare gli argomenti validi a confutare le opinioni del filosofo trascendentale, o di coloro, che oggi si danno il nome di eclettico – come ha tempo Cicerone --, io vi prego di compilare alcune note, o vogliam dire corollarii, pei quali si vegga manifesta la falsità di alcuni principii del irlandese Bercleio, del scozzese Reid e del scozzese-tedesco Kant, la filosofia dei quali è fonte della massima parte della moderne follia (Della Sintesi e dell'Analisi, ed. Liber Liber / Fara Editore). Altre opere: “Alighieri”; “Della elocuzione” Fara editore, S. Arcangelo di Romagna); “Della sintesi e dell'analisi” (Giovanni Battista Borghi e Melchiorre Missirini); “La divina commedia, con le note di Paolo Costa, e gli argomenti dell'Ab.G. Borghi. Adorna de 500 vignette” (Giovanni Battista Niccolini e Giuseppe Bezzuoli, Firenze, Stabilimento artistico Fabris,Claudio Chiancone, La scuola di Cesarotti e gli esordi del giovane Foscolo, Pisa, Edizioni ETS  (sulla formazione padovana del Costa, e sulla sua amicizia giovanile col Foscolo) Filippo Mordani, Vite di ravegnani illustri, Ravenna, Stampe de' Roveri. Dizionario biografico degli italiani. Una delle facoltà, onde l'uomo è tanto superiore alle bestie, si è la favella [fabula – da ‘fa’, speak – cf. fama], mercè della quale i primi uomini non solo si strinsero in comunanza civile, ed ordinarono la legge ed il governo; ma a fare più beata e gloriosa la vita crebbero le scienze e le arti, ed ispirarono con queste l'odio al vizio ed al falso; l'amore della virtù, del vero, del bello; e i fatti e i nomi degni di memoria ai tardi secoli tramandarono. E qual cosa è più utile ai privati, ed alla repubblica e più degna e di maggiore onore, che l'arte di gentilmenle parlare? Per questa ci è aperta la via alla dignità, alla fortune ed alla fama; per questa le città si mantene ordinata e pacifica; per questa  sono animati i guerrieri – come Niso ed Eurialo --, encomiato un principio; per questa con più degni modi si loda e si prega il supremo autore elle cose, e pura e viva si mantiene nel cuor degli uomini la religione. Laonde, se desiderate onore o giovamento a voi stessi ed alla Italia, ardentemente volgete l'animo a questo nobilissimo studio del parlare o discorsare civile. Che se vi fu dolce fatica l'interpretare e l'imitare gli antichi filosofi romani, non meno dolce vi e il venire meco investigando il magistero, che è nelle opere loro; imperciocchè, essendo la favella [la lingua, il parlare] istrumento col quale si commovono e si traggono gli animi degli uomini, uopo è di volgere sovente la considerazione alle proprietà dell'intelletto e del cuore umano; il che , pel naturale desiderio, che abbi mo di conoscere noi stessi, è dilettevolissimo. Mettiamoci dunque volentieri a quest'opera; e per cominciare con ordine , poniam subitomente al fine, che si propone chi scrive, perocche non sarà poi difficile temperare ed ordinare secondo quello il modo del favellare. La favella – nella diada conversazionale -- intende a *manifestare* (cfr. Vitters) ad altro un pensiero e un affetto proprio con soddisfazione dell’altro. Ad ottenere questo FINE, sono necessarie due codizioni. Prima: che la elocuzione sia chiarà – Grice: “imperative of conversational clarity). Seconda condizione: che l’elocuzione sia ornata convenevolmente. Parliamo tosto della chiarezza conversazionale, che poco appresso diremo dell' ornament. La chiarezza da due cose procede. Prima: dalla qualità dell’espresione, che si pone in uso. Secondo: dalla collocazione – cum-locatio, syn-taxis -- loro. Prima diciamo della qualità dell’espressione, L’espressione, che e un *segno* [cf. Grice: Words are not signs] di una idea, fa perfettamente l'ufficio suo ogni qual volta sia ben determinata, cioè appropriata a ciascuna idea singolare per nodo, che non possa a verun' altra appartenere. Per meglio iutendere in che consista la natura loro, bisogna considerare che ogni idea e composta – il S e P - ; e che alcune, differendo da altre in pochi elementi, abbisognano di segno particolare, per apparire distinte. Quell’espressione che la distingue dicesi “proprio”. Vaglia un esempio. L'idea di ‘frutto’ ha per suoi elementi le idee delle qualità comuni a ogni frutto; l'idea di “melagrana,” oltre i detti elementi , comprende le idee delle qualità particolari della melagrana: perciò è che, se chiameremo frutto la melagrana, quando è mestieri distinguerla, non parleremo con proprietà. (cf. Lawrence: What is that? E un fiore). Ho qui recato il materiale esempio di un errore, in che è diſficile di cadere, affinché si vegga chiaramente non essere molto dissimile da questo l'errore di coloro, che d'altre cose ragionando usano i vocaboli generali (fiore) per ignoranza' de'particolari (tulipano). Tanto sconvenevol cosa si repula l 'usare una espressione impropria, dice il Casa, che si hanno per non costumali coloro, i quali, non dan dosene gran pensiero, pare che amino di essere frantesi, e nulla curino il fastidio di chi si sforza d'intenderli: all'incontro coloro, i quali usano l’espressione propria, mostrano di essere civili, essendo solleciti di alleviare altrui la fatica [cf. Grice, prinzipio di economia dello sforzo razionale], poichè pare che mercè della espressione proprie le cose si mostrino, non coll’espressione, ma con esso il dito. I poeti, che sono lodali per la evidenza, onde le cose ci pongono dinanzi agli occhi  ci somministrano esempi del modo assai proprio. Giovi recarne qui alcuno a schiarimenlo di quanto abbiamo detto: Come d'un tizzo verde, ch'arso sia dall'un de capi che dall'altro geme, e cigola per vento, che va via. È qui da notare come l’espressione “tizzo” e l’espressione “cigola” meglio ci rappresentano la cosa, che arde, e l'effetto del fuoco, di quello che se Alighieri avesse detto: un ramo verde fa romore per vento che va via, essendo questa SIGNIFICAZIONE alta a denotare altra idea non simili in tutto a quella che si voleva esprimere. Cosi Petrarca disse propriamente: raffigurato alle fattezze conte, piuttosto che dire alla persona; e Alighieri: levando i moncherin per Ľaria fosca, in vece di dire, levando le braccia tronche. Qui si vede come l’espressione “fattezza” e l’espressione “moncherino” sieno meglio usati per essere espressione di SIGNIFICAZIONE SINGOLARE. Se la proprietà [cf. be as informative as is required – avoid ambiguity] è si necessaria a SIGNIFICARE la cosa che cade sotto i sensi, quanto maggiormente nol sarà ella, quando si vogliono esprimere le idee intellettuali e le morali, che se non fossero determinata in virtù dell’espressione, o svanirebbero dalla mente nostra, o vi starebbero disordinate e mal ferme? A quel modo che dalla precisione delle cifre dell'aritmetica dipende la esattezza de’ calcoli, cosi dalla proprietà dell’espressione dipende quella delle idee e de' ragionamenti in qualsivoglia delle scienze astratte; e quindi ottima è quella sentenza del filosofo: consistere il sommo dell'arte di ragionare nel l'uso di un discorso bene ordinata. Anche Piccolomini ha detto della sua parafrasi di Aristotele, che la base e il fondamento della elocuzione si ha da stimar che sia la purità, la netlezza e candidezza – cf. Grice, the imperative of conversational candour -- di quel discorso, nella quale l'uom parla. Ad acquistare l'abito di discurrire con proprietà tre cose si richieggono. Prima,  il saper bene dividere le idee fino ai primi loro elementi. Secondo, il conoscere l'etimologia dell’espressione (etimo: il vero), per quanto è possibile. Terzo, il rendersi famigliari le opere degli antichi filosofi romani, ne'quali è dovizia di voci pure e di modi assai propri. Chi non ha uso delle delle cose è spesso costretto di adoperare le noiose circonlocuzioni in luogo di un solo vocabolo o di una breve sentenza, e di abusare de sinonimi. Si dice “sinonimo” l’espressione di una medesima sigoificazione, o quelli, che rappresentando le stesse idee principali, differiscono in qualche accessoria. Della prima generazione sono i seguenti: fine e finimenio; abbadia e badia; consenso e consentimenlo e simili. Aliri ne trov po nella formazione de' tempi, e de'partecipii, come rendei e rendetli ; visto e veduto; parso e paruto; ma colali sinonimi non sono in gran numero. La più parle è di quelli che differiscono per aumento, o diſelto di qualche idea accessoria. Cavallo, corridore, destriero , palafreno, poledro, rozza, sono espressioni istituite a significare il medesimo animale; ma ognuna differisce dall'altra. “Cavallo” denola la qualità della specie; “corridore” la particolarità d'esser veloce; “destriero” ricorda l'uso di menare il cavallo a mano destra; “palafreno” quello di frenarlo colla mano; “poledro” la qualità dell'essere giovane; “rozza” quella dell'essere vecchio e disadalto. Le voci unico e solo sembrano per avventura la stessa cosa; ma il Petrarca disse la sua donna essere “unica e sola” (one and only), volendo significare che nessun'altra è nella schiera di Laura, e che nessuna può esserle dala in compagnia. Incontra alle volte, che le parole istituile a significare un'idea stessa differiscono per la virtù, che haono di richiainarne alla mente alcun'altra più o men nobile, o per cagione del suono o vobile o rimesso, o per cagione dell'uso, che di quella suol esser fatlo in umile o in illustre componimento. Tali sono , a cagione d'esempio, i vocaboli “adesso” ed “ora”, che significano ‘il momento presente’, ma “adesso” non sarebbe ricevuto in nobile componimento ; dal che si vede che sebbene ei denoli il punto presente del tempo, come fa l'altro, pure trae in sua compagnia alcune idee, che il fanno parere di bassa condizione. É dunque da por wenle che l’espressione, che si dice sinonimo, non sempre ci rappresentano stesso complesso d'idee ; e quindi può intervenire, che ingannali dall'apparenza, alcuna votla siamo lralli ad usarli impropriamenle. È da avvertire per ultimo, che ogni espressione antiquale, cioè quelle, che pel consenso universale de’ filosofi sono stale abolite, non hanno più luogo tra le voci proprie. Si uilmente sono improprie ogni espressione dei dialelli parlicolari, e l’espressione forastiera, che dall'uso de' wigliori filosofi non hanno avuto la cile tadinanza. Le quali tutte non sarebbero bene intese dall'intera Italia; e perciò denuo essere, da chi desidera di discurrire chiaramente, a lullo polere schivale. Questo basli aver dello della proprietà, che è la prima cosa, che si richiede a render chiara le elocuzione. Direino poi a suo luogo come il trasporlare con altra legge di proprietà l’espressione dal significato proprio all'improprio giovi maravigliosamente alla chiarezza. In virtù dell’espressione esprimiamo i nostri giudizii, e collegando insieme il giudizio espresso formiamo i raziocioii, i quali verranno chiari alla menle altrui , qualvolta sieno osservate le leggi, di che ora faremo parola; ma prima si vuole avvertire, cha talora il discorso può es sere ordinato secondo le leggi, per le quali ' riesce chiaro, ma non avere poi quella forza, quella virtù e quella eſficacia, che avrebbe, se si disponessero le parole diversamente senza però offendere le delle leggi. A suo luogo direno della disposizione (sintassi) delle parole, che agagiunge efficacia al discorso. Ora è a dire solo tanto di quella, che lo fa chiaro. Ogni giudizio espresso dicesi proposizione. Nel ragionamento, il quale di nolle proposizioni si compone, alcuna vene ba, che viene modificata dalle altre. Quella, che è modificata, dicesi principale, le allre suballerne (o minore). Vaglia a ben distinguerle il seguente esempio del Casa. Menire i nostri nobili cittadini gli agi e le morbidezze e i privuli loro comodi abbracciano e stringono, l'impera lore, non dormendo nè riposandu , mu travagliando e fabbricando, ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta. L'imperatore ha la sua fierezza e la sua forza accresciuta è la proposizione (premessa) principale (maiore), le altre, che lei modificano, sono le subaltern (premessa minore). La proposizio ne principale, a somiglianza della principale figura in un dipinto, dee fra tutte le subalterne campeggiare e risplendere; per ciò è che vuolsi evitare la frequenza di queste ultime, le quali, allorchè fossero troppe, invece di raflorzare la principale o premessa maiore, siccome è loro officio, verrebbero ad indebolirla. Questa si è la prima avvertenza , che circa le proposizioni subalterne aver dee colui che discurre; indi si prenderà cura di ben' collocarle. Prima che veniamo a dire quale sia la buona collocazione loro, è necessario di osservare, che le delle proposizioni subalterne si distin guono in espresse ed in implicite. Diconsi espresse quelle, nelle quali tutte le parli loro sono manifeste, come nella seguente : ľuomo è ragionevole. Diconsi implicite quando il giudizio che si esprime, e significati dall nome addiettivo o dal nome sustantivo con preposizione o dall’avverbio, come nelle seguenti. L’uomo GIUSTO è lodato. Pilade ama Oreste. CON. I romani amarono GRANDEMENTE la patria. Quando si dice “l'uomo giusto” si viene ad affermare che ad esso si appartiene la giustizia, che è quanto dire giudichiamo che egli è giusto. Si dica il medesimo delle altre due proposizioni. Ama con FEDE GRANDEMENTE, La proposizione IMPLICITA (entimema, implicatura) serve a significar del giudizio, che per abilo la mente umana FEDE amarono suol fare rapidamente; perciò è che non si denno usare in vece di quelle la proposizione espressa, SPLICITA (splicatura), perciocchè impedirebbero la spedi tezza dell' intelletto di nostro compagno conversazionale. Si dovranno ancora nello scegliere la proposizione implicita (implicatura, impiegato) schivare le inutili, cioè quelle, che risveglierebbero le idee, che in virtù del solo sustantivo o del solo verbo possono essere richiamate a mente, e scegliere quelle, che meglio qualificano il significato. Sarebbe, a cagione d ' esempio, vano (redundante) e noioso l'aggiunto di “bianca” alla “neve” (salvo se il caso richiedesse di far conoscere parti colarmente questa qualità), essendo che l’espressione “neve” trae seco, senz'altro aiulo, la idea di ‘bianco’ (cf. ‘atleta’ ‘longo’). Rispello alla collocazione della proposiziona suballerna, sia ella implicite o espresse, la regola (massima, imperativo) si mostra di per sé: imperciocchè, essendo intese a denotare alcuna qualità del signato o da' sustantivo o da' verbo o da' participio, deve chiaramente apparire a quali di queste parti dell'orazione (l’otto parti dell’orazione – partes orationis) vogliono appartenere; e perciò fa mestieri collocarle in luogo tale, che mai non venga dubbio se sia poste a modificare piuttosto l'uno, che l' altro o verbo o participio o sustantivo. Quao do a ciò si manca nasce perplessità (“misleading, but true) come nel seguente luogo di Boccaccio. E comechè Aligheri aver questo libretto fallo nell'età più matura si vergognasse. Qui può sembrare che il libretto sia stato falto nell' età più matura; che se avesse dello: comechè egli aver futto questo libretto si vergognasse nell'età più matura, la proposizione sarebbe stata chiarissima. Alcuna perplessità è ancora in quest'a tro di Passavanti: Leggesi, ed è scritto dal venerabile dottor Beda, che negli anni domini ottocento sei un uomo passò di questa vila in Inghilterra. Comechè non sia per cadere nel pensiero di alcuno che colui, che si parle di questa vita, possa andare in Inghilterra, nulladimeno, per quella collocazione di parole, la mente di chi legge resla alcun poco sospesa. Molte traspposizioni, che si bia simano nella lingua italiana, sono spesso con venevoli nella lingua latina, perchè nella lingua romana gli aggettivi, che per le desinenze diverse nei generi, nei numeri e nei casi si accordano coi sustantivi, rade volte lasciano dubbio a cui vogliano appartenere, e rade volte i casi obliqui si confondono col caso retto, comunque nella proposizione sieno collocati. Bellissimo è in latino il seguente luogo di Crasso, riportato da Cicerone. Haec tibi est excidenda lingua, qua vel evulsa spiritu ipso libidinem tuam libertas mea refutabit. Tenendo l'ordine di queste parole nella lingua italiana si produce falsità nella sentenza: sconvolgendolo si perde tutta l'efficacia. Se diremo. Questa lingua li è d'uopo recidere: recisa questa, col fiato stesso la tua sfrenatezza la libertà mia reprimerà, apparirà che la sfrenatezza reprima la libertà. Se per lo contrario tradurremo. La libertà mia reprimerà la tua sfrenatezza, toglieremo alla sentenza molto della sua forza. Vedremo a suo luogo la ragione, per cui la diversa collocazione di una espressione semplice rafforza o snerva l'espressione complessa. Ora ci basti osservare, poichè cade in acconcio, che le varie lingue (parlando ora della sola facoltà, che hanno di permutare il luogo alle parole), luttochè sieno alle a qua. Junque specie di componimento, nol sono ad esprimere uno stesso concetto nella stessa forma; perciò è che quando si trasportano le scritture da una favella ad un'altra non dovrà l'espositore darsi briga di ritrarre espressione per espressione, ma, avendo rispetto al genio della sua lingua, cercherà di produrre per altro conve pevol modo negli animi di nostro compagno conversazionale gli effetti, che l’espressione in lui operarono. Per fuggire le equivocazioni [cf. Grice, avoid ambiguity] gioverà ancora badare ne' verbi alla prima voce dell'imperfetto dell'indicativo, la quale è simile alla terza, dicendosi io amava, colui amava; perciò a distinguerle è sovente bisogno di pre ineltere all’espressione ‘amava’ il nome o il pronome. Giova spesso alla chiarezza, e segnatamente nell’espressione complessa o composita, il ben distinguere le persone e le cose, delle quali si parla (il topico); e perciò sta bene talvolta il *ripetere* il nome per non confondere l’una coll'altra; imperciocchè i prononi e i relativi sogliono spesso essere cagione di equivoco – confusione – cf. avoid ambiguity, be perspicuous [sic], the imperative of conversational clarity; e questo interviene specialmente, quando nella proposizione antecedente sono più sustantivi di un medesimo genere e numero, che si possono accordare coi relativi delle susseguenti; perciò conviene tal volta o giovarsi di un sinonimo onde porre in luogo di alcun nome mascolino un femminino, o inulare il numero del più in quello del meno, o viceversa. Può ancora geverarsi perplessità nell'usare il possessivo “suo” e “suoi” invece de relativo lei, lui e loro; e perciò alle volle è necessario adoperar questo per quello, come nel caso seguente. Mai da sè partir nol potè, infino a lanto che egli (Cimone) non l'ebbe fino alla casa di lei accompagnata. Se Boccaccio avesse detto, fino alla casa sua accompagnata, si sarebbe potuto credere essere quella di Cimone. Per far maniſesta (esplicita, chiarissima) la connessione de'ragionamenti sono assai opportune le particelle copulative (“e”(, avversative (“ma”), illative (“se”) e somiglianti – disgiuntiva (“o”). Molli fra' filosofi italiani, ad imitazione de’ filosofi francesi, sogliono scrivere a piccoli membri senza congiungerli insieme colle particelle, e in ciò sono da biasimare, iaperciocchè costringono la mente di nostro compagno conversazionale a passare “di salto” da una proposizione all'altra senza dargli occasione di scorgere subitamente le attenenze (pertinenza, relevanza – cf. Grice, category of relation – be relevant – a ‘platitude’ -- Strawson) loro. Affinchè si vegga manifestamente quanto la mancanza de' legamenti tolga di chiarezza al discorso, leverò dal seguente luogo del Passavanti le particelle che ne conneltono le parti. Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all affezione sua, a quella che più ta sprona. Se vede che si , non a . spetti che al sogno suo debba altro segui. tare. Quel sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; è l'effetto dell'affezione della persona. Tale sogno oseservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: è l'effetto di naturale cagione. Facciamo congiunti questi membri colla particella “e”, la particella”imperciocchè, la particella “ma” e vedremo il discorso apparire più chiaro (“She was poor and she was honest”) Qualunque persona sogna, pensi se il suo sogno corrisponde all’affezione sua, a quella, che più lu sprona. E se vede che si, non aspetti che al sogno suo debba altro seguilare; *imperciocchè* quel sogno non è cagione, alla quale debba altro effetto seguitare; *ma* è l'effetto del l'affezione della persona; e tale sogno osservare, cioè considerare donde proceda, non è in sè male: imperciocchè è l'effetto di natural cagione. Quesli pochi avvertimenti basteranno, se io non erro, a render cauti i conversatori, che desiderano di conversare chiaramente. Tralascio le wolle cose, che i filosofi hanno ragionato in torno la proposizione, poichè mi pare che, qual volta siasi imparato a distinguere la proposizione principale (premessa maiore) dalle proposizione subalterna (premessa minore), e siasi conosciuto che la virtù di queste si è di modificare le parti dell'altra, non faccia mestieri di *molto sottile* ragionamento a sapere in che modo elle si debbono collocare nella orazione o espressione complessa; perciò senza più entro a parlare dell' ornamento. La perſezione dell'arte del conversare, secondo Cicerone, consiste nell'esporre chiaramente, or nataniente e convenevolmente le cose o il topico, che a trattare imprendiamo. Di quella chiarezza e di quell'ornamento e decoro, che dalla invenzione e disposizione della materia procede, si ragiona in altre due parti della rettorica. Accade qui di parlare delle suddette tre qualità solamente rispetto al modo di significare (modus significandi) il concetto ritrovati. Avendo abbastanza detto della prima, diremo ora delle altre due, che fanno il discorso – la mozione conversazionale -- accetto a nostro compagno conversazionale. Prima di tullo si vuole osservare che la proprietà delle voci e l'ordinata (cf. Grice, be orderly) composizione loro generano gran parte della bellezza del discorso; imperciocchè fanno sì, che esso sia inleso senza fatica, che è quanto dire con qualche sorta di piacere. Ma questo non basta; chè nessuno per verità loda il conversatore solamente perchè si fa intendere dal suo compagno conversazionale; ma lo biasima e sprezza, s ' ei ſa altrimenti. Chi è dunque che faccia meravigliare gli uomini e tragga a sua voglia le volontà loro? Chi è applaudito e chi è venerato più che more tale? Colui, che nel conversare è distinto, copioso, splendido, armonioso, e che queste qualità, onde si forma l'ornamento, congiunge al decoro. Que' che conversa co'rispetti, che la qualità delle materia e del compagno conversazionale richiede, solo merita lode: che qualsivoglia ornamento disgiunto dal decoro diviene sconcezza e deformità. Di questo decoro diremo più particolarmente a suo luogo; ora veniamo a discorrere le parti dell'ornamento. Molto leggiadre ed efficaci sono le voci proprie, che per cagione del loro suono hanno somiglianza col significato, o quelle che ne ricordano qualche particolare qualità. E espressiona, che ricorda il significato per somiglianza di suono le seguenti: “belato”; “ruggito”; “soffio”; “nitrito”; “boato”; “rimbombo”; “tonfo”, e molte al tre, che per alcuni furono chiamate termini figure, a differenza di quelle, che, non avendo soosiglianza veruna col significato , furono delle termini memorativi o cifre. Fra i termini figure voglionsi annoverare, oltre le voci che abbiamo teste accennat , quelle che o provengono da altr’espressione, che è segno di cosa somigliante al signficato che si vuol esprimere o communicare (cf. Grice on the circularity of analyising ‘signare’ e ‘communicare’), o ricordano l'origine o gli usi del significato. L’espressione “spirito” è bella per certa tal qual somiglianza, che il significato, cioè l’immateriale sostanza, sembra avere col fialo o con qualsivoglia altra sottil materia, che spiri. Belle similmente e l’espressione “moneta” e l’espressione “pecunia”. la prima delle quali, venen do da “moneo”, significa che il metallo ed il conio ammoniscono la gente circa il valore di essa moneta. La seconda, venendo da pecus, ricorda l'origine del denaro, che fu sostituito ai buoi ed alle pecore, antica inisura delle cose mercatabili. Ho qui posti questi due esempi ancora perchè si vegga ' quanto giovi alcuna volta l'investigare l’etimologia. Concorrono co' termini propri e co' termini figure a far bella la mozione conversazionale le parole nobili, qualvolta sieno convenevolmente adoperate. Accade delle parole, dice Pallavicini, che comunemente accade degli uomini nel civil conversare. Questi acquistano ripulazione o vilipendio dalla qualità delle persone colle quali usano farnigliarmente; e le parole dalla qualità delle persone da cui sono sovente proſerite; e ciò interviene perchè tutti hanno per fermo, che i personaggi illustri e gli uomini letterati sieno esperti a conversare con legge, e che la plebe allo incontro parli e cianci barbaramente. Avviene da ciò che alcune voci, che significano cose vili o laide, sono tuttavia tenute per nobilissime. All 'opposito altre ve a'ba, che, nobili cose significando, in grave componimento non sarebbero lodate. Della prima spezie sono in Italia l’espressione “lordo”; “lezzo”; “tube”; “piaga”, ed altre, che nelle più nobili conversazione sogliono essere usate. Dall'altro canto l’espressione “papa”, siccome osserva il lodato cardinale Pallavicini , la quale nobilissimo personaggio rappresenta, non sarebbe ricevuta in grave componimento poetico. In tre schiere vengono separate dal Pallavicini le parole rispetto la maggiore o minore nobiltà loro. Nella prima si collocano quelle, che dal conversatiore in nobile conversazione e usata a significare un concetto grande ed il lustre. Vocaboli di questa specie non si potran no senza affettazione adoperare in tenue argomento o in famigliare discorso. Che se alcuno famigliarmente usasse l’espressione “pugna” in vece di “battaglia”; “luci” in vece di “occhi”; “accento” o “nota” in vece di “parola”, certo è che move rebbe a riso il compagno conversazionale. La seconda schiera è di quella espressione, che vanno egualmente per le bocche degli uomini ragguardevoli e del popolo, e che si possono senza biasimo usare in ogni occorrenza. La terza poi è di quelle, che furono avvilite nella bocca della plebe, come e l’espressione “pancia”; “budella”; “corala” e simili , le quali possono essere opportune in una conversazione intesa ad avvilire alcuna cosa, come e la mozione conversazionale ‘satirica’. Anche le espressione antiche, qualvolta elle abbiano convenevole forma e non sieno passate ad altro significato [non multiplicare sensi piu di la necessita], vagliono à nobilitare la conversazione; ma si richiede somma cautela in co lui che a vila le richiama, poichè, siccome ė detto di sopra, una espressione antiquata, ollrechè spesso portano seco oscurità [cf. Grice, ‘avoid obscurity of expression, procrastinate obfuscation], più spesso fanno l'orazione ricercata e deforme. E chi oggi p trebbe, senza indurre a riso il compagno conversazionale, l’espressione “beninanza”; “bellore”; “dolzore”; “piota”, “spingare” ed altre simili d’usare. Ora diremo della metafora (“You are the cream in my coffee), la quale usata opportunamente è lume e vaghezza della orazione. Prima è a sapere che gli uomini selvaggi per essere scarsi di cognizioni mancarono dell’espressione, e che volendo eglino significare alcuna cosa non ancora significata, fecero uso naturalmente di quella espressione gia usata, la quale e stata inventate a contras-segnare *altra* cosa somigliante in qualche parte all'idea novella (“You are LIKE the cream in my coffee”). Occorrendo loro, per esempio, di significare alcun uomo crudele, il chiamarono “tigre” per la somiglianza dell'indole di colal bestia con quella dell'uomo crudele. Cosi dissero assetate le campagne asciulle, “volpe” 1'uomo astuto (“sly as a fox” – he is a fox), “capo del monte” la cima, e “piè” del monte la falda di quello. Per gli addotti esempi si vede questo trasporlamento (meta-bole, transferenza, trans-latio) di una expression da un significato propio e vero ad un significato impropio e falso (“You are the cream”) altro non essere che una similitudine ristretta in una espressione (“You are like the cream – simplifcata a “You are the cream”); impercioc chè la seguente similitudine spiegata. La comparazione vera “Costui è crudele COME una tigre” si restringe (per brevita) in questa forma metaforica falsa. “Costui è una tigre”. È dunque la metafora una abbreviata similitudine [an elliptical simile], che si fa recando una espressione dal significato proprio al signficato improprio: e perciò da Aristotele è detta imposizione del nome d'altri. Siccome la metaſora fu da principio usata per *necessità*, potrà parere ad alcuno che crescendo il numero delle idee determinate e della espressione propria, la metafora divenga pressochè inutile – o una figura di retorica --; ma non accade cosi: perocchè, sebbene fra le conversatori civili e culle non sia tanto necessaria quanto fra le selvagge e rozze, pure la metafora è e sarà sempre luce e vaghezza della conversazione per virtù e forza di quelle sue qualità, che ora verrewo particolarmente esponendo. La metafora presenta spesso all'animo più chiaramente ogni sorta di concetti, poichè, veslendo di forma *sensibile* una idea non-sensibile, o intelleltuale (nihil est in intellectu quod prior non fuerit in sensu), ce le pone davanli agli cinque sensi. Voleva Alighieri significare che non è meraviglia se per la le nuità della nostra fantasia non possiamo per venire ad imaginare le cose, che Alighieri desiderava narrare del Cielo; e questo con una metafora dicendo. E se le fantasie nostre son basse a tant'altezza non è maraviglia. Per tal modo il concetto, che era tutto non-sensibile e intelettuale, divenne sensibile e per conseguente più chiaro (cfr. Grice, ‘be perspicuous [sic] – the imperative of conversational clarity] e più popolare. E se taluno volendo dire che gli uomini bugiardi saono talvolta infingersi e comporre gli atti e le parole a modo di parer verilieri, dicesse che la menzogna prende talvolta il manto della verità, non significherebbe egli il suo concetto assai vivamente. (He said that she was the cream in her coffee, By uttering ‘You’re the cream in my coffee” U signs – explicitly – THAT the addressee is the cream in the utterer’s coffee. Fra tutte le metafore poi e più efficace quella metafora che si cava da una qualità sensibile, corporea, materiale, che si mostra a le cinque sensi, e forse la ragione si è questa. Alla reminiscenza della qualità di un corpo, la quale ci vengono all'animo per i cinque sensi, più tenacemente si associano le idee, che di essi ci vengono per gli altri sentimenti; quindi è che ogni qualvolta ci riduciamo a memoria una della qualità sensibile (in questo caso visibile) del reale (un oggetto) quasi tutte le altre appartenenti a quello pur si risvegliano , e vivamente ed intero lo ci pongono dinanzi agli “occhi” dell'intelletto. Laonde se belle sono le metafore – parola dolce. che si cá vano dalla qualità, da cui sono affetto: l'odorato (secondo senso dell’odore), il tatto (terzo senso del tatto), l'udito (quarto senso dell’audizione) e il gustato (quinto senso del gusto), come queste: odore di santità – odore santo, durezza di cuore – duro cuore, ruggir di venti, vento ruggente -- dolcezza di parole; parola dolce -- più bella, per che più viva si presenta all'animo, entrando quasi per gli cinque organi de’cinqe sensi, sono le seguenti. Splende la gloriu (visum). Folgoreggiano gli scudi; ridono i prali (udito); si rasserena la fronte ; l’anima è oscurata per tristezza. Piacquero ad Aristotele sommamente quella metafora, che ci rappresenta (re-praesentatum, rappresentato) la cosa in mozzo, e principalmente quando la metafora attribuisce a una in-animato una operazione di un animato.Tali sono queste di Omero. Le saette di volar desiose; inorridisce il mare. Anche Virgilio, parlando di una satta entrata nel petto di una vergine, disse. Harsit virgineumque alle bibit hasta cruorem. Si dalla metafora ci pone la cosa vivamente quasi innanzi agli organi dei cinque sensi, e per la “novità” o vita (no morte) loro ci fanno maravigliare. La metafora, siccome dice Aristotele, partorisce dottrina, facendo conoscere fra le idee alcuna attenenza dianzi non osservata. Quale attenenza scorgesi tosto fra un manto e la no billà della prosapia? Certamente nessuna: pure veggasi come Alighieri ce la fa scorgere. Opoca nostra nobiltà di sangue, ben tu se'manto, che tosto raccorce, sì che se non s'appon di die in die lo tempo ya d'intorno co' la for Coine un bello e ricco manto adorna la persona di colui che sen veste, così adorna l'animo d' alcuni uomini quell'onore che ricevono pei pregi degli avi loro, e che chiamasi nobillà: ma, se per virtù novella non si rinfranca, ei viene di giorno in giorno scemando. Questi pensieri il divino poeta ci reca alla mente colla nuova similitudine, e ci dilella e ci illumina. Vale eziandio la metafora a muovere con maggior forza l’affeto, perciocchè, laddove alcuna volta parole proprie astretti a recare alla mente di nostro compagno conversazionale le idee una dopo l'altra, la metafora, rappre sentandole tutte ad un tempo, assale l’animo con veemenza. Basti un solo esempio del Petrarca, il quale rivolto alla morte così le dice: con saremmo me dove lasci sconsolato e cieco, poscia che il dolce ed amoroso e piano lume degli occhi miei non è più meco? Quali e quanli pensieri si destano nella mente all’espessione “cieco” e la frase/espressione frasale “lume degli ocehi miei”! Ma circa l'uso della metaſora nell’aſſetto si vuole por menle che ella non mostra  il lavoro e la fatica dell’intelletto, perocchè non è verisimile che colui, che ha l'animo perturbato, si perda a far cerca d'ingegnosi concetti e figure retoriche. È ancora pregio della metafora di coprire con velo di modestia e di gentilezza il segnato, che espressa con un termino proprio (e non un termino figura como e la metafora) sarebbero odioso o turpo. Ecco un bell’esempio del Passavanti. La innata concupiscenza , che nella s vecchia carne e nell'ossa aride era addor meniata , si cominciò a svegliare : la favilla, quasi spenta si raccese in fiamma ; e le frigide membra, che come morte si giacevano in prima, si risentirono con oltraggioso orgoglio. E Virgilio disse. O luce magis dilecta sorori, Sola ne perpetua moerens curpere juventa? Nec dulces natos, Veneris nec praemia noris? Questo e i principale vantaggio della metaſora, onde sovente viene preferita al termino proprio. Diremo ora dei vizii che talvolta elle possono avere. Se bella e la metafora che fa scorgere una maniſesta somiglianza tra due segnati (‘you’ ‘the cream in my coffee’), da che si toglie il vocabolo e l'altra, a cui si reca, chiaro è che deformi saravno quelle, che tengono ji paragone di rose o polla e poco somiglianti, e che sono male acconcie al pro posto dne (“a woman without a man is a fish without a bycicle”). Nessuna somiglianza si vede fra le cose paragonale nella seguente metafora del Marini, Folendo egli lodare un maestro, che formara bellissimi esempi da scrivere, esalta la penna di lui, dicendo ch'ella deve essere divina: Perchè una penna sela, Benchè s'alzi per sè pronto e sicura, Se divina non è tanto non rola. E qual somiglianza è mai tra il relare e lo scrivere? E tolta da peca somiglianza quella metafora che volendo segnare una cosa piccola prende da una cosa grande l'imagine, e al contrario. Mariai assomiglia le lacrime della sua douna a'lesori dell'Oriente, e Tertulliano il diluvio universale al bucato. Erro similmente colui che disse a suo amante. Son gli occhi resiri archiòugiati a ruote, Ele ciglia inarcale archi turcheschi. È bellissina la metafora che Poliziano tolse al Boccaccio. E le biade ondeggiar come fa il mare. Sarebbe difettosa quest’altra. E tremolare il mar come le biade. Viziose come le sopraddeile erano la più parte delle metafore usate dagli scrittori del secolo XVII, e soprattutto dai poeti, i quali sriscerarano i monti per estrarne i metalli, face vano sudare i fuochi, ed avvelenavano l'obolio colp inchiostro. Parmi inutile cosa l'estendermi in questa materia, essendochè il nostro secolo, sebbene incorra in altri vizii, di così falle baie si mostra nemico. Della metafora e l’analogia che e alquanto dura, ė da sapere che puo essere mollificata per certa maniera di dire, quali sarebbero: quasi – per dir cosi e che alcune ve nha, che sono state ammollite dall'uso, come la se. guente: Fabbro del bel parlare. Ė da biasimare ancora la metafora , che la sorvenire il nostro compagno conversazionale di qualche bruttura, o di cosa rile, o che disconvenga alla gravità della trattata materia o topico. Perciò meritamente Casa rimprovera Dante per essere talvolta caduto in questo difeilo , siccome quando disse. L'allo fato di Dio sarebbe rotto se Lete si passasse, e lal vivanda fosse gustala senza alcuno scollo di pentinento. E altrove. E vedervi, se avessi avuto di tal tigna brama, colui poteri ec. Questa e una imagine plebea e sconvenienti alla gravità del subbietto. Cosi merita biasimo Pallavicini, comechè sia maestro sommo nel l'arte dello stile conversazionale, quando disse, che il cardinal Bentivoglio aveca saputo illustrar la porpora coll' inchiostro, e quando per accennare la qualità, ond'è costituita l'eleganza della elocuzione, disse: saputi distintamente quali ingredienti compongono quesla salsa, cioè l'eleganza; i quali modi sono da biasimare, essendochè nel primo esempio li vedi dinanzi agli occhi la porpora brullala d'inchiostro, e nell’altro t’infastidisce l'abbietta voce che sa di cucina. Similmente non paiono degni di lode coloro, che sogliono usare per vezzo della conversazione un idiotismo, e segnatamente quello, che ha origine da certa anticha costumanze dimenticata oggidi. Non merita lode Davanzali quando volendo dire: o nulla o lullo: disse: o asso o sette. Questo proverbio, oltre chè si è di vilissima condizione, è tolto da un giuoco, che potrebbe essere sconosciuto a molli. E proverbio, del quale non si sa l'origine, il seguente; e perciò freddo od oscuro: Maria per Ravenna, invece di cercar la cosa dove ella non e. Bastino questi pochi pro verbi per moltissimi , che qui si po ebbero recare, e de' quali vanno in traccia alcuni mal accorti conversatori, onde parere versali nella lingua antica. Aucora è biasimevole alcune volte la metaſora , che si deriva dalle materie filosofiche ; imperciocchè, se il fine, pel quale il conversatore usa di quella, si è di rendere più chiaro e più vivo i concetto, questo non si potrà ottenere traendo la similitudine da cose poco nole o malagevoli ad intendere, come a la metafisica, che spesso, ond'essere chiarita, hanno bisogno delle similitudini tolle dalle cose materiali; ma di rado somministrano imagini, che vagliano a cercar recar luce alle prose ed alle poesie. Pure in questi tempi sono alcuni conversatori, i quali hanno per vezzo l'usare siffatta metafora, avvisando d'illustrarne la sua mozzione conversazionale, e di mo strarsi intendente e sottile; ma va grandemente errato, perciocchè non solamente appor tano ombra ed oscurità (‘avoid obscurity of expression, be clear) alla sentenza, ma danno segno di affettazione che è vizio sopra tutti spiacevole. si è dello di sopra che la metafora diletta, non solamenle perchè ci pone dinanzi agli oc ebi in forma quasi sensibile un pensiero astratto, ma ancora perchè ci porge ammaestramento col farci apprendere fra le idee alcuna attenenze prima non osservata; dal che si deduce che il conversatore, i quali vogliono recar maraviglia, de guardarsi dall' usare una metafora troppo comunale, come quelle, che, a somiglianza della monete passata per molle mani, sono rimase senza vaghezza. Non ogni metafora poi, comechè sia ben derivata, potrà convenire ad ogni conversazione. Poichè tra le metafore ve n'ha delle più o meno illustri, converrà avvertire che il grado della nobiltà loro non disconvenga alla qualità del componimenlo. Similmente nel formare la metafora si vuole avere riguardo al pensare della gente nella cui lingua si conversa. La diversità de'luoghi e de' climi fa che gli uomini abbiano diversi i costumi e le usanze , e perciò diverse ancora le idee e le significazioni di esse. Impercioc chè, traendo ciascuna gente le similitudini dalle cose, che più spesso le sono dinanzi agli occhi , incontra che alcun popolo deriva una metafora da una cosa campestre, lal altro da una cosa marittima, tal altro dal combinercio o dalle arti, secondo suo silo e costume. Il rigore o la benignità del clima poi è spesso cagione che l'umana imaginativa sia più vivace in un luogo e meno altrove; e quindi è che una metafora naturalissime nel Trastevere appaia ardila e strana nel Tevere. Anche l’essere le geoli più o meno civili cambia la natura della metafora; perciocchè dove sono leggi meno buone, ivi è più ignoranza del vero; e dove è più ignoranza del vero è più amore del verisimil ; il che torna il medesimo, ove è minor virtù intelleltiva, ivi abbonda la forza della fantasia. Cadono perciò in gravissimo errore coloro, che, imilando il volgarizzamento di Ossian falio da Cesarolli, sperano di venire in fama di sommi poeli toglieodo sempre la metafora da'venti e dalle tempeste, dai torrenti, dalle nebbie e dalle nuvole. Paiono a costoro inaravigliose squisitezze e delizie i seguenti, e simili modi: sparger lagrime di bellà - i figli dell'acaciaro il tempestoso figlio della guerra siede sul brando distruzione di eroi dar. deggiano gli sguardi rotola la morle - urlano i torrenti. Cotale metaſora, che per avventura e naturale a'popoli selvaggi, sono in Italia ridevoli e sciocche fantasie. Alla diversa indole delle genti debbe anche por mente chi dall' una lingua all'allra trasporla i versi e le prose, se non vuole produrre nell'animo di nostro compagno conversazionale effetto contrario a quello che l'autore straniero o forastiero o del Trastevere produsse in coloro, ai quali volse le sue parole. Affiuché si vegga manifestamente che non lutte lete. metafore convengono a tulti i popoli, recherò qui alcuni esempi che a questo proposito Tagliazucchi toglie dalla lingua latina. Bella metafora si è questa presso Virgilio: classique im millit habenas; deformità sarebbe tradu re in italiano: melte le briglie alla flolla. Così per segnare il pane corrotto dall'acqua dice lo stesso poeta. Cererem corruptam undis; mal si tradurrebbe: Cerere corrolla dall'onde. Orazio disse. lene caput aquae sacrae; e si tradurrebbe malissimo in italiano: il dolce capo dell'acqua sacra. Per segnare il liero sdegno d'Achille dice: gravem sioma chum Pelidae; e malissimo si tradurrebbe: il grave stomaco del Pelide. Moltssime altre metaſore potrei qui recare, che sono proprie solamente della lingua latina; ma chi ha cognizione della lingua latina conoscerà di per sè la verità di quello che io dico, ed argomenterà quanto debbono differire nella metafora la lingua italiana e quelle de'popoli da noi disgiunli e per costume e per clima, se tanto differiscono l'italiana e latina con islrelto vincolo di parentela congiunte. Una regola o massima o omperativo da osservarsi nell'uso della metafora si è di non aminassarle nella conversazione, ma collocarvele parcamente e di guisa, che paiano, come dice Cicerone, esserci venule volonterosamente, e non per forza nė per invadere il luogo altrui. È da avvertire in secondo luogo, che la metafora o non si dee congiungere con altra metafora o con voci proprie di maniera, che fra queste e quella si scorga opposizione maniſesta. Se per esempio avrai detto che Scipione è un fulmine di guerra, non dirai tosto che egli trioníò in Campidoglio. Se paragonerai eloquenza ad un torrente, non le attribuirai poco appresso la qualità del fuoco, ma avrai cura che la metafora sia sempre collegata (e no mista) colle idee prossime di guise, che nostro compagno conversazionale non trovi mai contrarietà ne' tuo concetto. In questo difetto caddero anche alcuni autori eccellenti, come Petrarca nel Sonetto XXXII, dove, cominciando dal dire metaforicamente, ch' egli ordisce una tela, prosegue: ſ ' farò forse un mio lavor si doppio fra lo stil de'moderni e il sermon prisco, Che (paventosamente a dirlo ardisco) Infino a Roma ne udirai lo scoppio. Ma non così egli fece nel Sonetto che comincia Passa la nave mia colma d'obblio, chè in esso avendo preso ad assomigliare gli amorosi affanni suoi alla nave, da questa imagine non si diparte sino alla fine. Non intendo io però di affermare coll’esempio di questa allegoria, che in breve discorso non possano star bene insieme più metafore di natura diversa; ma di avveitire che assai disconviene il trapassare da una similitudine ad un'altra inconsideratamente e quasi per salto. Giova moltissimo talvolta a render chiare e naturali quella metafora, che per se medesime sarebbero ardite e spiacenti, il preparare per convenevole modo l'animo di nostro compagno conversazionale. Se taluno volendo dire che gli uomini per mal esempio altrui caggiono in errore, dicesse caggiono nella “fossa” della falsa opinione, use rebbe certamente ardita e spiacevole metafora: nulladimeno ella diviene bellissima, qualvolta per le cose antecedenti ne siamo disposti. Va. glia l'esempio di Alighieri. Dopo aver ricordata la nota sentenza se il cieco al cieco sarà guida cadranno ambedue nella fossa prosegue: i ciechi soprannominati, che sono quasi infiniti, con la mano in sula spalla a questi mentitori sono caduti nella fossa della falsa opinione. Cosi l’ardita metafora divenla parte di una vaghissima dipintura, che viene quasi per gli occhi alla mente, ed ivi s'imprime e lungamente rimane. Sono certi scrittori, i quali riducono le idee astratte a termini più astratti (obscurus per obscurius) di quello che si converrebbe cercand a tulto potere di al lontanarle da' sensi: indi a questi loro soltilis simi concelti uniscono molte metafore repugnanti fra loro, il che fa che la mente di nostro compagno conversazionale tra questi estremi e tra questi contrari confusa nulla comprenda, come si può di leggeri conoscere nel seguente esempio tolto da un libro moderno: A giudizio dei savi scorgesi palesement , che nelle vedute su blimi della gran madre anche l'emulazione, principio avvedutamente inserito nella costituzione dell'uom , ' concorrer deve a scuotere ed a sferzare l'industria , on de riguardo allo sviluppamento di questa Costa. Vol. Un. 3 50 ec . ( 1 ) Oh quanta confusione ed oscurità in tanta pompa di parole! Pare che il conversatore volesse dire, che i savi conobbero che la natura ha posto nel cuore dell' uomo il desiderio d'emulare gli altri; e che da questo procede l'industri ; ma accoppiando i vocaboli principio e costituzione, che sono segni d'idee molto astratte, colla melaforica voce “inserire” ha composto un enigma; perciocchè nessuno polrà imaginare chiaramente siffallo innesto. Più strana poi diviene la metafor , quando l'astratto segnato dalla espressione “principio” si fa a scuolere ed a sferzare l'ind stria falla inopportunamente persona per trasformarsi losto in altra cosa, che si sviluppa a guisa di una malassa. In questa forma la metafora, che e vaghezza e luce della favella, diviene tenebre alla mente e vano suono (flatus vocis) agli orecchi. Conciossiache L’INTENZIONE del conversatore non sia solamente di render chiaro il concetto, ma di farlo talvolta dilettevole e maraviglioso, interviene che alcuni, per recare altrui dilelto e maraviglia, si fango a derivare dalla metafora certe loro conseguenze, come se in quella non già una simililudine si contenessa, ma come se la cosa a cui si reca il nome novello, veramente si trasformasse nella cosa, donde esso nome si toglie. Di questa specie di concetti si presero diletto i prosatori ed i poeti del secolo decimo settimo, forse per desiderio di avanzare gli scrittori delle altre elà, ed in fastidirono tutti i sani intellelli . Basti di ques 1 ( 1 ) Atti dell' Costitulo pazionale. era sti vizi un solo esempio. Ugone Grozio, per mostrare che non a dolere la morte di Giovanna d'Arco, dopo aver lodate nel principio di un epigramma le virtù di lei , sog giunse: Necfas est de morte queri, namque ignea tota aut numquam, aut solo debuit igne mori. Con l’espressione “fuoco”, imposta a cagione di similitudine, viene il conversatore a trasformare la misera vergine in vero fuoco materiale; e quindi trae la strana conseguenza, che ella mai non dovesse morire, o morire nel fuoco. Similmente si è frivolo modo e sciocco il derivare la metafora dalla somiglianza ed uguaglianza de'noni imposti a cose diverse, ALLUDENDO all' una di esse mentre si fa mostra di ſavellare dell'allra. In questo difetto incorse anche il primo de'nostri poeti lirici quando, piangendo la sua donna, parla del lauro, ed allude freddamente al nome di lei, come nella canzone, che comincia, Alla dolce ombra delle belle fronde ed in molti altri luoghi si può vedere. Essendosi fin qui parlato de' pregi e de'vizi delle metafore, cadrebbe in acconcio il ragionare degli altri traslati di parole e di concetto e della figura: ma , perciocchè queste cose sono state definite e largamente dichiarate da tutti i retlorici, stimo che qui basti il ricordare che siffatte maniera di favellare non e bella, se non in quanto vengono dal conversatore opportunamente adoperate. Per lo stesso fine, che la metafora si propone, cioè di rendere più vivo il concetto, melte bene talvolta il trasportare l’espressione a un segnato improprio o nominando invece del tutto la parte (metonimia), o invece della cosa la materia, ond'ella è composta, o il genere per la specie o il plurale pel singolare (majestic plural – We are not amused), e viceversa. Si può cadere in difetto usando questo traslato, che fu chiamato “sinedoche”, ogni qualvolla l'imagine della cosa, da cui si prende l’espressione, non sia bene associata alle idee, che si vo gliono svegliare in altrui, non sia atta a fare impressione nell'animo più che le altre ide , che vanno in sua compagnia. Vaglia a dichiarazione di ciò un solo esempio. Si dirà con maggior efficacia: fuggono per ſalto mare le vele , di quello ch : fuggono per l'alto mare le prore; poichè l’imagine delle vele gonfiate dal vento, come quella, che maggiormente percuote la vista di colui, che mira la nave in alto, più strettamente d'ogni altra idea si associa all'idea del fuggire: in altro caso però tornerà meglio chiamar la nave o poppa o carena, cioè quando l'azione, che essa fa, o la passione, che riceve, meno con venga alla vela che alle altre parti. Veggasi come ne ua Virgilio: vela dabant laeti. Submersas obrue puppes si nomida ancora talvolla la causa per l’effetto , o questo per quella: il contenente pel contenuto: il possessore per la cosa posseduta: la virtù ed il vizio invece dell'uomo virtuoso e del vizioso: il segno per il segnato ed il contrario; e questa figura, che dicesi “metonimia”, giova per le delle ragioni, essa pure adoperala opportunamente, a dare evidenza alla elocuzione. Ma di questi traslati e di quelli di concetto, che consistono in sentenze da intendersi a contra-senso (ironia), tanto se ne parla, come già dissi, in tutte le scuole, che qui, facendo la definizione dell'”allegoria”, dell'”ironia” e di altri simili traslali, avvertirò solamente che questi saranno diſellosi se verranno a collocarsi nella conversazione senza essere mossi dagli affetti. Anche rispetto a quelle forme, che sovente adoperiamo per rendere più efficaci i pensieri, e che si chiama con ispecial nome figura, ricorderò che alcune ve n'ha, come l’ “interrogazione” e l’ “apostrophe”, che nascono dall'affetto, ed alcune altre dall'ingegno, come l'”antitesi” (contrapposizione) e la distribuzione; e che perciò vuolsi avvertire di non far uso di queste seconde ne'luoghi, ove si possa credere che colui, che favella, abbia l'animo perturbato. Ma nessuno avvertimento, per ' vero dire, è giovevole a chi non sente nell'animo la forza degli affetti. Il più delle figure, come detto è di sopra, muovono dalla passione, e, se dall'ingegno vengo. no cercal , riescono fredde e di nessuna virtù: perciò è che male s'imparano da' rettorici. Con più figure favella la rivendugliola, secondo il detto di un illustre scrittore, contrattando sua merce, che il retſorico in suo studiato serino ne: tanto egli è vero che procedono più dalla natura che dall'arte. Questo vogliamo che ci basli aver dello così alla grossa delle figure. Dappoichè abbiamo detto in che consista la proprietà dell’espressione e della metafore, e come queste e quelle si debbano collegare per rendere chiaro ed accelto la mozzione conversazionale a nostro compagno conversazionale, e fatto alcun cenno de' traslati e delle figure, vérreio a dire, seguitando le dottrine del Palavicini, degli elementi, onde è costituita la “eleganza” (cf. Grice, ‘aesthetic maxims’), senza della quale ogni altro ornamento quasi vano riuscirebbe. L’espressione “eleganza”deriva dal verbo “eligere” ed è usata a segnare quella certa tersezza e gentilezza, per la quale una mozzione conversazionale non solamente viene ad essere scevro da ogni errore, ma in ogni sua parte ornato di qualità che da tutto ciò che ha del plebeo si allontana. Diciamo delle parti, delle quali ella si compone, che sono quattro. La prima e la brevità (Grice, ‘be brief – avoid unnecessary prolixity [sic].” La seconda e l'osservanza delle regole morfosintattiche. Terzo, la civilita o l'urbanità. Quarta, la varietà (non-detachability). Sebbene la chiarezza (conversational clarity, be perspicuous [sic]) spesso si ottenga col l'ampio e largo mozzione conversazionale, pure talvolta colla brevità si rende il pensiero più lucido e più penetranti (Brevity is the soul of wit). Le parole, dice Seneca, vogliono essere sparse a guisa della semenza, la quale comechè sia poca, molto fruttifica. La sovrabbondanza (over-informativeness) delle parole all'incontro empie le orecchie di vano suono (flatus vocis) e lascia vuote le menti. Perciò è da guardare non solo che nostro compagno conversazionale non sia distratto da una vana proposizione subaltern (premessa minore), ma che non sieno affetti più da un segno che dall’idea segnata. Saranno perciò utili a togliere questo inconveniente ed acconce a rendere elegante l'elocuzione quella espressione, che somigliante alla moneta d'oro equivale al valore di più altre, come le seguenti: disamare, disvolere, rileggere, ed altre molte, e con queste i diminutivi, gli accrescitivi, i vezzeggiativi, i peggiorativi, de' quali abbonda la nostra lingua. Vi sono ancora molti modi, che abbreviano la mozzione conversazione, e questi consistono nel tralasciare o il verbo o il pronome o la particella o l’affissi, che racchiusi nella diretta favella puo essere SOTTINTESO. (Implicatura). Basta qui recarne alcuni ad esempio. Se io grido ho di che dammi bere quo ha di belle cose onde fosti & cui figliuolo andovui il cielo imbianca - vergognando tacque a baldanza del signore il baltè иот da faccende non se da ciò vedi cui do mangiare il mio, ed altri moltissimi somiglianti modi, coi quali si ottiene questa importantissima parle della eleganza, onde rice. ve nerbo l'orazione, Avend’io delto che la brevità costituisce gran parte della eleganza, non intesi di affermare che agli scrillori non sia lecito di esporre le cose particolarizzando; chè questa anzi è l'arte colla quale si produce l'evidenza; ma volli avvertire chi brama dilettare altrui colle proprie scritture, di ben ponderare quali sieno le particolarità, che hanno virtù di far luminoso il concetto, e di tralasciar quelle, che l'offuscano e pongono l’altrui mente in falica. Secondo, dobbiamo eziandio osservare la regola morfosintattica, cioè quelle leggi che la volontà de’ primi favellalori e l'uso di coloro, che vennero dopo, banno imposto alla lingua italiana. Comechè il trascurarle non induca sempre oscurità (avoid obscurity of expression) pure importa moltissimo che sieno osservata, poichè ogni elocuzione irregolare apparisce plebea (un solecismo). E perciò grande si è la stoltezza di coloro, che vando cercando negli autori antichi i costrutti contro grammatica, e quelli come pellegrine eleganze pongono nelle scritture: dal che ottengono effetto contrario al buon desiderio: per ciocchè o portano oscurità nella sentenza, o in fastidiscono i lettori facendo ridere gli uomini di lettere, non ignari che quelle strane forme sono la più parte errori, o di amanuensi o di stampatori o di autori plebei, de'quali non fu piccol numero anche nel bel secolo dell'oro (errata). Terzo, siccome sono molli' vocaboli, secondo che è dello, i quali usati già da ' buoni scrittori han no acquistata certa nobiltà e fanno nobile il conversare, così pure sono molli modi, i quali, avendo in sè certa gentilezza, il fanno elegante, e non essendo propri degli stranieri, gli danno quel paliyo colore, e direi quasi fisonomia , per cui ciascuna favella da ogni allra si distingue. In che precisamente sia riposta que sta vaghezza, che si chiama civilita o “urbanità”, si è difficile dichiarare; e perciò assal meglio che con parole, si può mostrare cogli esempi. Porrò qui dunque alcuni modi volgari, ed al fianco di essi i moderni urbani o civile. Ciò che loro venisse in grado. A chicsa non usava giammai. Seppegli reo. Ciò che loro piacesse. Non era solita di andare in chiesa. Gli parve cosa calli va. Fece rivivere. Il prese per marito. “Era il giorno in cui” -- Egli domandò al servo certa cosa. Ben io mi ricordo. A vila recò. Il prese a marito. “Era il giorno che” – “Egli domandò il servo di certa cosa” -- Ben mi ricorda, o ben mi torna a mente. Vicino di quell'isola. Non-Upper: Viveva a modo di bestia. “Vicino a quell'isola” Upper: “Viveva come una bestia” Moltissime sono le forme somiglianti a que ste, le quali, sebbene non vadano per la bocca de ' comunali scrittori, pure sono chiare e naturali , e per cerla loro indicibile gentilezza recano diletto. Vogliono però essere parcamenle adoperate, perocchè in troppa copia ſarebbero il discorso ricercato; e questo difetto dobbia mo schivare anche a pericolo di parere negligenti . La negligenza è mancanza di virtù (salvo quando e falsa – nulla piu difficile che falsare la negligenza), che rende meno lodevole il discorso, ma non meno credibile: e l'affettazione è deforme vizio, che al dicitore toglie autorità e fede. Modo più sconcio si è quello di coloro, i quali, per vaghezza di parere eleganti ed SUO esperti della PATRIA LINGUA – LINGUA PATRIA -- patria lingua, compongono prose con parole e modi fuor d'uso, e costruzioni contorte alla boccaccesca; e della stessa guisa fanno versi oscuri e senza grazia e senza per bo, e si argomentano poi di avere imitato Aligheri o Petrarca. Ma che altro per verità fanno costoro, se non se muovere a sdegno i buoni ingegni, e dare occasione al volgo di ridersi di quei pochi, che studiano a’libri antichi? Un'altra generazione di scrillori (e questa è dei più ), alzato il segno dell'anarchia, gridando che l’USO è l'ARBITRO della lingua (Wittgenstein), si fa beffe di ogni gentilezza e di ogni proprietà: guida per entro l'idioma nativo parole e forme forestiere, e il guasta sì, che non gli lascia di se non la sola terminazione delle voci. Cosi due sette di contraria opinione vorrebbero partire la repubblica letteraria. L'una tiinida e superstiziosa restringe la lingua a que' termini, in cui stette nel trecento: l'altra licenziosa ed arrogante vuole che ogni ar gine si rompa sì, che le purissime fonti del civil conversare si facciano torbide e limacciose. Affinchè appaia manifesto il torlo di questi se diziosi, dirò che cosa sia lingua ; e dalla sua definizione trarrò alcune conseguenze. La serie de' segni e dei modi vocali instituiti a rappre sentare ogni generazione di pensieri, o, per meglio dire, ad esprimerc tulle quante le idee, ond’è formata la scienza di una patria, è ciò che dicesi lingua (come l’italiano dal latino, o il pidgin e il creole che e il francese). Da questa definizione si deduce che nè una sola città nè un'età sola può essere autrice e signora della lingua italiana – Roma e la citta della lingua romana; ma che è forza che alla formazione di questa abbia avuto parte la nazione intera, cioè tutti gli uomini congiunti di luogo e di costumi, che hanno idee proprie da manifestare; e che a scernere il fiore dalla crusca abbiano dato e diano opera gl'illustri scrittori . E così avvenne di vero nella formazione e nell'incremento di questo, che Alighieri chiamò, ironicamente, il volgare d'Italia, poichè, come dice il Bembo, e un siciliano e un Pugliese e un Toscano e e un Marchegiano e un romagnolo e un lombardo e un veneto vi posero mano. Tutte le parole dunque per tal guisa formate, che vagliono ad esprimere con chiarezza i pensieri, potranno essere con lode usate, sieno elle an tiche o moderne; chè le moderne ancora deb bono essere benignamente accolle, quando sie no necessarie a segnare una idea novella. Quella facoltà, che fu conceduta agli antichi, non si può togliere ai presenti uomini; perciocchè, se non si possono prescrivere limiti all'umano sapere, nè meno alla quantità dei segni delle idee si potrà prescrivere (quark, querk). Per la qual cosa ſu e sarà sempre lecito a' sapienti, qualvolla la necessità il richiegga, l'inventare una nuova espressione (“Deutero-Esperanto”) e un nuovo modo. Questa risposta è alla selta dei superstiziosi. Ora ai libertini (Bennett – meaning-liberalismo – libertinismo semiotico – Locke – liberty) brevemente diremo che la lingua italica non è la lingua del volgo, ma, come è delto, si è quella, che gli illustri scrittori di ogni secolo hanno ricevuta per buona, e che perciò quando si dice che appo l'uso è la signoria, la ragione e la regola del parlare, non si vuol dire l'uso del volgo, ma de' buoni scrittori. I più antichi die dero vita e forma alla lingua romana, ed i posleri loro la arricchirono e la potranno arricchire, non senza grande biasimo potranno toglierle l’essere suo. Siccome ad ogni mazione è spe ma ciale la fisonomia e certa foggia di vestire, cosi e speciale al idio-letto le voci ed i modi propri e figurati, i quali hanno attenenza co'diversi costumi delle diverse genti; e perciò coloro, i quali vogliono introdurre licenziosamente nell'idioma nativo espressione e modi forestieri – implicate, non impiegato -- operano “contro ragione”,  e, mentre ambiscono di essere tenuti uomini liberi e filosofi, fanno mostra d'obbrobriosa ignoranza. Non si lascino dunque sopraffare i gio vanelli da quei beffardi filosofastri, che con trassegnano per derisione col nome di purista chi studia scrivere italianamente ; ma alla co storo petulanza coll'autorità di Cicerone ri spondano arditamente che colui , il quale la patria favella vilipende e deforma, non solo non è oratore, non è poela , ma non è uomo (Cic. de orat. I. 3.). Quarta e ultima, se le parole fossero sempre composte ugualmente, non sarebbero graziose a chi ascolla o legge; e perciò un altro elemento della eleganza si è la variet . Il discorso può ricevere varietà da sei luogh , che ad uno ad uno ver remo a dichiarare brevemente, seguitando Pallavicini. Accade tante volte di dover nominare replicatamente la cosa medesima, e ciò produce noia agli orecchi, i quali sopra tutti i sentimenti del corpo sono vaghi di varietà; onde per isfuggire la ripetizione delle voci sono molto giovevole il sinonimo, quando la piccola differenza, che è in essi, non tolga al discorso laproprietà necessaria ; per non peccare contro la quale sarà mestieri aver considerazione, co me allrove si è detto, al vero intendimento de vocaboli. Se, a cagion d'esempio, dovendo si cambiare l’espressione “fanciullo”, si prendesse l’espressione “infante”, si osserverà che questa, venendo dal verbo fari, segna non parlante, e che perciò non può strettamente essere sempre sostituita a quella di “fanciullo”. Il secondo dai sei luogo della varietà sta nel ra presentare una cosa pe' suoi effetti congiunti, come, a cagion d'esempio, se poeticamente dicessimo; il sole velava i pesci, per dire era il fine dell'inverno: al germogliare delle piante, per dire al tornare della primavera. Con somma grazia e novità Aligheri rappresentò la sera pe' suoi effetti dicendo: Era già l'ora, che volge il desio a' naviganti, e inlenerisce il core lo di, che han detto a' dolci amici addio; E che lo nuovo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano, Che par il giorno pianger, che si muore. Questo fonte di varietà è abbondantissimo, e possiamo vederne un esempio in Bernardo Tasso, che in cento modi segna il sorgere del giorno. Nel rappresentare le cose pe' suoi effetti porrai cura che questi non destino al cun pensiero sordido od abbietlo, e che nel le scritture famigliari la congiunzione loro coll'oggetto sia mollo nola, sicchè non paia puplo ricercata. Il terzo luogo dai sei modi sono le definizioni o epiteto o apposizione delle cose, o sia le brevi descrizioni loro, le quali si possono prendere invece delle cose stesse , o que ste indicare per alcuna loro speciale proprietà; come chi per nominare Giove dicesse il padre degli uomini e degli Dei, o per dire la fortuna, Colei, che a suo senno gi infimi innalza ed i sovrani deprime. Il quarto luogo dai sei modo si è l'uso promiscuo del signato attivo, medio, o passivo da un verbio Potrai dire : Raffaele colori questa tavola , ovvero, da Raffaele fu colorita questa tavola; e secon do che chiederà il bisogno, userai o questo o quello segno. Il quinto luogo dai sei luoghi è la qualita (categoria d’Aristotelel'uso negativo (o infinito – privazione) invece dell’affirmativo o positivo; come chi sosliluisse alla proposizione positiva o affirmative seguente, ma con signato negativo: Il sole si oscurò, quest' altra proposizione splicitamente negative, per mezzo dell’adverbo di negazione, “non”: Il sole non isplendette”. Il sesto luogo dai se luoghi e la metafora (you’re the cream in my coffee), per la quale si può maravigliosamente variare il discorso, ora volgendo in “senso” (segnato, strettamente) metaforico – Sensi non sunt multiplicanda praeter necessitatem – uso metaforico -- un concetto allre volle espresso con termini propri: ora usando una metafora tolta o dal genere o dalla specie o da cose animate o da cose inanimate: ora quelle, che si presentano ai sensi : ora le altre, che si riferiscono agli altri sentimenti del corpo. Ornamento, dal quale l'elocuzione riceve molta gravità, e la sentenza. La sentenza o dogma o assioma o principio o adagio o gnomico o proverbo (“Methinks the lady doth protest too much” what the eye no longer sees the heart no longer grieves for”) si è verità morale ed universale, segnata con la brevità, che all'intelletto sia lieve il comprenderla ed il ritenerla. Tali sono le seguenti. Ipsa quidem virlus sibimet pulcherri. ma ncrces. Quidquid erit, superanda omnis for tuna ferendo est. La mala ineple non ha mai allegrezza di pace. Proprio de'tiranni è il temere. La buona coscienza è sempre sicura . Avvegnachè la sentenze sia più accomodata a quella conversazione che tratta di materie gravi, nulladimeno possono adornare molte altre specie di componimenti, e perfino le lettere famigliari, se ivi con moderazione sieno adoperate. Dico che sieno adoperate con moderazione, perchè il soverchio uso delle sentenze, anche nelle materie più gravi, è indizio che lo scrittore vuol ostentare sapienza, e perciò il fa parere affettato . In cotal vizio cadde ro molli scrittori del secol nostro, i quali me ritamente furono tacciali di “filosofismo” di  Borsa, che in una sua dissertazione ra giopò del presente gusto degl'italiani. Scon venevolissimo è l'abuso e talvolta anche l'uso della sentenza pe' discorsi, che trattano di cose mediocri o umili. Ma che diremo poi росо senno di coloro, che guidano in teatro i servied altre persone rozze ed agresli a parlamentare ed a spular tondo, come se dal pergamo predicassero? Questo è modo tanto sconcio, che il volgo slesso ne rimane infastidito, on d'è qui da passare con silenzio. È da lodarsi segnatamente nelle opere morali o politiche l'elocuzione, che a quando a quando sia ornata, ma non tessuta di sentenze, la copia soverchia delle quali, stanca i lettori invece di sollevarli, come si può sperimentare leggendo le opere morali di Seneca. Lo scrittore dal quale più che da ogni altro si apprende a fare buon uso della sentenza, è Cicerone, nelle cui filosofia mai non pare che quelle sieno condotte nel discorso a pompa, ina sempre vi nascono naturalmenle per recar luce e diletto. Diciamo alcuna cosa anche del concetto, onde viene grazia o piacevolezza ai componimenti. Concetto propriamente si dice una certa proposizione, che per essere nuove ed espresso con brevi parole recano altrui diletto e maraviglia e scuoprono il sottile ingegno di chi le dice. Ve n'ha di due maniere. La prima è dei delti gravi, l'altra dei ridevoli, che con proprio nome si chiama una facezia. Gli uni e gli altri nascono da’ medesimi luo ghi, e differiscono, secondo Cicerone, solamente in questo: che i gravi si traggono da cose oneste; i ridevoli da cose deformi o alcun poco turpi: ma pare veramente che a far ri devole un dello, sia necessario, il più delle 1 volle, che esso comprenda in sè alcune idee discrepanti congiunte insieme di maniera, che la congiunzione loro ben si convenga con una terza idea. Ciò sia chiaro per un esempio. Un buon ingegno de' nostri tempi fcce incidere in rame la figura di un vecchio venerabile con lunga barba, vestito alla francese, ornato di frangie e di feltucce e tutto cascante di vezzi, e sotto vi pose queste parole. Traduzione d' Omero di M. C. Tultii ne fecero le risa grandi. Se il ridicolo di questa figura consistesse nel solo accoppiamento dell'imagine dell'uomo antico e grave con quella de' giovani leziosi, ci ſarebbe ridere anche l'imagine di una sirena, che è composta di due contrarie nature; lo che per verità non accade, ed accadrebbe solamente qualora si dicesse che la bella donna , che termina in pesce, figura delle folli poesie ricordate da Orazio nella Poetica. Pare dunque manifesto che il ridicolo di sì falta deformità si generi dalla convenienza che è tra esse e la cosa, cui si vogliono assomigliare. Per ciò s'intende quanto diriltamente Castiglione dichiari che si ride di quelle cose, che hanno in sè disconvenienza, e par che slieno male senza però slar male. Affinchè prima di tutto si vegga che da’ luoghi, donde si cava la grave sentenza, si possono ancora cavare i molli da ridere, re cherò l'esempio, che ne dà Castiglione. Lodando un uom liberale, che fa comuni cogli amici le cose proprie, si polrà dire, che ciò ch'egli ha, non è suo: il medesimo si può dire per biasimo di chi abbia rubato, o con male arti acquistato quello che tiene. Di un buon servo fedele si suol dire: non vi ha cosa che a lui sia chiusa e sigillata: e que sto similmente si dirà di un servo malvagio destro a rubare. Le maniere de concelli ingegnosi sono pres sochè infinile , e di moltissime ha ragionalo Cicerone nel terzo libro dell'Oratore, ma noi toccheremo qui solamenle alcune principali . Cicerone distingue primieramente le maniere graziose , che consistono nelle parole, da quelle che stanno nella cosa , o che si esprimono col parlare continuato. Egli dice che consistono nella cosa quelle (sieno gravi o piacevoli ), che mulale le parole non cessano di generare maraviglia o riso: tali sono le narrazioni verisimili, e fatte secondo il costume e le varie condizioni degli uomini, e di queste molte ve n'ha nel Decamerone di Boccaccio. Una seconda consiste nella imitazione de’ costumi altrui fatta per modo di parlare continuato, come quella che fece Crasso, il quale in una sua orazione contraffacendo un uom supplichevole con queste parole, per la tua nobiltà, per la tua famiglia, ne imitò cosi bene la voce e gli alti, che mosse la gente a ridere; e proseguendo, per le statue, distese il braccio, ed accompagnò la voce con geslo e con imitazione si naturale, che le risa scoppiarono maggiori. Queste sono le due maniere, che consistono nella cosa, e che si esprimono col parlar continuato. Quelle che maggiormente si attengono alla materia che qui si tratta sono le maniere di que'concetti, la grazia de quali sta nella parola. Recbiamone esempi. Alcuni molli graziosi si generano in virtù della metafora. Avendo Lodovico Sforza duca di Milano eletta per sua impresa una spazzetta, con che voleva segare se essere disposto a cacciare dall'Italia gli oltremontani, domanda alcuni ambasciatori fiorentini, che loro ne paresse. Quelli risposero. Bene ce ne pare, salvochè molle volle avviene che chi spazza tira la polvere sopra di sè. Più grazioso ė il motto, quando ad alcuno, che metaforicamente abbia parlato, si risponde cosa inaspettata continuando la metafora stessa. Tale si fu detto il Cosimo de' Medici, il quale a' Fiorentini ſuoruscili, che gli mandarono a dire che la gallina cova, rispose. Male potrà covare fuori del nido. Anche il paragonare cose vili e piccole a cose grandi è spesso cagione di ridere, come in questi versi del Berni: E prima , iodanzi tutto, è da sapere che l’orinale è a quel modo tondo, Acciocchè possa più cose tenere, E falto proprio come è falto il mondo. Dobbiamo in questa maniera della facezia guardarci dal fare sovvenire il compagno conversazionale di cose laide e stomachevoli, affiochè la piacevolezza non degeneri in buffoneria: lo che sovente accade a coloro, che non sono piacevoli per naturale disposizione. Molti molti ridevoli si formano per via di iperbole [“Every nice girl loves a sailor”] accrescendo o diminuendo alcuna cosa. Diminui ed accrebbe a un tempo le cose Cicerone parlando giocosamente di suo fratello, che essendo di piccola slatura aveva cinto il fianco di una spada' smisurata. Chi ha, disse, cosi legato mio fratello a quella spada? Dall’equivoco procede spesso i motti freddi ed insulsi, ma spesse volte ancora gli arguli. Argulo parmi il seguente in biasimo di una donna, che fosse di molli. Ella è donna d'assai: il qual molio potrebbe ancora essere usato per lodare alcuna femmina prudente e buona. Molla venustà è in que’ delli, che invece di esprimere due cose ne esprimono una sola, per la quale l'altra s'intende (IMPLICATURA, SOTTITESSO). Assai leggiadro è questo  in cui si favella di un'amazzone dormiente, recato ad un esempio da Demetrio Falereo: in terra aveva posto l'arco, piena era la faretr , e sotto il capo aveva lo scud: il cinto esse non isciolgono mai. Similmente è grazioso il nominare con buone parole le cose non buone, come fece lo Scipione, secondo che narra M. Tullio, con quel centurione, che non si era trovato al conflitto di Paolo Emilio contro Annibale. Il centurione scusavasi di sua negligenza col dire. Io sono rimasto agli alloggiamenti per farli sicuri; perchè, o Scipione, vuoi dunque tormi la civiltà? Cui rispose Scipione. Perchè non amo gli uomini troppo diligenti. Sono assai argute quelle risposte, per le quali si DEDUCE da una medesima cosa il contrario di quello che altri deduceva. Appio Claudio disse a Scipione. Lo maraviglio che un uomo ďalto affare, quale tu sei, ignori il nome di tante persone. Non maravigliare, rispose Scipione, perocchè io non sono mai 69 blato sollecito d’imparare a conoscer molti, ma a far si, che molti conoscano me. Per egual modo Parnone rispose a colui che chiamava sapientissimo il tempo: Di pari dunque potrai chiamarlo “ignorantissimo”, perchè col tempo tutte le cose si dimenticano. Il concetto della risposta conversazionale può essere grazioso solamente perchè racchiude alcun insegnamento non aspettato da colui che fa la domanda. Fu chiesto ad uno spartano, perchè si facesse crescere la barba, e quegli rispose. Acciocchè mirando in essa i peli canuli io non faccia cosa, che all età mia disconvenga. Hauno grazia similmente alcuni detti, perchè mollo convengono al costume della persona, alla quale si attribuiscono. Essendo un colal uomo beone caduto inſermo, era assai mole stalo dalla sete. I medici a piè del suo letto parlavano tra loro del modo di trargli quella molestia, quando l'infermo disse : Ponsate di grazia, o signori, a togliermi di dosso la febbre, e del cacciar via la sete lasciate la briga a me solo. loducono a ridere anche que’ detti, che procedono da sciocchezza o goffezz , finta o vera che ella sia. Tali sono le due seguenti terzine del Berni: lo ho sentito dir che Mecenale Diede un fanciullo a Virgilio Marone, che per martel voleva farsi frate; E questo fece per compassione, ch'egli ebbe di quel povero cristiano, Che non si desse alla disperazione. si può similmente cavare il ridicolo dalle parole composte di nuov , che esprimono al cuna deformità del corpo, o dell'animo, come furono queste usate dal Boccaccio: picchia. pello ; madonna poco.fila ; lava-ceci ; bacia santi. Si falte maniere, che direi quasi deſormità della lingua, poichè dall'uso si allonta pano, essendo convenienti alla cosa segnata stanno bene, e perciò inducono a ridere e han lode di graziose ; ma se poi in forza dell'uso divengono proprie, perdono , a somiglianza delle vecchie metafore, alquanto della grazia primiera. Osserva Demetrio Falereo che la grazia del detto proviene alcuna volla dall'ordine solamente, quando una cosa posta nel fine produce un effetto, che posta nel mezzo o nel principio nol produrrebbe, o il produrrebbe minore. Egli reca l'esempio seguente di Senofoole, che, parlando dei doni dali da Ciro a certo Siennesi, disse. Gli donò un cavallo, una vesle, una collana, e che i suoi campi non fossero guasti. L'ullimo dono è quello dove sta la grazia, parendo cosa nuova, che si donasse a siennesi ciò che egli possedeva: se quel dono fosse stalo collocato prima degli altri non avrebbe avuto grazia alcuna. Bello pel medesimo artificio ci pare un detto di Benedetto XIV. Accomiatandosi da lui due personaggi di religione luterana, egli avvisa di benedirli e di ammonirli. Era di vero assai agevol cosa il fare che egli no ricevessero con grato animo quell'atto di amore paterno: ma il venerabile vecchio ollenne il buon effetto parlando così. Figliuoli, la benedizio ne de vecchi è acceita a tutte le genti; il Signore v'illumini. Ingegnosissimo si è que sto detto per l'ordine suo maraviglioso. Colla prima affeltuosa parola, “Figliuolo,” il papa procacciasi la benevolenza del compagno conversazionale. Nella sentenza , la benedizione de’vecchi è accetta a tulle le genti, chiude la prova della con venevolezza di ciò ch'egli vuol fare. In quel l'io io vi benedico, trae la conseguenza delle promesse. Nella precazione poi ripiglia la dignità di pontefice, che accortamente aveva quasi deposta da principio e solto cortesi pa role nasconde il documento, che a lui si ad dice di porgere a chi è fuori della chiesa romana. Questo ci basti d'aver ragionato pei delli graziosi e piacevol , chè il voler parlare di tulle le maniere loro o semplici o miste sarebbe officio di chi volesse trattare solamente di questa materia: e diciamo con maggior brevità de’ concetli sublimi. Alcuni haimo chiamato sublime qualsivoglia concetto, coi nulla manchi di grazia e di perfezione ; ina qui si vuol prendere la parola nel segnato , in che viene usata da ' più de' moderni reltorici e perciò così detiniamo i concetto sublime. Concetto sublime si dicono quelli, che rappresentano con brevi parole l'idea di alcuna potenza o forza straordinaria, per la quale chi ode resla compreso di alla maraviglia. Tali sono i seguenti . Giove nel primo libro dell'Iliade promette a Teli di vendicare Achill , e dopo il conforto delle sue parole i neri Sopraccigli inchinò: sull immortale Capo del sire le divine chiome Ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo. Questo concetto, il quale ci fa maravigliare della potenza di Giove, cesserebbe di essere sublime se con lunghezza di parole fosse segnato: perchè quella lunghezza sarebbe contraria alla rapidità dell'alto divino e farebbe che il pensiero del poeta non venisse improvviso alla mente di nostro compagno conversazionale, che è quanto dire non generasse maraviglia. Sublime è ancora quel luogo di T. Livio nella allocuzione di Annibale a Scipione. Ego Annibal pelo pacem, poichè la parola Annibal reca al pensiero la virtù, le imprese, la fero cia di quel capitano. Medesigiamente si fa maniſesta una straordinaria fortezza di animo ne'due luoghi seguenti. Seneca, nella Medea, fa dire alla nudrice: Abiere Colchi: conjugis nulla est fides, Nihilque superest opibus e tantis tibi. Medea risponde: Medea superesto Corneille, ad imitazione di Senec : Nerine: Dans un si grand revers que vous reste- t- il ? Med. Moi. In luogo del nome di Medea il poeta francese pose il pronone, ed ottenne effetto maraviglioso e colla brevità e con quella cotal pienezza di suono, che è nella voce “moi”. Il poeta latino col nome di Medea destò nel compagno conversazionale la memoria della potenza, della sapienza e della magnanimità di quella maga. Divisata così la natura de' motti graziosi e piacevoli e de' sublimi, e restando a dire al cuna cosa dell'uso, che se ne può fare, ripe teremo ciò, che già detto abbiamo delle sentenze, cioè che lo scrittore si guardi dal fare troppo uso de' concetti ingegnosi e graziosi e de' sublimi, poichè non è cosa tanto contraria alla grazia e alla grandezza, quanto l'artificio manifesto e l'affettazione. Le grazie si dipinsero ignude appunto per insegnare che elle sono nemiche di tutto che non è ingenuo e naturale. La grandezza similmente non va mai disgiunta dalla semplicità, e piccole appaiono sempre quelle cose, che sono piene d'ornamenti; imperciocchè la mente soffermandosi in ciascun d'essi riceve molle e divise imaginet le in luogo di quella imagine sola, che ci rappresenta la cosa continuata ed una. Male adoperano coloro che non avendo rispetto alla materia, di che favellano, nè alle persone ne alla modestia nè alla gravità conveniente allo scrittore, colgono tutte le occasioni, che loro porgono o le cose o le parole, per trar materia di motleggiare; perocchè invece di mo strare acutezza d'ingegno appaiono loquaci ed insulsi. Che dovrà dirsi poi di que , che abusano dell'ingegno per empiere le scritture di freddi e falsi concelti, di riboboli, di bislicci e d'indovinelli? di que', che tengono per finis sime arguzie le allusioni delle parole, che erano la delizia del Marino e de' suoi seguaci? Diremo che nali non sono per ricreare gli ani mi e sollevarli dalla fatica, e per indur ſesta e riso, ma per noia, fastidio e sfinimento di chi è costretto di udirli. Se il discorso si fa strada all’animo per gli orecchi, è necessario che egli sia accompagnato dall' armonia, della quale niuna cosa ha maggior forza negli uomini. L'armonia ci dispone al pianto e all'ira, e ci rallegra e ci placa; e lulle le genti, avvegnachè barbare, sono tocche dalla dolcezza di lei; laonde gran de mancamento sarebbe, se lo scrittore ad ac crescere efficacia alle sue parole non se ne valesse. Dalla greca voce d.gpótely (armosin), che segna connettere, è derivata la voce “armonia”. I maestri di musica insegnano, che essa consiste nell'accordo di più voci sonanti nel medesimo punto; ma coloro, che parlano del l'arte retorica e della poelica, presero questa parola quasi nel significato , che i maestri di musica prendono quella di melodia , come si vede aver fatto Aristotele, che usò in questa significazione ora la voce melos, ora la voce armonia. La melodia consiste nella altenenza, che hanno rispettivamente i gradi successivi di un suono nel salire dal grave all'acut : e noi direino che rispetto al discorso l'armo nia sta nell'altenenze delle lettere o delle sil labe o delle parole, che si succedono con quel la certa legge che si affà alla natura dell'or gano dell'udito. L'armonia, di che parliamo, è di due maniere, semplice o imitative. L’una ba per fine soltanto la dileltazio ne degli orecchi, l'altra, oltre la dilettazione degli orecchi, la imitazione del suono e dei movimenti delle cose inanimate e delle animate, e quella degli umani affetti: colle quali imitazioni inaggiormente ella si rende accetta all'intelletto e gli animi sigrioreggia. La dilettazione degli orecchi si ottiene con parole costrutte e disposte in modo analogo, come è dello , alla natura dell'organo del l'udito e fuggendo tutte le voci e tutti gli accozzamenli di esse, che producono sensazio ne spiacevole. L'imitazione poi si fa adope. rando e componendo suoni o gravi o acuti o inolli o robusti, secondo che meglio si affanno a ciò che si vuole imitare. Diciamo alcuna cosa più largamente e dell' una e dell'altra armonia, l’armonia semplice e l’armonia composita o imitativa. Le parole, le quali, come tutti sanno , si compongono di vocali e di consonanti , sono più o meno armoniche, secondo che le lettere delle due specie suddelte si trovano disposte con certa proporzione. Le vocali fanno dolce il vocabolo le consonanti robusto. Ma le troppe vocali, che si succedono , producono quel suono spiacevole, che si dice iato; le troppe consonanti fanno le parole aspre e diſficili a pronunciare: così l'incontro delle sillabe somiglianti produce la cacofonia, Circa le parole non molto armoniche, ma approvate dall' uso, diremo chę elle non si banno a rigettare; ma si deve aver cura di collocarle in guisa, che il loro suono disarmonico serva al l'armonia di tutto il discorso. Anzi sono da commendare quelle lingue che ricche si trovano di vocaboli diversi di suono, i quali , giunti insieme con bell'arte, sogliono rendere maravigliosa l'armonia del conversare. Sebbene, circa l'arte del collocare le parole con armonia, non possa darsi maestro infuori dell' orecchio avvezzo alla lettura de' classici scrittori, pure non sarà del tutto vano il dire più particolarmente alcuna cosa delle parti, onde l'armonia si coropone. E prima di tutto è a sapere che l’altenenza tra le lettere, le sillabe e le parole, dalle quali risulta l'armonia, sono di due ragioni: cioè altenenze di tempo, poichè si pronunciano o in tempi uguali o disuguali; e attenenza di suono, poichè ogni sillaba differisce dall'altra per aculezza e gravità e per più o meno di dolcezza o di asprezza. Diciamo prima delle attenenze di tempo. Pie chiamamo i Latini quella certa quantità di sillabe, che pronunciandosi in tempi eguali, si potevano misurare colla battuta del piede nel modo che oggi ancora fanno i suonatori. E, poichè si pronunciavano più o meno sillabe (attesa la varia conformazione delle parole) in ispazi uguali di tempo, avvenne che lunghe si dissero quelle che occupavano la maggior parte del tempo misurato dalla battuta, e brevi le altre, che occupavano la parte minore. “Coelum”, per esempio , si compone di due sillabe e si pronuncia in ugual tempo che ful-mi-na, che è di tre : perciò coelum è un piede di due lunghe, e ſulmina è un pie de di una lunga e di due brevi. I piedi sono di molte specie, e ciascuna ha il suo nome. Ve n'ha de' semplici di due sillabe, che sono o due brevi o due lunghe , una breve e una lunga , o una lunga e una breve: ve n'ha di tre sillabe, che per la varia combinazione delle brevi e delle lunghe risultano di otto specie: ve n'ha finalmente più di cento specie dei composti, cioè formali dall' unione di due piedi semplici. Dall'indelernipala quantità di piedi disposti con legge analoga alla natura dell'organo del l'udito umano, la qual legge si sente nell'anima e definire non si può, nasce il numero; e similmeple dall ' unione determinata di varii piedi, i versi, che sono molle maniere, se condo la qualità de' piedi, onde sono composti. Dalla varia qualità e quantità de’ versi nascono poi le differenti specie del metro. A rendere armonioso il verso si congiunge al pu nero il suono, che, siccome abbiamo accennato, si genera dalla proporzione, con che sono di sposte le consonanti e le vocali. Da ciò nasce che, sebbene talvolta i versi abbiano il medesimo número, non hanno il medesimo suono, ma variano nella loro armonia maravigliosamente: per la qual cosa interviene che dalla unione di molti versi che abbiano il medesimo numero, come a cagion d'esempio, di esametri, si possono generare molle ed assai varie armo pie: la diversa upione di queste armonie di cesi, “ritmo”. Come nella poesia dal ipovimento di molti versi upili nasce il ritmo poetico , così da quello di minuti membri d' indeterminala mi sura nasce quello della prosa, il quale pure è di varie sorla, siccome avremo occasione di osservare in appresso. Ora veniamo a dire del l'armonia della favella italiana. Gl’italiani non hanno determinata la quantità nelle sillabe, come si vede aver fatto i latini , per la qual cosa nemmeno i piedi hanno potuto determinare. Alcuni letterali del sesto decimo secolo, fra' quali il Caro, tentarono di rinnovare fra noi i versi esametri ed i pentametri, ma quanto poco (per la in sufficienza della lingua nostra) al buon volere rispondesse l'effett , apparirà dai seguenti versi di Claudio Tolomei, i quali, se non sono molto aiutati dall'arte del recitante, non possono ricevere soavità. Ecco il chiaro rio, pien eccolo d'acque soavi, Ecco di verdi erbe carca la terra ride. Scacciano gli alni i soli co' le frondi e co'ra (mi coprendo; Spiraci con dolce fato auretta vaga. A noi servono invece di piedi le sillabe é gli accenti, e quindi è che da un determinato numero di sillabe e da una determinata positura di accenti nasce il numero, onde si generano molte specie di versi. Omettendo le di spute de'rettorici e le loro opinioni circa questa materia, faremo qui alcun cenno solamente rispetto agli accenti. Le parole sono di una o più sillabe : se di una soltanto , l'accento è su quella, come in tu , me, no, si : se di più o egli è nell'ullima, come in mori, o nella pri 79 ma, come in tempo, o nella penullima come in andarono, o prima di essa, come in concedea glisi. L’indicati accento si dice “acuto”, perchè alzano la pronuncia : dove questi non sono, si trova il “grave”, che l'abbassano. Gli acuto e il grave  alzando ed abbassando il discorso, por tano seco certa proporzione di tempo, e perciò tengono fra noi il luogo de' piedi Jalini, e formano varie specie di versi, che, secondo, la quantità delle sillabe, si dicono o pentasillabi o senarii o seltenarii o ottonarii o novenarii o decasillabi o endecasillabi. Dalle varie unioni di questi nascono i diversi metri. E il ritmo nasce nel modo, che si è detto parlando della lingua latina, e circa il verso e circa la prosa. Non si contenta l'animo upano dell'armonia, onde è ricreato solamente l'orecchio, ma gran demente si piace di que' suoni, che più vivamenle ci pougono innanzi il segnato; e questo specialmente egli ricerca nella poesia, la quale o avendo, o mostrando di avere per suo principal fine il diletto, dee apparire più d'ogni altro discorso ordinala, e splendida: sarà quindi utile cosa l'investigare quale sia la virtù imitativa delle parole. Questa e l’armonia imitativa. Dalla mescolanza delle lettere liquide e delle vocali risulta infinita varietà di vocaboli dell’imitazione delle grida, de’suoni, de’romori e de’movimenti, e chi, porrà mente alla nostra lingua troverà, secondo che osserva il Bembo, voci sciolle, languide, dense, aride, morbide, riserrate, tarde, mutole, rolle, impedite, scorrevoli e strepitanti. Perciò è che variando la composizione di questi suoni si potranno ordinare .e versi e ritmi, che ogni grido o romore o movimento vagliano ad imi. tare. Jofinili esempi bellissimi di si ſalta imi. tazione sono nella Divina Commedia : ma basti qui la sola descrizione dello strepito, che Dante udi nell'Inferno: Quivi' sospiri, pianti, ed alti guai risonavan per l'äer senza stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte ' e fioche, e suon di man con elle facevano un tumulto, il qual s'aggira sempre in quell'aria senza tempo tinta, Come l'arena, quando il turbo spira . Del medesimo genere sono i seguenti versi del Poliziano. Di stormir, d'abbaiar cresce il romore: Di fischi e bussi tutto il bosco suon : Del rimbombar de' corni il ciel rintrona. Con tal romor, qualor l'äer discorda, Di Giove il foco d'alta nube piomba : Con tal tumulto, onde la gente assorda, dall'alte cataratte il nil rimbomba. Con tal orror del latin sangue ingorda Sonò Megera la tartarea tromba.Il Parioi ci fece sentir il guaire di una ca goolina, e il risponder dell' eco in questi bellissimi vers. Aita, aita, Parea dicesse ; e dall'arcate volte a lei l'impielosita eco rispose. Siccome il succedersi delle parole ora va lento or celere, è manifesto che questo, che si può chiamare movimento del discorso, ba somiglianza coi movimenti delle cose, e che per ciò aver dee virtù d'imitare le azioni loro. Recherò qui per maniera d'esempio alcuni luo ghi cavali da' poeti. Odesi il furore e l'impeto del vento in questi versi di Dante : Non altrimenti fatto che d'un vento Impetüoso per gli avversi ardori, Che fier la selva senza alcuu rallento , E i rami schianta , abbatte, e porta i fiori; Dinanzi polveroso va superbo, E fa fuggir le belve ed i pastori . Mirabilmente Virgilio descrisse il tumullo dei venti all'uscire della grotta di Eolo : Qua data porta ruunt et terras turbine per flant. Incubuere mari, totumque a sedibus imis Una Eurusque, Notusque ruunt, creber que procellis Africus, et vaslos volvunt ad sidera flu clus. Insequitur clamorque virum , stridorque rudentum. Fra i versi che esprimono la caduta de corpi sono bellissimi i seguenti : E caddi come corpo morto cade ; il qual verso è cadente, come il corpo che cade. Insequitur praeruplus aquae mons. In queste parole di Virgilio si sente il piom bare dell'acqua precipitosa : ed eccellentemente fece sentire il medesimo suono il Caro: E d' acque un monte intanto Venne come dal cielo a cader giù . In virtù di quest'altro verso dello stesso Caro, una nave sparisce in un subito, e si sente il romor dell'acqua che l'inghiotte : Calossi gorgogliando e s'aſfondò. Lo stesso con una sola parola lunga e scor revole dipinse il procedere del carro di Net tuno : Poscia sovra il suo carro d'ogni intorno Scorrendo lievemente, ovunque apparve Agguagliò il mare e lo ripose in calma. Nelle seguenti parole di Virgilio quasi sen tiamo a stramazzare il bue ; Procumbit humi bos. Dell’armonia che imita gli affetti col suono , Onde conoscere per qual modo gli affelli vengano imitati dall'armonia , uopo è d'inve sligare quali altenenze essi abbiano col suono e quali col namero. In quanto alle altenenze si ponga mente che ad ogni sorta di affetli (1) risponde un particolar molo del l'organo vocale , per cui si formano voci di verse secondo la diversità de' medesimi affetli ; all'allegrezza risponde il riso , alla mestizia il pianto ; ed il riso ed il pianto si manifestano con suono al tutto diverso : così presso tutte le geoli la subita maraviglia è significata dal l'esclamazione ah , ovvero oh ; il lamento dall' eh, o dall’ahi ; e la paura dall'uh. Que ste voci, che da principio sono elfelti naturali delle aſſezioni dell'animo, diventano poi, merce dell'esperienza , segni di quelle : per la qual cosa interviene che i vocaboli composti di ma, niera , che facciano mollo sentire il suono di quelle leltere, che alle predette voci primitive si assomigliano , avranno virtù d'imitare o questa o quella affezione. Le parole, che s'in, nalzano per la a o per l'o , che sono lettere di largo suono, saranno acconce ad esprimere l'allegrezza e gli affetti nobili ed alli : quelle, che declinano per la é e per l'i , che sono lettere di molle suono , saranno convenienti alla malinconia ed agli umili e miti affetti. (1) Omnis enim motus animi suum quemdam a natura habet vullum , et sonum et gesium (Cic. de Orat. ). 84 quelle , che si abbassano nell' u potranno e sprimere le cose paurose e le perturbazioni dell'animo, che ne procedono. Questa particolare virtù delle parole viene poi rafforzata dalle attenenze , che le passioni hanno col numero. Volgendo la considerazione alle varie passioni , si potrà conoscere che l' uomo'nell'ira è fatto impetuoso , frettoloso nell'allegrezza , lento nella mestizia , svarialo nell' amore, immobile nella paura. Quindi av. viene che la musica non solamente si giova delle note gravi o delle acute, ma delle rapi de e delle tarde modulazioni a risvegliare ogni sorta d'affetto . A somiglianza di quest' arte maravigliosa , anche la naturale favella, il suono ed il numero adoperando , innalza o abbassa gli accenli, rallenta od accelera il corso delle parole, secondo la natura degli affetti , che di esprimere intende. Con quest' arte medesima l'accorto scrittore compone i ritmi diversi secondo la tenuità o la gravità della materia, e secondo le qualità della persona che parla. Ma di questo avremo altrove occasione di favellare. Ora in confer . mazione di quanto abbiamo detto intorno gli affetti, recheremo alcuni esempi. Come la lettera a innalzi il verso e lieto il faccia, si può conoscere da quel solo verso del Petrarca : Voi ch* ascoltate in rime sparse il suono; il qual verso sarebbe rimesso se dicesse: O voi, che udite in dolci rime il suono ; sostituendo 1'i alla a. Veggasi come Dante seppe significare uno stesso concetto con due diverse armonie, che rispondono a due diversi affelti. Il conte Ugo lino sdegnalo, e Francesca d' Arimino dolente dicono all’Alighieri di esser presti a rispon dere alla sua domanda. Ma lo sdegnato dice con suono aspro e terribile : Parlare e lagrimar vedrai insieme ; e quella mesta con dolcissimo e tenue suono : Farò come colui che piange e dice. Maravigliosamente esprime Dante con voci aspre lo sdegno : E disse, taci, maladelto lupo, Consuma dentro le con la tua rabbia. La velocità de' pensieri, che procedono dal l'aſſello , apparisce in questo esempio dello stesso poeta : Dunque che è, perchè perchè ristai? Perchè tanta viltà nel core allelte ? Perchè ardire e franchezza non bai ? Un verso, che esprime luogo pauroso e cupo, si è questo : 10 venni in loco d'ogni luce mulo. Dove si vede che se Dante, in vece di muto, avesse delto privo, il verso non avrebbe messo nell'animo quel sentimento d'orrore. La e , che è lettera di suono lento, basso ed oscuro , rende sommamente imitativi i se gucnti versi : Buio d'inferno e di notte privata D'ogni pianeta solto pover cielo Quant' esser può di nuvol tenebrata. In virtù di somiglianli armonie producono gli scriltori que' maravigliosi effetti, che la più parte degli uomini sentono nell'animo , ene ignorano il magistero. Di queslo cercai mani. festare la natura , non già perchè io pensi che colui che scrive debba avere di continuo alle mani la regola ; chè anzi ho sempre creduto la dolcezza e proprietà del suono, al pari d'ogni allra vaghezza poetica ed oratoria , nascere spontaneamente ; ma questo volli fare, perchè stimai che l'investigar le occulte ragioni del. l'arte aiuti l ' intelletto a dirittamente giudi carne , e quindi a formare quell'interior senso si necessario a comporre lodevolmente, e quel l'abito , che prendono gli orecchi alla lettura de'ben giudicati esemplari. Nulladimeno per compiacere agli orecchi non si vuol mai turbare quell'ordine delle parole, in virtù del quale diventa chiara l'elocuzione. Se per esprimere qualsisia o movimento o suono od affello coll'armonia, o per formare un pe riodo numeroso e grave ci faremo oscuri, nes suna lode al certo ce ne verrà. Nè solamente dobbiam sempre conciliare l'ordine domandato dagli orecchi con l'ordine sopraddello , ma spesso ancora con quello , che rende più evi. denti o più efficaci i concetti , del quale ora ci rimane a parlare, siccome di sopra abbiamo promesso. Parliemo della collocazione dell’espressione, per la quale si rende ‘efficace’ la mozzione conversazionale. È manifesto che in ciascun periodo le pa role o le proposizioni si possono , senza to gliere la chiarezza , alcuna volta posporre o anteporre l'una all'altra in più maniere ; ma è da por mente che , fra le molte possibili permutazioni, poche sono quelle che meritino di essere lodate , e che spesso una solamente si è l'ottima. Ho udito dire da molti che il più delle volte l'ordine migliore delle parole nella proposizione si è l'ordine diretto, e que sto in verità nell'italiana favella è spesso da preferirsi all'inverso , segnatamente nei die scorsi didascalici o in quelli ove non si ma nifesta alcun affetto ; ma certo egli è che l'or. dine diretto ( prescindendo dai mancamenti che aver può rispello all'armonia) è alcuna volla degno di biasimo, siccome freddo ed inefficace. A quale legge dunque dovremo ubbidire , ol. tre a quella già stabilita circa la chiarezza e l'armonia, nel collocare le parole e le propo. sizioni a fine di rendere più vive le descri zioni e più efficace l'espressione degli affetti ? La filosofia ci mostra che le idee tornano alla mente associate in quell' ordine , che vennero all' anima per l'impressione delle cose ester 88ne, o in quello , che si genera in virtù della forza particolare di ciascuna idea, essendo che le più vivaci, o quelle che maggiormente si attengono a' nostri bisogni, si risvegliano pri ma dell'altre ; e questo mostrandoci , ella ne insegna che , se vogliamo fedelmente ritrarre nelle menli altrui cio che abbiamo veduto o imaginiamo di vedere, v ciò, che sentiamo, ci è duopo di formare la catena delle parole se. condo quella delle nostre idee, per quanto il comporta il genio della lingua. Questa verità verremo ora con alcuni esempi mostrando, Si osservi primieramente nel seguente esem pio, tolto dall'Ariosto, come nella descrizione delle cose, che non sono in moto, sieno poste innanzi all'animo dell'ascoltalore quelle idee, che prima farebbero impressione ne' sensi del riguardante, e poscia succedano a mano a mano le altre secondo loro qualità e silo : La stanza quadra e spazïosa pare Una devola e venerabil chiesa , Che su colonne alabastrine e rare Con bella architellura era sospesa . Sorgea nel mezzo un ben locato altare, Che avea d'innanzi una lampada accesa, E quella di splendente e chiaro ſoco Rendea gran lume all'uno e all'altro loco. La prima impressione, che riceverebbero gli occhi di chi mirasse un somigliante luogo, sa rebbe certamente la forma e l'ampiezza di esso, e tosto occorrerebbe alla ' mente la cosa alla quale somiglia , cioè la devota e venerabil chiesa : indi l'allenzione del riguardante si indirizzerebbe alle parti del luogo più appari scenti, le colonne alabastrine e rare : queste chiamano il pensiere a fermarsi alcun poco sulle qualità dell'architellura , indi alle parli . più minute, cioè all'altare, alla lampada, alla luce, che si spande d'intorno . Quanto giovi disporre le parole nell'ordine, in che le idee sono naturalmente impresse nei sensi dalle successive modificazioni delle ester ne cose, si può conoscere da questo esempio di Virgilio , il quale , volendo rappresentare all'imaginazione nostra il greco Sinone trallo al cospetto di Priamo, si esprime cosi : Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis Constitit , atque oculis Phrygia agmina circumspexit. La collocazione di queste parole è secondo l' ordine , nel quale avrebbero proceduto le sensazioni di colui , che avesse veduto cogli occhi propri sinone, e che l'imagine di quella vista si riducesse a memoria. La prima cosa, che gli verrebbe all'animo , sarebbe il luogo ov'era condotto Sipone, conspectu in medio; indi la persona di lui colle sue più distinte qualità , turbatus , inermis ; poi l'azione, constitit ; poi la parte del' vollo , che subito chiama a sè l'altenzione del riguardante , co Die quella , che è indizio dello stato dell'ani ma, oculis ; poi le cose , sopra le quali gli occhi si volsero , Phrygia agmina; infine l'ultima e lenla azione degli occhi dipinta colla tarda parola circumspesil. go Un altro esempio dello stesso Virgilio dimo. slrerà come sieno poste nel proprio luogo pro posizioni e parole. Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alla ( Horresco referens ) immensis orbibus (angues Incumbunt pelago , pariterque ad litora tendunt : Pectora quorum inter fluctus arrecta , jubacque Sanguineae exsuperant undas : pars cae lera pontum Pone legit, sinualque immensa volumine lerga. Fit Sonitus, spumante salo , jamque arva tenebant ; Ardentesque oculos suffecti sanguine et igni, Sibila lambebant linguis vibrantibus ora . و Colui che fosse presente al descritto caso , osserverebbe primamente di lontano due cose indistinte venir del luogo che gli fosse al co spetto, gemini a Tenedo ; indi le acque per le quali nuotassero, tranquilla per alta ; al l'avvicinarsi di quelle due indistinte cose, egli comiocerebbe a distinguere il loro divincolare ; poi ecco che le due cose, che da prima indi stinte si mostravano , si vedrebbe essere due serpenti, angues, i quali più s'accostano e più li vedi , e più discerni l'azione loro ; prima del gittarsi sul mare , poi del girarsi al lido , incumbunt pelago , pariterque ad litora lendunt ; ed a mano a mano più visibili la . cendosi le qualità de' serpenti , si vedrebbero i pelti erti sui flutti ed alte le creste sangui. gne, e il rimanente de'corpi con grandi volute nuolare, pectora quorum ec . Finalmente udi rebbe il suono dell' acque , e ne vedrebbe le spume. Pervenuti al lido i serpenli, discerne rebbe i loro occhi ardenli e sanguigni , ne ascollerebbe i fischi, e vedrebbe a vibrare le lingue, fit sonitus ec. Per l'addotto esempio maniſestamente si vede che nel collocare le parole secondo la catena di quelle sole idee, che verrebbero al. l'animo di chi il descritto caso avesse veduto, sta l'arte di rendere evidenti le descrizioni : di qualità che all'uditore sia avviso non di udir raccontare ma di vedere cogli occhi pro pri. Nel rappresentare colle parole le sole idee che vengono naturalmente all'animo di chi mira le cose , e di chi è mosso dagli affetti, consiste l'arte del particolareggiare : chi tra passasse Test limite cadrebbe nella prolissi tà, e nella minutezza , la quale rende stucche voli que' poeti che eccessivamente particola reggiando si pensano di produrre l'evidenza. Siccome poi le cose hanno più o meno di forza sull'animo nostro a misura che più o meno vagliano a concitare l'amore o l'odio, o a mettere timore ; così interviene talvolta , che esse al tornar che fanno alla mente tengono quell'ordine , che è secondo i gradi della ri. spettiva loro forza. Perciò è che qualvolta le idee in virtù delle parole sieno ordinate con formemente a siffatta legge, il discorso è caldo e passionato; e freddo e di nessun efletto se l'ordine delle parole discorda da quello delle idee. Nel libro IX dell'Eneide veggendo Niso l'amico Eurialo già presso ad esser morto dai Rutuli, cosi esclama: Me me (adsum qui feci) , in me conver : tite ferrum , O Rutuli , mea fraus onnis : nihil iste nec , ausus, Nec potuit : coelum hoc , et conscia si dera testor. Volendo il poeta esprimere le veemenza della passione di Niso, soppresse il verbo interficile, e pose innanzi alle altre la voce me quarto caso, poichè la prima idea, che viene all'ani. mo del giovanetlo , si è quella della propria persona , che egli vuole sacrificare per l'amico suo ; poi vengono le altre parole ordinata Diente seguitando la della legge. Similipente il Petrarca : E i cor, che indura e serra Marle superbo e fero, Apri tu, padre, inlenerisci e spoda . Se invece egli avesse dello : Apri tu , padre, intenerisci e snoda I cor, che indura e serra Marte superbo e ſero, l'elocuzione sarebbe riuscita fredda, perciocchè la prima imagine che si presenta al commosso animo del poeta, sono i cuori, i quali egli con quelle prime parole quasi pone innanzi a Dio, affinchè si piaccia d'intenerirli. Accade alcuna volta che lo scrittore vuole accrescere vigore alla propria sentenza , e in questo caso non dee disporre le sue parole a modo, che all'uditore paia di aver inteso tutto al prinio detto, ma far sì , che le idee vengano all' animo di lui crescendo gradatamente, come nel seguente esempio : Tu se' buono, santo, divino. E in quest'altro del Boccaccio : Ri. prenderannomi, morderannomi, lacereran nomi costoro. Similmente metterà bene il collocare l'ay verbio dopo il verbo e l'addiettivo dopo il sustantivo , qualvolla sieno posti nel discorso alfine di accrescergli vigore. Perciò è che me. glio si dirà : io ti amerò sempre , che io sempre ti amerò: è facile il sentire come questa seconda collocazione riesca fredda. Molli preclari ingegni, e Ira questi il Caro, hanno biasimato il Boccaccio, perchè troppo frequentemente pone il verbo alla fine del pe riodo; e per verità l'hanno biasimato a ragio ne ; perchè non solo con ciò si toglie al di. scorso la varietà, ma anche perchè il più delle volle si viene a turbare la naturale associa zione delle idee. Alla quale associazione se porrà mente lo scrittore troverà sempre molivo onde approvare o disapprovare l'ordine che egli avrà posto nelle sue parole. Lunga opera sarebbe il trattare qui minutamente questa ma teria e il prescrivere le regole applicabili a tutti i casi particolari ; queste si possono age volmente dedurre dalla regola generale, che abbiamo assegnata , e perciò stimiamo che qui 94 basti fare qualche altra osservazione intorno ad alcuni luoghi, ne'quali il verbo è posto in ultimo. Avendo il principe Tancredi, presso il Boc caccio, rimproverato Ghismonda di avere eletto per suo amatore Guiscardo di nazione vile, e non uomo dicevole alla nobiltà di lei, così ella, rinfacciandogli il fatto rimprovero, gli dice : in che non taccorgi che non il mio pec cato , ma quello della fortuna riprendi. Qui chiaro si vede che se Ghismonda avesse dello : non taccorgi che non riprendi il mio pec cato , ma quello della fortuna, avrebbe par. lalo freddamente. Il figliuolo di Perolla, in T. Livio, sdegnato che il padre suo gli abbia in. pedito di uccidere Annibale, si volge alla pa tria dicendo: o Patria , ferrurn , quo pro te armatus hanc arcem defendere colebam, hodie minime parcens, quando pater extor. que, accipe. Ne'due cilati luoghi son poste innanzi le idee, che prima si presentano ale l'animo passionato di colui che favella, e in ullimo è il verbo, che apporta luce alla mente sospesa dell'ascollatore. Se T. Livio avesse detto : 0 Patrin , accipe ferrum ec. , oltrechè avrebbe parlalo fuori del modo naturale di colui che ha l'animo commosso, avrebbe an cora mancato di quell'arte, che l'altenzione altrui si procaccia: imperciocchè qualvolta egli ci porge innanzi il ferro, col quale il giovane voleva difendere ostinatamente la rocca, subito la niente nostra sta attendendo impaziente menle che cosa esser debba di quel ferro; e, poiché ode la risoluzione di esso giovane, re sla preso da subita maraviglia e ne riceve dilelto. Nel collocare le parole secondo la catena delle idee, si vuol porre ' grande cura di con ciliare quest' ordine con quello che è richiesto dall'orecchio e dal genio della lingua , al quale non si può contrariare. Qualvolta 10 scrittore ciò pervenga ad ottenere, sembra che le sue parole siensi di per sé poste al luogo loro, e che chiunque avesse voluto dire la stessa cosa l'avrebbe detta a quel modo. Que sta si è quella facilità, che molti avvisano di poter conseguire , ma spesso invano a ciò si affaticano e sudano. Parliamo del carattere del discorso. Avendovi posti innanzitulli gli elemenli, onde si compongono le prose e le poesie , ac cade ora di ragionare più parlicolarmente delle leggi della convenevolezza , o sia del decoro , di che abbiamo di sopra falto cenno alcuna volta. Come dalla mescolanza de'selle colori fatta con legge si genera la varietà e la vaghezza nella imagine delle cose dal pittore imitate, cosi dalla mescolanza degli elementi predetti , similmente falta con legge, nasce la varietà e la venustà delle prose e delle poesie . Colui che si facesse ad accozzare e ad ammassare alla rinfusa parole nobili , modi urbani, mela fore, traslali, igure , sentenze, ec. , verrebbe certamente a comporre di buona materia as sai deforme Perſella riuscirà posizione, allorchè le parole e i modi e l'ar monia e le figure verranno e ben divisale le une con le altre e lulle insieme, secondo i fini che lo scrillore si propone, secondo la maleria della quale ſavella, secondo la condi. zione sua e di coloro che l'odono , secondo i luoghi in cui parla ; chè in queste tulle cose consiste il decoro. Dal decoro nasce la leggia dria , che risplende nelle più belle opere del. l'arle, e senza di esso nessuna cosa al mondo è pregevole. Conciossiachè poi varii sono i fini speciali , che lo scrittore si propone , varii i subbielli, di che può ragionare, varie le uma ne condizioni e le circostanze, conseguita che varii pur sieno i generi e le specie de' con ponimenti per loro proprio carattere distinti. Il qual carallere, per le cose delle di sopra, definiremo nel modo seguente : Il carattere del discorso si è la contemperanza degli ele nepli, da ' quali risultano la chiarezza e l'or. namenlo, ſalta secondo le leggi del decoro. E perciocchè la principal legge del decoro si è quella , che riguarda il fine, che ci pro poniano , quando altrui manifestiamo i nostri concelli , a questo volgeremo tosto la nostra considerazione, Chi scrive inlende o a convincere o ä pero suadere o dilellare altrui. Secondo questi tre fini nasceno tre generi di scrivere o tre caralleri si diversi , che vogliono essere di stigli e particolarmente considerati ; cioè il fi losofico , il persuasivo, il poelico. Di questi di reno prima alcuna cosa in generale , indi ne accenneremo le specie. In quanto al carattere del discorso filosofico, Ufficio de'flosofi si è il mostrare altrui la verità, e perciò le loro scritture intendono a fare che il lettore od ascoltatore non sola . menle venga di buona voglia nella sentenza a lui esposta , ma che sia costretto anche suo malgrado a vevirvi, che è quanto dire ch'egli rimanga convinto . Se pertanto ci verrà fallo di scuoprire quella virtù del linguaggio , per la quale si genera il convincimento , ci saranno subito manifeste le qualità , onde il carallere filosofico si distingue dagli altri. Il convincimento si genera nell'animo o qual volta per via de' sensi percepiamo l'attenenza ſra alcune qualità, e in questo caso diciamo esser convinti dal fatto, o qualvolta ci vien posta innanzi una serie di proposizioni insie me collegate ' e procedenti da una o da più altre conformi a'falli , le quali si chiamano principii ; ed in questo secondo caso diciamo di essere convinti con evidenza di ragione. A costringere gli animi con questa evidenza in . lendono i filosofi, ed a tal fine son loro neces sarii i vocaboli di singolare significazione ed i modi precisi ; imperciocchè se nella catena delle proposizioni che formano il ragionamento , una sola vi fosse di perplesso significalo, o che accrescesse o menomasse di un solo elemento iniportanle alcuna idea, si mulerebbero le at tenenze delle dette proposizioni, dal che proce derebbe l'errore , come accade nelle operazioni arilmeliche, qualvolta , no solo numero si ponga iu luogo di un altro, Se agli uomini venisse dalo (che Dio volesse) di ordinare la lin gua a modo che dalle percezioni delle qualità semplici delle cose fino alle più complesse idee d'ogni maniera non fosse vocabolo di mal fer ma significazione, non sarebbe malagevole il ragionare dirittamente in qualsivoglia altra Ina teria , come si ragiona nella matemalica ; inn perciocchè in virtù de'segni ben determinali si verrebbe al conoscimento delle allenenze delle idee complesse grado per grado fino ai loro principii; e per tal forma ciascuno potreb be sempre rendersi certo della enunciata verità . Da tutto ciò si raccoglie che nella precisio ne delle parole e dei modi sta la virtù di con vincere ; e che perciò essa precisione esser dee la prerogativa dello scrivere filosofico. L'uso della metafora pertantoe delle figure può divenire larghissima fonte d'errori, per ciocchè è facile che l'animo umano ingannato dalle similitudini, di che si formano le meta fore, e commosso dagli artificii travegga, e quindi si faccia a comporre le nozioni, non secondo la natura delle cose , ma secondo le apparenze e la capricciosa indole della fantasia. Il sistema del Malebranche , ch'ebbe tanti se. guaci e disputatori (per lacere di molli altri ) procede da una similitudine. E si dovrà dunque nello scrivere insegnali vo schivare ogni metafora ed ogni figura, e renderlo secco e ruvido, come quello de'ma temalici? V'hanno certamente alcune malerie ( e tale è per avventura la ideologia ) , le quali richieggono un linguaggio pressochè simile a quello della geometria o dell'algebra ; ma non è perciò che le altre parti della filosofia, ed anche talvolta la stessa austera scienza delle idee, non dimandino ornamento sobrio e ve recondo. Niuna materia filosofica vuol essere molto mollo fregiala, acciocchè il verisimile, in forza degli artifizii oratorii , non venga ad invadere . il luogo del vero, nė paia che il filosofo voglia invescare e prendere altrui : nulladimeno è necessario che a quando a quando l'intelletto del leggitore, affaticato dal lungo ragionare, trovi riposo, e venga alleltato, senza che la esposta verità rimanga oscurala . Perciò il filo soro collo schivare le parole barbare, rance , oscure e disarmoniche toglierà ogni ruvidezza al suo discorso, e gli darà grazia e leggiadria convenevole co' modi urbani e gentili , colle vereconde metafore scelte a maggiore schiari. mento di quanto per le parole ben determi nate fu espresso ; colla brevilà e colla varietà de'modi, con alcune naturali figure, quale sa rebbe l'interrogazione, e specialmente coll’ar. monia facile e piana , e con tutti gli allri modi naturali alla tempérala favella. Questo carallere filosofico fu si ben divisato da Cicerone, che io stimo convenevole cosa di recare le sue parole Temperata e famigliare è l'orazione de’ filosofi: non è composta» di modi popolari; non è legata a cerle regole d'armonia, ma discorre liberamente. Niente sa d'iralo, niente d'invidioso, niente di inirabile, niente di astulo. Casla, vereconda, quasi pudica vergine, onde piuttosto ragionamento che orazione può nominarsi. Parliamo del discorso  di carattere persuasive o protrettico. Poichè abbiamo dato contrassegno del carattere filosofico, veniamo a fare il medesimo della mozzione conversazionale persuasiva. “Persuadere” segna propriamente far credere altrui alcuna cosa; dal che manifeslo apparisce essere grande la differenza tra il “convincimento” e la “persuasion”. Perchè siamo convinti è forza che conosciamo ogni proposizione che compone un ragionamento fino alla prima percezione, dalle quali dipende il principio fondamentale di quello. Perchè siamo “persuasi” basta che il ragionare abbia per fondamento o l'opinione o l'apparenza o l'autorità (non come l’intende Courmayeur). Molti dicono, a cagion d' esempio, di essere “persuasi” che il sole si giri intorno la terra, ed altri che la terra si volga intorno al proprio asse. Gli uni prestano fede all'apparenza, gli allri al detto degli uomini sapienti. Ma di quello che credono non sanno porgere altrui vera dimostrazione. Da questo esempio, e da infiniti altri, si può vedere che la persuasione non è sempre generata dal conoscimento di ogni proposizioe  che si richieg gono nella dimostrazione, e che per conseguente a trarre le volontà, ed a tenere le menti del più degli uomini, non importa semipre il dimostrare sollilmente alla maniera del filosofo, ma giova di far uso di qualsi voglia verisimile principio: di comporre imaginazioni che abbiano faccia di verità: di adoperare figure che, perlurbando l'aninmo di nostro compagno conversazionale, conformino i pensieri di lui secondo la nostra volontà di guisa, che, se egli sia per venire nella nostra sentenza, precipitosamente vi corra . Ma tutte queste cose si vogliono ado perare a modo, che il discorso abbia sempre apparenza di vera dimostrazione; perciocchè gli uditori di qualsivoglia condizione sempre domandano a conversatore che sia loro mostra la verità. Converrà quindi dedurre il discorso, per natural guisa e chiaramente, e da esso rimovere ogni proposizione ed ogni artificio, nel quale apparisca alcuna ombra di falsità. Primo ufficio del conversatore si è il provare la sua proposizione nella divisata maniera. Secondo, il dilellare. Terzo, il commovere; accorgimento si richiede nelle prove; sobriela degli ornamenti che intendono al diletto; veemenza nel concitare gli affetli. Con queste arti si perviene a trionfare ed a governare la volontà di nostro compagno conversazionale. Per le cose dette si conosce che il conversatore, comechè dice di voler dare esatta dimostrazione di quanto afferma, questo non fa sempr : del che si può aver prova nella disputa, che fa in contraddilorin, per le quali talvolta appaiono vere due sentenze, una delle quali, essendo opposta all'altra, deve di necessità esser ſalsa (reduction ad absurdum, introduduzione della negazione). Non è dunque l'arte della conversazione veramente l'arte di dimostrare (prendendo questa parola nello stretto segnato del filosofo) ma, come la define Dionigi d'Alicarnasso, “l'arte di farsi credere”. Ma qui potrà per avventura sembrare che, avendo io nel sopra indicato inodo divisata la natura di una mozzione conversazionale persuasiva, de abbia fat 10 un'arte d'inganno. Chi però cosi pensasse а porterebbe opinione falsissima; perciocchè non si ſa inganno agli uomini adoperando a bene quell'arte, che sola si conſà all'indole della più parte di essi. Pochi sono coloro, che pos sono essere falli capaci della verità per via di sollile ed esatto ragionamento; anzi avviene il più delle volte che, sembrando molti falsissimo il vero e piacesse a Dio che così non fosse), è forz , per guadagnare l'opinione foro, venire ad alcuna utile verità per le strade del verisimile; e questo non è certo ingannare, ma giovare la umana famiglia. Vero ufficio dei conversatori si è l ' usare l'eloquenza non ad inganno, ma per indurre gli uomini a fuggire il vizio, a seguitare la virtù e la verità; per metter fine alle conlese, per sedare i tumulli, per sollevare l'autorità della legge contro il volere di coloro, che il privato bene antepongono a quello della repubblica: che se alcuni malvagi intellelli abusano di tutte le arli civili, dovremo per questo sbandirle dal Roma e ricondurre gli uomini a viver di ghiaude? Finalmente e la mozzion conversazionale di carattere poetico, come in Heidegger. La poesia fou dai romani inventata per proprio diletto, e poscia dagli autori della vila civile ad ammaestramento di esso popolo adoperala. Piacque ad aleuni a solo ricreamen to dell'animo usarla, ma i più nobili poeti sotto il velame delle favole, delle imitazioni e dei mirabili concetti pascosero la dottrina , e con locuzione accesa nella fantasia e con soavi armonie si aprirono la strada alle menli volgari, le quali all'insegnamento dei filosofi sarebbero stale ritrose. Per lo che niuno può dubitare che chiunque si dispone a fare una mozzione conversazionale poetica non debba cercare di piacere alla più parte degli uomini. Questo fece ad imagine degli antichi il nostro Alighieri, la cui divina Commedia leggevano anche le persone d'umile condizione, e ne traevano documenti a ben vivere. Questo ſecero l'Ariosto e il Tasso, e cosi dee fare chiunque ha vaghezza di essere salutato un autore di una mozzione conversazionale poetica. Se dunque investigheremo quali sieno quei modi che dilettano il più degli uomini, e quali sieno que' che li noiano, giungeremo a conoscere quali convengano e quali disconvengano al carattere della mozzione conversazionale poetica . E primieramente e palese che le espressione apportano diletto e colla materiale struttura loro e colla qualità delle idea, che recano alla mente; perciò è che l'essere del carattere poetico dall'una e dall'altra di queste cose dovrà generarsi. Una delle qualità necessarie alla mozzione conversazionale poetica sarà dunque la più squisita armonia, onde siano dilettati i sensi ed appagato l'intelletto in virtù della imitazione. Dell'armonia abbiamo dello abbastanza, perchè passeremo tosto a dire della natura delle idee dilettevoli. Il diletto si genera negli animi da ciò che, dolcemente i sensi movendo, fa operare la mente senza tenerla in fatica: e perciò è che le imagini dei corpi diversi e tulte quelle cose e que’ concetti, che hanno virtù di risvegliare gli affetti, ci recano maraviglioso piacere e le idee astratte all'incontro non lo ci recano, perciocchè, se non sono mollo complesse, fanno lieve impressione nell’animo; se molto complesse, abbisognano di molta attenzione, e perciò affaticano la mente. Proprii, saranno dunque del carattere poetico i vocaboli e i modi acconci a svegliare ad un tempo la rimembranza di molte sensazioni dilettevoli ed a concitare le varie passioni ed a rendere sensibili coll'aiuto delle similitudini tolte dalle cose corporee i più sottili concetti della mente. Cogli aggiunti opportunamente scelti vengono segnata la passione o l’azione, e gli usi delle cose e le qualità loro proprie, le quali in virtù dei soli nomi sustantivi non verrebbero all'animo di nostro compagno conversazionale, o ci verrebbero debolmente; perciò al poeta conviene l'adoperare essi aggiunti più frequentemente che all'oralore, quale dipinge meno parli colarmente le cose, siccoine colui che non ha per fine principale il diletto. Colla metafora si dà corpo a una nozione astratta, coi tropi si pone dinanzi agli occhi della mente quella sola parte o qualità dell'obbietlo, che prima si presenterebbe al senso di colui che cogli occhi del corpo il mirasse. Adoperando i predetti modi, si perviene a dare a’ concetti intellettuali forma sensibile guisa, che nostro compagno conversazionale, direi quasi, non più per segni percepisce le cose, ma le vede, e con mano le tocca. Affincho palesemente si vegga questa prerogativa, che sopra tutt e rende il carattere poetico distinto dagli altri, recherò ad esempio alcuni concetti intellettuali, convertendoli in forma sensibile. Tutti i viventi muoiono. La sede del romano impero fu da Costantino trasferitu a Bisanzio Il popolo facilmente mula consiglio. Quello ch' ei fece dai tempi di Romolo, sino a quello dei Tarquinii. Quello concetto si dice intellettuale, siccome quelli che si denno giudicare secondo il segnato proprio di ciascuna parola; sensibili saranno, qualvolla sieno espressi di maniera che giudicare si debbano secondo l'apparenza o la similitudine, siccome divengono i predelti Trasformandoli nel modo seguente. La morte batte egualmente alle capanne de poveri ed a’ palagi de’ re. Posciachè Costantin lo quila volse contro il corso del ciel, che la seguiu Dietro quel grande , che Lavinia Wolse. Infida è ľaura popolare. E guel cliei fe' dal mal delle Sabine Al do Tor di Lucrezia. Queste finzioni che assai di lettano, e perchè contengono manifeste similitudini e perchè racchiudono veri intellettuali concetti, sono talmente proprie della mozzione conversazionale poetica, ch'elle sarebbero sconvenevoli nei discorsi, che non hanno per fine primario il diletto. Come queste poi si addicano più a cerle specie, che a certe altre, vedrenio a suo Juogo. Ora bastea di avere in genere contra-segnata la natura del carattere poetico, onde apparisca che tengono mala strada coloro, i quali cercando "fama tra i poeti fanno pompa ne’loro versi di dottrina e di soltile ingegno, ed espongono i loro pensieri con ordine troppo minuto e distinto. I concetti che si cavano dall’intrinseco della filosofia, recanó seco molta oscurità e difficoltà, specialmente quando vengono segnato co' vocaboli e commodi loro proprii, e perciò sono contrarii al diletto, che è il fine del poet , o, come altri vuole, il mezzo necessario ad indurre il giovamento. E quando si dice che il poeta dev'essere filosofo, non si vuol dire che a modo dei filosofi debba scegliere, ordinare e segnare il concetto, ma che egli usi molto di filosofia nello scegliere le materie più utili agli uomini, e nel dare a quelle e forma e veste conveniente alla natura di ciascuna. Che se talvolta egli vorrà togliere alcun concetto dalla filosofia, lo toglierà dalla superficie e non dal profondo seno di lei, in quel modo, che ha fatto il Petrarca, qualvolta si è giovato della filosofia di Platone, come si vede nel seguente esempio. Per le cose mortali, che son scala al fattor chi ben le stima, D'una in altra sembianza potea levarsi all'alta cagion prima. E in altri luoghi moltissimi si vede con qual arle e cautela dalla flosofia nella poesia egli abbia trasportati i concetti, gli abbia temperati ed ornati, sicchè non hanno nè ruvidezza alcuna nè oscurità, ma naturalezza, novità, e magnificenza, che sono qualità popolari, che è quanto a dire poetiche. C’e una e altra specia del discourse di carattere filosofico. Le materie, intorno le quali cade l'insegnamento, sono: la matematica, la fisica , la metafisica, la morale, la politica, l'arte oratoria e la poetica, le arti liberali e le meccaniche, e tutte le conoscenze che da queste principali procedono, ciascuna delle quali essendo più o meno astratta , richiede o maggiore o minore soltigliezza d'ingegno e forza di attenzione in chi le consider: per la qual cosa interviene che dovendo i conversatori usar parole e modi con venevoli alla natura di ciascuna delle dette materie, ne risultano diverse specie di caratteri insegnativi più o meno austeri. Rispelto poi alle persone, cui vuolsi mostrare la verità, giova osservare che elle sono di due maniere. Alcune letterale ed alcune mezzanamente istruite. Alle prime, che sono avvezze al ragionamento, si converrà stretto sermone: più diffuso alle altre, le quali hanno bisogno che le cose sieno esposte loro per minuto, ed anche talvolta per via di similitudini e di esempi chiarile. Per tal cagione il discorso filosofico prende spesso alcuna delle forme del persuasivo, senza mai perdere però la precisione, che forma l'essenziale sua proprietà. Di tal sorta sono molte mozzione conversazionale indirizzati all'insegnamento de' giovani, e i dialoghi e le epistole filosofiche, le quali vengono usate affinchè certe materie depongano alquanto della nativa loro austerità, ed allin cbè i conversatori affaticati trovino riposo nelle digressioni e in altre parti accessorie. C’e una e altra specia di discourse di carattere pesuasivo o protrettico. Se al mondo fossero uomini dirittamente sapienti e perfettamente savi, sicchè astuzia e lusinga di oratore non potessero negli animi loro, vana riuscirebbe l'arte del persuadere, perciocchè tutti richiederebbero di essere convinti con precisa e poco adorna favella: ma Blo non sono quaggiù nel mondo cose perfette, e perciò è che, sebbene tutti gli uomini avvisando di poter essere condotti alla verità per via di vera dimostrazione, sdegnino i manifesti artificii; pure non v'ha alcuno, che vaglia a resistere alla seduzione di astuta eloquenza; dal che si ricava che l'arte del persuadere si può adoperare con ogni sorta di persone; po pendo menle però che quanto maggiore negli ascoltanti è l'aculezza dell'intelletto e la sapienza, altrellanto esser deve la cura nell'ora tore di occultare l’artificio. Dovranno dunqne i modi del discorso persuasivo tanto più avvicinarsi a quelli del filosofico, quanto piu le persone, cui si favella, sono sapienti ed arcorte; ed all'incontro tanto più dovranno lingersi, direi quasi, del COLORE (Farbung) poetico, quanto nel conversatore è minore l'altitudine ad argo nentare sottilmente: e la ragione di questo si è che, a misura che negli uomini manca l'acı fezza dello intelletto, cresce la forza della fan. tasia, dell'opinione e delle passioni. Ma no è perciò che, anche favellando a sì falte persone, debba l'oratore ornare il discorso d'imagini fantastiche a modo che esso perda le apparenze della buona dimostrazione; essendo che' il popolo stesso, il qual pure, come è detto, presume di sapere ragionare sottilmente, sde gna quella orazione che gli par vuota di ragioni. Dovrà dunque il discorso persuasivo aver sempre l'aspetto di vera dimostrazione; ma colale aspetto poi sarà diverso, secondo la maggiore o minor perspicacia delle persone, che si vogliono persuadere, le quali si possono dividere in tre schiere. La prima è degli uomini letterati : la seconda degli uomini che banno convenevole discrezione di mente: la terza del popolo basso. Per le quali tre schiere tre specie di carattere persuasivo procedono. La prima partecipa alquanto delle qualità del genere filosofico: la terza di quelle del poelico: la seconda è stile medio e media fra le due. Della prima specie e le allegazione, che l’avvocato pronuncia al cospetto de' giudici; della seconda i discorsi morali, la storia, l’elogio, ed altre opere intese a persuadere circa il giusto e l'onesto le persone discrete; della terza la predica e la allocuzione e il parlamento, che si fanno al popolo ed a; soldati. Siccome poi varia si è la condizione delle persone che favellano, e varie le cose di cui si può favellare, interviene che secondo queste e quelle verrà il carattere persuasivo a dividersi in altre specie: e perciocchè le per le cose si possono considerare di tre ragioni, cioè di nobili, di mezzane e di umili, piacque a' retorici di restringere sotto tre soli nomi i molli membri del carallere persuasivo, e questi sono: il sublime, il temperato ed il tenue. Che a ciascuna di queste specie si addicano e voci e modi particolari, è facile comprendere e chi non vede che al discorso rivolto a celebrare le lodi di un eroe o di un sapiente si convengono maniere diverse da quelle , che sarebbero accomodate a descrivere o a lodare l’amenità della villa? Che la lettera famigliare intenla a persuadere qualsivoglia verità ad alcuno, dev'e di natura diversa dall' orazione che tralla della cosa medesima? Paren sone e I 2 domi che qui non sia bisogno di allargarsi troppo in parole, una sola cosa ricorderò , cioè, che von solamente si addicano a cfascuna spe. cie particolari maniere, ma ancora particolare collocazione di parole e particolare armonia . Imperciocchè l'animo di chi favella , essendo secondo i varii casi o tranquillo o perturbato, o elevato o umiliato , non è dubbio che, nel seguitare questi diversi affetti, variamente si devono ordinare le idee, e colle idee le paro le, e che similmente dee variare l'armonia , se vero è ch'ella soglia naturalmente , qualvolta favelliamo, accompagnare i moti dell'animo, Oltre di che vuolsi considerare che que' che parlano alla moltitudine, o scrivono cose da proferirsi ad alla voce , sogliono muoverla e modularla con diverso andamento da quello che userebbe colui, il quale famigliarmente ragionasse e tranquillamente in angusto loco alcun fatto narrasse ; e perciò il ritmo di que ste due specie di favellare è fatto diverso dalla necessità di pronunciare a modo, che le nostre parole sieno ascoltate volentieri, e quan do in luogo pubblico di gravi negozii a molti parliamo, e quando in camera a pochi di qual sivoglia materia. Quale sia poi quella deter minala armonia, che in ciascun caso convenga, insegnare uon si può. Qui basti l'avvertimento, chè l’esempio de classici scrittori assai meglio ne può ammaestrare. Penso che sia convenevole cosa il collocare fra le specie del carattere persuasivo anche quello che si addice alla istoria; e ciò per le seguenti ni. Uſlicio dell'istorico si è di produrre coll'insegnamenlo la prudenza civile e militare, il che si ottiene col porre innanzi all ' animo del lettore i fatti importanti e le cagioni e gli effelli di quelli. Al qual line, è mestieri di descrivere avvenimenti d'ogni ma piera e particolari e generali, assalti , uccisioni , incendii, battaglie, saccheggi, trattazioni, páci  congiure, delilli e virtù; di palesare nelle concioni poste in bocca ai re, ai magistrati, ai capilani, i gravi consigli e i documenti della politica ; di esprimere i caratteri delle passioni, e di usare le più luminose sentenze. Le quali tulle cose vogliono essere significate con modi che varino secondo il variare della maleria. Comechè uguale a sè medesimo sia sempre il carattere della storia, cioè grave , siccome si addice a chi le gravi cose racconta , certo egli è che secondo la differenza degli avvenimenti dovrà variare nel sostenersi e nello innalzarsi, ed apparire nelle concioni più alto ed eſti cace, nelle descrizioni più ameno ed ordinato, e spesso più veemenle nella persona degli uo mini ivi introdolli a parlare, ma sempre temperato in quella dello scrittore, che da ogni parteggiare dee mostrarsi lontano. Non può dunque convenire al caraltere storico nè l'autorità filosofica, la quale sarebbe contraria alle malerie , nè la poetica pompa , che torrebbe fede alla narrazione ; perciò é forza che gli sieno proprie le prerogative generali del ca. rattere persuasivo, dal quale differisce sola mente per le qualità speciali di sopra accennale. C’e una e altra specia del discourse di carattere poetico. Se ſu bisogno dividere in alcune specie il carattere persuasivo a cagione della maggiore o minore altitudine delle menti umane a di scerncre la verità, ciò non occorrerà circa il carallere poetico ; imperciocchè tanto gli uo. mini di sottile ingegno , quanto quelli , in cui la fantasia prevale all'intelletto, hanno tulli dinanzi al poela una medesima disposizione. Se il popolo porge orecchio alle finzioni noe. tiche , quasi come a cose vere, i sapienti le riguardano come simboli della verità e quasi come leggiadri sogni della filosofia , e in questo loro dolce ricreamento sdegnano ogni austerilà e fino l'apparenza delle faticose forme filoso . fiche . Perciò è palese che il poeta rivolge sem . pre le parole ad vomini, i quali, sieno di qual sivoglia condizione , amano che la mente loro şia condotta ad operare senza fatica . Da que. sto si ricava che ogni specie di carattere poe tico dovrà avere sempre la prerogativa di schivare, come dicemmo di sopra, le idee che tengono in falica l'intelletto, e rappresentare quelle , che vestile di forme sensibili, eserci. citano la imaginativa. Non sarà dunque diviso in ispecie questo genere per rispelto della diversità degl'intel letti , ma della condizione del poeta o delle persone che introduce a parlare, e delle varie cose , che ei ſa subbietto del canto. Ma, prima di entrare in questo proposito , parni che sia da togliere una falsa opinione circa la natura della poesia. Sono alcuni i quali avvisano che 115 ma il l'essenza di lei consista nel metro, e fra que sti è il Melaslasio , il quale nella sua esposi zione della Poetica d'Aristotele sostiene che la lavella metrica, per essere l'istrumenlo con che l'imitazione si fa , ne forma l'essenza . Ma io domanderei voleplieri a coloro che cosi la pensano , qual nome vorrebbono dare all'Eneide tradolla in favella sciolta dal metro? Le daranno per avventura nome di prosa? L’espressione “prosa” altro non segna che discorso senza metro, e per ciò verranno a dire solamente che quell'illustre racconto è fatto sce. mo di quella sola qualità, di che grandemente si diletta l'orecchio, ma non già di tutte le altre, che stabiliscono la natura dei discorsi composti a fine di diletto. Dal che appare manifesto che un altro general nome è bisogno per distinguere i discorsi composti per dilettare. E quale è a ciò più accomodalo vocabolo che quello di poesia? L’espressione “poeta”, secondo sua origine , significa facilore o vogliam dire fabbricatore; e perciò poesia sonerà lo stesso che fabbricazione o finzione, e tali sono di necessità quasi tutti i discorsi, che si compongono a fine di dilellare, essendo che il nudo vero non è dilettevole sempre e in ogni sua parle: perciò Varchi dice nell'Erco laro, che il verso non è quello che faccia principalmente il poeta; e che Boccaccio talvolla più poeta si mostra in una delle sue Novelle, che in tutta la Teseide. Ed Orazio afferma che a distinguere la poesia da ciò che essa non è, basta disgiungerne le membra, cioè loglierle il metro, e allora si vede manifestamente che il carattere non le si toglie. Conchiudiamo pertanto, che il metro induce diſſerenza di specie ma non determina la natura del genere; e stabiliamo che a tutti i discorsi  che hanno per fine il dilettare con metro o senza , si conviene il nome di “poesia”.  Ora veniamo alle specie. Talvolta il poeta rappresenta la persona d'uomo, che cantando, dice laudi degli Dei e degli Eroi; talvolta quella , ch'esprime i moti dell'allegrezza, dell'affanno o dell’amore, o solamente gli scherzevoli con cetli. Le poesie di questa maniera solevano dagli antichi essere cantate sulla “lira,” e perciò presero il pome di “lirica”, e tuttora il conservano. Varie essendo le passioni e le cose che esprimere si possono dal conversatore lirico, interviene che ancora il canto si divide in varie specie, che tutte poi si riducono a tre, come nel carattere persuasivo: cioè al sublime, al mediocre ed al tenue. Ciascuno di questi canti ha qualità sue proprie. Magnificenza e gravità di mod , di sentenze e di arinonia , e splendore d'illustri parole e di concetti fantastici convengono a chi celebra le laudi degli Dei e degli Eroi, ed esprime alte e generose passioni: più tenui maniere e parole e più soave armonia a chi esprime gli affelli meno gravi e canta di subbielli meno nobili: quegli poi , che dice i mili affetti o gli scherzi o le umili cose, avrà nelle sue parole piacevolezza e semplicità da ogni fasto lontana, ed armonia soave e varia , ma sempre tenue. Alla detta varietà d'armonie, mirabilmente poi servono i metri, alcuni de' quali portano secofl'umiltà , altri la mediocrità , altri l'allezza dell'armonia. Sono molti esempi di questa varietà in Petrarca, Si ponga mente ai modi, al metro, al ritmo delle due canzoni d'amore , una delle quali comincia, Chiure, fresche e dolci ucque; e l'altra, Di pensiero in pensier, di monte in monte; e si vedrà la prima essere in tutte le sue parti piena di soavità, di gentilezza e di grazia, e l'allra di robustezza e di gravità. Talvolta il poeta narra gl ' illustri ſalli ; tal volla i mediocri; e talvolta i piacevoli: indi si generano i poemi epici, i romanzi , i poemi burleschi e le novelle. Talvolta poi introduce a parlare o le persone illustri o le mediocri o le umili , e quindi provengono le tragedie, le commedie , le egloghe pastorali e le pisca torie . Ognuna di queste specie, siccome è pa lese , ha modi ed armonia convenevole alla maleria ed alla condizione delle persone. Perciò è che il poeta , specialmente nella tragedia, nella commedia e nell' egloga, ove se medesimo nasconde introducendo altri a par lare, dee rendere alquanto umili i modi, l'ar monia di guisa , che lo spettatore , ascollando le tragiche persone o le coniche, abbia a dire : così parlerebbero gli uomini di questa o di quella condizione, se loro naturale favella fos sero i versi . Giovi questo generale avverli mento , perciocchè non si possono mostrare i certi limili, fra i quali dee slarsi ciascuna spe 118 rie . Tutte hanno nell'intero loro corpo faltezze particolari , alle quali colui che ben vede di stintamente le raffigura : pure a quando a quando or questa or quella viene a parteci. pare dell ' altrui colore di guisa , che l'epico nelle forti passioni innalza le parole e i modi al pari del cantore degl'inni; e il più sublime lirico parra alcuna volla , siccome fa l'epico. Lo stesso interviene delle allre specie , fra le quali per fino la commedia talora si leva a gareggiare colla Tragedia , e la tragedia al dire l'Orazio , spesso , si duole con sermone pe destre. Nelle opere dell'arle, siccome in quelle dels la nalura, si scorge infinita diversilà , ma per questa spesso non è tolto che moltissimi indi vidui della medesima specie , sebbene molto dissimili, non sieno egualmente belli e prege voli. Questo vedesi manifestamente per le la vole colorite da' celebri dipinlori, de'quali uno essendo il fine, cioè quello dell'imitare la bella natura, non in tutti una apparisce la sembianza del loro dipingere. Raffaello, Correggio, Domenichino, Caraccio, Tiziano e Paolo, i quali cerlo non mancano nelle regole invaria bili dell'arte , sono fra loro assai differenti. Tutti mostrano invenzione lodevole e lodevole composizione, belle forme , ben disposto colo. rito e conveniente a ciascuna cosa: tutti esprimono i costumi e gli affelli, ma ciascuno d'essi ſa delle predette e di altre virtù una cotale mislura, che siamo condolti a dire che nessu. 1 Til no di loro ha la maniera dell'altro, comechè Tulli sieno eccellenti. Questa, che i pillori chia mano maniera, è similmente comune a' filosofi, agli oratori, agli storici ed a'poeli. Quanti scriltori sono tenuli meritevoli di pari commendazione, sebbene tale fra loro sia la diſſerenza, che spesso ciascuno solamente a sè me, desinio ed a nessun altro assomiglia ? La rinsposizione dell'ingegno e delle affezioni dela l'animo, che in ciascun uomo è diversa, è cagione che le dette maniere sieno di numero pressochè infinito. Alcuno de' famosi scriitori ha il pregio della perspicuità, alcuno della eleganza, allri della grazia, altri dell'aculezza. Questi è grave e maestoso: quegli delicato e molle: chi è breve e robusto: chi copioso , chi úrbano e chi veemente: ma tali poi sono tutti, che, se alcuno di noi desiderasse di ottener gloria di ottimo scrillore, sarebbe incerto a quale di loro volesse essere somigliante. L'accennata maniera particolare, per la quale ciascuno scrittore è distinto dagli altri, si è quella che gli antichi chiamarono “stile” (cf. Tannen, Conversational style), prendendo questa voce dall'istrumento che per iscrivere adoperavano. La stessa parola “stile”, presa più largamente che non fanno i filosofi, segna comunemente il carattere in genere o in ispecie : ma è palese che, filosoficamente parlando, si è bene d'usarla nel senso leste dichiarato. Ond'è che assai propriamente diremo in generale, carattere filosofico, caruilere persuasivo o poetico; ed in ispecie carattere oralorio, lirico, epico, tragico, sublime, medi cre e tenue : e stile di Demostene, di Cicerone, di Ortensio, di Omero, di Virgilio: percioc chè nei primi fu il solo carattere persuasivo, negli altri il poelico; ma in ciascuno ebbe una particolare maniera, che modificando il carattere, l’essere suo non gli tolse. E chi volesse invesligare le cagioni da che proceda colale maniera, che stile si appella, vedrebbe ch'elle sono le qualità dell'intellello, della fantasia di ciascuno scrillore, e le qualità degli affetti, a cui egli ha l' animo disposto : laonde volendo dare alcuna definizione dello stile, paroi che far si potesse nel modo seguente. Lo stile si è il carattere modificato secondo le qualità dell'intellelto , della fantasia e degli affelli dello scrittore. Parliamo sommeramente del modo di acquistare la qualita necessaria a conversare civilmente. Ora che abbiamo poluto conoscere che cosa sia lo stile , non sarà indarno l'investigare co me si possa acquistare forza, grazia e vaghezza nello scrivere ; e che è quanto dire come si possa formare lo stile convenevole e pulito. Se lo stile si genera per la qualilà dell ' in tellelto , della fantasia e degli affetti dello scrit tore, vera cosa è che, a formarlo convenevole e pulito , bisognerà rendere perfette le mento vate tre cagioni il più che si può. L'uomo nasce fornilo dell'intelletto, cioè della facollâ di sentire, di percepire , di alten. dere, di paragonare, di giudicare, di astrarre, di ricordarsi, di imaginare , ma d'uopo è che queste lacollà vengano poscia diriltamente usate ed esercitale, onde sia generala quella virtù pressochè divina , che si appella la ragione, la quale consiste nell'abito di . paragonare in sieme i sentimenti distinti dell'anima e le idee, di derivar dai falli pariicolari le nozioni gene. rali ; di anteporre o posporre le une alle altre, di congiungerie o di separarle, secondo la con venienza o disconvenienza loro , e secondo i loro gradi di più o di meno. A formare que sl’abito , sarà bisogno di studiare le opere de' filosoti, che trattano soltilmente delle cose na lurali, delle proprietà dell'intelletto e del cuore umano ; di apprendere l ' istoria , senza la co gnizion della quale, al dire di Cicerone, l'uo mo si rimane sempre fanciullo ; di osservare la nalura , di pralicare fra le diverse condi. zioni degli uomini , e di operare ne privati negozii e ne' pubblici . Ad arriccbire l'imagi. nativa, la quale è l'abito di recare all'animo la reminiscenza delle qualità sensibili che più ci muovono e dilellano ; di congiugnere insie me con verisimiglianza quelle , che sono di. sgiunte in nalura , e di significare per siinili tudine delle cose corporee i concelli astralli, non solo metterà bene di leggere gl'inventori di nuove e vaghe fantasie , ina di por menle a tutto ciò che ai sensi porge diletlo , sia nelle azioni degli uomini e degli anigali sia nel l’esteriore aspelto e movimento delle cose inanimate ; e soprattullo gioverà di ben con siderare le somiglianze che fanno fra loro le cose di qualsivoglia genere e specie ; chè que sto si è il fonte , dal quale si derivano le vuo ve e maravigliose metafore. Di molla ulilità sarà poi all'intellelto ed all'immaginativa lo sludio de' precelli dell'arte oratoria e della poetica, i quali, essendo il compendio di quanto ove i filosofi hanno osservato intorno le cagioni, onde piacciono e dispiacciono le opere degli scrillori, apportano quella luce, che un uomo solo nel breve spazio della vila studierebbe indarno di procacciarsi colla sola virtù del proprio ingegno. Vuolsi però sull'osservanza de'precelli avvertire ciò che nell'arle poetica osserva Zanotti; cioè che le cagioni del piacere e del dispiacere trovate da’ filosofi, essendo cagioni universali ed indeterminale, mostrano bensi i luoghi , non vogliono che si ecceda o si manchi, ma non prescrivono poi a qual segno si debba giugnere o rimanere , per non ecce dere o non mancare; ond' è che, a fare buon uso del precello , è bisogno di quella discre. zione , che si acquista con lungo sludio e fatica . Rispetto agli affelli, io mi penso che, sel) bene sieno da natura, pure a conciliarli in al trui grande aiuto si possa trarre dall'arte . Se l'amore, l'odio, l'ira, la mansuetudine , la misericordia ed allre affezioni dell'animo na. scono da cagioni determinale, come per eseni. pio l'amore da bellezza e da virtù, l’odio da male qualità del corpo o dell'animo altrui, non v'ha dubbio che gli aſſelti medesimi si deb bono in chi legge risvegliare per virtù della viva' rappresentazione di quelle cagioni : dal che si raccoglie che lo scrittore, considerando le varie disposizioni degli uomini passionali, e le cagioni, per le quali la passione si genera, avrà materia onde gli animi perlurbare. Cosi per aiuto dell'arte verrà ad operare in altrui quell'eſello, che imperſellamente avrebbe operalo mercè della sola naturale sua disposi. zione. Da quanto è dello apparisce che la scienza avvalora l'intellelto e l'immaginativa , ed aiuta a muovere gli affetti, e che perciò ella si è il fonte dello scrivere rettamente. La scienza poi è generala negli umani intellelli da due cagioni: queste sono: la naturale disposizione delle organo corporale e l'azione delle cose esterne sopra di esso; sì falte ca. gioni sono di necessità diverse in ciascuno ; perocchè non è da credere che si possano tro vare due corpi nella stessa maniera conforma li ; ed è poi certamente impossibile che uno riceva dalle cose esterne nell'animo le mede sime impressioni che un altro. Per la qual cosa avviene che diversa in ciascuno si generi la scienza , e quindi diversa la forza dell'in gegno e dell'imaginaliya, diversa la qualilà degli affetti, e per conseguente anche lo stile, che da queste procede, deve riuscire diverso . Dal che si vede che imprendono opera dispe rala coloro, che si affaticano ad imitare lo stile d'altri. E alcuni pur sono che andando passo passo sull' orme di Dante, del Petrarca o del Boccaccio , avvisano alla costoro gloria di per venire ; ma le opere loro per verità , in fuori di un poco di pulita buccia, niun sugo hanno. Che cosa dovremo dunque apprendere dagli scrittori ? Rispondo che si vuole apprendere la lingua e i modi acconci ad esprimere chia ramente, ornatamente e convenevolmente i no stri concelli. Da questo scrillore ci sludieremo di procacciare una cosa , da quello un'altra , a seguileremo sempre la nostra natura , secondo l'esempio di Dante, il quale lasciò scritto di sè : lo mi son un che, quando amore spira , nolo, ed a quel modo che delta dentro, vo significando. Che se allrove disse a Virgilio: Tu se' lo mio maestro e lo mio autore, Tu se' solo colui , da cui io loisi Lo bello stile, che mi ha fallo onore, non intese già d'avere tolto al maestro la ma niera propria di quel poeta , ma sibbene la qualità , onde il carattere poetico é differente dal filosofico e dal persuasivo. E chi è che pon senta la differenza che è dallo stile di Dante a quello di Virgilio? Rimane per ultimo a dire degli autori , che coloro che amano di scrivere nell'italiana favella , devono scegliere a maestri. Nulla dirò dello studio della lingua greca e della latina, perciocchè essendo notissimo che nell'una e nell'altra scrissero coloro, che insegnarono a tutto il mondo, e che questa nostra da quelle procede, ciascuno conosce di per sé quanta ulilità trarre se ne possa. Mi ristringerò dunque a fare alcuna parola de' solo il conversatore italiano, che agli altri si devono preporre. E prima è a sapere che nel secolo XIV alcuni prosatori ed alcuni poeti diedero al volgar nostro tanta proprietà e grazia, che nessuno ha poi polulo eguagliarli: che nel secolo XV questo volgare ſu quasi abbandonalo per soverchio amore della lingua latina e per pusillanimità degli uomini d’Italia : che nel secolo XVI ſu dal Fortunio e dal Bembo ridollo a regole deter. minate ; e da molti ſu nobilmente adoperato in varii generi di scritture : che nel secolo XVII fu da talupo acconciamente impiegato ed ar ricchito di voci perlinenti alle scienze , fu da alcun altro scrillo con eleganza, ma venne da moltissimi in parte corrotto e rivolto in vanilà di falsi concelli: che nel XVIII finalmente ſu da pochi bene usato , e da moltissimi con pa role e modi forestieri vituperato . Tale essendo stata la fortuna di questa bellissima lingua, chi potrà dubitare che oggi non sia a noi sa lutevole il consiglio, che ci porgono gli uomini sapienli , cioè quello di studiare agli antichi esemplari? Se nel buon secolo della lingua la lina si stimava essere opera di gran probllo ai giovani il molto leggere gli antichi scrittori del Lazio, quanto maggiormente non si dee credere che lo studiare i nostri sia per giovare a noi, che viviamo in un secolo , ove gl'ita liani, pressoché tutti , più delle cose forestiere che delle proprie dilettandosi, scrivono sì, che punto non pare alle loro scritture che sieno stali allevati in Italia? Verissimo si ė (anche parlando delle arti) quello che dicono i politi ci, cioè che qualvolta le cose sieno pervenule a corruzione, bisogna richiamarle ai loro principii. Questa sentenza dovrebbe essere dinanzi all'animo di tutti coloro, che amano il profitto de' giovani nelle lettere umane ; pure sono al cuni cbe , deridendo coloro che studiano i lesti della lingua, dicono essere sciocchezza il darsi tanto pensiero delle parole ogni qualvolta si 1centisti , abbia cura dei concelli ; come se il recare alla mente altrui i nostri concelli non dipenda dalla virtù di ben accoviodate parole. Colali persone, avendo posla loro usanza o ne' soli domestici negozii o in alcuna scienza o arte, nè mai data opera allo studio della lingua, vilipendono ciò che non conoscono, e perciò, non avendo au. torità , non meritano alcuna risposta. Tutti gli uomini di mente discreta non si maraviglie ranno, se qui vengono consigliati i giovanetti a studiare prima nelle opere de’ trecentisti, ne’ quali è dovizia di vocaboli proprii e di forme gentili, e chiarezza e semplicità e urba nità e maravigliosa dolcezza , ed a riserbare agli anni loro più maturi lo studio dei cinque che scrissero eloquentemenle di cose gravi e magnifiche. Ma per avventura alcuno dirà: non dobbia. ino noi essere intesi dagli uomini del nostro secolo e cercare di piacer loro seguendo l'usanza? Perchè dunque vorremo che la gioventù studii ancora quelle opere, ove si trovano, ol tre le voci ed i modi, che sono fuor d'uso, e barbarismi e pleonasmi e solecismi ed equivocazioni, e talvolta negligenza e stranezza nel costrutti? Perchè non vorremo consigliarla piullosto a leggere i soli scrillori del cinquecento, i quali seguitando le regole grammati. cali dettate dal Fortunio e da Bembo, non solo scrissero correttamente, ma trattarono eloquen temente di varie ed importanti materie? A queste obbiezioni risponderemo che si dee se guire l'usanza, del buon conversatore, l'usanza del volgo; che non si vuole negare che in molle opere del trecento non si trovino ma non fra la copia delle maniere proprie, nobili e graziose, varii difelli; ma che per questo non ci rimarremo da consigliare la gioventù di avere sempre caro sopra tutti quel secolo beato, e di leggere per tempo i suoi eccellenti scrittori, poichè ci teniamo certi che quanto è difficile il rendersi famigliari e domestiche le maniere native e gentili, altrettanto è facile di perdere l’abito di peccare contro la grammatica e contro l’uso. La predetta virtù non si può acquistare se non con lungo esercizio : il diſello si può togliere assai agevolmente dopo lo studio della grammatica, e dopoche per la filosofia e per la erudizione ci verrà dato di ben conoscere il valore delle parole e di ben distinguere la lingua nobile dalla plebea, e le maniere, che per vecchiezza ban no perduta la grazia e la forza pativa, da quel le che sono ancora belle ed efficaci. Quanto allo studio de'cinquecentisti, non du bitiamo che ei sia per essere ulilissimo, essen do che molli eccellenti scrittori di quel tempo adoperarono la lingua, che appresero da Alighieri, da Boccacio, da Petrarca e dagli altri tre centisti , emulando mirabilmente i romani in molli generi di scrilture: ma teniamo per ſermo che convenga alla gioventù di avvezzarsi al candore ed alla semplicità del trecento prima di cercare lo splendore, la ma gnificenza, la copia e l'altezza de' pensieri nei cinquecentisti. Perciocché lulti coloro, che sfor zano di parere magnifici e splendidi primaché dalla filosofia sieno ſalli ricchi di cognizioni, fanno l'orazione loro bella nella buccia, una nell'intrinseco vana e puerile. Non potendo i giovanelli esprimere con verila se non quei pensieri e quegli allelli, che sono proprii del la tenera età , troveranno assai comodale al bi sogno le parole ed i modi usati da'trecentisti, la più parte de'quali, come que' che vissero nell'infanzia dell'italico sapere, scrissero di tenui materie. Verrà poi quel tempo maturo, in che a'giovani farà mestiero di alzare a'gravi concelli lo stile, ed allora apprenderanno da Guicciardini gravità e nerbo; dal Segretario fiorentino sobrietà ed evidenza; dal Caro copia, efficacia e gentilezza; dal Casa splendore e magnificenza ; dal Galileo ordine e precisione; d’Ariosto e da Tasso i pregi lulli, ond' ė divina la poesia. Ma allo studio di quesli e degli altri molli, che fecero glorioso il secolo di papa Leone, non avranno l'animo ben di . sposto se non coloro, cui prima sarà piaciuto di allingere ai puri fonti del trecento, da'quali derivarono i sopraddetli abbondantissimi fiumi. Questo, o Giovani, è quanto ho stimato op portuno di porvi dinanzi per indirizzarvi nel cammino delle lettere, alle quali inolti vanno per vie distorte e per lo contrario. Vi ho mo strato quali sieno gli elementi della Elocuzio ne; come nel contemperarli secondo le leggi del decoro si loronino i varii caratteri; e final. mente come lo stile proceda da naturale di sposizione e come col sapere si perfezioni. Darò fine coll'avvertirvi, se vero è che la scienza e l'esempio fanno l'arte, è vero altresì che arte senza uso poco giova: onde, se dallo stile cercate onore, vi sarà bisogno di neditare mollo, di leggere molto e di scrivere mollissimo. Grice: “It may be said that my transcendental Kantian approach to cooperative rational conversation is a response to Costa’s totally empiricist (or ‘sensista’ as he prefers) invocations of ‘chiarezza’ (my imperative of conversational clarity), and brevita, eleganza, and all the categories that inform the maxims. Paolo Costa. Keywords: la teoria sensista della communicazione – idea dei chi proferisce la proposizione “Me diletta l’odore di questa rosa piu del colore”, cooperiamo, e la risponsa di nostre anime e “Contrariamente, a me mi diletta il colore di questa rosa piu dell’odore” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costa” – The Swimming-Pool Library.

 

Costanzi (Pozzuolo Umbro). Filosofo. Grice: “I like Costanzi; possibly my favourite of his essays is the one on ‘amore’ and ‘morte’ – eros and Thanatos for the Oxonian!” Si laurea a Bologna. Ensegna a Bologna. Altre opere: “Pensiero ed essere” (Perrella, Roma); “Varisco: l’uno e i molti” (Perrella, Roma); “Noluntas” (Perrella, Roma); “Schopenhauer” (Roma); “L'asceta moderno” – L’asceta -- Arte e storia, Roma; Spinoza, Universitas, Roma); “Il sentito in Platone” -- Arte e storia, Roma); “L'ascetica di Heidegger” Arte e storia, Roma); “L'ascesi di coscienza e l'argomento d’Aosta”, Arte e storia, Roma); “Meditazioni inattuali sull'essere e il senso della vita” Arte e storia, Roma); “La terrenità edenica del Cristianesimo e la contaminazione spiritualistica” (Patron, Bologna); “La donna angelicata e il senso della femminilità nel Cristianesimo” (Patron, Bologna); “La filosofia pura, Alfa, Bologna); “Il senso della storia, Alfa, Bologna); “Sul prologo di Zarathustra (Nietzsche e Schopenhauer) con trad. dello stesso Prologo, in Ethica; “L'etica nelle sue condizioni necessarie, Ed.ni di Ethica, Bologna); “L'estetica pia, Patron, Bologna); “L'ora della filosofia, R. Patron, Bologna); “L'uomo come disgrazia e Dio come fortuna” (Alfa, Bologna;  “La critica disvelatrice” (Ed.ne dell'Istituto di Filosofia dell'Bologna, Bologna); “Amore e morte” (L. Parma, Bologna); “La singolarità della diada: compimento di un itinerario senza vie” (Cooperativa libraria universitaria editrice, Bologna); “L'equivoco della filosofia cristiana e il cristianesimo-filosofia” (Clueb, Bologna; e ragioni della miscredenza e quelle cristiane della fede, Clueb, Bologna); “La fede sapiente e il Cristo storico” (Sala francescana di cultura Antonio Giorgi, Assisi); “La rivelazione filosofica” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisii); Il Cristianesimo: filosofia come tradizione di realtà” (Sala francescana di cultura, Assisi); “Breviloquio della sera” (Sala francescana di culturaAntonio Giorgi, Assisi); “L’immagine sacra” (Sala francescana di cultura, Assisi); “L'identità del Lumen publicum nelle privatezze di Anselmo e Tommaso” (Il Cristianesimo-filosofia, Le Lettere, Roma); Opere, E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano). Sgarbi torna a Tuoro per presentare l'opera omnia del filosofo Teodorico Moretti-Costanzi, "UmbriaLeft.  Il filosofo imagliato dal Sessantotto, "il Giornale"Dizionario Biografico degli Italiani. Teodorico Moretti Costanzi. Keywords: l’essere, il sentito, ascesi (verbo?), Zarathustra, il singolo della diada, l’uno e i molti, nolere, nolitum, volitum, amore/morte, eros/tanatos, immagine sacra, imaginatum, essere, un essere, due esseri, le due esseri entrambi – rivelazione – la rivelazione filosofica – a new discourse on metaphysics: from genesis to revelations – un nuovo discorso di metafisica: del genesi alle rivelazione. – Zarathustra e cristita --  nollere in Schopenhauer --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Costanzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Courmayeur (Torino). Filosofo. Grice: “The most interesting thing about Courmayeur’s philosophy is that he is a count; unlike Locke, or the common-or-garden English Oxonian philosopher who doesn’t have a dime, this one has, as the Italians say, ‘all the money in the world’! That helps with philosophy! His forte is moral philosophy AND HEGEL, which proves that Hegel becomes the taste of aristocrats and not just dons like Bosanquet!” - Dall'antica famiglia valdostana dei Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Ottenuta la maturità classica al Massimo d'Azeglio di Torino, si laurea con Solari con “Hegel” (Torino, Gobetti). Studia sotto Ruffini e Einaudi la filosofia politica del medio evo e il concetto di costituzione. Insegna a Torino. Fu capitano di complemento degli Alpini e membro del CLN, dal quale venne nominato, primo prefetto di Aosta. Fu all'origine dello statuto della regione autonoma Valle d'Aosta.  Fra le sue opere più note, Il concetto dello stato, è considerata da molti la sintesi del suo pensiero storico-filosofico.  Oltre che filosofo del diritto e storico del pensiero politico, viene considerato il fondatore della filosofia politica italiana come disciplina a sé stante, finalmente distinta dalla filosofia dello stato. Paradossalmente ciò avviene proprio col saggio, “Il concetto dello stato”. Ben diversamente dall'ordinamento tematico della “Staatslehre” come pure dall'ordinamento cronologico per filosofi in uso nella filosofia politica, ordina la filosofia politica secondo uno schema concettuale schiettamente filosofico: "il concetto di forza – forzare ", "il concetto di potere" (il verbo ‘potere’); "il concetto di autorità – auctoritas --". Il concetto di faccia dello stato, secondo una scala di qualificazione crescente. Il concetto di "forza" (il forzare) e qualificato di un imperativo, un mando o commando efficace. Il concetto di "potere" (potere del giurato) contiene il concetto di forza (il forzare – come un mando o imperativo efficace), ma organizzato in una istituzione e qualificato dal ‘giurato’. Finalmente la terza faccia, il concetto di "autorità" come contenendo la second faccia del potere del giurato, qualificato da una concetto di legge variable: la promozione del giurato, la promozione del bene comune (la res publica), o la promozione della piccolo patria. Altre opere: Il concetto dello stato (Torino: Giappichelli); “La Valle d'Aosta, Bologna: Boni); “La filosofia della politica, Torino: UTET); “Filosofia politica nel medio evo italiano” (Torino: G. Giappichelli); “La filosofia politica d’Alighieri” (Einaudi, Torino); “Morale, diritto ed economia, Pavia: Libreria Internazionale F.lli Treves); “Morale, Roma: Athenaeum); “Appunti di storia delle dottrine politiche: la filosofia politica medioevale, Torino: Giappichelli);  “Il concetto dello stato in Zwingli", in Filosofia del diritto, Roma); La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino: Istituto giuridico della R. Università); “Obbedienza e resistenza” (Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità). La piccola patria, Milano: Franco Angeli); Obbligazione Politica, Pensa Multimedia.  Dizionario biografico degli italiani. Biblioteca civica Passerin d'Entrèves. Grice: “It’s only natural that Courmayeur had such an intricate concept of ‘state’ – he was born in a minority, like Russell, who was born in a place which some called England, some called Wales. The situation is so borderline that it reminded me of my ancestors, the Ingvaeonic – and see all the problem the Frisians are having in Germany! Now they do recognise the ‘anglo-frisiche’ – but hardly allow them to vote!” “It is not clear how the collectivity has any bearing on the third state of ‘state’ – the ‘auctoritas’ – but then perhaps ‘auctoritas’ is the wrong concept, since it just means ‘author’ – Courmayeur is making the point that all authority is legitimate authority. “You have no authority” means ‘you have  no legitimate power’ – and you have no power, means you have no legal force, and you have no force means you cannot command!” As Courmayeur would say: it’s all different in valaestan, the vernacular of Aosta, which hardly has the same status as Italian (since giuridically Aosta belongs to Italy) or French (since French is the official language, along with Italian). But don’t ask that imperialist Crystal for an answer!” Alexandre Passerin d'Entrèves et Courmayeur. Alessandro Passerin d’Entrèves et Courmayeur. Courmayeur. Keywords: piccolo patria, il concetto dello stato, filosofia politica versus staatslehre, prima faccia: il forzare come imperativo efficace; seconda faccia: il potere come il forzare organizzato in una istituzione e qualificato dal giurato; la terza e ultima faccia: l’autorita, come il potere qualificator da una legge centrata in un concetto ideale variabile: il giurato, il bene comune (res publica), la piccolo patria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Courmayeur” – The Swimming-Pool Library.

 

Cotroneo (Campo Calabro). Filosofo. Si laurea Messina sotto Volpe con “L’implicatura di Kierkegaard”. Ensegna a Messina. “Scritti”. “Lo storicismo di Cotroneo”. Altre opere: “Bodin teorico della storia” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Croce e l'Illuminismo” (Napoli, Giannini); “I trattatisti dell'arte storica” (Napoli, Giannini); “Storicismo antico e moderno” (Roma, Bulzoni); “Rareta e storia” (Napoli, Guida); “Societa chiusa, società aperta” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La ragione della libertà” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Trittico siciliano: Scinà, Castiglia, Menza” (Roma, Cadmo); “Momenti della filosofia italiana” (Napoli, Morano); “Questione post-crociane” (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane); “Tra filosofia e politica” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Le idee del tempo. L'etica. La bioetica. I diritti. La pace, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Un viandante della complessità. Morin filosofo a Messina, Annamaria Anselmo, Messina, Armando Siciliano Editore); “Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Etica ed economica” (Messina, Armando Siciliano Editore); “La virtù” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere); “Illuminismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Libertà” (Napoli, La scuola di Pitagora); “Storia della filosofia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Positivismo, Napoli, La scuola di Pitagora); “Filosofia della storia, Napoli, La scuola di Pitagora); “Rinascimento, Napoli, La scuola di Pitagora); “Aristotele e Perelman, Retorica vecchia e nuova” introduzione (Napoli, Il Tripode); La retorica di Aristotele, retorica antica, Perelman, Itinerari dell'idealismo italiano, Napoli, Giannini, Raffaello Franchini, Teoria della pre-visione” (Messina, Armando Siciliano Editore, Croce, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il diritto alla filosofia, Atti del Seminario di studi su Raffaello Franchini” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Croce filosofo, Atti del Convegno di studi, Napoli-Messina” (Soveria Mannelli, Rubbettino); La Fenomenologia dello spirito” (Napoli, Bibliopolis); Cavour, Discorsi su Stato e Chiesa” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Letteratura critica Giovanni Reale, Girolamo Cotroneo , in Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe , Storia della filosofia, Milano, Bompiani, Lo storicismo di Cotroneo, Soveria Mannelli, Rubbettino, Giuseppe Giordano, Tra Storia della Filosofia e Liberalismo, in Bollettino della Società Filosofica Italiana,  Roma, Carocci, Giuseppe Giordano, Rivista di storia della filosofia, Milano, Franco Angeli, Girolamo Cotroneo, in Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Girolamo Cotroneo. Cotroneo. Keywords: retorica, retorica di Aristotele, retorica nuova, retorica moderna, Perelman, rareta e storia, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotroneo” – The Swimming-Pool Library.

 

Cotta (Firenze). Filosofo. Grice: “My favourite explorations by Cotta are three: ‘per che violenza?” – “dalla guerra alla pace: un itinerario filosofico” and a secondary-literature study on ‘i concordati’ --- which is MY philosophy. You see, Plato thought that the soul resided in the brain – cool as he was – but Aristotle corrected him: it resides in the HEART – Cicero loved that and coined ‘cum-cor’ – i.e . something like my cum-operare: your hearts convene!” -- Grice: “I would say Cotta is Italy’s H. L. A. Hart, with a bonus – he wrote on essentialism, deontic logic, and from war to peace!”  Figlio di Alberto, studioso di scienze forestali, e Maria Nicolis di Robilant. Da parte di madre è discendente diretto di Eulero. Studia a Firenze presso l'istituto dei barnabiti La Querce. Si laurea a Firenze. Chiamato alle armi con il grado di sottotenente, il giorno dell'annuncio dell'armistizio, è in Friuli. Scioltosi l'esercito, scende in barca lungo l'Adriatico per raggiungere l'Italia non ancora occupata dai tedeschi. Ammalatosi di malaria, dopo svariate traversie decide di raggiungere il Piemonte, dove partecipa alla guerra di resistenza come comandante di una brigata partigiana nella VII Divisione Autonoma "Monferrato". È tra i primi ad entrare a Torino nei giorni della liberazione. Per la sua partecipazione alla guerra partigiana gli vengono attribuite la Medaglia di bronzo al valor militare e la Croce di guerra. Dopo gli studi sul pensiero politico dell'Illuminismo i suoi interessi si sono incentrati sulla filosofia giusnaturalistica, che è stato in grado di fondere con elementi della fenomenologia. Autore di saggi sulla visione politica di Montesquieu, Filangieri, Aquino ed Agostino, dedicandosi in seguito a riflessioni teoriche sul diritto e sulla politica. Insegna a Torino, Perugia, Trieste, Trento, Firenze, Roma, e Teramo. Fu tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Altre opere: “La società; “Il concetto di ‘legge’ in Filangieri” (Torino, Giappichelli); “Il concetto di ‘legge’ in Aquino” (Torino, Giappichelli). “Il concetto di Roma come città in Agostino”; “Filosofia e politica nell'opera di Rousseau”; “La sfida tecnologica”; “L'uomo tolemaico” – la ferita narcissista di Galileo – “Quale Resistenza?, Perché la violenza; “Il normato: tra il giurato e l’obbligato”; “Il diritto nell'esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica”; “Dalla guerra alla pace”; “l’uomo, la persona, il diritto umano”; “Il pensiero politico di Montesquieu, Bari, Laterza); “L’inter-soggetivo giurato”; “I limiti della politica, “Il sistema di valori e il diritto”; Perché il diritto Quid ius?” (Brescia, La Scuola). Stante la concessione chirografata dall'ex re Umberto II, Cotta puo fregiarsi del titulo nobiliare di “conte”, sia pure del tutto informalmente stante l'instaurazione dell'ordinamento repubblicano e la XIV disposizione finale e transitoria della Costituzione. Il conte Sergio Cotta. Keywords: l’inter-soggetivo, il giurato, il normato. La prima ferita narcissista, Filangieri, giurato, l’uomo galileano, l’obbligato, il normato, Latin ‘normare’ – not recognized in Dizionario etimologico – il giurato d’entrambi – il concordato d’entrambi – fenomenologia – Roma citta – polis, politea, res publica – pubblico e privato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cotta” – The Swimming-Pool Library.

 

Credaro (Sondrio). Filosofo. Grice: “I like Credaro; it is as if he invented the universities! I especially love the way he connects it all, in that uniquely Italian way, with the ‘assoluto’!”  Si laurea a Pavia, dove fu convittore del Collegio Ghislieri, divenne insegnante di liceo. Wi recò a Lipsia per perfezionarsi nella psicologia filosofica sotto Wundt. Insegna a Pavia. Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d'Italia nei governi Luzzatti e Giolitti IV --  istituì il Liceo moderno. Relatore nella presentazione della Legge che istitutiva dei Corsi di perfezionamento, o più comunemente Scuole pedagogiche, di durata biennale, di preparazione per l'esercizio all'ispettorato o per la direzione didattica delle scuole. Fu l'ispiratore della legge Daneo-Credaro, che stabiliva che lo stipendio dei maestri delle scuole elementari fosse a carico del bilancio dello Stato, e non più dei Comuni, contribuendo così in maniera determinante all'eliminazione dell'analfabetismo in Italia. Prima di questa legge, infatti, i comuni di campagna e quelli più poveri, specie nel Sud, non erano in grado di istituire e mantenere scuole elementari e pertanto rendevano di fatto inapplicata la legge Coppino sull'obbligo scolastico.  Si interessa attivamente dei problemi agricoli e forestali di Sondrio. Autore di numerosi saggi, in particolare sui Kant eHerbart.  Commissario Generale Civile della Venezia Tridentina, ossia la suprema autorità del Trentino-Alto Adige che sta per essere fannesso all'Italia. In tale veste tentò una politica particolarmente conciliante verso la minoranza di lingua tedesca e rispettosa dell'ordinamento amministrativo de-centrato della regione. In seguito, anche a causa delle pressioni dei nazionalisti, la sua politica nei confronti della minoranza di lingua tedesca si fece più intransigente. Testimonianza ne è la cosiddetta Lex Corbino,elaborata da Credaro, sull'istituzione di scuole elementari nelle nuove province che è considerata da una parte della storiografia strumento per potenziare la presenza italiana soprattutto nel territorio misti-lingue della regione a danno della minoranza tedesca. Ciononostante, sube l'assalto di una squadra d'azione fascista che lo costrinse alle dimissioni per far luogo all'insediamento di un prefetto di Trento. Termina quindi la sua carriera politica in disparte rispetto al regime che si andava consolidando. Altre opere: “Lo scetticismo degli platonisti (Roma, Tip. alle Terme Diocleziane); La libertà di volere (Milano, Tip. Bernardoni); G. F. Herbart, Torino, Paravia), “Razionalismo trascendente in Italia” Catania, Battiato); Wundt (Milano, Società Anonima Editrice Dante Alighieri). Andrea Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, Analfabetismo, Dizionario biografico degli italiani, Credaro un italiano d'altri tempi articolo di Sergio Romano, Corriere della Sera,  Sondrio. Se il nome di Carneade non è completamente ignorato dalle persone colte, che non si occupano di storia della filosofia, si deve alla parte giuridica del suo pensiero, la cui conoscenza è tratta quasi interamente da pochi frammenti della famosa orazione (quasi-Trasimaco) *contro* il concetto dello giusto tenuta a Roma frammenti conservati da Lattanzio, il quale li ha presi dal trattato della repubblica di Cicerone. Questa orazione alla Trasimaco *contro* la coerenza del concetto dello giusto – gius – giustiziato, juratum, giurato cf. Cicero jusjuratum -- , che fa epoca nella storia della cultura del popolo romano, non deve essere considerata solamente un episodio della vita di Carneade, una semplice millanteria del facondo oratore, che volesse fare impressione sugli animi dei Romani; ma il suo contenuto deve venire integrato colle altre vedute di Carneade per cercarne il legame ed esaminarne il valore. A tale fine bisogna anche qui muovere dallo stoicismo. L'orazione *contro* lo giurato (Cicerone – iusiuratum) giustiziato ha qualche rapporto con esso? Si sa che tutti e tre i filosofi ambasciatori -- Carneade accademico, Diogene stoico e Critolao peripatetico -- durante il lungo soggiorno a Roma, sia per invito avuto dalla cittadinanza, che in quel tempo godeva la pice decorsa tra la battaglia di Pidna e la terza guerra punica, sia di propria iniziativa, per desiderio di far mostra di tutta la potenza della loro parola e della loro scienza filosofica, a beneficio eziandio della causa che patrocinavano, aprirono un corso di conferenze (A. Gell . Noct. Att. VI, 14, 8-10. Macrob. Saturn., 5, I , p.147-150). É probabile che tutti e tre filosofi – Carneade accademico, Critolao peripatetico del liceo – e Diogene stoico -- abbiano scelto l'argomento delle loro orazioni dalla filosofia pratica, come quella che interessa vivamente i loro ospiti, tutti dati alle armi, agli affari, alla politica, all'amministrazione; anzi e le cito supporre che ciascuno abbia esposte le idee della sua scuola – l’accademia, il liceo, e la stoa -- intorno al “giurato” – Cicerone iusiuratum, il principio o imperativo più importante della vita pubblica e privata. Il soggetto del giurato – Cicerone, iusiuratum – dove soddisfare pienamente le esigenze e i desideri dell'uditorio, poichè i romani, a ragione o a torto, si credeno gli uomini più giusti (giuratura, iusiuraturus) e alla virtù del giurato (Cicerone iusiuratum) attribuivano la grandezza, alla quale era pervenuta la propria patria. In questa ipotesi lo stoico Diogene, con parola modesta e sobria, come attesta Polibio, che ebbe opportunità di ascoltarlo, spiega ai Romani l'idealismo morale e il cosmo-politismo della sua setta. L'anima di tutti gli uomini è uguale; e come tutte le cose uguali si attraggono, cosi anche gli esseri razionali; per ciò l'istinto della società è insito nella stessa ragione, la quale insegna a ciascuno di noi che esiste una sola città , un solo stato, la grande società umana; ciascuno si sente parte integrante di questo immenso organismo governato da una sola legge (ius) e da un solo diritto, la retta ragione (ius). Questa legge (ius) conforme alla natura si fa sentire in tutti, immutabile, sempiterna, divina; invita col comando al dovere, col divieto allontana dalla frode. È suprema, assoluta; non è lecito crearne altre contrarie, nè abrogarla totalmente o parzialmente; non voto di popolo, non decreto di senato possono dispensare dall'ubbidirla; nessuno ha bisogno d'interprete per comprenderla; è la medesima in Atene e in Roma, oggi e domani e sempre; l'inventore e il promulgatore di essa è uno solo, il maestro e il comandante di tutti, Dio. Chi non vi obbedisce, va contro la natura e per questo fatto solo soffrirà tutte le pene. L'uomo pensa e opera moralmente (mos: costume) solo in quanto conformasi a questa unica legge; e poichè questa è la medesima in tutti gli uomini, tutti debbono tendere allo stesso scopo, al bene universale. Il uomo non deve vivere per sè, ma per l'umanità; l'interesse personale deve essere asso lutarnente subordinato a quello umano (1) Cic. , de fin . III , 64 ; de rep ; III, 33 ; Plut. , de comm. notit. XXXIV, 6. Zeller, p. 285 e 8). In questo stato politico ed etico regna perfetta concordia ed armonia. Tutti i cittadini hanno vivo il sentimento dell'ordine, coltivano la virtù e reprimono gli appetiti irrazionali, che sono la causa dell’inimicizia e della guerra (bellum, polemos). Sono sottomessi alla volontà divina, al fato, alla serie universale e interminabile delle cause e degli effetti. I doveri fondamentali sono il giurato (iusiuratum), in qua virtutis splendor est maximus, e la benevolenza e la beneficenza.Questedue virtù sono le basi della società civile (Cic. , de fin . III, 67). Intorno ad esse Diogene puo parlare a lungo ai Romani, perchè nella Stoa e stato soggetto di molte dispute e di scritti. Il suo tutore Crisippo gli aveva insegnato in proposito una dottrina propria. Tutti gli altri esseri sono nati per il bene degli uomini e degli dei, due uomini per formare una popolazione, una società, una comunanza, una communita, un comune; è inerente alla natura che tra l'uomo e il genere umano, come tra parte e tutto, interceda un diritto naturale. Colui che lo osserva è giusto (promuove il giurato – iusiurato); ingiusto chi lo trasgredisce. Tra il diritto pubblico e quello privato non avvi opposizione (Cic. , de fin . III, 67). Un uomo non si trova in rapporti giuridici con una bestia, ma solo con suo simile. Affinchè si realizzi il regno del giurato (iusiuratum) e della moralità occorre che la perfetta ragione sia presente in tutti. La ragione invece si trova solamente nel sapiente; si formarono quindi gli stati singoli, che tengono divisa l'umanità. Come gli stati, così le istituzioni che li governano sono effetto di errore e stoltezza: quali l’istituzione del matrimonio, l’istituzione della famiglia, l’istituzione della proprietà, l’istituzione dela moneta, l’istituzione del ribunale, l’istituzione del ginnasio (Diog. L. VII, 33 e 131). Stato conforme alla natura umana, con istituzioni veramente buone, non esiste. Edotto di questo idealismo politico, puo sul Campidoglio il pretore romano A. Albino, uomo erudito e versato nella lingua greca, dire per ischerzo volgendosi a Carneade. “A te, Carneade, non sembra io sia un pretore, nè questa una città, nè in essa abitino cittadini). A cui Carneade, che subito capisce di essere stato preso per il collega della Stoa. “A questo stoico non sembra cosi.” I filosofi ateniesi non lasciano di contendere neppure in paese straniero; o certo Carneade e stato assai lieto di osservare che al senso pratico dei romani la dottrina de' suoi avversari si presenta come assolutamente *ridicola*; e tornato in patria , credette il fatto degno di essere raccontato a' suoi discepoli (L'aneddoto è ricordato da Clitomaco. Cic. , Ac. II , 137). Sogliono gli storici narrarci che Carneade tenne a Roma *due* discorsi ispirati a scopo opposto. Il primo giorno dimostra l'esistenza del diritto naturale e loda la giustizia (il giurato – il iusiuratum – dike – cf. lex). Il secondo giorno sostenne tutto il contrario; onde gridano all'immoralità, all’audacia e alla sfacciataggine del filosofo, che non si vergognò di difendere contraddizione si anorme. Anche non tenendo conto che, se si applicasse questo criterio , tutta la filosofia dei accademici sarebbe un' immoralità, perchè il loro metodo e di difendere in ogni quistione le soluziori opposte. Idue discorsi (tesi ed antitesi, positio e contra-positio, posizione e contra-posizione), tenuti in giorni successivi, abbiano un'unità perfetta (la sintesi, o com-posizione) e si propongano il medesimo fine: mostrare la falsità della dottrina della tesi di Diogene intorno al giurato; e siccome costoro in questa parte della filosofia, molto più che in altre, sono dipendenti da Platone e da Aristotele, bisogna prendere le mosse da questi. Leggiamo in Lattanzio. Carneades autem, ut Aristotelem refelleret ac Platonem, justitiae patronos, prima illa disputatione collegit ea omnia , quae pro justitia dicebantur, ut posset illa, sicut fecit, evertere. Carneades, quoniam erant infirma, quæ a philosophis adserebantur, sumsit audaciam refellendi, quia refelli posse intellexit (Lattanzio , Instit. div. V , 14 ; V , 17. 2-4.). E al trove. Nec immerito extitit Carneades, homo summo ingenio et acumine, qui refelleret istorum (Platone e Aristotele ) orationem et iustitiam, quæ fundamentum stabile non habebat, everteret, non quia vituperandam esse iustitiam sentiebat, sed ut illos defensores eius ostenderet nihil certi, nihil firmi de iustitia disputare (Ibid. Epit. 55, 5-8). Di qui è evidente che la prima orazione non era che un esordio, un'introduzione, uno sguardo storico alla questione, un'esposizione delle idee accettate da Diogene, che Carneade s'appresta a confutare nel vegnente giorno (Cic., de rep. III, 12); confutazione, la quale non aveva per iscopo di vituperare la giustizia in sé, ma di colpire i filosofi avversari, o almeno la loro teoria dommatica – il domma.Non è la virtù stoica, che Carneade demole, ma il sapere. Su questo si dovrà tornare più innanzi. E caso a noi pervennero frammenti solamente della seconda orazione. Questa sola offriva una filosofia nuova, dava una scossa inaspettata e forte all'intelligenza dei romani. Perciò eam disputationem, qua iustitia evertitur, apud Ciceronem L. Furius recordatur (Lattanzio , Instit. dio. I. c.). E noi ora possiamo tentare di ricostruire questo singolare di scorso nelle sue linee generali. Per Carneade, non esiste una giustizia (giurato – iusiurato) naturale nè verso due uomini. Se esso esistesse le medesimecose sarebbero giurate (iusiurata) giuste o ingiuste, buone o cattive, morali o immorali, per ogni uomo, come le cose calde e le fredde, le dolci e le amare. Invece chi conosce il mondo e la storia, sa che regna una grandissima diversità di apprezzamenti morali e giuridici, di consuetudini tra il popolo romano e il popolo sabino, da Roma a Sabinia, dal Tevere al Trastevere, da tempo a tempo. I cretesi e gli etoli reputano cosa onesta il brigantaggio. I Lacedemoni dichiarano loro proprietà tutti i campi che potevano toccare col giavellotto. Gli Ateniesi solevano annunciare pubblicamente che loro apparteneva ogni terra che producesse olive e biade. I barbari galli stimano disonorevole cosa procurarsi il frumento col lavoro, invece che colle armi. I romani vietano ai Transalpini la coltivazione dell'ulivo e della vite, per impedire la concorrenza ai loro prodotti e dar a questi un valore più elevato. Gli semitici egiziani, che hanno una storia di moltissimi secoli, adorano come divinità il bue e belve di ogni genere. I semitici Persiani, disprezzano gli dei dell'Ellade, ne incendiarono i tempii, persuasi essere cosa illecita che gli dei, i quali hanno per abitazione tutto il mondo, fossero rinchiusi tra pareti. Filippo il Macedone idea e Alessandro manda ad esecuzione la guerra contro i greci per punire quei numi. I Tauri, gli Egiziani, i barbari galli (“Norma”) e i Fenici credeno che tornassero assai accetti alle loro deità il sacrifizio umano. Si dice: E dovere dell'uomo che fa il giurato (iusiuratum) ubbidire alla legge. Quale legge? A la legge di ieri, o alla legge di oggi? A quelle fatte in questo lato del Tevere, o nel Trastevere? Se una un imperativo o una legge suprema, universale, trascendente, kantiana, costante s'impone alla coscienza dell’uomo, come pretende Diogene, coteste variazioni non sarebbero possibili. Perciò non esiste un diritto naturale, nè un uomo che per natura arriva al giurato (iusiuratum). Il diritto (ius) è una invenzione dell’uomo a scopo di utilità e didifesa; come prova anche il fatto che non raramente la legge, le quale e fatta dal sesso maschile, assicura a questo sesso un particolare vantaggio a danno di quello femminile. Nessuna ‘legislazione’, attentamente esaminata, appare l'espressione di un imperative o principio fisso, naturale, vero, immutabile, divino. Invece al profondo osservatore non isfugge che ogni disposizione legale move da ragione di utile e viene cambiata appena non risponde più ai bisogni e agl'interessi di coloro che hanno nelle mani il potere. Ogni nazione cerca di provvedere al proprio bene e considera, per istinto di natura, gli animali e le altre nazione come istrumenti della propria conservazione e felicità (Cic., de rep . III, 12-21). La storia insegna che ogni popolo che diventa grande, potente, ricco, non pensa ai vantaggi altrui, ma unicamente ai proprii. Voi stessi o Romani, disse Carneade parlando a un Scipione Emiliano, il futuro distruttore di Cartagine e di Numanzia, a Lelio il saggio, al letterato Furio Filo, a Scevola il futuro giureconsult , all'erudito Sulpicio Gallo, algrande oratore Galba, al vecchio Catone, l'implacabile nemico di Cartagine, al fiore di tutta la cittadinanza e alla presenza dei colti ostaggi achei trasportati in Italia, tra i quali il grande storico e generale Polibio. Voi stessi, o Romani, non vi siete impadroniti del mondo colla giustizia. Se volete essere giusti, restituite le cose tolte agli altri, ritornate alle vostre capanne a vivere nella povertà e nella miseria. Il criterio direttivo della vostra vita non e il  giurato (iusiuratum), bensi l'utilità, che invano cercate di mascherara; poichè voi, coll'intimare la guerra per mezzo di araldi, col recare *in-giurie* sotto un pretesto di legalità, col desiderare l'altrui , col rubire, siete per venuti al possesso di tutto il mondo. Ma per temperare il cattivo effetto, che avesse potuto produrre negli animi dei Romani questa audace analisi dei fattori della loro grandezza politica, l'avveduto ambasciatore ateniese ricorda altri esempi, che sono celebri e lodati in tutto il mondo. Rammenta la ben nota risposta data dal pirata catturato ad Alessandro il grande. Io infesto breve tratto di mare con una sola fusta, con quel medesiino diritto, col quale tu, o Alessandro, infesti tutto il mondo con grande esercito e flotta. Il patriottismo, questa virtù somma e perfetta, che suole essere portata fino al cielo colle lodi, è la negazione del giurato (iusiuratum), perchè si alimenta della discordia seminata tra gli uomini e consiste nell'aumentare la prosperità del proprio paese, naturalmente a danno di un altro, coll’nvadere violentemente il territorio altrui, estendere il dominio, aumentare le gabelle. Patriotta è colui che acquista dei beni alla patria colla distruzione di altre città e nazioni, colma l'erario di denaro, rese più ricchi i concittadini. E, quel che è peggio, non solo il popolo e la classe incolta, ma eziandio i filosofi esortano e incoraggiano a commettere cotali atti ingiusti. Cosicchè alla malvagità non manca neppure l'autorità della scienza. Ovunque regnano inganno e ingiustizia, che invano si tentano di nascondere e legittimare. Tutti quelli che hanno diritto di vita e di morte sul popolo sono tiranni. Ma essi preferiscono chiamarsire per volontà divina. Quando alcuni, o per ricchezze, o per ischiatta , o per potenza, hanno nelle mani l'amministrazione di una città, costituiscono una setta. Ma i membri prendono il nome di “ottimato”. Se il popolo ha il sopravvento nel maneggio dei pubblici affari, la forma di governo si chiama libertà; ma è licenza. Ma poichè gli uomini si temono l'un l'altro, e una classe ha paura dell'altra, interviene una specie di *patto* o contratto fra popolo e potenti e si costituisce una forma mista di governo, dove la giustizia è un effetto non di natura o di volontà, ma di debolezza. Ed è naturale che cosi avvenga. Se l'uomo deve scegliere tra le seguenti condizioni: recare *in-giuria* e non riceverne; e farne e riceverne; nè farne, nè riceverne, egli repute ottima la prima, perchè soddisfa meglio i suoi istinti. Poscia la terza, che dona quiete e sicurezza; ultima e più infelice la condizione di chi sia costretto ad essere continuamente in armi, sia perchè faccia, sia perché riceva *in-giurie”. Adunque alla Hobbes lo stato naturale dei rapporti tra uomo e uomo è la lotta (uomo uominis lupo), la guerra, la discordia , la rapina, la violenza , l'inganno, in una parola, la negazione del giurato (giusgiurato). La giustizia è una virtù che si esercita per effetto di debolezza e per proprio tornaconio. Ma Diogene, come vedemmo, considera il giurato (iusiuratum) verso gli uomini. Carneade dove notare che l’istituzione del tempio esiste solamente nel l'immaginazione de' suoi avversari e dei filosofi, dai quali essi attinsero i loro principii. Non si acquista, non si allarga potere, non si fonda regno senza le armi, le guerre, le vittorie; le quali alla loro volta in generale presuppongono la presa e la distruzione di città. E dalle distruzioni non vanno immuni le oggetti addorati nei tempi, ne dalle stragi si sottragge il sacerdote del tempio; né dalle rapine i  tesori e gli arredi sacri. Quanti trofei di divinità nemiche, quante sacre immagini, quante spoglie di tempii resero splendidi i trionfi dei generali romani! E non sono cotesti sacrilegi? Non sono atti di somma ingiustizia? No, innanzi al giudizio del popolo, all'opinione della gente colta, degli storici, dei letterati, questa è gloria, è patriottismo, è prudenza, sapienza, giustizia. Dunque la giustizia non solamente non viene osservata in pratica, ma non esiste nep pure in fondo alla coscienza generale dell’uomo. Anch'essa viene subordinata all'utile. Ma non s'arresta qui la critica di Carneade. Con un esame sottile e profondo dell'antinomia esistente tra i due concetti del ‘scitum’ e del ‘giurato’ e della natura morale dell'uomo quale in realtà è, e quale egli si crede e vorrebbe essere, Carneade ha chiarito un contrasto del cuore (ragione pratica) e della mente (ragione teorica) umana, che tuttavia rimane e che ha servito di fondamento alle teorie utilitaristiche inglesi di tempi a noi vicini. Lo ‘scitum’ – la sapienza politica comanda al Cittadino di accrescere la potenza e la ricchezza della patria, estenderne i confini e il dominio, renderne più intensa la vita con nuove sorgenti di guadagni e di piaceri; e tutto questo non si può compiere senza danno di altre genti. Il giurato (iusiuratum) invece comanda di risparmiare tutti, di beneficare i propri simili indistintamente, restituire a ciascuno il suo, non toccare i beni, non turbare i possedimenti altrui, non sminuire la felicità d'alcuno. Ma se un uomo di stato vuole essere giusto, non ha mai l'approvazione de' suoi amministrati, non gloria, non onori, i quali il popolo attribuisce non al giusto (che promueve il giurato) e onesto e inetto; bensì al sapiente, al prudente, all'accorto. Non per il giurato, ma per il ‘scitum’ i generali di Roma hanno il soprannome di grandi. La violenza, la forza, la negazione del giurato, hanno dato potere e consistenza agli stati. Ma per nascondere la propria origine e fuggire la taccia de negare il giurato (iusiuratum), il popolo, fatto grande e divenuto dominatore, va immaginando delle favole da sostituire alla storia vera, come il mercante arricchito agogna un titolo di nobiltà. Le stesse qualità, e solamente le stesse, mantengono gli stati liberi o forti. Non ha nazione tanto stolta, la quale non preferisce il comandare con la negazione del giurato, all'ubbidire con la promozione del giurato (iusiuratum). La ragione di stato e la salvezza pubblica vincono e soffocano il sentiment *dis-interessato*. Uno stato vuole vivere a prezzo di qualsiasi negazione del giurato (iusiuratum), perchè sa che alla vittoria, con qualunque mezzo acquistata, tien dietro la gloria. Nel concetto degli antichi, la fine della propria nazione non sembra avvenimento naturale, come la morte di un individuo, pel quale questa non solo è necessaria, ma talvolta anche desiderabile. L'estinzione della patria era per essi in certo qual modo l'estinzione di tutto il mondo. Dato questo concetto e un sentimento della gloria diverso e molto più intenso che non sia in noi moderni, doveno in certa guisa parere *giustificati* (giusti-ficati – fatto giurato – iusiuratum -- anche gli atti di violenza e di frode, che avevano per I scopo la conservazione e la potenza del proprio stato; o, per meglio dire, il popolo e gl'individui non hanno coscienza di un principio o imperativo che governa la propria vita. Credeno, i Romani pei primi, di promovere il giurato (iusiuratum) e invece sommamente negano il giurato (iusiuratum). Carneade fu il primo a chiarire questa opposizione tra fatto e idea, tra sapienza machiavelica politica e il giurato (iusiuratum) (Cic. , de fin. II , 59). Il medesimo conflitto tra il giurato e il ‘scitum’ dimostra egli esistere nella vita privata, intendendo per sapiente l'uomo che sa difendere il proprio interesse; e giusto colui che non lede quello degli altri. Sono suoi i seguenti esempi, tolti dalla vita giornaliera e assai chiari e appropriati alla vita romana affogata negli affari. Un tale vuole vendere uno schiavo, che ha l'abitudine di fuggire, o una casa insalubre. Egli solo conosce questi difetti. Ne rende avvisato il compratore? Se si, s'acquista  fama di uomo onesto, perchè non inganna, maeziandio di stolto, per che vende a piccolo prezzo, o non vende affatto; se no, sarà reputato sapiente, perchè fa il proprio interesse, ma malvagio, perchè inganna. Parimenti, se egli s'incontra in uno che vende oro per oricalco, o argento per piombo, tace per comperare a buon prezzo, o indica al venditore lo sbaglio e sborsa di più per l'acquisto? Solamente lo stolto vorrà pagare a maggior prezzo la merce. Se un tale, la cui morte a te recherebbe vantaggio, sta per porsi a sedere in luogo, dove si nasconde serpe velenoso, e tu il sai, dovrai avvertirlo del pericolo , o tacere? Se taci, sarai improbo, ma accorto; se parli, sarai probo, ma stolto (Cic., de rep. III, 34). Dunque qui pure si presenta la contraddizione: chi è giusto, è stolto ; chi è sapiente, è ingiusto. Ma in questi casi si tratta di una quantità maggiore o minore di denaro e di vantaggi più o meno rilevanti, e v'ha chi potrebbe essere contento e felice della povertà. Ma quando andasse di mezzo la vita, il conflitto diventerebbe più spiccato. Un tale in un naufragio, mentre è poco lontano dall'affogare, vede un altro più debole di lui mettersi in salvo appoggiandosi a una tavola, che vale a sostenere uno solo. Nessuno testimonio è presente. Si fa sua la tavola e si pone in salvo, lasciundo che l'altro perisca. Oppure, se, dopo che i suoi furono sconfitti, incontra nella fuga un ferito a cavallo, che va sottraendosi al ferro dei nemici inseguenti, lo getterà a terra per porre se stesso in sella, o si lasce raggiungere e uccidere. Se egli è uomo sapiente, si salva a qualunque costo. Ma se poi antepone il morire al far morire, sarà giusto, ma stolto. Tale è il giudizio che intorno al suo operato porteranno il uomo.  Cosicchè il giure naturale, la giustizia naturale è stoltezza. Il giure civile è sapienza politica. Tutto è lotta d'interessi. Si ha ragione di credere che Carneade nel suo discorso *contro* il giurato civile tocca anche la questione della schiavitù, dicendo essere un fatto che nega il giurato (iusiudicatum) naturale, che uomo servisse a uomo -- principio che, riconosciuto vero, puo essere assai valido per far conoscere quanto esteso fosse il dominio della negazione del giurato e dare alla sua tesi una grande forza. E ciò si induce a credere dal vedere che in più frammenti il difensore del giurato, ossia il suo contraddittore, viene svolgendo la tesi opposta, perchè la schiavitù, rettamente conservata, torna a utilità del stesso schiavo, il quale sotto un governo buono e forte vive in maggiore sicurezza e viene meglio educato che allo stato di libertà; e come Dio comanda all'uomo, l'anima al corpo, la ragione alle parti appetitive dell'anima, cosi il conquistatore tiene a freno il conquistato, il quale diventa tali appunto perchè e peggiore di quello . Un tenue indizio ci sarebbe anche per farci credere che egli risolve il rimorso nella paura della pena, negando che fosse un sentimento più profondo e disinteressato. Diogene obbietta che in questa ipotesi il malvagio sarebbe semplicemente un incauto e il buono uno scaltro (Cic . de leg. I , 40 e s.). In conclusione: per Diogene, fondamento della morale e del diritto è l'inclinazione ad amare gli uomini e a rispettare la divinità, inclinazione che ha radice nella natura, la quale sola offre la norma per distinguere il giurato dalla sua assenza, il bene dal male. Per Carneade, generatrice del diritto è l'utilità, e l'utilità sola, e ogni giudizio morale e altrettanta opinione, la quale non deriva da un imperativo kantiano, o un principio naturale fisso, come provano la loro varietà e il dissenso degli uomini (Cic. , de leg. I, 42 e s). Alla teoria giuridica di Carneade non si deve attribuire un significato di domma o dommatico, che sarebbe in cotraddizione colle premesse teoretiche della sua filosofia. L'egoismo e l'utilitarismo proclamato da Carneade in opposizione all'idealismo morale di Diogene, non è una dottrina *precettiva*, alla Kant (il sollen) ma l'investigazione e l'esposizione di un fatto psicologico e sociale – come il principio cooperativo di Grice. Carneade non pare credere all'effetto pratico della morale normativa e si limita ad analizzare il cuore dell’uomo, la ragione pratica, saggezza, prudential, il quale, per la sua tendenza nativa, è assai lontano dal realizzare il precetto dommatico stoico. Ma da filosofo prudente s'astiene dal proporne del proprio precetto (idiosincrazia). Nota il fatto che si presenta all'osservazione quotidiana con tutti i caratteri della verosimiglianza più alta e sforzano a credere o ad operare; ma nè costruisce una teoria assoluta, ne formula un domma. iusiuro: swear to a binding formula. NA Wundt/1/IV/D/XIII/1 Estate Wilhelm Wundt Zeitungsausschnitte 100. Geburtstag Wundt 1932. Last changed 2016-02-25 NA Wundt/III/1001-1100/1098/461-462. Estate Wilhelm Wundt Brief von Luigi Credaro an Wilhelm Wundt Last changed 2016-01-13. Luigi Credaro. Keywords: i sofisti, il giurato, iusiuratum, Carneade, il secondo discorso, contro Democrito, ragione pratica (saggezza), ragione teorica, a philosopher in political linguistics: German minority, Italian majority in Trento. Il prefetto di Trento. Lingua tedesca, lingua italiana, ordinamento amministrativode-centrato, Wundt, Kant, razionalismo trascendente, Herbart, scetticismo, accademia, prima accademia, seconda accademia, terza accademia,  liberta di volere, freewill, volere libero, ambiascata ateniense a roma, influenza dell’academia nell’elite romana – l’accademia come perfezionamento per la dirigenza romana, Wundt, positivismo, suggestione, i primordii del kantismo in Italia, Hegel vacuo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Credaro” – The Swimming-Pool Librrary.

 

Crespi (Milano). Filosofo. Grice: “Crespi is an interesting figure; Strawson calls him an Englishman since he became a Brit! My favourite is his edition of Marcauurelio’s remembrances – which is a n irony: he was a roman, but left his remembrances in Hellenic; and the Italians needed a translation! It would be as if Pocahontas’s remembrances were in Anglo-Saxon!” Collaboratore della Critica sociale, si avvicina alle posizione modernista. Collaboraa Il Rinnovamento, L'Unità, La Rivoluzione liberale, Coenobium. Emigrato durante il fascismo, ospita numerosi esuli antifascisti. Altre opere: “Le vie della fede” (Roma, Libreria editrice romana); “Sintesi religiosa” (Firenze, Tip. Bonducciana di A. Meozzi); “L’impero romano” (Milano, Treves); “Dall'io al tu” (Modena, Guanda). Nunzio Dell'Erba, Rosselli e Sturzo, "Annali della Fondazione Ugo La Malfa", Luigi Sturzo, Mario Sturzo, Carteggio, Roma, Edizioni di storia e letteratura-Istituto Luigi Sturzo, Giovanni Bonomi, Angelo Crespi, Cremona, Padus). Angelo Crespi. Grice: “His essay on Antonino is brilliant – his philosophy of history is controversial. FKeywords: la filosofia dell’impero romano, impero, impero romano, impero britannico, funzione dell’impero, funzione storica dell’impero, filosofia imperial, imperialismo, imperialismo romano, imperialism britannico, post-imperialismo, Antonino.  Filosofia della storia – aporie, lingua latina, impero romano, lingua nazionale, nazione romana, nazione italiana, lingua italiana, lingua fiorentina, lingua toscana, toscano, -- Refs.: Luigi Speranza, “Crespi e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

Crespo

 

Croce (Pescasseroli). Filosofo. Grice: “I would think the fashionable Englishwoman may think Croce is the most important philosopher that ever lived!” -- vide under “Grice as Croceian” -- Grice as Croceian: expression and intention -- Croce, B., philosopher. I genitori appartenevano a due abbienti famiglie abruzzesi: la famiglia Sipari, quella materna, originaria della stessa Pescasseroli, ma radicatasi anche in Capitanata e Terra di Lavoro, particolarmente legata agli ideali liberali, e l'altra, quella paterna, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti), ma trapiantata a Napoli, legata invece ad una mentalità di stampo borbonico[9]. Croce crebbe in un ambiente profondamente cattolico, dal quale però, ancora adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità tradizionale.  Il terremoto di Casamicciola A diciassette anni perse i genitori, Pasquale Croce e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti  durante il terremoto di Casamicciola, nell'isola d'Ischia, dove Croce si trovava in vacanza con la famiglia. Un terremoto durato non più di 90 secondi ma dalla potenza devastatrice enorme - e per questo rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Il "problema del male", in sottofondo alla sua filosofia ottimistica sul progresso, rimarrà insoluto, se non addirittura negato, e dietro le quinte del suo pensiero, influenzato da questi eventi giovanili come evidenziato dalle meditazioni private dei Taccuini personali. Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio.Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Paolo Petroni, la famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro residenza di campagna a San Cipriano Picentino, paese non troppo distante da Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato, assieme al fratello superstite Alfonso, alla tutela del cugino Silvio Spaventa, figlio della prozia Maria Anna Croce e fratello del filosofo Bertrando Spaventa, che, mettendo da parte dei dissapori storici che aveva con la famiglia Croce, lo accolse nella propria casa a Roma, dove il giovane Benedetto trascorse gli anni dell'adolescenza ed ebbe modo di formarsi culturalmente[14] fino all'età di vent'anni. Nel circolo culturale nella casa dello zio Silvio, Croce ebbe modo di frequentare importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli, Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma incomprensibile.  Il ritorno a Napoli Lasciata la Roma troppo accesa di passioni politiche, Tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove aveva trascorso la sua vita Giambattista Vico, il filosofo napoletano amato da Croce per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Nel 1890 fu tra i fondatori della Società dei Nove Musi, un cenacolo di intellettuali. Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia e Regno Unito mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Giosuè Carducci, e per le opere di Francesco De Sanctis. Attraverso Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire.  La fondazione de La critica e la vita politica Nel gennaio del 1903 uscì il primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Giovanni Gentile, e stampata a sue spese, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per censo senator e fu Ministro della Pubblica Istruzione[16] nel quinto e ultimo governo Giolitti.  Con regio decreto dgli fu concesso il titolo di "Nobile". Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi ripresa e attuata da Giovanni Gentile.  Posizione nella prima guerra mondiale «Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati non si può dire che [gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un «interventista. Storia d'Italia Bari, Laterza) Il filosofo, nella scelta tra le due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si rivolse alla prima; ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni liberali con la possibilità dell'intervento (rimase comunque poco favorevole alla guerra, e, non obbligato ad arruolarsi, per limiti di età - 49 anni -, non andò mai al fronte a differenza di altri intellettuali come D'Annunzio, volontario. Scriveva a Bigot che era pronto ad accettare quella guerra che saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni antinazionali e settarie»  (B. Croce, Epistolario, Napoli) Il rapporto con il fascismo L'iniziale fiducia al governo fascista  Benedetto Croce nella sua biblioteca Inizialmente Croce fu vicino al fascismo[19]. Ascoltò e applaudì il discorso di Mussolini al teatro San Carlo di Napoli, durante l'adunata preparatoria per la marcia su Roma. In occasione delle votazioni al Senato, successive all'uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti, fu tra i 225 senatori che votarono la fiducia al governo Mussolini, insieme a Giovanni Gentile e Vincenzo Morello. In seguito Croce spiegò in un'intervista che il suo non era stato un voto fascista, aveva votato a favore del regime perché pensava che Mussolini, se sostenuto, poteva esser sottratto all'estremismo fascista a cui Croce faceva risalire la responsabilità del delitto Matteotti.  «Abbiamo deciso di dare il voto di fiducia. Ma, intendiamoci, fiducia condizionata. Nell'ordine del giorno che abbiamo redatto è detto esplicitamente che il Senato si aspetta che il Governo restauri la legalità e la giustizia, come del resto Mussolini ha promesso nel suo discorso. A questo modo noi lo teniamo prigioniero, pronti a negargli la fiducia se non tiene fede alla parola data. Vedete: il fascismo è stato un bene; adesso è divenuto un male, e bisogna che se ne vada. Ma deve andarsene senza scosse, nel momento opportuno, e questo momento potremo sceglierlo noi, giacché la permanenza di Mussolini al potere è condizionata al nostro beneplacito. Croce scrisse su Il Giornale d'Italiache il regime mussoliniano «non poteva e non doveva essere altro che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale».  La rottura e il Manifesto degli intellettuali antifascisti Il filosofo abruzzese si allontanò definitivamente dal regime allorché, su sollecitazione di Giovanni Amendola, scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti in replica al Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Lo scritto, pubblicato sul quotidiano Il Mondo, tra l'altro sosteneva:  «Contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento.»  Secondo Norberto Bobbio, il Manifesto degli intellettuali antifascisti sancì l'assunzione da parte di Croce del ruolo di «coscienza morale dell'antifascismo italiano» e di «filosofo della libertà. Lo scritto segnò inoltre la rottura dell'amicizia con Gentile, a causa delle ormai inconciliabili divergenze filosofiche e politiche. In seguito Croce fu l'unica voce fuori dal coro tollerata dal regime. Il ruolo di Croce come coscienza dell'antifascismo è testimoniato, tra gli altri, da Primo Levi, che nel 1975 ricordò che negli anni del fascismo e della guerra, segnati per gli antifascisti da smarrimento morale, isolamento e incertezze, solo «La Bibbia, Croce, la geometria, la fisica, ci apparivano fonti di certezza. Il mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.»  (Lettera a Alfieri) Rifiutò di entrare nell'Accademia d'Italia, e dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale per la Libertà, fondato dal poeta Lauro De Bosis, si allontanò dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse, almeno esplicitamente. L'unico atto di ostilità violenta ed esplicita compiuto dal fascismo verso Croce fu la devastazione della sua casa napoletana avvenuta nel novembre del 1926[29]. Negli anni successivi, quelli della sua affermazione e del cosiddetto “consenso”, il fascismo ritenne Croce un avversario poco temibile, sostenitore com'era della tesi di un fascismo inteso come "malattia morale" inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di Croce presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime. Ebbe altresì blandi rapporti culturali con intellettuali in qualche modo vicini al regime, anche se marginali, come un carteggio epistolare con il tradizionalista Julius Evola, a cui espresse l'apprezzamento formale per due opere, da pubblicare presso Laterza con il benestare dello stesso Croce, Saggi sull'idealismo magico, Teoria dell'individuo assoluto e, successivamente, La tradizione ermetica. Il governo fascista richiese ai docenti delle università italiane un atto di formale adesione al regime in base all'articolo 18 del regio decreto (il cosiddetto giuramento di fedeltà al fascismo). A seguito di tale provvedimento, i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo "alla patria", secondo quanto già imposto dal regolamento generale universitario del 1924, ma anche al regime fascista. In quell'occasione, Croce incoraggiò professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a rimanere all'università, «per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà. Se la sua figura fu importante per l'area politica del liberalismo, la sua scuola ebbe durante tutto il ventennio fascista una platea assai più ampia di allievi[36]: del resto, già prima dalle sue idee avevano tratto esempio anche Antonio Gramsci[37] e il gruppo comunista de L'Ordine Nuovo.Polemica sulla Giornata della fede La non adesione di Croce al fascismo parve messa in discussione dal gesto compiuto durante la Guerra d'Etiopia, quando il filosofo, in occasione della "Giornata della fede" donò la propria medaglietta da senatore accompagnandola con questa secca lettera al presidente del Senato: «Eccellenza, quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto in omaggio al nome della Patria, l'invito dell'E.V., e ho rimesso alla questura del Senato la mia medaglia, Il gesto “suscitò negli ambienti dell'antifascismo italiano, in patria e all'estero, sorpresa, dolore e polemiche” che colpirono dolorosamente Croce. Al termine di un drammatico colloquio con Bianca Ceva, inviata a sostenere il punto di vista degli antifascisti, dopo un iniziale tentativo di giustificazione, Croce affermò: “dica che io sono sempre lo stesso, che sono sempre con loro. Il regime varò la legislazione antisemita (Croce non era presente nell'aula del Senato, quale forma di protesta; egli fu uno dei pochi a esprimersi contro di esse a livello pubblico). Il governo inviò a tutti i professori universitari e i membri delle accademie un questionario da compilare ai fini della classificazione "razziale". Tutti gli interpellati risposero. L'unico intellettuale non ebreo che rifiutò di compilare il questionario fu Croce.  «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata.[40]»  Il filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al presidente dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, in cui scrisse sarcasticamente:  «Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose?»  (Benedetto Croce a Luigi Messedaglia, Presidente dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti di Venezia, in A. CAPRISTO, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Torino, Zamorani,) Croce fu quindi espulso da quasi tutte le accademie di cui era membro, comprese l'Accademia Nazionale dei Lincei e la Società Napoletana di Storia Patria.  All'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, unica accademia che lo mantenne socio, alla fine della guerra Croce riconoscerà il merito di non averlo espulso durante il regime fascista. Dopo aver denunciato la persecuzione degli ebrei, Croce però critica anche gli atteggiamenti degli ebrei stessi, sia quelli che avevano aderito al fascismo, sia quelli che vivevano "separati", ritenendo la specificità ebraica come pericolosa per gli ebrei stessi: «Quando s'iniziò l'infame persecuzione contro gli ebrei, io ebbi, con un brivido di orrore, la piena rivelazione della sostanziale delinquenza che era nel fascismo, come chi fosse costretto ad assistere allo sgozzamento a freddo di un innocente e mi misi di lancio dalla loro parte con tutto l'esser mio per fare quello che per loro si poteva a lenire o diminuire il loro strazio. Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi o preferenze, e anzi il loro studio dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani; procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere ne dia ancora in avvenire l'idea di popolo eletto, che è tanto poco saggia che la fece sua Hitler, il quale, purtroppo, aveva a suo uso i mezzi che lo resero ardito a tentarne la folle attuazione... [essi] disconoscono le premesse storiche (Grecia, Roma, Cristianità) della civiltà di cui dovrebbero venire a fare parte.»  (Lettera a Cesare Merzagora) Espresse quindi una posizione di perplessità per il sionismo. Il rientro nella vita politica Dopo la caduta del regime Croce rientrò in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale Italiano. Durante la Resistenza cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti e nel 1944 fu Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio, benché non stimasse né il Maresciallo né il re Vittorio Emanuele III, a causa della loro compromissione col fascismo. Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entrò a far parte del secondo governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese dopo.  Egli avrebbe preferito l'abdicazione diretta del sovrano in favore del piccolo Vittorio Emanuele (con rinuncia di Umberto al trono), la reggenza a Badoglio e l'incarico di capo del governo a Carlo Sforza, ma i rappresentanti del Regno Unito si opposero.[46] Al referendum sulla forma dello Stato (2 giugno 1946) votò per la monarchia, inducendo tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane presidente) a non schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze.»[48]   Benedetto Croce con Enrico Altavilla e il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola Concetti che Croce aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio ribadisse tale indicazione. Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a Capo provvisorio dello Stato, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Fonda a Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Presidente dell'associazione PEN International e, negli stessi anni, entrò a far parte del Consiglio di Amministrazione dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli. Per un ictus cerebrale rimase semiparalizzato e si ritirò in casa continuando a studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca il 20 novembre 1952, all'età di 86 anni. I funerali solenni si tennero nella sua Napoli e le sue spoglie tumulate nella tomba di famiglia al Cimitero di Poggioreale. Il rapporto con la cultura cattolica «Pure filosofo quale sono io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall'umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima[53]»  Il rapporto di Croce con la cultura cattolica variò nel corso del tempo. Agli inizi del Novecento i filosofi idealisti, come Croce e Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura cattolica. Croce, pur non essendo un anticlericale militante, riteneva importante la separazione liberale tra Chiesa e Stato, propugnata da Cavour. La Chiesa con i Patti Lateranensi aveva ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche antifasciste dell'idealismo crociano. Croce fu contrario al Concordato e dichiarò apertamente in Senato che «accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza. Mussolini gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando Croce scrisse la Storia d'Europa nel secolo decimonono, il Vaticano criticò aspramente l'autore che difendeva le filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Il Sant'Uffizio pose all'Indice nel 1932 questo libro ma, non ottenendo negli anni successivi da Croce un qualsiasi ripensamento, ninserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. La polemica anti-concordataria crociana vide l'adesione del giovane filosofo nonviolento e liberalsocialista Aldo Capitini che a Firenze, a casa di Luigi Russo, aveva avuto modo di conoscere Croce, a cui aveva consegnato un pacco di dattiloscritti che il filosofo napoletano aveva apprezzato e fatto pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventarono uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. La posizione personale di Croce nei confronti della religione cattolica è ben espressa nel suo saggio Perché non possiamo non dirci "cristiani", scritto nel 1942. Il termine "cristiani" inserito nel titolo tra virgolette non voleva indicare l'adesione a un credo confessionale, bensì la consapevolezza di un'inevitabile appartenenza culturale rappresentata nella sua particolare prospettiva dal fenomeno del cristianesimo: non si trattava di una professione di fede cristiana dovuta a un rinnegamento dell'agnosticismo come volle fare intendere la propaganda fascista[60], ma di riconoscere il valore storico e di «rivolgimento spirituale»:  «Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall'alto, un intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per la capacità dei princìpi cristiani di contrastare il neopaganesimo e l'ateismo propagandati dal nazismo e dal comunismo sovietico[61]:»  «...sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell'impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un'altra che potrebbe risalire all'età precristiana, e anzi pre-ellenica e pre-orientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell'orda?[62]»  Croce, in sintesi, vede nel cristianesimo il fondamento storico della civiltà occidentale ma non ripudia l'immanentismo radicale del suo pensiero che vede nella religione un momento della realizzazione storica dello spirito che si avvia, superandolo, ad una più alta sintesi.[63]  All'Assemblea Costituente lotterà contro l'inserimento, voluto dalla DC, e dal comunista Togliatti[64], dei Patti Lateranensi nel secondo comma dell'articolo 7 della Costituzione della Repubblica Italiana, giudicandolo come "sfacciata prepotenza pretesca". In vista delle elezioni politiche del 1948, tuttavia, si accordò con il segretario della Democrazia Cristiana, Alcide De Gasperi, per dare vita a un manifesto comune, Europa, cultura e libertà, contro i totalitarismi passati e presenti. A seguito della vittoria della DC, replicò severamente ai laici benpensanti schierati col Fronte Popolare che sbeffeggiavano il ceto umile e contadino di cui era composto in prevalenza l'elettorato cattolico:  «Beneditele quelle beghine di cui ridete, perché senza il loro voto e il loro impegno oggi non saremmo liberi.»  Nel 1950, lasciando disposizioni per la sua morte (che avverrà tre anni dopo) scriverà invece che la sensibilità religiosa della moglie cattolica le consentirà di evitare che un sacerdote tenti di "redimerlo" all'ultimo minuto, perché è "cosa orrenda profittare delle infermità per strappare a un uomo una parola che sano egli non avrebbe mai detta".  Croce fu legato sentimentalmente e convisse con Angelina Zampanelli, fino alla morte di lei. La coppia prese alloggio a Palazzo Filomarino, a Napoli. Angelina, sofferente di cuore, morì poco più che quarantenne a Raiano, dove insieme a Croce ella soggiornava spesso d'estate, presso il Palazzo Rossi-Sagaria, ospiti della cugina del filosofo, Maria Teresa Petroni, moglie di Valentino Rossi. Croce sposa a Torino, con rito religioso e poi civile, Adele Rossi, da cui ebbe cinque figli: Giulio, Elena, Alda, Lidia (moglie dello scrittore e dissidente anticomunista polacco Gustaw Herling-Grudziński) e Silvia.Il filosofo, oggi, deve non già fare il puro filosofo, ma esercitare un qualche mestiere, e in primo luogo, il mestiere dell'uomo.»  (Benedetto Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, Sicilia Nuova Editrice, Milazzo. L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in chiave storicista. Come idealista, ritiene che la realtà sia quella che viene concepita dal soggetto, in quanto riflesso della sua idea e interiorità, ed è convinto che la razionalità e la libertà emergano nella storia, pur tra immani difficoltà. La filosofia idealista riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto; l'idealismo, come in Hegel, implica una concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine; in Croce questo ideale è la libertà umana. Definito da Gramsci "papa laico della cultura italiana", a sua filosofia ha goduto di enorme credito nella cultura italiana del XX secolo, perlomeno fino agli anni settanta e ottanta, in cui si sono levate molte critiche verso il suo approccio, ritenuto superato. Croce fu un intellettuale rispettato anche al di fuori dell'Italia: la rivista Time gli dedicò la copertina negli anni '30[7], e negli anni 2000, contestualmente alla rivalutazione del pensiero crociano, si è registrato l'interesse della collana editoriale dell'Università di Stanford, mentre la rivista statunitense di politica internazionale Foreign Affairs lo inserì tra i pensatori più attuali tra quelli del '900, accanto a intellettuali come Isaiah Berlin, Francis Fukuyama e Lev Trotsky. Parallelamente allo studio del marxismo, Croce approfondisce anche il pensiero di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui Croce afferma che la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di Giambattista Vico, suo altro filosofo di riferimento. Da destra, Giovanni Laterza, Stefano Jacini, Croce e Luigi De Secly. Il divenire e la logica della dialettica, in Hegel e in Marx, è esso stesso verità in movimento; anche per Croce la verità è dialettica, ma occorre esprimere un giudizio storico ed esistono delle regole che arginano la pretesa giustificativa di ogni fenomeno: in Croce lo Spirito - in quanto intelletto umano - si realizza nella storia ma nel rispetto della libertà. Per questo ogni fatto è quindi calato nella realtà storica, ma questo non può giustificare, con la scusa del divenire e del progresso, aspetti deplorevoli come, ad esempio, il totalitarismo fascista o comunista, il primo come necessario (concezione di Giovanni Gentile e della sua idea di realtà come atto puro di pensare e agire) e il secondo come fase storica obbligata (seguendo il concetto marxiano della dittatura del proletariato, di cui il filosofo tedesco parla nella sua teoria "razionalista" del materialismo storico). Quindi il materialismo dialettico di Engels e quello storico di Marx sono da ritenersi errati. In questo, il suo storicismo si differenzia dal pensiero di un altro filosofo liberale, Karl Popper, secondo cui dialettica e storicismo finiscono invece per generare quasi sempre totalitarismo (concezione assai diffusa nel pensiero del liberalismo novecentesco). Al contrario di Popper e Arendt, per Croce la radice totalitaria è proprio nell'antistoricismo, cioè nel rifiuto dello storicismo stesso. Il neoidealismo entrò in crisi, sostituito da nuove filosofie come l'esistenzialismo e la fenomenologia; sempre in nome del libertà e dell'umanesimo, Croce critica l'esistenzialista Martin Heidegger, divenuto poi anti-umanistico e colpevole di accondiscendenza verso il nazismo, definendolo anche "un Gentile più dotto e più acuto, ma sostanzialmente della stessa pasta morale"[79]; esprime così nel 1939 un tagliente giudizio sul filosofo di Essere e tempo: «Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che, nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell'etica, della politica, della poesia, dell'arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l'unico e vero attore, l'umanità. [...] E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia.»  (Conversazioni Critiche, Serie Quinta, Bari, Laterza. L'asserzione di Hegel che "la storia sia storia di libertà" viene da Croce inquadrata nella sua concezione dialettica della libertà vista nel suo iniziale nascere, nel successivo crescere e infine nel raggiungimento di uno stadio finale e definitivo di maturità.[74]  Croce fa proprio questo detto hegeliano chiarendo però che non si vuole «assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l'altro, l'ideale morale dell'umanità». I popoli e gli individui anelano sempre alla libertà, e come dice Hegel «ciò che è razionale è reale» (cioè la ragione concepisce quello che può diventare reale) e «ciò che è reale è razionale» (cioè esiste un'intrinseca razionalità, anche minima, in ogni fenomeno storico, anche se non tutto il reale è ovviamente razionale). Alcuni storici, senza ben rendersi conto di quello che scrivono, sostengono che ormai la libertà ha abbandonato la scena della storia. Ma affermare che la libertà è morta vorrebbe dire che è morta la vita. Non esiste nella storia un ideale che possa sostituire quello della libertà «che è l'unica che faccia battere il cuore dell'uomo, nella sua qualità di uomo». Ciò significa che la libertà non è una fase di presa di coscienza che conduce allo Stato etico o al socialismo, venendo superata, ma è essa stessa la verità nel divenire, non una fase. Egli critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre secondo Croce sussiste anche una logica dei distinti: non ogni negazione è infatti opposizione, ma può essere semplice distinzione. Ciò significa che certi atti ed eventi devono essere sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri ordini di atti ed eventi, e non ad essi opposti. Elabora, quindi, un vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Inoltre, la prima importante differenza con Hegel è che nel sistema crociano non vi rientra né la religione, né la natura. La religione sarebbe infatti un complesso miscuglio di elementi poetici, morali e filosofici che le impediscono di presentarsi come forma autonoma dello Spirito. La natura poi non è altro che l'oggetto "mascherato" dell'attività economica, è il frutto della considerazione economica diretta al mondo. Qui la realtà in quanto attività (ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale), economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti.[73] All'interno dell'estetica infatti si ha opposizione dialettica tra bello e brutto, all'interno della logica, l'opposizione è tra vero e falso; nella economia tra utile e inutile e infine nell'etica tra bene e male.  Estetica Croce scrisse anche importanti opere di critica letteraria (saggi su Goethe, Ariosto, Shakespeare e Corneille, "La letteratura della nuova Italia" e "La poesia di Dante"). Egli si mosse nell'ambito della sua teoria estetica che mirava alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione artistica. Quest'ultima era ritenuta tanto più valida quanto più coerente con le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, Breviario di estetica e Aesthetica in nuce. In seguito modificò questa iniziale teoria stabilendo per la storia un nesso con la filosofia. L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si riferisce alle rappresentazioni e alle intuizioni che noi abbiamo della realtà.  Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché tutte le forme sono presenti insieme nello spirito. L'arte, come aspetto dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza, intuizione del particolare che:  come forma dello spirito, come creatività non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello spirito rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica. Bisogna quindi respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento; come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale: compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.) che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità dell'intuizione-espressione. Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione. Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia. L'estetica quindi come una «linguistica in generale». Dall'estetica deriva la critica letteraria crociana, espressa in molti saggi. Della logica, Croce tratta essenzialmente nella Logica come scienza del concetto puro[83]); essa corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli oggetti di cui si occupa. Il termine logica in Benedetto Croce assume quindi un significato più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la Logica di Croce è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali Croce non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Geymonat nel suo Corso di filosofia - immagini dell'uomo, «la vera indubbia grandezza di Croce va cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc., che non nella sua opera di filosofo. Gentile ai tempi del direttorato alla Scuola normale di Pisa. In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è stata sviluppata in Italia da altre correnti di pensiero contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali Peano e lo stesso Geymonat. Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura scientifica. Invece Croce ebbe con la logica e la scienza un rapporto difficile. La sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica. Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e sperimentali Un caso emblematico del giudizio di Benedetto Croce nei confronti della matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza Federigo Enriques, avvenuta il 6 aprile 1911 in seno al congresso della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques. Questi sosteneva che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di Enriques mal si confaceva a quella idealistica di Croce e Gentile, come pure a gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più formata da idealisti crociani.  Croce, in particolare, rispose ad Enriques[84], liquidando in modo deciso - "antifilosofico" secondo Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come Croce medesimo. I concetti scientifici non sono veri e propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti pratici di costituzione fittizia.  «La realtà è storia e solo storicamente la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla nell'intrinseco. Sul tema Benedetto Croce sostenne, tra l'altro, che:  «Gli uomini di scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo filosofico-storico.»  (Benedetto Croce da Il risveglio filosofico e la cultura italiana, A proposito dello sviluppo novecentesco della logica matematica e dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi quali Gottlob Frege, Giuseppe Peano, Bertrand Russell, Benedetto Croce dichiarerà:  «I nuovi congegni [della logica matematica] sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre, li hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, ad ogni modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata.»  (Benedetto Croce da Logica come scienza del concetto puro,Anni dopo, ancora scriveva che:  «Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero.»  (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici e ribadiva come:  «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto filosofico e quindi filosofia della filosofia.»  (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici. Tuttavia ebbe altresì un cordiale e rispettoso scambio epistolare con Albert Einstein. Secondo diversi storici e filosofi (es. Giorello, Bellone, Massarenti), l'influenza antiscientifica di Croce e di Gentile[90] sarebbe stata fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si sarebbe indirizzata prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che attribuisse importanza alla scienza e alla tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale.  «[La scuola] sarà caratterizzata dal primato dell'umanesimo letterario e in particolare dell'umanesimo classico. Tutte le istituzioni culturali saranno improntate al primato delle lettere, della filosofia e della storia. Giorello nel quarantennale della morte di Croce ha scritto che "predicò la religione della libertà e per questo gli siamo riconoscenti. Ma la sua condanna della scienza e la sua estetica hanno causato danni gravissimi alla nostra cultura. Che ora esige riparazione.  Lo stesso Giorello però ha in parte ritrattato l'affermazione, negando che sia da attribuire a Croce il mancato sviluppo scientifico italiano, adducendo che quelle che lui considerava una "colpa" sarebbero da accreditare maggiormente alla Chiesa, agli scienziati stessi e alla classe politica, più che all'idealismo, che trascura le scienze ma nemmeno le ostacola, definendo la filosofia di Croce «interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza. Croce riteneva le scienze umane e sociali prive di qualunque validità e del tutto inutili per lo studio dei fenomeni umani. Lui stesso dichiarò più volte di non riuscire a capire perché si dovesse sprecare del tempo a studiare «i cretini, i bambini e i selvaggi, quando esistono pensatori come Kant. ilosofia della pratica «La legge morale è la suprema forza della vita e la realtà della Realtà.»  (Filosofia della pratica. Etica ed economica, Laterza, Bari) Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed etica. Croce dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto, quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. Croce critica anche l'idea di Stato etico elaborata da Hegel ed estremizzata da Gentile: lo Stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano. Teoria e storia della storiografia «La storia non è giustiziera, ma giustificatrice»  (Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia) La storia e lo spirito: lo storicismo assoluto  Giambattista Vico Come si evince anche da Teoria e storia della storiografia la filosofia di Croce, ispirata soprattutto a Giambattista Vico, è fortemente storicista. Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la filosofia di Croce, questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche, deve superare ogni forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase «la storia non è giustiziera, ma giustificatrice». Con questo afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente. Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di "storia contemporanea", perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni.La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è conoscenza non astratta, ma basata su fatti ed esperienze ben precise. Anche se subisce l'influsso dello storicismo di Voltaire, Croce critica gli illuministi e in generale tutti coloro che pretendono di individuare degli assoluti che regolino la storia o la trascendano: invece la realtà è storia nella sua totalità, e la storia è la vita stessa che si svolge autonomamente, secondo i propri ritmi e le proprie ragioni.  La storia è un cammino progressivo per cui «Nulla c'è al di fuori dello spirito che diviene e progredisce incessantemente: nulla c'è al di fuori della storia che è per l'appunto questo progresso e questo divenire. Ma il positivo destinato a superare storicamente la negatività dei periodi bui della storia non è una certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza del progresso storico deve essere confermata da un impegno costante degli uomini in azioni i cui risultati non sono mai scontati né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si evince dal volume del 1938 La storia come pensiero e come azione Per Croce la libertà può essere apprezzata solo difendendola costantemente in maniera dialettica, poiché la storia è necessariamente contrasto. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà inorridito come dall'immagine, peggio che della morte, della noia infinita.»  (La storia come pensiero e come azione). Ciò però non vuol dire che Croce giustifichi la violenza come necessaria; nello stesso saggio ammonisce infatti che «la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto distruggerla».  La concezione storica crociana ebbe grande seguito in Italia per molto tempo ed ebbe notevole influenza anche all'estero, ad esempio per quanto riguarda la formazione del maggior storico americano del nazismo, George Mosse. Croce interviene al congresso liberale. Croce critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò molta influenza successiva, quasi una "dittatura intellettuale sulla cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenute scorrette, "pseudoconcetti" (riprendendo una parola usata da Croce), poiché non presentate come opinione personale ma come veri canoni estetici, varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee, esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Gabriele D'Annunzio, Giovanni Pascoli (di cui apprezzò solo alcune parti di Myricae e dei Canti di Castelvecchio criticando i saggi e le poesie civili), del crepuscolarismo e di Giacomo Leopardi: di quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi, ma criticò le poesie "dottrinali" e polemiche (in particolare i Paralipomeni della Batracomiomachia e la Palinodia al marchese Gino Capponi) e le opere filosofiche (apprezzò solo una minima parte delle Operette morali), affermando che quella leopardiana non era vera filosofia, ma solo uno sfogo poetico in prosa, inferiore comunque alle liriche, dovuto esclusivamente alle condizioni fisiche e psicologiche del poeta recanatese. Croce non considera Leopardi un vero filosofo, come Schopenhauer, a cui invece riconosce dignità filosofica ma che non apprezza come individuo poiché ritenuto cinico e indifferente, ma solo un pensatore, il cui pensiero è essenzialmente al servizio della sua poesia. Sulla scorta di Francesco de Sanctis, esprime simpatia umana al poeta recanatese per lo spirito civile, l'impegno e la lotta eroica contro le sofferenze fisiche, come espresso nella poesia La Ginestra. Egli fu grande ammiratore soprattutto del Carducci, in quanto classicista, razionale e sentimentale al tempo stesso, ma senza scadere nel sentimentalismo irrazionale, e, a proposito del decadentismo e degli autori di questo movimento, scrisse, in Del carattere della più recente letteratura italiana: «Nel passare da Giosuè Carducci a questi tre, sembra, a volte, come di passare da un uomo sano a tre malati di nervi». La polemica contro il decadentismo è figlia di quella contro il positivismo: Croce sostiene che il misticismo decadente, che egli disapprova come sintomo di vuoto spirituale e filosofico (Croce è razionalista e idealista al tempo stesso), è figlio dello scientismo positivistico e delle pseudoscienze da esso generate (come lo spiritismo): «Di qua il positivismo, di fronte il misticismo; perché questo è figlio di quello: un positivista dopo la gelatina dei gabinetti, non credo abbia altro di più caro che l'inconoscibile, cioè la gelatina dove si coltiva il microbio del misticismo». Le opere di Croce spaziano dalla filosofia, alla storiografia, all'aneddotica, alla critica letteraria e all'erudizione storica. Qui si indicano le più importanti. Per un elenco completo si veda L'opera di Benedetto Croce, bibliografia a cura di S. Borsari, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I principi dell'estetica crociana, oltre ad essere formulati in opere organiche, trovarono anche applicazione critica in prefazioni e curatele di opere altrui. Tale è, ad esempio, la prefazione all'opera di Tommaso Parodi, Poesia e letteratura: conquista di anime e studi di critica, pubblicata postuma nel 1916 da Laterza, a cura del Croce. Il filosofo napoletano collaborò inoltre con numerosi articoli su vari argomenti pubblicati su molti giornali e riviste stranieri e italiani (Cfr. Panetta, Settant'anni di militanza: Croce, tra riviste e quotidiani) Ad esempio la sua collaborazione con il quotidiano Il Resto del Carlino durò per più di 40 anni. Filosofia dello spirito Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale Logica come scienza del concetto puro Filosofia della pratica. Economica ed Etica Teoria e storia della storiografia; Problemi di estetica e contributi alla storia dell'estetica italiana La filosofia di Vico Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia Materialismo storico ed economia marxistica Nuovi saggi di estetica Etica e politica. La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura La storia come pensiero e come azione Il carattere della filosofia moderna Discorsi di varia filosofia; Filosofia e storiografia; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici; Perché non possiamo non dirci "cristiani"; Primi saggi Cultura e vita morale L'Italia. Pagine sulla guerra Pagine sparse; Nuove pagine sparse; Terze pagine sparse; Scritti e discorsi politici; Carteggio Croce-Vossler; B. Croce - G. Papini, Carteggio; Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana; Saggi sulla letteratura italiana del Seicento La rivoluzione napoletana del 1799 La letteratura della nuova Italia; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza Conversazioni critiche Storie e leggende napoletane Manifesto degli intellettuali antifascisti Goethe Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici Ariosto, Shakespeare e Corneille Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono; La poesia di Dante Poesia e non poesia Storia del Regno di Napoli Uomini e cose della vecchia Italia Storia d'Italia; Storia dell'età barocca in Italia Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento Storia d'Europa nel secolo decimonono Poesia popolare e poesia d'arte Varietà di storia letteraria e civile Vite di avventure, di fede e di passione Poesia antica e moderna Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento La letteratura italiana del Settecento Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia Aneddoti di varia letteratura Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce, promossa con Decreto del Presidente della Repubblica. Eugenio Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, Enciclopedia italiana Treccani alla voce "neoidealismo"  Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, Giulio Giorello, Dimenticare Croce?  Benedetto Croce - Senato  Partito Liberale Italiano «nato nel 1924, sciolto durante il fascismo e ricostituito». In Enciclopedia Treccani alla voce "Partito Liberale Italiano"  Pagina jpg del Corriere del Mezzogiorno: Luigi Mosca, L'America innamorata di Croce. La prestigiosa rivista USA "Foreign Affairs" lo incorona tra i pensatori più attuali, Einaudi infatti sosteneva che «il liberismo non è né punto né poco "un principio economico", non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una "soluzione concreta" che talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana.» (in G.Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica, a cura di E. Rossi, Il filosofo, rispettivamente nel 1919 e nel 1922, dedica ai paesi degli avi, sia paterni che materni, due monografie, intitolate Montenerodomo: storia di un comune e due famiglie e Pescasseroli, uscite per Laterza e in seguito collocate in appendice alla Storia del Regno di Napoli (Laterza, Bari).  È noto, a tal proposito, l'aneddoto narrato in un testo coevo, secondo il quale il padre del filosofo, prima di morire tra le macerie, avrebbe detto al figlio «offri centomila lire a chi ti salva». Cfr. C. Del Balzo, Cronaca del tremuoto di Casamicciola, Tip. De Blasio e C., Napoli, Un'analisi di quella traumatica esperienza anche in relazione all'opera di Croce è in S. Cingari, Il giovane Croce. Una biografia etico-politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, Il problema del male nell’indagine di Cucci. Testimonianza di Croce sul terremoto  Benedetto Croce, Memorie della mia vita, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli 1966.  "Il superstite è accolto allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo oscuro. «Quegli anni», confessa l’autore del Contributo, furono «i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino». Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio cui aggrapparsi nel naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una preghiera": v. A cento anni dal “Contributo” di Croce, di Matteo Marchesini, Sole 24 ore, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ministri della Pubblica Istruzione, su storia.camera.  Ultimo Governo Giolitti, su storia.camera.  A. Jannazzo, Croce e la corsa verso la guerra, in Idem, Croce e il prepartito degli intellettuali, Edizioni La Zisa, Palermo, Giorgio Levi della Vida, Fantômes retrouvés, Diogène, Antonio Gnoli, Benedetto Croce e il suo fantasma, in la Repubblica, Camera dei deputati - Portale storico  Giugno 1924; citato in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia, Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Il sistema letterario. Guida alla storia letteraria e all'analisi testuale: Novecento; Casa Editrice G. Principato S.p.A., .  Salvatore Guglielmino/Hermann Grosser, Sambugar, Salà, Letteratura italiana, Croce e il manifesto antifascista.  Primo Levi, Potassio, in Il sistema periodico, poi in Opere, Torino, Einaudi, «La più efficace difesa della civiltà e della cultura si è avuta in Italia, per opera di Benedetto Croce. Se da noi solo una frazione della classe colta ha capitolato di fronte al nemico a differenza di quel che è avvenuto in Germania, moltissimo è dovuto al Croce. (Guido De Ruggiero) Osserva Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia: «Il regime fascista, certo per costituirsi un alibi di fronte agli ambienti internazionali della cultura, consentì tacitamente a Croce una certa libertà di critica politica; e Croce si avvalse di questa possibilità [...] per una difesa degli ideali di libertà... Negli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale la figura di Croce ha assunto perciò, agli occhi degli italiani, il valore di un simbolo della loro aspirazione alla libertà, e ad un mondo in cui lo spirito prevalga sulla violenza. E tale si mantiene a distanza di anni. Il terzo volume del carteggio tra Croce e Laterza (l'editore delle opere crociane) offre una grande quantità di esempi delle difficoltà di mantenersi in equilibrio “tra l'opposizione concreta e organizzata al fascismo, e l'adesione o la cinica indifferenza”. Esempi “quasi tutti orientati però verso una precisa direzione: quella dell'autocensura, a volte praticata, altre volte orgogliosamente respinta... Tra i molti casi che potrebbero essere citati a illustrazione di questo atteggiamento, è notevole quello sorto attorno alla dedica apposta da Paolo Treves, nel libro sulla filosofia di Tommaso Campanella, al padre Claudio, scrittore e parlamentare socialista, famigerato tra i fascisti soprattutto per il celebre duello ingaggiato con Mussolini. La dedica recitava: “A mio padre, che mi additò con l'esempio la dignità della vita”. Laterza scrive a Croce accostando, con diplomatica sottigliezza, la lettura di un volgare trafiletto anticrociano e antilaterziano sul “Lavoro fascista” alla questione della dedica, che egli propone al Treves di limitare “alle prime tre parole essenziali, non essendo opportuno motivarla allo stato attuale delle cose”. Alla lettera Croce risponde il giorno dopo, tranquillizzando Laterza sulla “purezza” del lavoro storico del Treves e sull'assenza in esso di riferimenti al presente, e aggiungendo, con maliziosa e retorica ingenuità: “ma veramente non capisco perché vi abbia fatto senso quella dedica affettuosa di un figlio al padre. O che la dignità della vita (il corsivo è ovviamente di Croce) è un fatto politico del giorno?”. Comunque sia, la dedica uscì poi nella versione “purgata”. Maurizio Tarantino, recensione a Benedetto Croce-Giovanni Laterza, Carteggio, a c. di Antonella Pompilio, Napoli, Roma-Bari, Istituto italiano per gli studi storici, Laterza,  “L'indice”. L'episodio è narrato con dovizia di particolari in una lettera di Fausto Nicolini a Giovanni Gentile riportata da Gennaro Sasso in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Alessandro Barbera (a cura di), La biblioteca esoterica. Carteggi editoriali Evola-Croce-Laterza, Roma, Fondazione Julius Evola, Cesare Medail, Julius Evola: mi manda Don Benedetto, in Corriere della Sera, Cfr. la prefazione del testo Lettere di Julius Evola a Croce. Regio Decreto Legge, Disposizioni sull'istruzione superiore (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Flavio Fiorani, Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti Editore, 2000,91  La Repubblica, Giuseppe Giarrizzo rivendicò con una punta di orgoglio l'essere annoverato tra i “nipotini” di Croce (se, nel corso di uno sgradevole scontro, sono stato per Ernesto De Martino un «basco verde di Palazzo Filomarino. Giarrizzo, Giuseppe, Di Benedetto Croce e del filosofare sine titulo, Archivio di storia della cultura: Napoli: Liguori,  si veda: Antonio Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce  B. Croce, Epistolario, I, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, La vicenda è descritta e analizzata da Gennaro Sasso, La guerra d'Etiopia e la “patria”, in Per invigilare me stesso, Bologna, Il mulino, Pierluigi Battista, Corriere della Sera, B. Croce, Taccuini di lavoro, Napoli, La tentazione antisemita di tre antifascisti liberali  Dante Lattes, Ferruccio Pardo, Benedetto Croce e l'inutile martirio d'Israele. L'ebraismo secondo B. Croce e secondo la filosofia crociana  Michele Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, pag. 111  Peter Tompkins, L'altra Resistenza. Servizi segreti, partigiani e guerra di liberazione nel racconto di un protagonista, Il Saggiatore, Croce rimase fermo sulle sue posizioni: l'unica condizione alla quale i partiti antifascisti dell'opposizione avrebbero accettato di entrare nel governo di Badoglio era l'abdicazione di Vittorio Emanuele III. Era stato il re, disse Croce, ad aprire le porte al fascismo, favorendolo, appoggiandolo e servendolo per vent'anni».  Tompkins, Piero Operti, Lettera aperta a Benedetto Croce, Torino, Lattes, Giuseppe Mazzini (1948), poi in Scritti e discorsi politici, II, Bari, Laterza, 1963,451; sulle caratteristiche "affettive" del pronunciamento di Croce al referendum, vedi Fulvio Tessitore, Il percorso psicologico dalla monarchia alla repubblica attraverso i Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, in Benedetto Croce e la nascita della Repubblica. Atti del convegno tenutosi presso il Senato della Repubblica, Soveria Mannelli, Rubbettino,  "non sono veri liberali...coloro che si fregiano, come ora taluni hanno preso a fare, del nome di monarchici, perché il liberalismo non ha altro fine che quello di garantire la libertà" e se "la forma Repubblicana gli offre questa...garanzia quando non gliene offre sicura la monarchia, sarà anche eventualmente repubblicano" (Taccuini di lavoro; "se il tentativo la duplice abdicazione di Vittorio Emanuele III e di Umberto II] fallisse, noi sosterremo il partito della Repubblica, adoperandoci a farla sorgere temperata e non sfrenata, sennata e non dissennata" (Taccuini di lavoro. Benedetto Croce, mai nominato, formalmente rifiutò prima ancora che la sua ventilata nomina potesse concretizzarsi.» (In Davide Galliani, Il Capo dello Stato e le leggi, Volume 1, Giuffrè Editore, Ente Morale, su UniSOB.na. URL consultato il 30 ottobre 2018.  Senato della Repubblica-Cinecittà Luce, Il filosofo della libertà: Napoli - il funerale di Benedetto Croce  B. Croce, Maria Curtopassi, Dialogo su Dio: carteggio 1941-1952, Archinto, Il carteggio fra Croce e Maria Curtopassi è stato pubblicato presso la casa editrice Archinto da Giovanni Russo, autore anche della nota introduttiva, Maurizio Griffo, Il pensiero di Benedetto Croce tra religione e laicità. La citazione è tratta da: B. Croce, Taccuini di lavoro, vol. 6, Napoli. Croce, Perché non possiamo non dirci anticoncordatari. Discorso contro i patti lateranensi, tratto da: Benedetto Croce, Discorsi parlamentari, Bardi editore, Roma, Atti parlamentari della Camera: Guido Verucci, Idealisti all'Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant'Uffizio, Laterza, Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce, Il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai alluse ironicamente all'operetta crociana con un articolo intitolato Benedetto Croce rincristianito per dispetto (In Ruggiero Romano, Paese Italia: venti secoli di identità, Donzelli Editore,Perché non possiamo non dirci "cristiani, in La Critica, 20 novembre 1942; poi in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari 1945  B. Croce, M. Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio op.cit. ibidem.  F.Focher, Rc. a F. Capanna, La religione in Benedetto Croce. Il momento della fede nella vita dello spirito e la filosofia come religione, Bari 1965, in Rivista di studi crociati, Sandro Magister, Colloquio con Vittorio Foa (Da l'Espresso, Documenti)  In Vittorio Messori, Pensare la storia: una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline,Nello Ajello, Solo per amore, "La Repubblica, Gennaro Sasso, Per invigliare me stesso, Bologna, Il mulino, 1989,36-9  Nel registro mortuario di Raiano, vicino a L'Aquila, viene indicata erroneamente come "moglie del senatore Benedetto Croce"  Benedetto Croce e l'amore  Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, n. 10, ottobre 1964  Morta Alda Croce, figlia di Benedetto Croce  È morta Silvia Croce l'ultima nata del filosofo  Morta Lidia, l'ultima figlia ancora vivente di Benedetto Croce. Si è spenta a Napoli a 93 anni  Il pensiero filosofico di Benedetto Croce - senato  B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari Saggio sullo Hegel  Croce, da "papa laico" a grande dimenticato  Renzo Grassano, La filosofia politica di Karl Popper: 1 - La critica della dialettica hegeliana e dello storicismo; commento a La società aperta e i suoi nemici e Miseria dello storicismo di Popper  Croce e il totalitarismo  Carteggio Croce-Omodeo  Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano In opposizione al positivismo che voleva riportare la storia ad una forma della scienza, Croce si era interessato dell'estetica nella quale avrebbe dovuto essere compresa la storia; cfr. La storia sotto il concetto generale dell'arte, Bari 1919  Per questo motivo Croce della Divina Commedia di Dante apprezza la prima cantica dell'Inferno in quanto risultato di una forte e sentita intuizione-espressione, mentre apprezza meno la cantica del Paradiso dove Dante mescolerebbe poesia e filosofia  Nella premessa datata «novembre 1908» Croce scrive di aver trattato l'argomento nello scritto intitolato Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicato negli Atti dell’Accademia pontaniana nel 1905. In effetti però avverte Croce che il volume «È una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (B. Croce, Logica, Cent'anni di ricerca in Italia. Un passato da salvare, conferenza del prof. Carlo Bernardini, dal sito Centro Studi Enriques, B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari. Quel che si scrivevano Einstein e Croce  Dimenticare Croce? (Corriere della Sera)  La scienza negata. Il caso italiano, Codice Edizioni, l'Italia della scienza negata (dal blog de Il Sole 24 Ore)  Ministro dell'Istruzione del governo Mussolini, promotore della riforma scolastica varata in Italia nel 1923  Lucio Lombardo Radice in O. Pompeo Faracovi (a cura di), Federico Enriques, Approssimazione e verità, Belforte, Livorno 1982  Giulio Giorello, Dimenticare Croce?, in Il Corriere della Sera, L'arretratezza dell'Italia in campo scientifico è il risultato di cattive scelte dei politici da una parte e di resistenze culturali e di incapacità degli scienziati stessi a comunicare dall'altra e che quindi risultano indipendenti dall'idealismo crociano. A livello culturale, casomai, esistono altre forze che potrebbero essere imputate del ritardo scientifico, si veda per esempio la nefasta influenza della Chiesa in merito ad alcuni aspetti delle ricerche bioetiche. La mia perplessità nei confronti di Croce non riguarda le pretese conseguenze della sua filosofia sullo sviluppo tecnico-scientifico del nostro Paese. Mi sembra che sia una polemica datata e ormai superata. Non credo che dalle posizioni antiscientifiche di Croce derivi un ritardo della società italiana nei confronti della scienza. Quella di Croce è una filosofia interessante sotto altri profili, ma poco interessante, quando si parla di scienza e quindi è deficitaria sotto il profilo di una seria trattazione del problema della conoscenza.» (Giulio Giorello), in È vero che Croce odiava la scienza? - Dialogo tra Giulio Giorello e Corrado Ocone, Vincenzo Matera, Angela Biscaldi, Mariangela Giusti, Elena Pezzotti, Elena Rosci, Scienze umane - Corso integrato, Marietti Scuola,9.  Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Lorenzo Benadusi, Giorgio Caravale, George L. Mosse's Italy: Interpretation, Reception, and Intellectual Heritage, Palgrave Macmillan, Sambugar, Salà, Letteratura italiana  Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali di Leopardi, ed. Garzanti  Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano  Croce, Schopenhauer e il nome del male  Si riferisce a d'Annunzio, Fogazzaro e Pascoli  Riportato in Mario Pazzaglia, Letteratura italiana III  Benedetto Croce, Del carattere della più recente letteratura italiana, in Letteratura della nuova Italia, Bari, Dino Biondi, Il Resto del Carlino, Edizioni Nazionali istituite anteriormente alla legge su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, concernente l'«Edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce. Integrazione della composizione della Commissione» su Ministero per i Beni e le Attività Culturali, VISTO il D.P.R. 14 agosto 1981 istitutivo dell'Edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce».Bibliografia Guido Fassò, Croce, Benedetto, in Novissimo Digesto Italiano, diretto da A. Azara e E. Eula, Torino, Utet, Carlo Antoni, Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Alfredo Parente, Il pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, Sergio Solmi, Il Croce e noi, in "La Rassegna d'Italia", La letteratura italiana contemporanea, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi). Fausto Nicolini, Benedetto Croce, Utet, Torino, Ottaviano Giannangeli, Benedetto Croce a Raiano, in "L'Osservatore politico letterario", Milano-Roma, (ora in Id., Operatori letterari abruzzesi, Lanciano, Itinerari). Damiano Venanzio Fucinese, Dieci lettere inedite di Croce, in "Dimensioni", Lanciano, Ulisse Benedetti, Benedetto Croce e il Fascismo, Roma, Volpe Rditore, Roma, Gennaro Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, Nicola Badaloni, Carlo Muscetta, Labriola, Croce, Gentile, Roma-Bari, Laterza (in part. di Muscetta: La versatile precocità giovanile di Benedetto Croce. Profilo della sua lunga operosità, Critica e metodologia letteraria di Croce, Croce scrittore: multiforme unità della sua prosa). Gianfranco Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, in Altri esercizi, Torino, Einaudi, Gennaro Sasso, La "Storia d'Italia" di Benedetto Croce. Cinquant'anni dopo, Napoli, Bibliopolis,  Paolo Bonetti, Introduzione a Croce, Editori Laterza, Claes G. Ryn, Will, Imagination and Reason: Babbitt, Croce and the Problem of Reality (1986). Emma Giammattei, Retorica e idealismo, Il Mulino, Bologna, 1987. Gennaro Sasso, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989. Giuseppe Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano, Il Saggiatore, Croce e la cultura meridionale. Atti del convegno di studi, Sulmona-Pescasseroli-Raiano, a cura di Giuseppe Papponetti, Pescara, Ediars, Toni Iermano, Lo scrittoio di Croce con scritti inediti e rari, Napoli, Fiorentino, Antonio Cordeschi, Croce e la bella Angelina. Storia di un amore, Milano, Mursia, Gennaro Sasso, Filosofia e idealismo. I - Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, Pier Vincenzo Mengaldo, "Benedetto Croce", in: Profili critici del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Giovanni Sartori, Studi crociani, Bologna, Il Mulino, Ottaviano Giannangeli, Croce e la riconquista dell'Abruzzo e Due monografie e un appunto, in Scrittura e radici. Saggi, Lanciano, Carabba, Croce filosofo. Atti del convegno internazionale di studi in occasione del 50º anniversario della morte: Napoli-Messina, Soveria Mannelli, Rubbettino, Ernesto Paolozzi, L'estetica di Benedetto Croce, Napoli, Guida, Fabio Fernando Rizi, Benedetto Croce and Italian fascism, University of Toronto Press, Toronto, M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, I. Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Napoli, Bibliopolis, Maria Panetta, Croce editore, Napoli, Bibliopolis, Guido Verucci, Idealisti all'indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant'Uffizio, Laterza, Roma-Bari, Girolamo Cotroneo, Croce filosofo italiano, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Gembillo, Benedetto Croce, filosofo della complessità, Soveria Mannelli, Rubbettino, Antonio di Mauro, Il problema religioso nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, FrancoAngeli. Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Marcello Mustè, Croce, Carocci, Roma, Emma Giammattei, I dintorni di Croce. Tra figure e corrispondenze, Napoli, Guida, Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Macerata, Liberilibri,G. Galasso, La memoria, la vita, i valori. Itinerari crociani, a cura di E. Giammattei, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici - il Mulino, Carlo Nitsch, «Diritto»: studio per la voce di un lessico crociano, in JusOnline, IV. Pirro, filosofia e politica in Benedetto Croce, Roma, Bulzoni, G. Sasso, Croce. Storia d'Italia e Storia d'Europa, Napoli, Bibliopolis, Michele Lasala, Il lirico sospiro di un istante. L'estetica crociana e i suoi critici, in "Quaderni di Diacritica", Roma, Diacritica Edizioni, Roma, G. Sasso, Croce e le letterature e altri saggi, Napoli, Bibliopolis, Silvestri Paolo, “Rileggendo Einaudi e Croce: spunti per un liberalismo fondato su un’antropologia della libertà”, Annali della Fondazione Luigi Einaudi, Silvestri Paolo, “Liberalismo, legge, normatività. Per una rilettura epistemologica del dibattito Croce-Einaudi”, in R. Marchionatti,Soddu (Eds.), Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella politica del Novecento, Leo Olschki, Firenze, Silvestri P., Economia, diritto e politica nella filosofia di Croce. Tra finzioni, istituzioni e libertà, Giappichelli, Turin, Giuseppe Russo, Croce e il diritto: dalla ricerca della pura forma giuridica all'irrealtà delle leggi, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia del diritto, Voci correlate Istituto italiano per gli studi storici Fondazione Biblioteca Benedetto Croce Liberalismo Manifesto degli intellettuali antifascisti Premio nazionale di cultura Benedetto Croce. Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Benedetto Croce, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Benedetto Croce, su Dictionary of Art Historians, Lee Sorensen.Opere di Benedetto Croce / Benedetto Croce (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Benedetto Croce, su Open Library, Internet Archive.Opere di Benedetto Croce, su Progetto Gutenberg.Audiolibri d su LibriVox.(FR) Pubblicazioni di Benedetto Croce, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.Bibliografia di Croce, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.Benedetto Croce, su storia.camera, Camera dei deputati.Benedetto Croce, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.Benedetto Croce, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scheda sul sito del Senato, su notes9.senato. L'Istituto italiano per gli studi storici fondato da Benedetto Croce, su iiss. La Fondazione Biblioteca Benedetto Croce, su fondazionebenedettocroce. Una bibliografia di Benedetto Croce, su rivista.ssef. Una bibliografia di Benedetto Croce con corredo di riassunti delle opere e piccoli s aggi, su nuovorealismo.Biografia di Benedetto Croce con elenco opere, su giornaledifilosofia.net. Il problema dell'impressione nella ricerca filosofica del giovane Croce, su giornaledifilosofia.net. L'elenco dei volumi dell'Edizione Nazionale, su bibliopolis. Benedetto Croce, su Camera - Assemblea Costituente, Parlamento italiano. Le riviste di Benedetto Croce on line. Accesso full text a «La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia» ai «Quaderni della “Critica”» su bibliotecafilosofia.uniroma1. Benedetto Croce, il filosofo liberale, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Alessandra Tarquini, Benedetto Croce, il filosofo liberale, Radio3, Benedetto Croce. Croce.  Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Croce: implicatura: intenzione, espressione, e communicazione”

 

Curcio (Noto). Filosofo. Grice: “Curcio is what we could call at Oxford a poet; he wrote a little book ‘Esistentee,’ an obvious parody on Sartre, ‘L’essistentialismo e un umanesimo.’ – His background is philososophical though, and it shows!” Ensegna a Noto e Messina. Direttore Generale per l'Ordine Ginnasiale.  Altre opere: “Armonia e dissonanza” – consonanza e dissonanza (Noto) – etimologia di armonia – cognata con ‘armento’ e ‘aritmetica’ – “La sfinge” – “La piramide”. “Il prezzo della salute” (Noto). Commenti, libri I-XXIV – Roma” – “Il giro del templo” (Bonacci, Roma); “Mottetto” (Bonacci, Roma); “Fugato” (Bonacci, Roma); “II grano di follia” (Bonacci, Roma); “Senza più peso” (Bonacci, Roma); “Assolo, (Bonacci, Roma); “A due voci” (Bonacci, Roma); “L'avita vocazione” (Bonacci, Roma); “Esistente” (Bonacci, Roma); “Altri occhi” (Bonacci, Roma); “Le due cene” (Bonacci, Roma); “Sitio” (Bonacci, Roma); “Consummatum” (Bonacci, Roma); “Derelictus” (Bonacci, Roma); “In horto” (Bonacci, Roma); “Paradossale” (Bonacci, Roma); “Felix” (Bonacci, Roma); “Deliramentum” (Bonacci, Roma). Corrado Curcio. Curcio. Keywords: esistenti -- Lucrezio, Foscolo, Leopardi, Alighieri, Gentile, Diano, Sicilian philosophy. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curcio” – The Swimming-Pool Library.

 

Curi (Verona). Filosofo. Grice: “I like Curi; unlike me, we would call him a prolific philosopher; my favourite are his reflections on ‘eros’, ‘amore’ and bello, but he has also written on various topics related to maleness --  Si laurea a Padova. Insegna a Padova. Membro dell’Istituto Gramsci Veneto. Formatosi alla scuola di Diano, Gentile e Bozzi, incontra Cacciari. A partire da quel topos, si avvia un sodalizio estremamente solido e fecondo, all'insegna di una comune ricerca del nuovo, e di un impegno teoretico rigoroso, che va oltre il piano strettamente della speculazione, in direzione di una pratica civile. Filosofa sul nesso politica-civilita e guerra e sul concetto di ‘polemos’ – cf. Grice epagoge/diagoge “”War is war” – Eirene --, lungo la linea che congiunge Eraclito a Heidegger. Valorizza la narrazione, sia intesa come mythos, sia concepita come opera cinematografica. Medita su alcuni temi fondamentali dell'interrogazione filosofica, quali l'amore e la morte, il dolore e il destino.  Altre opere: “Endiadi: figure della dualità” (Feltrinelli, Milano); “La filosofia come ‘bellum’” (Bollati Boringhieri, Torino); “La forza dello sguardo” – Lat. vereor – warten: to see --; “Meglio non essere nati: la condizione umana” – cf. la condition humaine”, Malraux); “Lo schermo” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano).Quello che non e filosofo, ma ha soltanto una verniciatura di casi umani, come il maschio abbronzato dal sole, vedendo quante cose si devono imparare, quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata di ogni giorno, giudica che sia una cosa difficile e impossibile per lui. A questo maschio bisogna mostrare che cos'è davvero la filosofia, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta.” (Platone, Lettera settima). La libertà non è soltanto l'essere-liberati DA lle catene né soltanto l'esser-divenuti-liberi PER la luce, ma l'autentico essere-liberi è essere-liberatori DA il buio. La ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto "libero" possa concedersi così per svago, magari per curiosita. E esser-ci dentro tutto, essa soltanto, il compimento autentico del divenire liberi. Heidegger, L'essenza della verità, Franco Volpi, Milano).Ne “La brama dell'avere” si ha un attento e puntuale riesame sia storico-filosofico che critico-filologico della fondamentale categoria esistenziale dell'”avere” – “the have and have-nots” --  alla luce dell'odierno assetto socio-comunitario. Cf. Grice on “H” for “Hazzes” “x H y”  Curi focuses on ‘ekhein’ which would then correspond to Grice’s “H” --. Altre opere: “Il coraggio di pensare, manualistica di filosofia, Loescher editore, Torino); “Il problema dell'unità del sapere nel comportamentismo” (CEDAM, Padova); “Analisi operazionale e operazionismo” (CEDAM, Padova); “L'analisi operazionale della psicologia” (Franco Angeli, Milano); “Dagli Jonici alla crisi della fisica” (CEDAM, Padova); “Anti-conformismo e libertà intellettuale: per una dialettica tra pensiero e politica” (Padova) – cfr. Grice on non-conformismo – “Psicologia e critica dell'ideologia” (Bertani, Roma); “La ricerca” (Marsilio, Venezia); “Katastrophé. Sulle forme del mutamento scientifico” (Arsenale Cooperativa, Venezia); “La linea divisa. Modelli di razionalita' e pratiche scientifiche nel pensiero occidentale” (De Donato, Bari); “Pensare la guerra. Per una cultura della pace” (Dedalo, Bari) – cf. Grice on ‘eirenic effect’ – pax et bellum – si vis pacem para bellum. ex bello pace. “Dimensioni del tempo” (Franco Angeli, Milano); “Einstein” (Gabriele Corbo, Ferrara); “La cosmologia filosofica” (Gabriele Corbo, Ferrara); “La politica sommersa. Per un'analisi del sistema politico italiano, Franco Angeli, Milan); “Lo scudo di Achille. Il PCI nella grande crisi” (Franco Angeli, Milano); “L'albero e la foresta. Il Partito Democratico della Sinistra nel sistema politico italiano, con Paolo Flores d'Arcais, Franco Angeli, Milano); “Metamorfosi del tragico tra classico e moderno, Bari); “La repubblica che non c'è” (Milano); “Poròs. Dialogo in una società che rifiuta la bellezza, Milano); L'orto di Zenone. Coltivare per osmosi” (Milano); “Amore duale” (Feltrinelli, Milano); “Platone: Il mantello e la scarpa” (Il Poligrafo, Padova); “Pensare la guerra. L'Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari); “Pólemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino); Ombra della’ idea. Filosofia del cinema fra «American beauty» e «Parla con lei», Pendragon, Bologna); “Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bruno Mondadori, Milano); “Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica, Marinotti, Milano); “La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino); “Skenos. Il Don Giovanni nella società dello spettacolo” (Milano); “Libidine” (Milano). Un filosofo al cinema, Bompiani, Milano); Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino); Miti d'amore. Filosofia dell'eros, Bompiani, Milano); Pensare con la propria testa” (Mimesis, Milano); “Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Passione” (Raffaello Cortina Editore, Milano . La porta stretta. Come diventare maggiorenni” (Bollati Boringhieri, Torino); “I figli di Ares. Guerra infinita e terrorismo, Castelvecchi, Roma . La brama dell'avere; Il Margine, Trento); “Il mito di Narciso sul  Umberto Curi. Keywords: have, habere, habitus, comportamentismo, behaviourism. La brama dell’avere, anticonformismo, guerra e pace – Eirene – cosmologia anthropologia – l’orto di Zenone – lo scudo d’Achille – I figli di Marte --  il mantello e la scarpa libido -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Curi” – The Swimming-Pool Library.

 

Cusani: (Solopaca). Filosofo. Grice: “I love Cusani; for one, I was born at Harborne, but nobody cares; Cuasani was born in Solopaca, and there’s a ‘corso Cusani’, and a ‘Biblioteca Cusani’.” Grice: “Cusani would have been friend with Bosanquet; both are Hegelians – Italians, after SOME Germans, were the first to endorse the philosophy of the absolute spirit inmanent to dialectic – Cusani does attempt to respond to a criticism on the ‘assoluto’ brought up by Hamilton (of all people), and consdtantly refers to the ‘metafisica dell’assoluto’ – a ‘progetto,’ he humply titles it!” Figlio di Filippo e Caterina Cardillo, nacque al capoluogo distrettuale e di comprensorio del Regno delle Due Sicilie. Membro dei Pontaniani. Frequenta il circolo del marchese Basilio Puoti, insieme a Sanctis e Gatti.  Punto di partenza della sua filosofia, comune a buona parte del circolo del’hegelismo di stanza a Napoli, dei quali e un esponente, fu Cousin, il fondatore della “storiografia filosofica”. Insegna a Montecassino, e al collegio Tulliano di Arpino, dove fu affiancato da Spaventa, chiamato poi a sostituirlo. Si stabilisce a Napoli nel proprio studio privato. I saggi di Cusani furono pubblicati su “Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti” e “Museo di filosofia”. La seconda fu da lui stesso fondata. Molti dei saggi di filosofia più impegnati furono pubblicati in L’Antologia, di Firenze. Scrisse inoltre note e recensioni nel periodico l'Omnibus e nella Rivista napolitana.  Molte delle sue opere sono archiviate presso la Biblioteca "Stefano Cusani" di Solopaca.  Idealista hegeliano ed esponente dell’ecletticismo filosofico di Cousin. Opere: “Della fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva”; “Del metodo filosofico”; “Storia dei sistemi filosofici”; “Della materia della filosofia e del solo procedimento a poterlo raggiungere”; “Il romanzo filosofico”; “La poesia drammatica”; “L’assoluto – l’obbjezione d’Hamilton”; “Logica immanente e logica trascendentale”; “Compendio di storia di filosofia”; “Della lirica considerata nel suo svolgimento storico e del suo predominio sugli' altri generi di poesia”; “Economia politica e sua relazione colla morale”; “L’essere e gli esseri: disegno di una metafisica”; “Percezione dell’esistenza”. Nel comune di Solapaca è stato indetto nel  un anno di celebrazione in occasione del centenario della nascita nel comune di Solopaca. Il corso Stefano Cusani gli è stato intitolato a Solopaca. Sanctis lo cita nella autobiografia. Cusani dato alla stessa filosofia, ha maggiore ingegno del superbissimo Gatti, ed e mitissima natura d'uomo. Sale al tavolo degli oratori con tale fervore dialettico che a tutta la persona grondava onorato sudore» (G. Giucci, Degli scienziati italiani formanti parte del VII congresso in Napoli nell'autunno del 1845: notizie biografiche, Napoli.  L'amico coetaneo Cesare Correnti, patriota milanese legato ai circoli Napoli, insegnante nella Scuola di lingua italiana da lui fondata, gli dedicò un necrologio. Ecco un altro amico, un'altra fiorita speranza di questa nostra Napoli sparire a un tratto a noi d'intorno. Ben dissi a un tratto, poiché la sua non lunga malattia parve un momento agli amici. La filosofia specialmente nol sedussero, in modo che a più severi studi non volgesse l'acuto e fervidissimo spirito, e a bella armonìa si composero nell'anima sua. Rivista europea», ripr. in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma). «Rivista europea», ripubblicato in Scritti scelti, T. Massarani, Forzani, Roma, Dizionario biobibliografico del Sannio, Napoli, "Il Progresso", "Il Lucifero","Omnibus"; "Rivista napolitana", Sanctis, La letteratura ital. nel sec. XIX, II, La scuola liberale e la scuola democratica N. Cortese, Napoli; G. Oldrini, Gli hegeliani di Napoli. A. Vera e la corrente "ortodossa" (Milano); F. Zerella, Filosofia italiana meridionale”; “Dall'eclettismo all'hegelismo in Italia”. Cusani e la filosofia italiana: Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Nasceva in Solopaca, una volta Distretto di Caserta, oggi Circondario di Cerreto Sannite (Benevento) il 23 dicembre 1816, Stefano Cusani da Filippo e Caterina Cardillo. Suo padre, insigne avvocato, fu sollecito della educazione di questo come di altri quattro suoi figliuoli, che, affidati alle cure di un suo fratello germano a nome Matteo, sacerdote, mandolli in tenera età a imcominciare e compiere i loro studî in Napoli. Ivi Stefano, ch'era il secondogenito di cinque fratelli, frequentava i più rinomati Istituti privati di quel tempo (che allora l'insegnamento pubblico esisteva sol di nome),  si distingueva fra gli altri condiscepoli in ognuno di questi, così che in breve, compiuti gli studi letterarî fu giocoforza mettersi a studiare le scienze della facoltà che doveva seguire. Fu questo il solo brutto periodo di sua vita. Suo padre voleva fare di lui un Avvocato civile, come suol dirsi, e quindi fu obbligato a studiare leggi e pandette, per le quali discipline non si sentiva la benchè minima inclinazione, anzi, a dir vero, sentiva per esse la più marcata avversiono; ma buon figlio e docile essendo, per non dispiacere al padre, che tanti sacrifizî avea fatti e faceva per lui, come per gli altri fratelli, a malincuore sempre, ma sempre tacendo, giunse fino ad esser Avvocato, ed a fare la pratica presso uno de'luminari del Foro Napoletano. Da questo momento incomincia il suo grande sviluppo intellettuale. Non potendone più, la rompe col padre, dicendosi avverso ai processi, ed allo studio di essi, e ad ogni altro artifizio da causidico. La rompe con quella pratica noiosa, che tralascia ed abbandona; ed ottiene dal padre stesso, che ragionevole e savio uomo era, di poter attendere a quegli studi che più alla sua indole si affacevano. Fioriva in quel tempo, a Napoli, la scuola del Marchese Basilio Puoti, ed egli, incontratosi con Stanislao Gatti che fu poi indivisibile amico e compagno, vi si getto a capofitto, e fu in poco tempo il più caro e pregiato discepolo del Marchese, come l'amico e compagno del De Sanctis, del Mirabelli, e di tutta quella pleiade che in quel tempo arricchirono Napoli di filosofi insigni.  Ma a quell'ingegno che s'andava ogni giorno più sviluppando e fortificando di sani e severi studî, parve angusto oramai quest'orizzonte, o volse l'ala, e la di instese con intensità ed ardore allo studio della filosofia. Ben cinque anni decorsero di volontaria prigionia nel suo studiolo, ovo ridottosi, o giorno e notte indefessa mente attendeva a' prediletti studî, e si beava di leggere Platone nel testo, chè familiare la lingua gli era ; come pure si fece a studiare la lingua alemanna per  mettersi al corrente dei progressi della filosofia, e per meditare e studiare le dottrine e teorie dell'Hegel, ultimo filosofo tedesco di quella epoca.  Uscito dopo questa epoca a nuova vita incominciò a scrivere sul Progresso, una Rivista di scienze e letteratura, diretta dal Baldacchini, articoli su questioni filosofiche; e, dopo un anno, era già conosciuto in tutta la Napoli pensante. In questo torno di tempo si apri un concorso per la Cattedra di filosofia e matematica, nel Collegio Tulliano di Arpino, e lui fu prescelto per titoli ad occuparla. Vi andò e vi trovò il suo amico Emmanuele Rocco, che v'insegnava letteratura. Vi stette un anno e vedendosi in una cerchia troppo angusta alla sua attività, si dimise, e fece ritorno in Napoli, conducendo con sè anche l'amico Rocco. Quivi apri studio privato unitamente al Gatti di filosofia, e dal bel principio quello studio fioriva per numerosa gioventù, che accorreva a udire le sue lezioni. In breve fu lo studio più affollato di Napoli. Le ore che aveva libere dallo insegnamento le occupava a scrivere articoli di filosofia che si pubblicavano sulle Riviste Napoletane di quel tempo, il Progresso che usciva in fascicoli voluminosi, la Rivista Napoletana di Scienze, Lettere ed Arti, il Museo di Scienza e Letteratura, ove collaboravano per la lor parte Antonio Tari, Francesco Trinchera, ed altri; e sul Progresso il Colecchi  ed altri.  Non andò guari e s'incontrò col Mamiani in quistioni di alta Metafisica, o ne usci onorato dell'amicizia e della riverenza dell'insigno filosofo. Il suo intelletto altamente speculativo destava ammirazione perchè si elevava ad altezze tali filosofiche che non gli si potevano contrastare. In quel tempo si agitò una polemica tra V. Cousin, filosofo francese, ed un insigne filosofo inglese, il cui nome ora non mi sovviene; dopo varî articoli scambiatisi parea che l'inglese avesse preso il di sopra, ed il Cousin, che lui credeva più dell'altro stare nel vero, avesse dovuto soccomberé. Allora senza frapporre tempo in mezzo egli entrò terzo nella quistione e scrisse epubblico una serie di articoli che costrinse l'inglese a desistere dalla polemica, ed il Cousin a scrivergli una lettera di ringraziamenti e di felicitazioni, e con la quale lo chiamava, e si firmava suo cugino.  Si radunava il Congresso dei Filosofi in Napoli nell'ottobre del 1845, o lui ne dovea far parte; ma non sapendosi se il Borbone lo avesse permesso, o meno, erasi ridotto in patria a villeggiare con la moglie e due piccini, l'uno lattante e l'altro di due anni. Il Congresso fu permesso, i filosofi si riunirono in Napoli, e lui fu invitato espressamente a farvi ritorno; che anzi il Presidente della Sezione “Filosofia speculativa” a cui egli apparteneva, non volle aprire la sessione s'egli non fosse arrivato. Cosi corse in Napoli solo, lasciando in patria la famiglia, che poi sarebbe andato a rilevare, dopo finito e sciolto il Congresso. Fu questa la causa della sua morte! Arrivato in Napoli vede gli amici - con essi si intrattiene passeggiando -- suda; è l'ora già che s'apre la Sessione -- essi ve lo accompagnano a piedi per goderselo di più -- vi si arriva. Egli era sudatissimo -- entra e n'esce dopo quattro lunghe ore di discussione; quel sudore lo avea già colpito a morte. Si riduce a casa, si ricambia le mutande - la camicia  era troppo tardi! Incomincia dopo poco tempo una tosse secca, stizzosa, ch'egli non cura, perchè forte e robusto era; e questo fu il peggiore dei divisamenti. Ritorna in patria per ripigliare la famiglia e ridursi in Napoli, poiché si era alla vigilia del novembre. Si riapre lo studio, si riprendono le lezioni; il maggior numero degli alunni affluito gli rinfocola l'ardore, ch'ei metteva in esse, e parla dalla cattedra per lunghe ore, e poi agli alunni più provetti che gli propongono dubbi o problemi a risolvere, parla pure ad alta voce, e quella tosse insidiosa non lo lascia, anzi invida della sua noncuranza lo avverte spesso del suo malefico potere, interrompendogli il discorso, e forzandolo per poco a tacere. Le cose durarono ancora così per altri 10, o 12 giorni, e finalmente la emottisi tenne dietro a quella tosse funesta, e fu giuocoforza sottomettersi a quanto l'arte salutare poteva e sapeva consigliare, ma invano tutto! Chè una tisi florida si svolse, ed in meno di due mesi si spense la robusta complessione di S. Cusani! Tale fu quest'uomo, che a 30 anni la morte rapiva a'suoi, alla scienza, alla patria. Nato a 23 dicembre 1816, moriva a 2 gennaio 1816. Dissi rapito alla patria, e giustamente, poichè egli da giovanissimo appartenne alla Giovine Italia, e in Napoli fu sempre il più ardente fra i patrioti. Egli con altri preparò e cooperò con ardore al movimento del '18 che poi non potė vedere! La sua casa era il convegno di Carlo Poerio, L. Settembrini, S. Spaventa, P. Mancini, e di tutti gli altri illustri compromessi politici di quel tempo, con i quali  si congiurava, si faceva propaganda, e si organizzava la rivoluzione. Fu cosi caro a questi tutti che se un giorno solo nol vedeano, si tenea por certo la visita loro in sua casa; ed il Poerio, addoloratissimo della sua malattia, volle ed ottenne che fosse stato medicato, curato ed assistito infino all'ultimo istante di sua vita dal fido o dotto medico Alessandro Lo Piccolo. L'esequie furono imponenti pel concorso di amici, che  formavano tutte le notabilità scientifiche, patriottiche e letterarie. Il lutto per la sua perdita fu sentito generalmente per Napoli, che in lui salutava la giovine scienza, e che per lui si metteva a paro di altre città d'Italia, che fiorivano per altissimi ingegni ed insigni filosofi, come il Mamiani, il Rosmini, il Gioberti, ed altri, se quella vita non si fosse spenta nel mezzo del cammino! La cura della filosofia di Cusani d’Ottonello ha il merito di riproporre all’attenzione una figura di rilievo della cultura filosofica napoletana dell'Ottocento. Benché scomparso in giovanissima età, nel gennaio 1846 (eranato nel dicembre del 1815, o forse del 1816, come i piú sostengono), Cusani lascia di sé traccia profonda, testimoniata dalla considerazione in cui e tenuto, per tacer d’altri, da Sanctis, o dalla valutazione che di lui dette Gentile. Con Gatti ed altri può essere inserito - come nota il curatore nella nitida e puntuale introduzione nell'ambito dell'hegelismo napoletano, oltrecché in quello piú generale dell'eclettismo alla Cicerone. Opportunamente si avverte però che Hegel costituisce per Cusani un potente polo d'attrazione, ma non il filosofo fondamentale. In realtà si può forse con fondamento aggiungere, pur senza ricorrere ad una indagine falsamente sottile, che resta in ombra, nellepur autorevoli e acute analisi dedicate alle ascendenze cousiniane ed hegeliane di Cusani, un filosofo fondamentale che sicuramente ispira la filosofia piú significativa di Cusani: Vico. La costruzione del sistema eclettico cui Cusani dichiara di dedicarsi segna una fase già tarda dell'eclettismo napoletano e giungeva al termine di un decennio assai ricco di suggestioni in questa direzione negli ambienti culturali napoletani. È sicuramente da condividere l'affermazione del curatore secondo il quale il sincretismo avvertibile in Cusani non impedisce però l'emergere di un nucleo speculativo che deborda dalla semplice trama delle affermazioni altrui. In questo senso il problema del metodo filosofico e il connesso problema della storia italiana segnano sin dall’inizio lo sforzo speculativo di Cusani, la cui originalità trova subito sulla sua strada Vico. Collaboratore della Temi napoletana, dell'Omnibus letterario, scrive prevalentemente sul “Progresso.” Sin dalprimo scritto, Filosofia in Italia, il tema della storia italiana appare questione teorica centrale. Non a caso una ricerca storica da l'occasione a Cusani di porre il problema che gli sta acuore, sin dalla citazione tratta da Guizot che apre la nota. I fatti sonomeme affermazioni al problema della storia trova subito sumanibus letterario ma are i grandiuti al fatto che risguardato, en per il pensiero, ciò che le regole della morale sono per la volontà. Egli è tenuto di conoscerli, e di portarne il peso, ed è solo allorché ha sodisfatto a questo dovere, e ne ha misurato e percorso tutta l’estensione, che gliè permesso di montare verso i risultamenti razional. Il rinnovato interesseper la storia italiana che si registra-- che né l'Antichità, né i tempi di poco anteriori a questi che viviamo avevano mai risguardato -- non sembrano a Cusani casuali, ma dovuti al fatto che l'intendimento si rivolge a indagare i grandi ordini di fenomeni per scoprire e prendere inconsiderazione i fatti e le ragioni, una storia ed una filosofia. Il bisogno di comprendere e giudicare il fatto, piuttosto che esserne solo spettatore (e dunque di verificare una diversa attitudine della storia italiana), esalta questa parte immortale della Storia, cioè il conoscere il legamento fatalista della causa e dell’effetto, le ragioni, i fatti generali, le idee da ultimo ch'essi celano sotto il manto della loro esteriorità. Onde ch’egli è d'uopo sceverar con chiarezza e con precisione la differenza di queste due parti della storia italiana che sono per cosí dire il corpo e l'anima, la parte materiale, e la parte spirituale di tutti gli avvenimenti esterni e visibili, che compongono la nazione italiana, secondo che dice Vico. Il rifiuto, che Cusani trae dalla lezione vichiana, di affidarsi a pre-mature generalità, e con formole metafisiche per soddisfare il mero bisogno intellettivo, è una traccia decisiva per comprendere il suo pensiero. L'annotazione di Gentile, secondo il quale l'osservazione storica non è piú l'integrazione della psicologia, bensí la costruzione stessa della filosofia, può commentare l'intero itinerario filosofico di Cusani, che si consuma nell'arco di pochissimi anni. Il discorso sul metodo che Cusani compie si basas in dall'inizio su una acquisizione precisa: un sistema o una filosofia consistono nel loro stesso metodo. Nel primo saggio veramente organico (Del metodo filosofico e d'una sua storia infino agli ultimi sistemi di filosofia che sono si veduri uscir fuori in Germania – Hegel -- e in Francia -- Cousin) Cusani parla addirittura di un metodo generale, il quale presiede all'investigazione dell'unica e universal verità. La filosofia è dunque la regina scientiarum che consente di ricondurre ad “unità” il sapere, e a tal pro-posito l'assimilazione dei termini è dichiarata apertamente, a proposito dell’analisi psicologica, la quale segna il punto di partenza della riflessione, ed è la base unica dell'immenso edificio filosofico, il solo solido fondamento, il suo atrio e il suo vestibolo. E nel saggio, “Del reale obbietto di ogni filosofia” (Il Progresso) ribadisce e chiarisce che lo studio de’ fatti della natura umana, o de’ fenomeni psicologici, vuoto del tutto riuscirebbe, se invece di tenerlo come base d'ogni ulteriore investigazione, si volesse considerare come il termine stesso della filosofia. Il secolo decimottavo si è trovato dunque di fronte al centrale problema del metodo filosofico. Se è vero che nella storia italiana è tutta quanta la filosofia italiana, occorre riconoscere il merito insuperabile di quella mente divinatrice e profonda che avea posta nel mondo la nazione italiana. Vico, definito – nella nota sul Nuovo Dizionario de sinonimi della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, quell'altissimo lume d'Italia, con una locuzione che introduce un discorso, ingiustamente trascurato, sulla tradizione filosofica meridionale, piú volte ripreso dal Cusani. Lo studio di Vico qui esaminato è appunto il “De antiquissima Italorum sapientia”; nel quale potentemente convinto della relazione che stà tra il pensiero (l’animus, il segnato) e la parola (il segno), fecesi ad investigar quello degli antichi romani e italici nostri maggiori, cavandolo per avventura da quella lingua italiana ch'era nelle bocche volgari degli uomini. Il rapporto tra spontaneità e riflessione, che tanta parte ha in Cusani, è dunque introdotto sotto il segno di Vico. Si ponga mente alle affermazioni che seguono il passo già citato, allorché Cusani insiste sul fattoche veramente il Vico porta opinione che tutto l'antico (antichissimo) pensiero o sapienza italiana era in quella lingua italiana ch'egli disamina, e dalla quale intende rimetterlo in luce, e che se la lingua italiana non e opera di un filosofo, ma sibbene il prodotto spontaneo delle facoltà nell'uomo italiano, se innanzi che venissero adoperate nella costruzione e nel concepimento del sistema di un filosofo, di cui pur e il necessario strumento espressivo e communicativo, esisteva nella massa de’ popolo italiano. Insomma, quella che è stata chiamata la svolta hegeliana del Cusani, va valutata alla luce di una ispirazione legittimamente riferibile a Vico. Si veda il Saggio su la realtà della humanitas di Vincenzo De Grazia (Il Progresso), già sul crinale della svolta hegeliana. L'epigrafe di Cousin posta all'inizio ritorna sul problema che sta a cuore a Cusani, e che ne determina l'originale ricerca. Ci ha due spezie di filosofie. La prima spezie di filosofia studia il fatto, lo disamina, e lo descrive, riordinandoli secondo le loro differenze o somiglianze, e potrebbesi però denominare filosofia “elementare” o immanente. L’altra spezie di filosofia comincia ove si ferma la prima, investigando la *natura* de’ fatti, e intendendo di penetrare la loro ragione, la loro origine, il lor fine, e potrebbesi denominare filosofia trascendente, o filosofia prima. La citazione dai Frammenti filosofici serve in realtà a Cusani pergiungere alla fondamentale affermazione secondo cui, esaurita nel secolo precedente la filosofia elementare, e necessario che si cominciasse asentire il bisogno di nuovi problemi, e che l'ontologia ricomparisse nel dominio della speculazione filosofica. Insomma la disamina del fatto immanente elementare (il segno) deve servire a rintracciarne la natura, le origini, le relazioni, che è il vero fine supremo della filosofia prima. Ma questo è possibile (e l'eclettismo di Cusani si dimostra non mero sincretismo, ma sapiente innesto di elementi concorrenti a rafforzare le personali ipotesi speculative) soprattutto all’italiano, chi può vantare una tradizione filosofica ininterrotta che ha in Vico il suo vate supremo. Il bisogno dell’ontologia ha ulteriori ragioni in Italia, dove la filosofia trova terreno fecondo emotivo di continuità. Ed è la tradizione ontologica de’ filosofi italiani, e il predominio costante della filosofia prima o trascendente in Italia sulla elementare o immanente, non solo in tempi che era cagione universale nel mondo della scienza, ma eziandio allorché fortemente altrove ponevasi la base d'ogni filosofia ed all'apo genere a nostri e quell'indole elementare, e molto studiavasi in essa. Di qui nacque quell'indole speculativa che si è sempre accordata in genere al filosofo italiano, anche quando discendevano alla pratica ed all'applicazione de’ principi. É di vero se si pon mente alla Storia, e si consideri che dalla scuola italica di Crotone o da Pittagora suo fondatore, passando per i filosofi di Velia (Senone), arrivando fino all’apparizione di quella meraviglia del Vico, si troverà che la verità da noi accennata apparisce luminosa e in tutta la sua pienezza. Dunque continuità della tradizione, rivendicazione della propria originalità speculativa, e soprattutto applicazione esemplare del metodo storico come proprio della storia della filosofia. Già affrontando il problema della fenomenologia semiotica, Cusani non manca di annotare, con una affermazione che resta sostanzialmente immutata nella sua produzione, a riprova del vichismo naturale della sua ispirazione, che l’italiano è cosí fortemente incluso intutta la morale che ne forma il subbietto perenne, e non si può farne astrazione senza far crollare tutto l'edificato da quelle. Del resto nel saggio Del reale obbietto d'ogni filosofia, posto sotto il segno di Vico – la cui “De constantia Philosophiae” fornisce l’epigrafe, Cusani ha chiarito che la umana intelligenza, di cui si ricerca e scopre una storia naturale, una volta esaurita l’investigazione della natura, ripiega progressivamente verso il subbietto stesso di quelle investigazioni, e rientrando dall'esterno nell'interno, fa se stessa obbietto della sua conoscenza. La morale nasconode questo percorso, allorché il filosofo ritorna sopra se stesso dopo indagare il mondo esterno. La svolta hegeliana può a questo punto arrivare, ma a sua volta innestandosi su questa ricerca di una legge onde si regge il mondo. Il dilemma su un oggetto immutabile della conoscenza, e della mutabilità al tempo stesso del fatto che il pensiero trascendente va indagando, diventatra la questione centrale. Spesso Cusani torna nella sua opera, che riesce difficile in questa sede indagare in dettaglio, sulle permanenze della storia italiana e sulle variazioni. Nel Saggio analitico sul diritto e sulla scienza ed istruzione politico-legale d’Albini, significativamente impostato il tema, e sempre ricorrendo a Vico. In Italia fu primo tra tutti Vico che intende ala ricerca d'un principio universale ed immutabile del diritto e che questo ponesse nella ragione, unica fonte dell'assoluta giustizia, distinguendo esattamente il diritto universale, o filosofico, dal diritto storico. Anzi, la debolezza della cultura filosofica italiana può essere addebitata al mancato studio di Vico il cui esempio non frutto gran bene, ch'io mi sappia all'Italia,non essendo le sue teorie accettate da'suoi contemporanei, perché forse troppo superiori all'intelligenza comune, fino al punto che l’italiano perde, com'a dire, la sua particolare fisionomia, rivestendo un'indole forestiera – come i fanatici di Hegel con la sua lingua foresteriera! -- Se non che questo che al presente diciamo fu molto piú pronunciato in Beccaria e Verri non furono che perfettissimi seguitatori dell'Helvelvinitius e del Rousseau, quanto all'ipotesi del Contratto sociale, che in il vichismo dunque, se accolto, avrebbe garantito la continuità e originalità della filosofia italiana. Infatti la cultura napoletana da in questo senso testimonianza della continuità speculativa della filosofia proprio attraverso la tradizione vichiana. Filangieri, ma soprattutto Pagano, ritennero l'elemento tradizionale italiano, che li riannodava a tutta l'erudizione. Anche quando nel Museo di letteratura e filosofia soprattutto, e la Rivista napoletana, piú evidente si coglie la lettura di Hegel, Cusani testimonia la persistenza sicura della lezione vichiana. Senza rotture, ma sviluppando le tematiche e gli interessi, nel saggio Della lirica considerata nel suo svolgimento storico, ove – come ha notato Oldrinisi incontra un esplicito richiamo alle lezioni hegeliane di filosofia della storia, Cusani riprende con vigore la questione fondamentale. Ora poiché l'uomo è il subbietto storico per eccellenza a volere istabilire lal egge che governa tutte le accidentalità variabili delle vicende umane, la filosofia non puo che cercarla nelle modificazioni della stessa umanita. Questo punto di partenza, che il Vico, per il primo, prescrisse alla filosofia della storia, facendo che le sue ricerche rientrassero nella coscienza psicologica dell’italiano, e si cercasse di spiegar questo per mezzo della sua propria natura, ma eziandio tutti i fatti di cui egli è causa, ingenera tanto vantaggio, che da un lato tolse la specie umana dall'esser considerata come mezzo da servire ad altri fini, e dall'altro la rialza sopra la natura, di cui vuole sene fare prodotto o artificio. In che misura l'hegelismo, rintracciabile nella preoccupazione di garantire l'unità del sistema attraverso l'unità della filosofia, deve tener con toda un lato della matrice vichiana del pensiero di Cusani e dall'altro dello sforzo di costruire l'edificio eclettico della filosofia in modo originale? Andrebbe qui indagato, con cura e minuziosità che questa sede non consente, il tema del senso comune in piú luoghi richiamato da Cusani. Sipensi al saggio apparso sul « Museo », Idea d'una storia compendiata della filosofia, proprio dove il tema della filosofia assume intonazioni sicuramente hegeliane. Purtuttavia, sebbene l'uomo sia conscio nell'intimo della sua coscienza della sua libertà, e riconosca in sé stesso il potere di cominciare una serie di atti, di cui egli è causa; ciò nondimeno non può non iscorgere eziandio, che la sua volontà è posta sotto il dominio e la soggezione d'una legge, che diversamente vien denominata secondo che diverse sono le occasioni, alle quali essa si applica, contrassegnandosi ora come legge morale, ora come ragione, ed ora comesenso comune. L'indipendenza speculativa che Cusani manifesta nel rimeditare tutti i contributi all'interno della sua riflessione è evidente, e su questo tema operante nei confronti dello stesso Vico. Esaminando la questione del fatalism e della libertà (giustamente si ricorda come sia questa la questione piú importante che si possa scontrare nella filosofia della storia, dai primi agli ultimi scritti presente inche di sua volone causar in Cusani), nell'Idea d'una storia compendiata della filosofia, Cusani ha qualcosa da rimproverare a Vico stesso, da altri peraltro erroneamente collocate tra gli storici fatalisti -- cosí Livio si distingue da Machiavello e da Vico; e sebbene Livio da maggiore influenza alla parte passiva e fatale dell’italiano nella storia; ciò nondimeno non si è data che ai secondi, a cominciar da Machiavello, la nota del storico fatalista. Se è vero infatti che Vico cerca nell'italiano il principio e la legge dello svolgimento dell'umanità, egli ebbe però il torto di essere esclusivo, in quanto non ha riconosciuto l'influenza della natura italiana sull'italiano. Si annota come a Cusani fin dai primi studi si affacci il dilemma tra pensiero come condizione e pensiero come condizionato: se una legge governa lo svolgimento dell'intelligenza, la storia è da intendersi fatalisticamente costretta entro i termini di una legge fissa del pensiero? Del resto in un saggio nel Progresso (e non compresa nei due volumi degli Scritti, forse perché firmata — come del resto altre note raccolte da Ottonello — con la sola sigla S. C.), Elementi di Fisica sperimentale e di meteorologia di M. Pouillet, Cusani ritorna sul metodo delle scienze e sulla accostabilità tra scienze morali e scienze fisiche. Dappoiché la scienza della natura e sottoposta nella sua ricerca a metodi certi e sicuri, e l'umana intelligenza punto da quelli non dipartendosi, seguitò attesamente le sue investigazioni, i progressi rapidi e continuati succedettero ai lenti e quasi invisibili dell'antichità. Il successo di queste scienze — come di ogni scienza — è nel metodo, cosi che da meglio che tre secoli lo spirito umano procede, in questa special branca delle sue conoscenze con tanta fidanza, e direi quasi, contanta certezza de' suoi risultamenti, che nissun'altra scienza per avventurapuò con questa venire al paragone. Si badi, le scienze fisiche non costituiscono altro che una special branca delle conoscenze dello spirito umano. Dunque occorre applicare anche alle altre branche metodi certie sicuri, come è possibile dal momento che la storia universale dell'Umanità, che pone la Storia al centro dell'investigazione, racchiude,com'a dire, in un corpo tutto lo svolgimento intellettivo della spezie. Ecco perché nel saggio Della lirica, a proposito della legge della evoluzione ideale dell'umanità nel progresso storico, Cusani nota che questo è di proprio particolar dominio di quella scienza, che sorta gigante in Italia per opera di quella maraviglia del Vico, costituisce ora il centro intorno a cui si svolgono tutti gli sforzi del secolo. Simili le espressioni usate nella recensione agli Elementi di Fisica sperimentale, allorché della storia universale dell'Umanità nota che forma a questi nostri tempi il punto di mezzo, intorno di cui si volge e gravita tutto il processo del lavori del secolo. Il ricco saggio “Idea d'una storia compendiata della filosofia” è a questo punto da considerare fondamentale. La connessione che la storia ci rivelatra libertà e necessità, ci consente di rintracciare la legge necessaria del progresso storico. Noi sappiamo che la filosofia del popolo italiano non è altra cosa se non lo spirito del popolo italianom non già come  si manifesta nella sua religione spontanea, nelle sue arti, nella sua costi-in se stesso aveva, artea, un concertelli avvenimee metafisica. cipale delle sourcetuzione politica, nelle sue leggi e costumi, ma come si rivela nell'esilio inviolabile del pensiero puro, che riferma il piú alto grado al quale possada sé stesso elevarsi. Cusani ha, a tal proposito, filosofato nel saggio “Della poesia drammatica” un concetto che poi si ritrova in seguito. Egliè il vero che sotto la varietà degli avvenimenti del fatto e della vita stessa della società italiana è nascosa la legge suprema e metafisica che li governa,e che il filosofo tenta di scoprire, e ne fa l'obbietto principale delle sue ricerche, ma all’italiano, ch'é, come dice quell'altissimo ingegno di Vico, il senso della nazione italiana e dato tutto al piú di sentirla, ma non deve essere suo scopo di manifestarla, dove all'ispirazione vichiana pare già si aggiunga, insinuandosi, una suggestione hegeliana. Nello saggio Della lirica, Cusani ribadisce l'argomento. Se la filosofia non deve fat suo scopo, come altrove dicemmo, parlando della poesia drammatica, la rivelazione di essa legge secondo la quale l'umanità si svolge nello spazio e nel tempo, puf tuttavia non potrà certo cansarla nella sua manifestazione storica, cioè nel suo progresso attraverso delle nazio ultima recension Felice Roman son sottoposti alla legge storica in generale, la quale le impronta quasi una seconda indole, ed è questa poi, che fa che i filosofi sieno, come diceVico, il senso della nazione italiana. Sorprendentemente, nell'ultima recensione pubblicata sulla « Rivista napolitana », Liriche del Cav. Felice Romani, quasi ad emblematica chiusura, Cusani ripete. Vico innanzi tuttia veva formolata questa solenne verità, proclamando che il filosofo e  ilblematica sblata questa sojeni filosofi ne sinnestare Hegedea d'uneinnanzi Qui l'eclettismo cusaniano ha voluto innestare Hegel sulla tradizione italiana custodita e proclamata, specie allorché, nella idea d'una storia, riprende il tema di una ragione fondamentale, di una idea filosofica fondante le manifestazioni della vita umana, per cui la religione e soprattutto la filosofia già ricordata sono riconducibili ad una legge razionale. Un'altra citazione, non giustificata in questa sede, si rende necessaria per la sintesi che riesce a conseguire, in specie sul tema del senso comune. Allorché il movimento filosofico o riflessivo passa dalla fede alla scienza,e dalle credenze popolari alle idee della ragione, e si trova d'essere giunto a scoprire il pensiero celato dapprima sotto FORMA SIMBOLICA, e che si traduce nell’istituzione, nella costume, nella filosofia e e nelle industria, egli fatto quasi banditore della verità scoperta, l'annunzia per farla conoscere alle masse, le quali non avrebbero potuto pervenire sino a quel segno che tardi e lentamente. È in questo senso che il filosofo accelera il movimento delle masse, e da qui nasce ancora che egli stesso e indugiato nel movimento che è loro proprio. Dappoiché se le masse accettano la nuova luce che loro arreca il filosofo, sono d'altra parte lente e ritenute nell'abbandonare le vecchie opinioni, che il tempo ha rese abituali, e bisogna innanzitutto che esse comprendano ciò che loro viene rivelato, e lo comprendanoa loro modo, cioè facendo che discenda in certa guisa dalle forme astratte della scienza alle forme pratiche del senso comune. Dunque il filosofo comprende e spiega nient'altro che ciò che l’intelligenza spontanea dei popoli crede istintivamente, e pertanto, lafilosofia non è che la spiegazione del senso comune. Possiamo a questo punto scoprire l'errore di chi ha collocato Vico e Machiavelli tra un storico fatalista como Livio, dappoiché, se a tuttaprima poteva parere, che l’italiano appo costoro fosse schiavo dell’istituzione, in quanto che queste venivano considerate come cose non procedenti dall’italiano stesso, pure, allorché si vide che l’istituzione none che la manifestazione esterna, il segno, e la realizzazione delle idee del popolo italiano, libertà umana nella creazione degli avvenimenti del mondo. Come si risolve pertanto il problema della libertà? Si pone inquesti termini l'interrogativo. La ragione è dunque il fondamento della libertà; ma ragione e libertà sono da intendersi esclusivamente riferitisare appunto che il problema della libertà investa soltanto l'azione soggettiva (non intersoggetiva o collettiva) che ha per teatro la storia. In realtà però, proprio per l'ampia visuale che egli propone della storia globalmente intesa, la libertà non è solo quella dell'individuo o soggetto italiano che si affranca dai condizionamenti dell'istinti -- vità, ma anche quella che costituisce la linea intelligibile di tutto lohere nelle pella sciente quella con il. La soluzione che si può intravedere in Cusani, concorde ed omogenea allo sviluppo della questione della scienza e del metodo  nell'intera, intensa elaborazione culturale di Cusani è forse quella contenuta nella Idea d'una storia. Resta certo il rammarico del mancato approfondimento delle tante tematiche che a questa risposta devono riferirsi, in particolare sulla politica e sulla estetica. Ma la sintesi che Cusani propone rimane oltremodo significativa. L'ordine adunque degli avvenimenti, la provvidenza, o legge dell'intelligenza umana, è quella legge che Iddio  stesso ha imposta al mondo morale, e che non differisce dalle leggi della natura, se non per questo, cioè che la legge imposta al mondo morale non distrugge punto la libertà individuale, essendo ché è permezzo della libertà che si compiono i destini della intelligenza, laddovele legge della natura e compita senza il concorso della libera volontà. Stefano Cusani. Cusani. Keywords: l’assoluto, il relative, spirito soggetivo, spiriti soggetivi, spirito oggetivo, storiografia filosofica di Cousin, unita latitudinale della filosofia, l’assoluto di Bradley, Hamilton, l’obbjezione all’assoluto, l’essere e la metafisica, gli esseri e la metafisica, economia e morale, la fenomenologia, il fatto di coscienza intersoggetiva, hegelismo, Vico, Galluppi, Mamiami, Colecchi, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cusani” – The Swimming-Pool Library.

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